mercoledì 3 luglio 2024

Fremont: la nostra recensione della bellissima commedia psicologica di Babak Jalali, con protagonista la straordinaria Anaita Wali Zada, portata in Italia da I Wonder


Ci troviamo a Fremont, California, all’interno di un quartiere dove vive un grande comunità di afgani. 

Tutti si trovano lì dopo aver dovuto lasciare la loro terra e la loro casa con il ritorno dei talebani. Vivono “sospesi”, cercando di rifarsi una vita e accompagnando i bambini a scuola.

La notte, le stelle in America non stanno ferme come a Kabul. Continuano a spostarsi e questo porta molta inquietudine a tutti. La notte, la giovane Danya (Anaita Wali Zada)  ha bisogno di dormire, ma non ci riesce. Passa le ore a occhi aperti, sul divano, senza pensare a nulla, giusto ogni tanto alzandosi per fumare una sigaretta in terrazzo. 

Si sente “mediamente felice”, ma non dorme. Lavora a San Francisco, a un’ora da Fremont, in una piccola e simpatica impresa cinese che confeziona da due generazioni biscotti della fortuna. 

È addetta alla stesura della pasta e incartamento, al fianco dell’ormai inseparabile amica Johanna (Hilda Schmelling), che le propone di lanciarsi come lei in sempre più strampalati appuntamenti al buio. In genere l’amica descrive ogni incontro avuto come un mezzo disastro, non aiuta gli incontri galanti di Johanna il fatto che viva con sua madre in un piccolo appartamento, condividendo un unico letto 

Il principale di Danya è un tipo sempre allegro e propositivo, che durante la pausa caffè gli racconta ogni giorno di quanto sia bello dare un po’ di felicità con un biscotto, di come, a volte, a volte sia “la frase stessa contenuta nel biscotto a guidare la fortuna”. Lei non è che lo segua fino in fondo.

Dopo il lavoro, prima di rincasare, Danya si ritrova spesso in un ristorantino arabo a mangiare sempre lo stesso piatto e guardare una telenovela insieme all’anziano gestore, anche se ci sono spesso delle repliche. Non si capisce se per i due è più importante la telenovela o incontrarsi per parlare, ma sembrano avere un rapporto quasi padre-figlia. 

Certo, se solo riuscisse a dormire. Se solo le sue giornate non apparissero tutte uguali e sospese. Forse potrebbero esserle utili delle pillole per dormire, ma bisogna prima entrare in lista di attesa. Per tagliare i tempi Danya chiede al suo vicino di casa Salim, con cui condivide qualche sigaretta notturna, di passargli a scrocco il suo appuntamento dallo psicologo, previsto a breve ma a cui lui non ha nessuna intenzione di andare. 

È così che Danya incontra il simpatico ma stranissimo Dottor Anthony (Gregg Turkington). La ragazza non segue troppo i ragionamenti dello psicologo, similmente a come non segue troppo la filosofia del suo principale sui dolcetti della fortunata nelle pausa caffè. 

Il Dottor Anthony insiste per leggerle dei brani del libro Zanna Bianca, invitandola a ragionare sulle molte similitudini che lei dovrebbe avere in comune con la storia di quel cane. Non si parla di Fremont, ma della vita precedente della ragazza.

Il fatto di trovarsi in terra straniera, il fatto di aver vissuto sotto la guida di altre persone in situazioni tragiche. Piano piano emergono da Danya le ragioni profonde del suo malessere: uno stress post traumatico in piena regola, fortemente legate al suo pregresso lavoro di traduttrice per l’esercito americano in Afganistan. Lo faceva in quanto “un lavoro come un altro”, ma forse non la pensava davvero così, specie quando i talebani assalirono le basi, ci furono scontri e morti, e lei dovette scappare in America. 

Danya si sente fortunata per essere sopravvissuta agli attacchi alle basi, ma forse non è ancora pronta a commuoversi pensando al passato, sciogliendosi in un mare di lacrime alla lettura di Zanna Bianca. Forse come non è ancora pronta alla sua “nuova occupazione” nella fabbrica dei biscotti della fortuna.

Danya ha infatti avuto la s-fortuna si sostituire la addetta alla compilazione dei bigliettini fortunati, morta di vecchiaia e di colpo, con la testa riversa sulla tastiera in pieno orario lavorativo. Il capo ufficio è sempre propositivo e pensa che per il ricco vissuto di Danya la ragazza sarà in grado di creare bigliettini bellissimi. 

Solo le persone che hanno vissuto in modo intenso la vita possono comporre bigliettini memorabili. La ragazza, che ancora non si sente come Zanna Bianca, è confusa. Il suo primo componimento è “se cerchi la fortuna, è in un altro biscotto”. 

I seguenti non sono troppo meglio. Prova a scrivere dei bigliettini al suo posto pure il Dottor Anthony, ma sono cose decisamente criptiche e cervellotiche. 

Il titolare crede però così tanto in Danya e nel suo futuro da grande scrittrice di biglietti della fortuna: cerca di spronarla di nuovo. Le racconta che forse solo le persone felici possono scrivere buoni biglietti. Specifica che sono “davvero felici” solo le persone innamorate e non quelle stronze, che invece fingono. 

Forse prima di tutto Danya dovrebbe trovare l’amore, per poi comporre buoni messaggi per i biscotti. Ecco il colpo di genio, se vogliamo figlio anche delle ossessioni dell’amica Johanna. In un bigliettino della fortuna la ragazza scrive : “Danya, in cerca di fortuna” con in seguito il numero del suo cellulare. Viene incartato e spedito. Qualcuno lo riceverà. Avrà così un incontro al buio con la fortuna la nostra eroina? 

Forse.

Perché qualcuno risponderà a quel biglietto.


Che cos’è la fortuna? Che cos’è la vera felicità? Che cosa comporta il “sopravvivere”, di fatto perdendo parte della propria esistenza nel passaggio? 

Sono questi i temi esistenziali che scalpitano all’interno di una commedia psicologica dalla struttura impeccabile, gioiosamente divertente, intelligente quanto profondamente fresca, accessibile a ogni tipo di pubblico.

È un piccolo capolavoro di stile e scrittura il film in bianco e nero di Babak Jalali.

È una pellicola che diverte per come fa suo oggi il cosiddetto “sogno americano visto dagli stranieri”, di fatto richiamando satiricamente una visione a stelle e strisce ingenua, ordinata e accogliente, come quella dei film anni ‘50. 

È un film con battute e sketch fulminei, uno dopo l’altro, che a tratti ci fa pensare a Woody Allen e a tratti i film più divertenti e scombinati dei fratelli Coen.

È un film che si guarda con il sorriso stampato sulle labbra, sperando che anche la nostra protagonista riesca a ridere un po’ di più nella sua vita, di fatto affrontando quel vuoto emotivo che l’ha difesa dal dolore, ma che ora l’ha spremuta troppo di ogni emozione.

Ogni cosa è al suo posto, ogni interprete funziona meravigliosamente con gli altri, la trama cattura fin dal primo minuto e non abbandona fino alla fine, si vorrebbe non uscire dalla sala e vedere come vanno avanti le cose.

Fremont è un'esperienza cinematografica da provare, al punto che non voglio concedervi altri dettagli che forse potrebbero rovinarvi le sorprese della trama.

Andate al cinema e godetevelo come un biscotto della fortuna, ne vale la pena.

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lunedì 1 luglio 2024

Holy Shoes, Storie di Anime e Oggetti: la nostra recensione dell’interessante film di esordio di Luigi Di Capua, con Carla Signoris, Tiffany Zhou, Simone Liberati

Roma dei giorni nostri. 

Tutti vogliono le Typo3, perché sono “come e meglio” delle Air Jordan. 

Sono bianche, morbidissime, avvolgono il piede come un guanto aerodinamico, il top delle scarpe sportive. Costano 800 euro, ma se riesci puoi trovarle in sconto a 790, rigorosamente nei negozi del centro. Sono oggetti da mostrare, per gridare al mondo di “essere qualcuno”.  

Giulio (Simone Liberati), lo scombinato e insicuro papà divorziato del piccolo e insicuro Filippo, crede molto nella possibilità di affermarsi come rivenditore di scarpe di lusso, ma sulla sua strada incombono continue sfortune, fidanzate petulanti, rapper/influencer ingrati e il sempre presente biasimo paterno (Orso Maria Guerini, nel ruolo del padre generale).

Una partita consistente di Typo3, anche se contraffatte, potrebbe dare il via alla sua gloriosa carriera, ripianando i mille disastri che lo hanno fatto finire sull’orlo della bancarotta.

Mei (interpretata dalla brava Tiffany Zhou) lavora nel ristorante cinese paterno, sognando di poter volare in America, con la sua borsa di studio in ingegneria. Ma ha un fratello malato che abbisogna di cure specialistiche, un sussidio che non viene rinnovato per beghe burocratiche e troppi debiti che la incatenano a Roma. C’è un sito cinese che offre delle Typo3 quasi uguali alle originali a 40 euro. Con un po’ di fortuna potrebbe rivenderle per vere: truffare dopo essere stata truffata dalla vita. 

Filippo è un ragazzino di periferia che non riesce più ad andare a scuola e inizia a frequentare amici poco raccomandabili. È perdutamente innamorato della compagna di classe Maria: bella, gentile, che “crede in lui” e vive in una casa con piscina. Per cercare di fare colpo su di lei, Filippo può solo portarle delle Typo3, ma per fare questo dovrà come minimo rubarle o fare di peggio.

Infine ci sono Agnese (Isabella Briganti) e Luciana (Carla Signoris), due donne, vicine di casa, che non amano le Typo3 ma vorrebbero poter camminare ancora una volta con dei tacchi a spillo: sentendosi sensuali e femminili almeno per un ultima volta. Agnese, affascinante giornalista televisiva, non può più portare i tacchi perché a seguito di un incidente ha perso un piede, con la necrosi che inizia a salirle lungo tutta la gamba. Luciana da troppo tempo vive rinchiusa in casa, cercando di soddisfare le attenzioni del troppo assente e distratto Paride (Roberto De Francesco), che si lamenta anche quando la donna si mette sul volto un trucco leggero. Quando Agnese per la disperazione getta dalla finestra le scarpe, Luciana ne raccoglie alcune paia e prova con imbarazzo a indossarle. Sentendosi, dopo tanto tempo, ancora bella. 


Arriva al cinema l’opera prima di Luigi di Capua, uno dei membri del gruppo The Pills. 

Holy Shoes è un film strano, a tratti quasi psichedelico, che racconta al ritmo di una colonna sonora sincopata, una storia di ossessioni e tragedie che vanno a svilupparsi, in pochi giorni, in una spirale sempre più drammatica quanto imprevedibile. 

Le Typo3, le “scarpe sacre” a cui fa riferimento il tutto in inglese, sono fin da principio rappresentate  come un oggetto di indicibile fascino e potere occulto. Sono le protagoniste assolute della prima scena: dove le vediamo “sospese su uno sfondo bianco”, per alcuni secondi, con in sottofondo quelli che sembrano degli insistenti e aggressivi “cori satanici” (di fatto un brano corale molto simile a quello di una pellicola horror giapponese a tema “maledizioni”, The Invitation di Karyn Kusama). 

Un oggetto “quasi indemoniato” a tutti i sensi, degno del famoso n.5 di Dylan Dog, “Gli uccisori”, ma in grado di evocare anche la stagione anni '80 delle Timberland, quando in una specie di isteria generale c’erano persone che andavano in giro a rubare dai piedi le scarpe degli altri. 

Senza scarpe e per strada, a piedi nudi, in una città sporca, come in uno dei più classici incubi: l’incubo a cui si associano spesso in psicologia sentimenti di disagio, vulnerabilità e smarrimento. Chi non ha le Typo3, anche se ha ai piedi altre scarpe, in questo film si sente ugualmente vulnerabile e smarrito: fuori dalla società e dalla possibilità di crearsi un futuro. E se queste “scarpe mancanti” recano simbolicamente un disagio, i nostri anti-eroi, tutti amabilmente tragici, falliti e inconcludenti, cercando di sostituirle con simboli parimenti forti o quasi. Con delle repliche a basso costo, seppur grossolane, che permettano di “fregare il sistema”, senza diventarne complici/adoratori. Oppure con un’arma da fuoco o un bastone d’acciaio, i più classici “simboli spicci di potere”,  con cui sentirsi abbastanza forti da poter rivendicare le proprie scarpe con la violenza. Tra sogni infranti, istinti antisociali e pulp, il film di Luigi Di Capua ci getta così in una Roma nerissima, spesso notturna, spesso “imbambolata” davanti a vetrine scintillanti, con all’interno oggetti luccicanti come vitelli dorati. 

Holy Shoes descrive una società degradata, terribilmente vicina a quella odierna, in cui risulta drammaticamente ovvia la locuzione “essere è avere”. In fondo le Typo3 non sono diverse dalle pesanti catene d’oro con cui, oggi, si agghindano alcuni criminali: per certificare esternamente il loro valore umano, sulla base oggettiva della grammatura di quello che indossano. 

Ma “essere è avere”è anche l’interrogativo morale che si pongono i personaggi di Agnese e Luciana, in una linea “quasi più gentile” del racconto, ma che giocoforza va comunque ad intersecarsi nella storia principale, per uno “scherzo narrativo del destino”. La storia di Agnese e Luciana ci parla di femminilità negata, anche sulla sola base di negarsi di un oggetto tipico femminile, nella paura di poter raccontare, attraverso di quello, un modo di essere che si reputa “inaccettabile”per il proprio partner. La femminilità non può risiedere però “solo in un oggetto”, con conseguenze che diventano ugualmente tragiche quando la possibilità di indossarlo si rompe.


L’opera prima di Di Capua trova gli attori e gli scenari giusti per raccontare una storia unica nel suo genere, sicuramente “strana” quanto affascinante: una specie di “noir pop” sui sogni e bisogni di potere, all’ombra di una Roma mai cosi notturna, ruvida, violenta e “matrigna”. Un luogo dove dietro a ogni angolo più palesarsi un pazzo, un criminale o un ragazzino comune, che ha però bisogno di diventare per cinque minuti pure lui pazzo e criminale: per non sentirsi inadeguato e vulnerabile, come chi sogna di camminare scalzo mentre tutto hanno le scarpe. 

Ottima la colonna sonora, buono il ritmo generale del racconto, interessante la fotografia notturna e una costruzione narrativa che a tratti assomiglia al Babel di Inarritu. 

Di Carlo possiede senza dubbio un “tocco internazionale e cosmopolita”, che potrebbe portargli fortuna nelle sue future opere. Nuove opere che adesso non vediamo l’ora di vedere. 

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