sabato 13 luglio 2024

Immaculate - La prescelta: la nostra recensione di un gustoso e nostalgico “spaghetti-horror”, per la regia di Michael Mohan, con protagonisti Sydney Sweeney, Alvaro Morte e Giorgio Colangeli

 


Italia dei giorni nostri. 

La novizia Cecilia (Sydney Sweeney) ha avuto la sua vocazione quando ancora era bambina. Di colpo, il lago di ghiaccio nel Michigan sul quale si specchiava tutti gli inverni, si è aperto sotto di lei. Soffocava sott’acqua e un attimo dopo era salva, grazie al Signore.

Padre Ferrari (Alvaro Morte) era invece già  un uomo di scienza, specializzato in biologia genetica, quando scoprì il senso più profondo nel quale si stava direzionando la sua vita. 

Cecilia e Ferrari, così diversi, si trovano un giorno entrambi in Italia, in un'abbazia costruita sopra antiche catacombe, sotto la guida del silenzio ma risoluto vescovo Merola (Giorgio Colangeli), per quello che sembra a tutti gli effetti un disegno divino. 

Ma da quello stesso luogo, che sembra all’esterno quasi un “paradiso”, dove tutto è ordinato e lucente, qualcuno ha da poco cercato di fuggire. Con disperazione e nel pieno della notte, dovendo infine arrendersi e soccombere. Quasi “sbranato”, da creature sinistre, vestite come suore ma con il volto velato di rosso. 

L’abbazia nasconde molti misteri, forse anche mostri e fantasmi. Alcune suore che hanno perso la connessione con la realtà confabulano nella notte, strappano capelli da cui ricavano piccoli feticci, si esprimono attraverso nenie sinistre. Le più giovani come suor Gwen (Benedetta Porcaroli) spronano Cecilia perché non prenda i voti e scappi nel suo Michigan, finché è ancora in tempo. Tutte si sentono osservate da qualcuno che si muove nell’ombra. 

Ma oltre le ombre c’è qualcosa di troppo importante da preservare, nascosto nella cripta del monastero: un chiodo proveniente dalla croce di Cristo. Cecilia prende i voti e una estasiata Madre Superiora (Dora Romano) la fa accedere al luogo di questa potentissima reliquia. Glielo porge dalla teca, direttamente tra le mani.

Cecilia perde i sensi, attraversa strani incubi. Poi al suo risveglio si scopre preda di nausea, vomito. Tra i conati perde sangue e denti. 

Padre Ferrari, il medico e il Vescovo si sincerano in un interrogatorio che la ragazza abbia rispettato il suo “triplice voto”: povertà, castità e obbedienza. Le parole sono convincenti quanto le analisi mediche e il fascicolo sanitario: i dati e la ecografia non mentono, si tratta di immacolata concezione.

L’apprendistato di Cecilia al monastero è ormai terminato. La bionda ragazzina del Michigan nelle celebrazioni viene vestita come la vergine Maria nell'iconografia sacra, celebrata pubblicamente con ampi inchini.

Da futura partoriente di un miracolo, non deve più occuparsi come le altre dei malati, dei panni e dei polli dell’abbazia: deve solo riposarsi, meditare, magari limitandosi a “galleggiare” nell’area termale di costruzione romana, magari in vista di un parto in acqua. 

Almeno fino a che qualcuna non cercherà di annegarla in quelle stesse acque curative, urlando che le ha rubato il suo destino. Almeno fino a che nel monastero non inizieranno a palesarsi sulle suore i segni di strane e antiche torture. 


Torna in sala il regista statunitense Michael Mohan, che abbiamo molto apprezzato nel 2021 per l’interessante thriller erotico/psicologico The Voyeurs, con protagonista sempre la bellissima Sidney Sweeney. 

Questa volta è una grossa coproduzione dal sapore internazionale, con rimandi e citazioni narrative anche alla saga di The Omen, ma che soprattutto, nella sua seconda parte, riesce ad affondare, gioiosamente quanto sarcasticamente,  in una estetica e uno splatter proprio dell’horror italico del passato. Quello più “expoitation”, di “genere”, fieramente esagerato quanto truculento, sexy, quanto dissacrante. 

La colonna sonora opera di Will Bates si presenta subito con sonorità squisitamente “vintage”, fiera matrice anni ‘70, quasi dalle parti di Riz Ortolani di Per amare Ofelia (1974). Ci sono scene con suore alle terme, tutte bellissime e coperte solo da lunghe camicione bianche, in un'atmosfera ammiccante come la Fenech di La bella Antonia, prima suora e poi dimonia (1972).

Abbiamo al centro della vicenda un prete affascinante quanto ambiguo, che indossa sovente guanti in pelle nera come gli assassini di Dario Argento, interpretato da un attore che si chiama “ Alvaro Morte”. C’è il grande Colangeli, che si cuce addosso il ruolo del meraviglioso quanto cinico prelato padre Merola, dallo sguardo vitreo, intenso quanto torvo, dalle parole aspre e inquisitorie. Il personaggio di Colangeli sembra uscire da un folk horror di Pupi Avati come La casa dalle finestre che ridono.  

La Sweeney è estranea in una terra sconosciuta e inesplorata, dove tutti parlano con lei gentilmente in inglese, ma di sottecchi si esprimono in un italiano spesso volgare, “lubrico”, in segno spesso di sdegno, se non esplicitamente erotico.  


La Sweeney è “sospesa”, solare, avvolta in un immacolato candore ancora infantile. Come per la Jennifer Connelly di Phenomena, il suo viaggio la porta verso la perdita dell’innocenza, quasi in vista del “cinismo”. Un “agnellino ma non troppo”, circondato da tanti lupi che non perdono troppo tempo prima di mordere, dilaniare o imprimere a fuoco marchi, sulla pelle umana, come su animali da macello. Bestie che comprendono solo il linguaggio di una violenza dal sapore medioevale, fondato in continue sottomissioni crudeli e martiri, rappresentati in modo spesso crudo, “analogico e senza fronzoli”, da trucchi di make-up che a suon di arti e lingue mozzate ricordano i lavori splatter di Stivaletti e Soavi. Ci sono anche “afflati Fulciani”, nella messa in scena di alcune “colluttazioni particolarmente violente”, quasi “cannibali”, con alcuni dettagli particolarmente trucidi che magari a un pubblico “più giovane” faranno pensare ai lavori di Bustillo e Maury. Il tutto vive in una scenografia da sogno, sospesa nel tempo, tra arte romana e gotica. Un mondo fatto di riti quanto di processioni coreograficamente ordinate, “meccaniche”, al di sotto del quale si estende un intero labirinto di catacombe e forse non solo.  

C’è molto “amore” per per l’ italico mondo cinematografico splatter del passato, un po’ come avveniva in Hostel 2 di Eli Roth, con lo stesso trasporto. Una gioia per i fan, qualcosa di strano e forse inspiegabilmente “divertente” per le nuove generazioni, che magari all’uscita della sala andranno a recuperare La Chiesa di Soavi o uno dei film sulle “madri” di Argento. 

La sceneggiatura di Andrew Lobel appare di consegua gioiosamente eccessiva quanto sopra le righe, volutamente quasi caricaturale nei suoi molti eccessi quando funzionale, perfettamente al servizio di uno spettacolo dal sapore speziato tipico dei migliori b-movie. 

Un film divertente in una estate calda. Che ci riporta dalle parti delle notti dello zio Tibia dopo il Festivalbar. Un perfetto e gustoso b-movie che ci riporta in un tempo passato. Festosamente fuori dal tempo, sanguigno e cattivo, eccessivo quanto liberatorio. Bravi tutti gli interpreti, meravigliosa la location e gli effetti, curiosa quanto trascinante la colonna sonora. 

Talk0

Nessun commento:

Posta un commento