Francia,
1792. Il monarca Luigi XVI (Guillaume
Canet), dopo la deposizione e l’arresto, viene portato insieme alla moglie
Maria Antonietta (Mélanie Laurent), i suoi figli e prossimi parenti, nella
Torre del Tempio. È in attesa di essere giudicato dal tribunale della neonata
Repubblica Francese: spogliato di ogni titolo, come il “cittadino Luigi
Capeto”, l’accusa di “alto tradimento”.
Un
gruppo di uomini armati, arrabbiati e vestiti di nero, accoglie il re
all’ingresso della struttura, in una pessima giornata di pioggia e fango,
mentre lui scende dalla carrozza completamente vestito di bianco, reggendosi
soave con il suo bastone, sorridendo e inchinandosi ai suoi cari in modo buffo.
Le camere non sono pronte, i vecchi monarchi dovranno soggiornare nell’atrio,
sorvegliati a vista in un perimetro delimitato da due corde, in un salone dal
pavimento a scacchi con alcuni tavoli e sedie sui lati, vicino a delle vetrate
sbarrate.
Niente
letti e niente bagno per urinare, niente corrispondenza o contatti esterni.
La
possibilità di una messa, incontri con la delegazione strettamente per motivi
processuali.
Il re e i suoi accettano la messa in scena: ogni giorno all’alba si imbellettano per essere osservati in posa dai loro carcerieri, come statue di marmo in mostra, fiere e un po’altere. Il gioco non piace ai paladini della Repubblica, iniziano le privazioni.
I parenti si portano altrove, isolamento completo della famiglia. Via ogni libro, via ogni gioco ai bambini.
La
prigionia si sposta su una torre disadorna e sporca, sorvegliata da guardie
sempre più arrabbiate e violente che non si fanno problemi ad allungare le mani.
Nessuna possibilità di lavare i vestiti.
Luigi
Capeto cerca, con positività, autro-critica e calore umano, un dialogo
impossibile con i carcerieri e con delegati della Repubblica, che parlano però solo
della necessità di un “grande cambiamento”, radicale in quanto distruttivo dei
simboli del passato, in favore di una vera rinascita sociale.
Luigi
sente il suo destino segnato e al contempo racconta storie di topolini
coraggiosi che vivono in una torre ai suoi figli. Cerca di stare vicino alla
moglie sognando di un futuro certo, ancora insieme, magari all’estero, quando
le acque si saranno calmate.
Maria
Antonietta è algida e meccanica come una bambola rotta, il volto perennemente
severo e contratto, gli occhi plumbei, ogni pensiero uno strale inviato con
malcelato odio a un marito troppo “molle” e gentile per riuscire a liberarli.
Vorrebbe urlare ma sarebbe “darla vinta” a chi aspetta questa sua esplosione:
deve infondere forza a tutta la sua famiglia e fare in modo che l’immagine
regale non si incrini, mai e nonostante ogni forma di violenza e umiliazione
che possono infliggerle.
Gli
uomini della Repubblica si burlano dei monarchi non essendo ancora “autorizzati
a ucciderli” con la nuova arma di giustizia da poco collaudata, la
ghigliottina. Luigi ricorda di aver consigliato lui stesso al costruttore, un
uomo simpatico, di modificarla applicando una lama a rasoio inclinata, per
rendere il taglio più netto. Il progresso va sempre stimolato.
Un giorno decidono di togliere le posate agli incarcerati e Luigi scherza con i bambini: “mangeremo come i topolini”. Il processo si avvicina e con lui anche “la deluge”: “il diluvio”.
Dopo
la monarchia in Francia ci sarà davvero, come dalla celebre frase attribuita a
Luigi XVI, solo il diluvio?
Filippo
Gravino e Gianluca Jodice scrivono una sceneggiatura di grande forza scenica ed
emotiva: giocando con la Storia e la tragedia greca, scavando in una delle
pagine più controverse e cruente del passato europeo, di fatto raccontandoci di
un clima di odio e mancanza di dialogo che è anche quello (forse) che oggi
stiamo vivendo. Ci raccontano di come, in ragione di “un futuro migliore di pace
e prosperità”, i rivoluzionari, garanti “dell’uguaglianza, libertà e fraternità”,
non abbiano esitato a fare a brandelli i vecchi regnanti e a mettere all’indice
chiunque non la pensasse come loro.
La
Storia sui libri ci racconterà di come questi rivoluzionari stessi siano
arrivati in brevissimo tempo a ghigliottinarsi tra di loro, ma il nostro
racconto finisce prima: ci lascia ad assaporare idealmente attraverso i
personaggi come la bolla dell’odio sociale reciproco si sia espansa, fino ad
esplodere in un rito di sangue.
Robespierre
arriva sulla scena in penombra, con il viso deformato in maschera tragica, ammettendo
amaramente che “per realizzare un mondo gentile, non si può essere persone
gentili”, di fatto sugellando il senso unico e ultimo di questa produzione: la
descrizione di una spirale senza uscita, che potrebbe appassionare anche i fan
del genere horror ma soprattutto deve servire da monito per il presente: per
evitare di finire in un mondo che vede solo in bianco e nero.
Daniele
Ciprì dona di conseguenza all’opera una fotografia elegante e decadente quasi
alla Barry Lyndon, fatta da luci naturali che si fanno presto “nebbia” in una
specie di bianco e nero spettrale. Che si parli dei claustrofobici ambienti
geometrici curati da Tonino Zera, come dei costumi “finemente consunti” di
Massimo Cantini Parrini, ogni immagine ci appare glacialmente polarizzata.
Tutto è bianco o nero, luce o ombra, bene o male a seconda di un diverso punto
di vista. A volte bianco e nero convivono “insieme”, a contrasto, per
sottolineare ludicamente l’appartenenza dei personaggi a una fazione, a seconda
del loro vestiario: bianchi i nobili e neri i borghesi. Personaggi monolitici e
fermi nel loro ruolo come i pezzi degli scacchi, al punto che molte loro
“esitazioni”, gli atteggiamenti che ce li renderebbero più umani e meno rigidi,
ci vengono dalla regia costantemente “negate”. Un personaggio che “esce dal
ruolo” di conseguenza “esce di scena”, come un pezzo sconfitto rimosso dalla
scacchiera, con il suo “destino” che ci viene raccontato rigorosamente fuori
campo. Una “bergmanina” partita a scacchi con la Storia, sottolineata dalla
straniante e spigolosa, bellissima musica di Capogrosso.
Una
messa in scena che riesce a conquistarci anche grazie all’enorme talento dei
due attori principali sulla scena. Guillaume Cannet, che ricordiamo di recente,
atletico e buffo nel ruolo di Asterix nel film del 2023, si trasforma in un
Luigi XVI dolente e malfermo ma dallo sguardo sempre sognante quanto
malinconico. Un uomo perennemente soverchiato dalle emozioni, in fuga dal mondo
reale verso la fantasia più spericolata, forse incapace di darsi colpe che
effettivamente aveva. La bellissima e biondissima Mélanie Laurent, che
ricordiamo nel fantascientifico Oxygène di Alexandre Aja e in Enemy di Denis
Villeneuve, affronta il ruolo “senza trucco” di Maria Antonietta con una sorprendente
carica emotiva, in uno stato fisico simile a un vaso di vetro, sempre sul punto
di rompersi. A volte apparendo come donna che centellina calore materno per
apparire impenetrabile davanti ai suoi osservatori carcerieri, a volte
sembrando un corpo consapevole di non avere al suo interno più vita, che fissa
il vuoto in attesa di spegnersi. Gli altri attori sulla scena interpretano
personaggi volutamente stilizzati, a tratti quasi intercambiabili: volti di una
unica “entità” che “interroga o giudica” la monarchia per le sue colpe. Il
personaggio di Hugo Dillon è un soldato brutale e malinconico che incarna in
qualche modo le sofferenze non ascoltate del popolo che viveva in indigenza
all’ombra degli sfarzi della corte. Tom Hudson interpreta un politico che, con
aria confusa e spesso assente, cerca disperatamente di rendere giustificabile e
scientifica la “necessaria violenza” rivoluzionaria, partendo da assunti come:
“ogni re è condannato dalla natura, in quanto non si può regnare
innocentemente”. Nella sua prima scena, molto evocativa e che di fatto apre il
film, si toglie la sua giacca nera e la appoggia sulle spalle di una statua in
marmo bianco al centro di una sala. In qualche modo “investendosi”, pur con
poca convinzione, del centro della scena, mentre cerca di ripetere a memoria,
in modo abbastanza ufficiale, l’atto con cui imprigiona il re alla Torre.
Tuttavia, anche il suo personaggio è destinato, in modo quasi “atono”, ad
andare e venire sulla scena unicamente per esporre veloci proclami, scomparendo
tra le fila di un vasto “coro di comparse”, caratterizzate per un trucco
particolarmente grottesco quanto scenografico, come per fulminee invettive di
raffinata perfidia. Lebbrosi, streghe, anziani cattivi, vecchi servitori
arrabbiati. Un vasto caleidoscopio umano, dai toni quasi caravaggeschi, che fa
capolino per scrutare il monarca in catene da dietro una finestra.
Gianluca Jodice dopo la buona prova de Il Cattivo Poeta realizza qui il suo film più bello e ambizioso. Un film che affascina per il rigore della messa in scena, le ottime prove di tutto il cast e per un messaggio terribile quanto attualissimo: diffidare delle derive di una politica che preferisce tagliare le teste, piuttosto che cercare il dialogo.
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