venerdì 6 dicembre 2024

La Déluge: Gli ultimi giorni di Maria Antonietta – La nostra recensione del dramma in costume di Gianluca Jodice, con la fotografia di Daniele Ciprì e le musiche di Fabio Massimo Capogrosso, con protagonisti degli straordinari Mélanie Laurent e Guillaume Canet

 


Francia, 1792. Il monarca Luigi XVI (Guillaume Canet), dopo la deposizione e l’arresto, viene portato insieme alla moglie Maria Antonietta (Mélanie Laurent), i suoi figli e prossimi parenti, nella Torre del Tempio. È in attesa di essere giudicato dal tribunale della neonata Repubblica Francese: spogliato di ogni titolo, come il “cittadino Luigi Capeto”, l’accusa di “alto tradimento”.

Un gruppo di uomini armati, arrabbiati e vestiti di nero, accoglie il re all’ingresso della struttura, in una pessima giornata di pioggia e fango, mentre lui scende dalla carrozza completamente vestito di bianco, reggendosi soave con il suo bastone, sorridendo e inchinandosi ai suoi cari in modo buffo. Le camere non sono pronte, i vecchi monarchi dovranno soggiornare nell’atrio, sorvegliati a vista in un perimetro delimitato da due corde, in un salone dal pavimento a scacchi con alcuni tavoli e sedie sui lati, vicino a delle vetrate sbarrate.

Niente letti e niente bagno per urinare, niente corrispondenza o contatti esterni.

La possibilità di una messa, incontri con la delegazione strettamente per motivi processuali.

Il re e i suoi accettano la messa in scena: ogni giorno all’alba si imbellettano per essere osservati in posa dai loro carcerieri, come statue di marmo in mostra, fiere e un po’altere. Il gioco non piace ai paladini della Repubblica, iniziano le privazioni.

I parenti si portano altrove, isolamento completo della famiglia. Via ogni libro, via ogni gioco ai bambini.

La prigionia si sposta su una torre disadorna e sporca, sorvegliata da guardie sempre più arrabbiate e violente che non si fanno problemi ad allungare le mani. Nessuna possibilità di lavare i vestiti.

Luigi Capeto cerca, con positività, autro-critica e calore umano, un dialogo impossibile con i carcerieri e con delegati della Repubblica, che parlano però solo della necessità di un “grande cambiamento”, radicale in quanto distruttivo dei simboli del passato, in favore di una vera rinascita sociale.

Luigi sente il suo destino segnato e al contempo racconta storie di topolini coraggiosi che vivono in una torre ai suoi figli. Cerca di stare vicino alla moglie sognando di un futuro certo, ancora insieme, magari all’estero, quando le acque si saranno calmate.

Maria Antonietta è algida e meccanica come una bambola rotta, il volto perennemente severo e contratto, gli occhi plumbei, ogni pensiero uno strale inviato con malcelato odio a un marito troppo “molle” e gentile per riuscire a liberarli. Vorrebbe urlare ma sarebbe “darla vinta” a chi aspetta questa sua esplosione: deve infondere forza a tutta la sua famiglia e fare in modo che l’immagine regale non si incrini, mai e nonostante ogni forma di violenza e umiliazione che possono infliggerle.

Gli uomini della Repubblica si burlano dei monarchi non essendo ancora “autorizzati a ucciderli” con la nuova arma di giustizia da poco collaudata, la ghigliottina. Luigi ricorda di aver consigliato lui stesso al costruttore, un uomo simpatico, di modificarla applicando una lama a rasoio inclinata, per rendere il taglio più netto. Il progresso va sempre stimolato.

Un giorno decidono di togliere le posate agli incarcerati e Luigi scherza con i bambini: “mangeremo come i topolini”. Il processo si avvicina e con lui anche “la deluge”: “il diluvio”.

Dopo la monarchia in Francia ci sarà davvero, come dalla celebre frase attribuita a Luigi XVI, solo il diluvio?

 


Filippo Gravino e Gianluca Jodice scrivono una sceneggiatura di grande forza scenica ed emotiva: giocando con la Storia e la tragedia greca, scavando in una delle pagine più controverse e cruente del passato europeo, di fatto raccontandoci di un clima di odio e mancanza di dialogo che è anche quello (forse) che oggi stiamo vivendo. Ci raccontano di come, in ragione di “un futuro migliore di pace e prosperità”, i rivoluzionari, garanti “dell’uguaglianza, libertà e fraternità”, non abbiano esitato a fare a brandelli i vecchi regnanti e a mettere all’indice chiunque non la pensasse come loro.

La Storia sui libri ci racconterà di come questi rivoluzionari stessi siano arrivati in brevissimo tempo a ghigliottinarsi tra di loro, ma il nostro racconto finisce prima: ci lascia ad assaporare idealmente attraverso i personaggi come la bolla dell’odio sociale reciproco si sia espansa, fino ad esplodere in un rito di sangue.

Robespierre arriva sulla scena in penombra, con il viso deformato in maschera tragica, ammettendo amaramente che “per realizzare un mondo gentile, non si può essere persone gentili”, di fatto sugellando il senso unico e ultimo di questa produzione: la descrizione di una spirale senza uscita, che potrebbe appassionare anche i fan del genere horror ma soprattutto deve servire da monito per il presente: per evitare di finire in un mondo che vede solo in bianco e nero.

Daniele Ciprì dona di conseguenza all’opera una fotografia elegante e decadente quasi alla Barry Lyndon, fatta da luci naturali che si fanno presto “nebbia” in una specie di bianco e nero spettrale. Che si parli dei claustrofobici ambienti geometrici curati da Tonino Zera, come dei costumi “finemente consunti” di Massimo Cantini Parrini, ogni immagine ci appare glacialmente polarizzata. Tutto è bianco o nero, luce o ombra, bene o male a seconda di un diverso punto di vista. A volte bianco e nero convivono “insieme”, a contrasto, per sottolineare ludicamente l’appartenenza dei personaggi a una fazione, a seconda del loro vestiario: bianchi i nobili e neri i borghesi. Personaggi monolitici e fermi nel loro ruolo come i pezzi degli scacchi, al punto che molte loro “esitazioni”, gli atteggiamenti che ce li renderebbero più umani e meno rigidi, ci vengono dalla regia costantemente “negate”. Un personaggio che “esce dal ruolo” di conseguenza “esce di scena”, come un pezzo sconfitto rimosso dalla scacchiera, con il suo “destino” che ci viene raccontato rigorosamente fuori campo. Una “bergmanina” partita a scacchi con la Storia, sottolineata dalla straniante e spigolosa, bellissima musica di Capogrosso.


Una messa in scena che riesce a conquistarci anche grazie all’enorme talento dei due attori principali sulla scena. Guillaume Cannet, che ricordiamo di recente, atletico e buffo nel ruolo di Asterix nel film del 2023, si trasforma in un Luigi XVI dolente e malfermo ma dallo sguardo sempre sognante quanto malinconico. Un uomo perennemente soverchiato dalle emozioni, in fuga dal mondo reale verso la fantasia più spericolata, forse incapace di darsi colpe che effettivamente aveva. La bellissima e biondissima Mélanie Laurent, che ricordiamo nel fantascientifico Oxygène di Alexandre Aja e in Enemy di Denis Villeneuve, affronta il ruolo “senza trucco” di Maria Antonietta con una sorprendente carica emotiva, in uno stato fisico simile a un vaso di vetro, sempre sul punto di rompersi. A volte apparendo come donna che centellina calore materno per apparire impenetrabile davanti ai suoi osservatori carcerieri, a volte sembrando un corpo consapevole di non avere al suo interno più vita, che fissa il vuoto in attesa di spegnersi. Gli altri attori sulla scena interpretano personaggi volutamente stilizzati, a tratti quasi intercambiabili: volti di una unica “entità” che “interroga o giudica” la monarchia per le sue colpe. Il personaggio di Hugo Dillon è un soldato brutale e malinconico che incarna in qualche modo le sofferenze non ascoltate del popolo che viveva in indigenza all’ombra degli sfarzi della corte. Tom Hudson interpreta un politico che, con aria confusa e spesso assente, cerca disperatamente di rendere giustificabile e scientifica la “necessaria violenza” rivoluzionaria, partendo da assunti come: “ogni re è condannato dalla natura, in quanto non si può regnare innocentemente”. Nella sua prima scena, molto evocativa e che di fatto apre il film, si toglie la sua giacca nera e la appoggia sulle spalle di una statua in marmo bianco al centro di una sala. In qualche modo “investendosi”, pur con poca convinzione, del centro della scena, mentre cerca di ripetere a memoria, in modo abbastanza ufficiale, l’atto con cui imprigiona il re alla Torre. Tuttavia, anche il suo personaggio è destinato, in modo quasi “atono”, ad andare e venire sulla scena unicamente per esporre veloci proclami, scomparendo tra le fila di un vasto “coro di comparse”, caratterizzate per un trucco particolarmente grottesco quanto scenografico, come per fulminee invettive di raffinata perfidia. Lebbrosi, streghe, anziani cattivi, vecchi servitori arrabbiati. Un vasto caleidoscopio umano, dai toni quasi caravaggeschi, che fa capolino per scrutare il monarca in catene da dietro una finestra.

Gianluca Jodice dopo la buona prova de Il Cattivo Poeta realizza qui il suo film più bello e ambizioso. Un film che affascina per il rigore della messa in scena, le ottime prove di tutto il cast e per un messaggio terribile quanto attualissimo: diffidare delle derive di una politica che preferisce tagliare le teste, piuttosto che cercare il dialogo. 

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