lunedì 30 ottobre 2023

Nuovo Olimpo: la nostra recensione del nuovo film di Ferzan Ozpetek per Netflix

 


C’era una volta a Roma, negli anni settanta della contestazione, il cinema Nuovo Olimpo. Era una piccola sala fumosa e riservata, gestita da una signora di nome Titti (Luisa Ranieri), con la stessa voce calda di Anna Magnani e i capelli e trucco come la cantante Mina. 

All’Olimpo si proiettavano retrospettive e film d’essai, ma il pubblico principalmente frequentava la sala per gli incontri clandestini al buio, che spesso sfociavano in piccole fughe d’amore tra i corridoi e i bagni. 

È all’Olimpo che si incontrarono la prima volta Pietro (Andrea De Luigi) ed Enea (Damiano Gavino). Il primo uno studente di Medicina, a Roma per assistere la madre malata in ospedale. Il secondo uno studente di cinema che lavorava tra i set di Cinecittà. Proprio pochi giorni prima, durante le riprese di un film per le strade romane, i due avevano incrociato il loro sguardo, per una frazione di secondo, ma adesso erano seduti, vicini, nella sala di Titti. La chimica iniziò subito a fare il suo corso mentre girava un film in bianco e nero, l’avvicinamento fu immediato. Enea, per indole il più irruento, pensava di travolgere Pietro con due parole, conquistarlo e poi portarlo nel bagno, prima che si formasse la solita coda troppo lunga di avventori. Pietro, spiazzandolo, lo fermò invece nei corridoi: voleva prima parlarci per davvero e conoscerlo, non gli bastava la passione di un attimo. Non rimaneva tempo tanto per la passione come per mangiare insieme una pizza, nessuno poteva andare nella casa dell’altro, i due decisero di aggiornarsi a un nuovo incontro. 

Giunto alla sua casa in affitto da universitario, dove Enea divideva il letto con la sua amica, collega di corso e amante di sempre Alice (Aurora Giovinazzo), il ragazzo passò tutta la notte a raccontarle di quanto fosse bello, affascinante e diverso da tutti, il ragazzo che aveva incontrato per caso nel pomeriggio. Alice accettava spesso l’esuberanza dell’amico e ascoltava con piacere, e una punta di invidia, i suoi racconti di passione con altri uomini. Pietro nel frattempo stava al capezzale della madre che dormiva sedata, preoccupato per una situazione clinica aggravatasi e con la voglia inconscia di uscire di lì, pensare ad altro. 

I due ragazzi tornarono al Nuovo Olimpo e iniziarono una frequentazione assidua, durante la proiezione di film che non avrebbero seguito con la dovuta attenzione, un po’ frustrando la programmazione di Titti. Enea un giorno entrò in possesso, grazie ad amici di amici, delle chiavi di un'abitazione romana del centro e decise di passarci una sera con Pietro, che fu invitato a seguirlo seguendo una specie di mappa. I due proprio lì, in un luogo aristocratico pieno di quadri, tappeti e sculture, entrarono in intimità per davvero. Si scambiarono carezze e baci e in un attimo si trovarono nudi sulla magnifica terrazza, come statue di marmo sotto il cielo romano, davanti ai fori del centro storico. 

Nell’esplorazione della casa trovarono in dispensa solo della marmellata e decisero prima di assaggiarla e poi di usarla in un lungo gioco erotico, in soggiorno, cospargendosela sul corpo e imboccandosi a vicenda. 

Fu più tardi, dopo tutta questa passione e sul calare della notte, che i due iniziarono seriamente a parlare di un possibile futuro, da costruire insieme. 

Per il prossimo incontro Pietro avrebbe voluto portare Enea in una trattoria, perché alla fine non avevano ancora mangiato insieme e parlato con calma seduti a un tavolo. Aveva prenotato in un posto dopo la visita in ospedale, ma la storia ebbe un esito diverso. 

Enea era molto attivo politicamente e la sua presenza da oratore era richiesta in un corteo di protesta, che si sarebbe tenuto proprio quello stesso giorno, nella zona dell’Olimpo. Anche se il ragazzo fece di tutto per sottrarsi allo scontro con i poliziotti, decidendo di restare infine all’interno del cinema durante le cariche, la manifestazione arrivò alle porte del locale, portandosi dietro fumogeni e tafferugli. Titti rimase impietrita, immobile dietro la cassa nella strenua difesa della sala del Nuovo Olimpo, mentre veniva a mancare la corrente e il caos saliva dal vicolo adiacente. Pietro, giunto al cinema nella speranza di incontrare un Enea in ritardo per il loro incontro, venne travolto dalla polizia e rimase ferito al punto da dover essere ricoverato in ospedale. 

Anni dopo Pietro, tornato a vivere lontano da Roma, era diventato medico e aveva sposato la veterinaria Giulia (Greta Scarano). 

Enea aveva continuato a seguire la sua passione per il cinema, diventando un regista di successo. Alice era ancora al suo fianco, un po’ come amica, un po’ come amante, ma ora pure collaboratrice alla sceneggiatura e assistente. Tuttavia Enea non l’aveva mai sposata, come non aveva mai fatto mistero in pubblico e attraverso le sue opere della sua omosessualità, che anzi ha sempre cercato di rappresentare al meglio in modo positivo, cercando di rompere i tabù e frenando così, con l’arte, le forti discriminazioni che aveva anche lui subito da giovane. In fondo lo faceva anche per Titti, che attraverso l’Olimpo aveva creato nel cinema una realtà dove era possibile incontrarsi senza pregiudizi. In fondo lo faceva anche per Pietro, che non aveva mai più risentito. 

Proprio nella sua opera prima Enea non ha avuto dubbi sull‘importanza di mettere in scena una storia molto realista quanto sensuale, in perfetta antitesi con quello che il cinema mostrava in quel periodo, in cui due giovani si amavano e arrivavano a fare sesso completamente nudi, giocando con della marmellata. Era qualcosa che lui aveva vissuto in prima persona e non ci vedeva niente di sporco o scandaloso: solo il ricordo felice di un grande amore, forse il sul primo vero amore, che si era interrotto all’improvviso nelle circostanze burrascose di una manifestazione. 

Parlava di amore, non di amore omosessuale. 


Giulia e Pietro videro il film insieme a un gruppo di amici un po’ disturbati e ilari all’idea di guardare al cinema per la prima volta due uomini nudi che giocavano in una lunga scena con della confettura. Giulia si ricordava vagamente che in fondo pure al marito era capitato di finire in un tafferuglio a Roma quando era ragazzo, in un momento storico non troppo lontano da quello raccontato nel film, ma il marito, un po’ imbarazzato, non fece alcun accenno sul fatto che il personaggio della pellicola fosse ispirato a lui. Però Pietro da quel momento si sentì spinto a tornare a Roma, a cercare Enea, partendo proprio da dove lo aveva conosciuto, il cinema Nuovo Olimpo. Giulia capiva che qualcosa era cambiato da prima, ma non sapeva cosa fare. 

La sala da anni non ospitava più rassegne o retrospettive ma si era specializzata, come molte negli anni ‘80, nella proiezione di film porno. Era ancora frequentata da molte facce che il medico si ricordava bene dopo tanti anni, come alla cassa, quasi per niente invecchiata, c’era sempre Titti. Tra i ragazzi che giravano tra i soliti corridoi fumosi c’era “Molotov”, un vecchio attivista amico di Enea, che però non lo vedeva da quelle parti da molto tempo, da quando aveva avuto successo. 

Gli anni passarono ancora e Pietro ed Enea in qualche modo continuano a cercarsi tra le persone dell’Olimpo e senza mai incrociarsi, con quasi il pudore e la paura di provare a incontrarsi direttamente e forse essere di intralcio l’uno alla vita dell’altro. 

Il ricordo del loro amore reciproco si dimostrava comunque sempre forte.

Un giorno di quasi trent’anni dopo il loro primo incontro, sul set di una pellicola, Enea si ferì agli occhi a causa dell’esplosione di un effetto speciale e, per vie traverse, finì proprio sotto i ferri di Pietro, specializzatosi nel tempo in chirurgia oculare. Enea incontrò così il suo primo amore, mentre si trovava ancora bendato e non era certo di riconoscere la sua voce, come temeva che il medico fosse solo un omonimo. Pietro avrebbe voluto esporsi e rivelarsi, ma era troppo timido per farlo per le paure che lo avevano attanagliato da anni. Riusciranno Enea e Pietro a riguardarsi negli occhi, dopo tanto tempo? Le persone intorno a loro cercheranno di aiutarli ? 


Il regista Ferzan Ozpetek si mette a nudo in un film dal forte sapore autobiografico, dedicato a persone reali che nella narrazione diventano i personaggi di una storia molto intima e garbata, quanto forte e malinconica. Una storia in cui un cinema, uno dei tanti e gloriosi cinema che un tempo popolavano le grandi città, diventa un luogo di passioni proibite, che forse storicamente non sarebbero state accettate a cielo aperto. Passioni da vivere in segreto, come “protette” all’ombra dei grandi classici della settima arte, grazie a esercenti che sono stati per qualcuno come Ozpetek parte di una gioiosa famiglia allargata, magari scombinata ma calorosa, disposta a confidarsi e supportarsi quando più serve. La straordinaria, stralunata e malinconia Titti, interpretata qui da Luisa Ranieri come un travolgente mix tra Anna Magnani e Mina, è ispirata a una persona vera. Titti è un po’ una “mamma chioccia” per tutti gli innamorati clandestini dell’Olimpo e conserva con cura ricordi e confessioni, elargisce consigli e biglietti omaggio. Attraverso la storia di Titti e del suo cinema, come in Empire of Lights di Sam Mendes, ripercorriamo anche la malinconica parabola di troppe sale cinematografiche cittadine, prima luoghi d’arte, poi luoghi “peccaminosi” e infine luoghi quasi abbandonati a favore di un cinema più commerciale. Luoghi che hanno accompagnato la vita di molte persone e di cui oggi si spera possano tornare i fasti, proprio in quanto posti di incontro tra l’arte e le persone, forse ora troppo poco fumosi,  in un periodo che ci vede sempre più chiusi in casa, assorbiti dai social.

Come Titti e il suo cinema, anche il personaggio di Alice è ispirato a una persona vera, che è stata sempre al fianco del regista, amandolo teneramente anche di un amore non corrisposto, diventando però sua “complice”, nonché  parte di quella famiglia allargata che spesso l’autore ha rappresentato nel suo cinema come un “luogo altro” rispetto alla famiglia di origine. Un luogo di comprensione e ascolto che nei film del regista di origine turca ha sempre avuto per epicentro una figura a volte materna e a volte “sorella maggiore”, cui ha spesso dato il volto la solare e accogliente attrice Sierra Yilmaz. Possiamo quasi dire che sia Titti quanto Alice trasmettano qui lo stesso “calore” dei personaggi della Yilmaz, forse per la prima volta “scomponendolo”. Tanto Luisa Ranieri che Aurora Giovinazzo hanno saputo cogliere a pieno “l’aura protettiva” che emanano i loro personaggi, pur velandosi di una malinconia che spesso li relega quasi “dietro le quinte”, come dei genitori in perenne attesa che i figli grandi, “un po’ distratti”, tornino qualche volta a trovarli per farsi coccolare. 

Anche Ozpetek stesso in Nuovo Olimpo vuole essere chiaro e diretto sui suoi sentimenti e passioni, senza negarci anche i suoi lati meno “belli”, per mezzo di un Damiano Gavino che lo impersona con garbo, misura e un tocco di humor, come Mastroianni spesso prestava il volto su schermo a Fellini. Attraverso Enea, Ozpetek parla direttamente del forte valore politico e sociale delle sue opere, a volte ponendo il personaggio direttamente al centro di una conferenza stampa sul suo cinema. Attraverso Enea parla della sua difficoltà di esprimere sentimenti oltre l’arte, racconta delle sue pulsioni giovanili quasi compulsive e della sua determinazione a diventare qualcuno che potesse un giorno permettersi di avere una casa, che sfociasse su una di quelle bellissime terrazze romane con il tempo diventate parte attiva della sua poetica: forse il “nuovo” luogo di incontro della sua ideale “famiglia allargata” dopo il cinema Olimpo e l’appartamento condiviso da universitario. 


Il personaggio di Pietro riflette invece quanti un tempo, anche per il clima sociale dell’epoca, non sono stati in grado di vivere appieno il loro amore, di fatto diventando comunque “felici”, ma intimamente sempre rimanendo legati al rimpianto. La scelta di Pietro di ricominciare a ragionare sul suo amore passato diviene nel film prima di tutto un percorso di accettazione personale, che coinvolge la sua famiglia positivamente, in un ruolo attivo, proprio per il suo bene. Andrea De Luigi riesce bene a dare corpo ai tormenti quanto alla forzata compostezza e calma apparente del suo personaggio, che in opposizione a Enea sembra perennemente travolto da un senso del dovere che lo trova sempre inadeguato, alla continua ricerca di una stabilità che quasi viene prima dei sentimenti. Proprio in antitesi alla forte identità con cui sono costruiti i personaggi, De Luigi e Gavino cercano sulla scena sempre di farli “mediare”. Smussare le spigolature di Pietro ed Enea li porta progressivamente ad avvicinarsi, in un balletto degli opposti alla continua e impossibile ricerca di un completamento e cambiamento di prospettive di vita “a favore dell’altro”. Pietro “si chiude” e va in cerca di Enea, di nascosto, per tutta la vita in un cinema. Enea cerca Pietro attraverso la sua arte, in un film più che in un luogo preposto, per fare sì che “altri Pietro”, o il “suo” Pietro, in futuro non si chiudano allo stesso modo e possano essere più felici. È in questo dialogo a distanza, fatto di luoghi isolati, cinema e di lettere consegnate in ritardo di anni, che il film riesce a parlarci anche della vulnerabilità e disincantato dei sentimenti, toccando corde di una raffinatezza platonica non distanti dalle opere di Wong Kar-wai. Di fatto Ozpetek ci ha spesso parlato, proprio come Kar-wai, di amori le cui tracce si nascondono dietro a dei quadri, tra foto nascoste e memorie, ma qui il livello rimane ancora più sottile, quasi rarefatto. 

Nuovo Olimpo è un film pieno di passione e tumulto, attese infinite e rimpianti giusto mitigati da un tocco di ironia e buoni sentimenti. È uno dei film più personali del regista di origini turche, forse il suo film di “sintesi”, dove il filo rosso che lega spesso le sue opere si intreccia in modo più evidente con la sua storia personale, portando a nudo senza filtri le sue passioni e tormenti. Molto bravi tutti gli interpreti, tra cui si segnala una bravissima Luisa Ranieri. Come sempre in Ozpetek bellissime e piene di colori brillanti la fotografia e le location, come molto raffinato l’accompagnamento sonoro, realizzato come sempre di nomi importanti della canzone italiana come Mina. 

Un Ozpetek apparentemente diverso, senza filtro e con disincanto, politico quanto malinconico. Ma che riesce presto a colpire come nei suoi più amati lavori, dimostrando di essere ancora il regista più bravo a raccontare i sentimenti al di là dei tabù. 

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venerdì 27 ottobre 2023

Saw X: la nostra recensione della decima pellicola della saga horror, sulle gesta del giustiziere Jigsaw e dei suoi seguaci, creata da James Wan e con protagonista Tobin Bell

Siamo in America tra il 2004 e il 2005 (per la saga di Saw idealmente tra il primo e il secondo capitolo). Potrebbero essere gli ultimi giorni di vita per l’ingegnere edile John Kramer (Tobin Bell), che sotto l’identità fittizia di Jigsaw Killer da tempo “punisce la società”, costringendo i “colpevoli” a sopravvivere a delle torture di stampo medioevale di sua invenzione. Il tumore al cervello che lo affligge è arrivato all’ultimo stadio, inoperabile. John è sempre più triste e inizia a contare i suoi ultimi giorni. È rimasto giusto il tempo per istruire i suoi successori, su come continuare al meglio la sua opere di redenzione sociale, e nel mentre partecipare un paio di volte a settimana ad un gruppo di sostegno per malati terminali. È qui che John inizia a sentire qualcuno che gli parla di una possibile “speranza”. 

La dottoressa Cecilia Pederson (Synnove Macody Lund), figlia di un luminare premio Nobel osteggiato dai poteri forti perché troppo geniale, ha elaborato un cocktail di pillole, radiazioni ionizzate e operazioni chirurgiche mirate, in grado debellare quasi ogni tipo di tumore. Opera in clandestinità, con equipe in grado di spostarsi in breve tempo per tutto il mondo e ha un posto in agenda anche per John, previa una certa somma di denaro in anticipato e poi a fine intervento, per venire incontro alle difficoltà logistiche. Una santa. 

È così che cade nella più classica delle truffe il super razionale John, che quando è lucido è pur sempre un uomo in grado di scoprire ogni cosa sulla vita di un uomo, con complesse indagini incrociate, come sa costruire, in poco tempo e ovunque, complesse strutture sotterranee, piene di trappole e congegni tecnologici ispirati alle pene bibliche come a Shakespeare.

Prende il biglietto aereo per il Messico, si fa trovare dall’autista preposto, viene trasferito in una villa e poi “curato” in una sala operatoria allestita in una fabbrica abbandonata. È tutto contento e convinto di aver incontrato solo persone bellissime a cui elargire tutti i soldi e la gratitudine che ha disponibili, fino a che si toglie le bende dalla testa e scopre che non gli hanno manco rasato i capelli per l’intervento. 

Forse lo sapeva già prima di partire e stava solo raccogliendo prove in prima persona, per trovare nuova gente da punire attraverso le torture che lui chiama affettuosamente “giochi”. Forse a livello sentimentale ha voluto sperare per l’ultima volta in “qualcosa di diverso”, qualcosa che gli avrebbe fatto vedere il mondo in un modo meno cinico e desolante. Sta di fatto che John, dopo aver chiamato sul campo la sua apprendista Amanda (Shawnee Smith), aver fatto un paio di telefonate al suo detective di fiducia e forse reclutato qualcuno dei suoi infiniti uomini “dietro le quinte”, è ora pronto per trasformare la fabbrica abbandonata, dove lo avrebbero dovuto operare, nel suo nuovo parco giochi a base di torture. 

Tutti, i finti medici, i finti infermieri, i finti luminari e le finte persone per bene coinvolte, vengono così narcotizzati e rapiti da figuri che indossando le classiche maschere di maiale che simboleggiano Jigsaw. Come sempre, John offrirà alle sue vittime la possibilità di redimersi e sopravvivere al “gioco”, a patto che queste siano abbastanza determinate e veloci nell’auto-mutilarsi di qualche parte del loro corpo, prima che le trappole mortali a cui saranno incatenati arriveranno a ucciderli. 

Si dimostreranno più crudeli e coriacei quelli che truffano i malati terminali o il nostro giustiziere?

Chi sopravvivrà al nuovo “gioco” di Jigsaw? 


Era il 2004 quando arrivava nelle sale italiane, come un fulmine a ciel sereno e già accolto da recensioni internazionali esaltanti, il primo film di quella che in futuro sarebbe stata la saga di Saw l’enigmista. La messa in scena, quasi minimale, vedeva due uomini ammanettati ai lati in uno scantinato fatiscente, con un terzo uomo defunto al centro. Mentre un detective della polizia (Danny Glover) indagava sul caso cercando di salvarli, attraverso gli indizi sparsi per la stanza i due progressivamente scoprivano i motivi per cui si trovavano lì, come l’unico doloroso modo possibile concesso loro per andarsene: tagliarsi un arto da soli con una sega. Il fatto che sulla scena ci fossero attori molto bravi come Cary Elwes e Michael Emerson, il carisma indiscutibile di Tobin Bell che nell’oscurità guidava i giochi, una trama geniale a prova di bomba, tanto sangue e splatter e grandi riconoscimenti a festival come il Sundance, fecero affezionare in breve il pubblico e decollare il film ai botteghini. 1 milione di dollari di budget, un incasso di 104 milioni e che ancora oggi sale. Produceva il tutto la Lions Gate e dopo il box Office la piccola Twisted Pictures, fondata per racimolare quel milione iniziale, divenne una importante realtà nel panorama horror indipendente, producendo oltre alla saga di Saw anche Catacombs, Dead Silence (sempre di Wan ma inspiegabilmente sottovalutato), Chained.

Il regista James Wan, alla sua prima prova, diventava con Saw già la figura creativa e produttiva di culto che avrebbe in seguito reso grande la Blumhouse con la saga di Insidious, come avrebbe riportato sulla strada dell’horror la New Line (la casa di Freddy Krueger) con la saga di The Conjuring (che da Annabelle è co-prodotta pure da Atomic Monster, casa dello stesso Wan). Oggi, mentre gli viene affidata dalle major la direzione di pellicole da centinaia di milioni di dollari come Fast & Furious e Aquaman, Wan continua a produrre tutti i suoi franchise e nel mentre crea nuovi possibili proprietà intellettuali horror come Malignant e M3gan. Le sue ricette sono sempre semplici quanto accattivanti, di fatto in gran parte mutuate dall’horror della Hammer, ma debitamente rese moderne da un linguaggio fresco e da una messa in scena visivamente impattante, che nello specifico di Saw si traduce in tante trappole mortali truculente, ideate e gestite da un antieroe sadico quanto spinto da un perverso senso di giustizia, che non ha problemi letteralmente a “triturare” pezzo per pezzo le sue vittime. 


Torture e “valori” che devono aver particolarmente impattato sul pubblico anche in seguito, perché sempre sotto la guida produttiva di Wan la complessiva saga di Saw, pur cambiando i registi e in parte gli interpreti, contando i dvd, i video game e le altre proprietà intellettuali collegate, si stima abbia in dieci film per ora generato un miliardo di dollari. Merito di Wan come del suo assistente e co-autore di riferimento, il mitico Leigh Whannell (poi diventato anche regista di Insidious 2 e 3, di Upgrade e The invisibile Man), ma anche merito di chi è riuscito a seguirne ed espanderne le intuizioni. Come Darren Lynn Bousman, regista del musical horror Repo! the generic opera, che ha diretto e co-sceneggiato i capitoli 2, 3, 4 e il “prequel” Spiral. Merito anche di David Hackl, cresciuto nel reparto seconda unità della saga e che infine ha diretto Saw 5, merito dei fratelli australiani Spierig, registi della matta zombie commedia Undead del 2004, che hanno diretto il complesso Saw Legacy. Merito di Kevin Greutert, autore anche di una pellicola interessante come Jessabelle e che di recente a collaborato anche al magnifico Barbarian di Zack Cregger, che ha diretto Saw 6, Saw 3D e questo Saw X

Il successo di Saw in larga parte si basa proprio sulle torture che vengono rappresentate sulla scena, spesso frutto di meccanismi ingegneristicamente complessi quanto brutalmente medievali. Sono congegni spesso legati tra loro fino a comporre articolate Escape room, diventando dei non-luoghi labirintici simili a suburbani gironi danteschi. Crea una tensione costante, il fatto che a chi si trovi all’interno di questi ingranaggi venga comunque data una piccola e spesso infruttuosa possibilità di salvezza, pur ricoprendola di un ampio strato di sofferenza e dolore. Un dolore che scenicamente viene amplificato da un movimento della macchina da presa che si fa sincopato e da una colonna sonora stile heavy metal, che stordiscono e confondono pensieri e parole delle vittime come del pubblico. Vittime che rimangono solo nel migliore dei casi più morte che vive. Un pubblico che si sente pervaso da una strana adrenalina, attirato e al contempo atterrito da quanto succede sulla scena. 

Il successo di Saw è anche merito indiscusso degli attori coinvolti. John Kramer è un personaggio che grazie alla calma e presenza scenica di Bell ha saputo re-interpretare il fascino perverso della figura del giustiziere. Sa essere un teatrale fantasma dell’opera quanto lo era Vincent Price, ma possiede una calma e controllo dei sentimenti assoluti, quasi da asceta. Usa una perversa quando “sincera” empatia per le persone che sottopone lui stesso a torture degne di Torquemada. Tanto carnefice quanto misericordioso, possiede un fascino tale che più volte è possibile, pur con voli pindarici folli, scambiarlo per un personaggio “”quasi positivo””, un Batman 2.0 con velleità da inquisitore: un genio alla Da Vinci dietro la realizzazione di trappole mortali sempre più spietate ma percepite “distortamente giuste” secondo leggi del trapasso quasi dantesche. 

Tobin Bell con Saw ha dato sempre il massimo ed è così diventato famoso quanto Robert Englund, uno dei volti più riconosciuti e amati dai fan degli horror moderni. 

Ma anche gli “altri Jigsaw” sono stati particolarmente apprezzati. 


Prima tra tutti la meravigliosa Shawnee Smith, che con la sua Amanda ha dato vita a un personaggio estremamente differente, complesso e conflittuale, a volte crudele come a volte spinta da sinceri nonché “estremi” atti di altruismo. Meno esperta a livello di progettazione e realizzazione delle trappole, rispetto a Kramer a volte crea congegni che non funzionano a dovere o si rivelano tragicamente oggetti unicamente mortali. 

C’è poi l’attore Costas Mandylor, che dà corpo all’enorme e oscuro Hoffman, il Jigsaw più brutale e “inaspettato”, capace di trasformare le trappole in armi da difesa personale, se non di assalto, da usare anche contro i poliziotti e in piena antitesi con la perversa morale “salvifica” di Kramer. Hoffman è un giustiziere maldestro le cui trappole sono spesso del tutto impossibili da superare per l’eccesso di violenza che ci infonde dentro: se Kramer può sembrare un chirurgo che opera con il bisturi, Hoffman è un taglialegna che fa uso di motoseghe e lame circolari. Il successo della saga di Saw è dovuto quindi anche al modo in cui questi tre personaggi continuamente si confrontato sul senso di giustizia e di peccato, in dialoghi che avvengono faccia a faccia come attraverso flashback e memorie, trappole e appunti. Ognuno di loro, ed è una cosa particolarmente originale e interessante, ha infatti una sua etica e debolezze che traspaiono anche dalla stessa natura degli strumenti di morte che creano. Oggetti che sono riconoscibili e ricorrenti di capitolo in capitolo, andando a creare un piccolo museo delle torture. Solo che purtroppo il personaggio di Kramer, nevralgico è indispensabile alla trama, moriva all’inizio del film numero 4, che si apriva proprio con la sua autopsia. Tobin Bell rimaneva nell’aria, compariva nei flashback, ma mancava tantissimo sulla scena, al punto che capitolo dopo capitolo, pur mutando pelle in modo positivo e originale, la saga è finita per andare da tutt’altra parte, fino a pasticciarsi un po’. Fino a far desiderare i produttori che si potesse ripartire da zero, con il simpatico ma poco riuscito Spiral.


Questo Saw X di fatto è un secondo tentativo in questo senso: un capitolo che si infila tra il primo e secondo film secondo logiche similari agli ultimi Scream ed Halloween. Un capitolo 1 e 1/2, ambientato in una linea narrativa in cui Kramer è ancora in vita e può relazionarsi direttamente con Amanda, con la prospettiva di magari espandersi in futuro in in capitolo 1 e 3/4 o 1 e 15/16. È un’idea che a conti fatti ci porta qualcosa di nuovo e interessante, perché per una volta in Saw X vediamo John Kramer davvero al centro della scena e attivo, senza essere troppo “coperto” dalle torture, la teatralità, le maschere e i pupazzi animatronici diabolici di cui fa ampio uso nella saga. È un Kramer più umano e più vecchio, ma pur sempre imponente nei momenti che contano. Un Kramer che in una scena viene sottoposto a una delle sue stesse torture e la affronta a testa alta, da prestigiatore escapista, come se fosse Harry Houdini. Anche Amanda è diversa e tra le mille spigolature del suo carattere ci fa percepire anche la sua profonda (e spesso ben nascosta) dolcezza di fondo. È un film su John e Amanda, che in coppia funzionano così bene che i fan della coppia apprezzeranno. Sia Bell che la Smith si trovano perfettamente a loro agio sulla scena, ricordando a tratti nella teatralità, quanto nelle dinamiche affettuose e spietate, il Johnny Depp e la Helena Bonham Carter in Sweeney Todd. E naturalmente anche le trappole mortali, come negli altri film, “esprimono” i loro personaggi e stato d’animo: sono oggetti nella totalità dei casi risolvibili senza la morte delle vittime, funzionanti quanto precisi. In questo caso Kramer sembra particolarmente ossessionato da pesi e misurini, come se stesse calcolando con la sua “particolare arte”, il peso dell’anima, alla maniera del Mercante di Venezia di Shakespeare. Solo che a sopravvivere saranno sempre in pochissimi, per il panico come per la poca forza di volontà o per essersi attardati di pochi secondi, facendo di Saw X uno dei capitolo più sanguinolenti e cattivi del franchise. 

Purtroppo, al di là di queste “gioie”, pur contando di una location nuova e suggestiva (dove, per gradire, si parla e ci si ispira, nella realizzazione visiva di due trappole, pure ai sacrifici umani dei Maya) quanto di prove del cast anche interessanti (come il ruolo ambiguo e quasi luciferino della brava Synnove Macody Lund), in film non riesce a dare il meglio sul piano narrativo. Una certa ripetitività di schema è di fatto intrinseca in tutti i capitoli di Saw, almeno dal terzo in poi, ma giunti al capitolo dieci abbiamo anche visto quasi tutto sulla struttura “investigativa” che richiama le Escape Room, il funzionamento diretto e indiretto delle trappole, la tipologia caratteriale delle vittime e delle relazioni interpersonali tra di esse e i giustizieri, così come il fatto di aspettarsi un certo tipo di colpo di scena, che arriva sempre e puntale come un treno a Tokyo. In questo caso la trama non ci prova neanche un attimo a farsi complessa e “tira veramente dritto”, dando consciamente più spazio possibile al classico spettacolo splatter da grand guignol quanto allo sviluppo del rapporto tra Amanda e John. È una scelta, che scontenterà sicuramene la parte del pubblico che era affascinata anche dall’intreccio generale sottile che legava le indagini e i personaggi, dando alla saga un sapore simile ai capitoli di un ordinato e consequenziale telefilm di genere crime. È una scelta che di fatto un po’ svilisce un’opera che però si saprà far perdonare ampiamente dai fan, in virtù delle cose buone che comunque offre. 

Saw torna al cinema per un capitolo certamente rivolto ai fan, per alcuni aspetti involuto ma molto appagante per chi cerca lo splatter e la tensione delle trappole mortali di Jigsaw, in questo caso davvero truculente. 

I primi capitoli rimangono inarrivabili, ma per una volta abbiamo sotto i riflettori Kramer e Amanda e la loro interazione ci è piaciuta molto, facendoci sorvolare sulla eccessiva linearità e mancanza di colpi di scena della trama. 

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giovedì 26 ottobre 2023

Foto di famiglia: la nostra recensione del delicato e commovente film di Ryota Nakano, ispirato ai libri fotografici di Masashi Asada

Siamo nel Giappone dei giorni nostri, nella cittadina costiera di Tzu, nella prefettura di Mie. Ci troviamo nella casetta di due piani dove vive la famiglia Asada ed è un giorno molto triste, perché è venuto a mancare il capofamiglia, Akira (Mitsuru Hirata). 

Sono tutti presenti, nipotini compresi, quando il primogenito, l’impiegato trentenne Yukihiro (Satoshi Tsumabuki), guarda nuovamente l’orologio in attesa che si palesi alla porta l’ultimo ritardatario, il suo scapestrato fratello minore, il fotografo Masashi (Kazunari Ninomiya). Quando questo appare infine al capezzale del genitore, con lo sconcerto e imbarazzo generale insiste perché venga esposta la foto del padre con la sua uniforme da pompiere. Solo che il padre Akira aveva passato tutta la vita ad occuparsi della casa e non è mai stato davvero un pompiere! 

È qui che inizia, andando a ritroso nel tempo, la storia degli Asada: a partire da quando a essere incaricato di realizzare le foto di famiglia è stato proprio un giovanissimo Masashi, ricevendo come “investitura” la macchina direttamente dal padre, quando non aveva più di dieci anni. 

Masashi da allora ha sempre avuto un rapporto molto speciale con la fotografia, cercando di usarla solo per raccontare le emozioni forti più che i soggetti in posa. Realizzando una delle sue prime foto, che avrebbe cambiato per sempre la sua vita sentimentale facendogli trovare di fatto la compagna della sua vita, aveva dichiarato il suo amore alla coetanea Wakana (da adulta Interpretata da Haru Koruki) poco prima dello scatto, perché lei sapesse esprimere, per sempre e al meglio, sul negativo quel sentimento. I lavori del piccolo fotografo sapevano creare emozioni, ma quando non era in grado di “costruire quella magia” attraverso le foto, era come se il ragazzo si spegnesse. Non amava particolarmente lo studio o la compagnia, passava intere giornate a fissare il mare dal molo. Era taciturno e sembrava più di ogni cosa coltivare una strana passione per le tartarughe randagie di cui osservava ogni mossa e spostamento lungo i corsi d’acqua cittadini.

Arrivò un concorso scolastico dal titolo “racconta la giornata più bella delle tua vita”. Masashi pensò a quando da piccolo, per colpa della cera sulle scale, finirono lo stesso giorno in ospedale lui, il fratello e poi il padre. Tutti e tre nella stessa stanza, sotto le cure amorevoli della madre infermiera Junko (Jun Fubuki), che non sapeva se essere più sconcertata o divertita. Tutti gli Asada insieme, coperti di cerotti e bende, quella sera a mangiare ridendo con lei in reparto. Masashi quasi dieci anni dopo volle ricreare quella foto coinvolgendo tutta la famiglia a indossare di nuovo i cerotti e pigiami da ospedale, tutti parteciparono al “piano” e lui vinse un premio prestigioso. Per poi subito dopo tornare a deprimersi per anni, fissare il mare, le tartarughe. 


Incombeva su di lui un posto di lavoro da guardiano notturno procuratogli dalle conoscenze del fratello o in alternativa un impossibile viaggio a Tokyo insieme a Wakana per fare di nuovo fortuna con la fotografia. Gli serviva come biglietto da visita per il successo un album fotografico, e allora Masashi decise di realizzare degli scatti che rappresentassero i grandi sogni mai realizzati della sua famiglia. Il padre Akira da piccolo voleva fare il pompiere e allora con la complicità della locale caserma, facendosi prestare divise e autopompa, tutti gli Asada posarono come eroici vigili del fuoco. Jun avrebbe voluto essere la moglie di un gangster e tutti gli Asada posarono vestiti da terribili criminali. Yukihiro voleva fare il pilota di formula 1 e la famiglia fece foto al circuito, ma i sogni si moltiplicavano. Gli Asada come partito politico in campagna elettorale, gli Asada ubriachi al bar, gli Asada supereroi, rockstar, gestori di un ristorante. Tutte foto piene di complicità, gioco e ironia che facevano ridere chiunque le vedesse, che dopo qualche difficoltà e il passaparola diventarono un libro che rese famoso il fotografo a livello nazionale. Masashi dopo l’ennesima pausa decise di fotografare i sogni delle altre famiglie e partì in giro per il Giappone, con lo stesso intento giocoso e voglia di ritrarre persone felici in situazioni assurde. A volte costruendo dei piccoli set pieni di “effetti speciali casalinghi”, come dei ventilatori per lanciare per aria dei fiori di ciliegio fuori stagione. Non fece quasi mai ritorno a casa per molti anni, completamente assorbito dalla sua arte. Poi un giorno, nel 2011, quando il nuovo album era quasi pronto, un terremoto colpì la regione del Tohoku. Era il luogo dove aveva scattato le foto alla prima famiglia protagonista del suo nuovo album. Masashi andò a cercarli tra le macerie e finì per rimanere lì come volontario per molto tempo, raccogliendo e pulendo in una scuola tutte le foto di famiglia, ritrovate tra il fango e le macerie delle case distrutte. Una bambina rimasta orfana di padre, del quale non si ritrovava alcuna foto, gli chiederà lì un giorno di realizzare la foto impossibile della sua famiglia ancora al completo. Riuscirà il fotografo a realizzare nuove foto di famiglia e a trovare il tempo per non dimenticarsi in futuro della propria famiglia?


Divertente, ironico, pieno di dolcezza e molto malinconico, arriva nelle sale Foto di Famiglia, ispirato alla storia vera del fotografo Masashi Asada. È un film che ci parla delle difficoltà fisiche, lavorative ed emotive di vivere al fianco dei propri cari, a volte sublimate dai ricordi e dalla nostalgia. È un film che parla della fotografia come di una possibile finestra aperta sulle emozioni, dove ogni scatto può essere qualcosa di intimo, surreale e magico come un’opera di Michel Gondry. È un film sulla famiglia (nell’accezione di “tutti i tipi di famiglia possibili”), ma anche per “estensione” sulle “famiglie di volontari” delle associazioni impegnate nel campo della solidarietà, intese parimenti come luoghi di incontro e sostegno reciproco, dove poter trovare una strada comune in cui riconoscere il proprio posto nel mondo, specie nei momenti più difficili. È un film sulla solitudine degli artisti, spesso intenti a perseguire il loro lavoro, travolto dalle passioni, fino dolorosamente a dimenticarsi di vivere a fianco delle persone a cui vogliono più bene. Con garbo e ironia fa questo il film di Ryota Nakano, trasportandoci nel primo tempo in un Giappone gentile e colorato da commedia, che poi nel secondo diviene drammatico, tragico e coperto di fango, a fianco di famiglie che vengono più volte spezzate e ricostruite proprio grazie alle fotografie, grazie al carico emozionale che questi piccoli oggetti sono in grado di irradiare anche nei momenti più duri. 

Molto bravi tutti gli interpreti nel saper bene cogliere l’incredibile “leggerezza” del racconto, melodico e agrodolce quasi come un film della Pixar. Molto bravo Ryota Nakano a giocare nello stesso campo grafico ed emotivo di Michel Gondry, dove ogni fotografia immaginata dal protagonista diviene una costruzione scenica tra sogno e cartapesta. 

Ci si affeziona fin dall’inizio a tutti gli Asada e a Wakana, qualche volta sentendosi confusi, un po’ attoniti e “persi nell’arte” come il nostro protagonista fotografo, interpretato da un Kazunari Ninomiya qui lunare, entusiasta quanto fragile.  

È un film che “fa stare bene” e un po’ commuovere, ma che a fine visione si vorrebbe rivedere subito da capo, per cogliere le mille sfaccettature emotive e visive con cui è stato realizzato.

Se siete in cerca di un film dove i buoni sentimenti vengono rappresentati in un modo gioiosamente eccentrico e mai banale, preparate i fazzoletti e buona visione.

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mercoledì 25 ottobre 2023

Dogman: la nostra recensione del nuovo film di Luc Besson, con protagonista uno straordinario Kaleb Landry Jones

New Jersey dei giorni nostri. Un furgone del canile viene fermato dalla polizia e alla sua guida c’è un uomo sui quaranta, vestito e truccato da drag queen, coperto di sangue e con dei tutori metallici applicati alle gambe. Ha bisogno di una sigaretta e parla lentamente, mentre da dietro i sedili decine di cani abbaiano incessantemente. Appare calmo nonostante il trucco che gli cola dagli occhi (Kaleb Landry Jones) e una volta portato alla centrale di polizia ha molte cose da raccontare alla giovane psicologia Evelyn (Jojo T.Gibbs). 

Dichiara di chiamarsi Doug, ma che fin dall’infanzia il suo nome è stato spesso storpiato dal padre e dal fratello in “Dog” (in inglese: cane), specie dopo che i due decisero di farlo dormire nella gabbia dei cani da combattimento che addestravano a uccidersi. Doug aveva poco più di dieci anni e troppa pietà per quegli animali, forse al punto di amarli più della sua vera famiglia. Ricordava troppo la madre che li aveva abbandonati e per questo era guardato con occhi di fuoco in ogni piccolo atto di gentilezza e empatia versi i cani, fino a che venne punito, in quanto contro natura e “contro Dio”. 

Chiuso in quella gabbia di ferro all’aperto, tra la terra, il cibo per cani e gli escrementi, Doug riuscì comunque per mesi a sopravvivere e ad evadere con la mente, supportato amorevolmente dalla sua “nuova famiglia”. I cani lo coccolavano e difendevano, gli tenevano caldo durante la notte. Il legame si strinse fino a che arrivarono a capirsi anche solo con uno sguardo. Doug sviluppò con tempo quello che a tutti gli effetti poteva apparire come un superpotere: la capacità di guidare e coordinare ognuno dei suoi cani, fino a spingerli verso l’esecuzione in gruppo delle azioni più complesse. Bastava che un cane potesse uscire dalla gabbia e questo sapeva andare ovunque, procurare ogni cosa.  

Un giorno, in pochi secondi, riuscirono a realizzare un elaborato piano di fuga dove i cani guidarono la polizia fino alla prigione del ragazzo, salvandolo per miracolo dopo uno scontro a fuoco con il padre che gli comportò, per tutta la vita, il fatto di avere un proiettile non estraibile vicino alla colonna vertebrale. La vita di Doug, tra una casa famiglia e l’altra come tra un canile e l’altro, costretto sulla sedia a rotelle e amato per lo più solo dai suoi cani, non fu facile. 

Ma nonostante le circostanze avverse, grazie alla sua tenacia, intelligenza, istrionismo e uno spiccato amore per la recitazione, l’uomo crebbe, trasformandosi a tutti gli effetti, nella zona più povera della città, in uno strano e temuto giustiziere: “l’uomo dei cani”. 

Un giustiziere insidiatosi in una enorme scuola abbandonata con alle dipendenze un esercito di decine di cani abbandonati e ora tutti super addestrati, che come alter ego la sera diventava una drag queen.

Doug ha infatti una parrucca bionda e un vestito paiettato da Marylin Monroe quando si trova nella centrale davanti a Evelyn, dopo una lunga notte di proiettili, sangue e zanne che lo ha visto affrontare, da solo con i cani, tutto l’esercito del Signore della droga conosciuto come El Verdugo. 


Rivelare di più è fare un torno a uno dei film più belli dell’anno, se non degli ultimi anni. Un diamante grezzo pieno di passione, stile e inventiva, che è passato in totale e colpevole “indifferenza” al festival di Venezia, nonostante la straordinaria, viscerale e indimenticabile interpretazione di un nuovo grande attore di razza come Kaleb Landry Jones. 

Nato e cresciuto nella provincia di Dallas da una famiglia di suonatori di banjo, classe 1989, inizia a strimpellare rock fino a che esordisce con una piccola parte in Non è un paese per vecchi dei Coen. Trasforma i 5000 dollari ricevuti per la sua particina in L’ultimo esorcismo in un biglietto per Los Angeles e subito lavora per David Fincher, Emmerich, Matthew Vaughn, John Boorman, Neil Jordan, Xavier Dolan. 

È in Get out di Jordan Peele, è in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di McDonagh, in I morti non muoiono di Jim Jarmusch. 

Non si fa mancare in questo curriculum da sogno parti in Breaking Bad e nel Twin Peaks del 2017 di David Lynch. 

Kaleb Landry Jones ha lavorato con alcuni dei più grandi e influenti registi di sempre, ma è qui, con Dogman, che lui scrive insieme a Besson stesso per un anno intero, che gli viene offerta la grande parte, quella che si aspetta per tutta una vita. 

Besson è il creatore di personaggi leggendari simili a anti-eroi da fumetto come Nikita e Leon. Ha creato i romanzi per l’infanzia di Arthur, dirigendo i film e pure anni dopo producendo un film horror a essi ispirato, Malediction. È l’uomo che prende Milla Jovovich quando è ancora ragazzina, la sposa e trasforma in diva con Il quinto elemento e poi Giovanna d’Arco. È tra i più prolifici produttori di film action europei di “puro intrattenimento”, quelli che negli anni ‘80 venivano definiti per ingenuità di trama “fumettoni”: con questi lancia Statham, sdogana in occidente Jet Li, crea una seconda vita artistica a Liam Neeson. Besson dirige e produce cinema che si ispira al mondo dei fumetti, fa “fumettoni” e quando può omaggia direttamente i più grandi artisti del fumetti di oltralpe come Moebius, Pierre Christin e Jean-Claude Mezieres. 

Besson incontra Kaleb Landry Jones ed è di nuovo ispirato e geniale come ai tempi di Leon, quando quasi per scommessa prendeva un personaggio piccolo piccolo di un suo precedente lavoro, Nikita, per costruirgli intorno una pellicola tutta sua e rendere indimenticabili Jean Reno e Natalie Portman.

Besson e Jones costruiscono il loro Dogman a partire dal loro amore per i cani, anche ispirati dal Dogman del 2018, di Garrone, che viene citato e ringraziato nei titoli di coda (che siano in futuro collegabili in qualche modo?). Ci sono sul set di Newark cani ovunque, di ogni razza e stazza, tutti straordinari e addestrati con grande sensibilità e talento per fargli compiere le imprese più incredibili all’interno di una specie di “fortezza diroccata” nella quale si muovono come in un parco giochi tutto loro. La mente viaggia alle decine di pinguini reali che Tim Burton volle sul set di Batman Returns e ovviamente a Danny De Vito, che in qualche modo nel film, come qui Kaleb Landry Jones, era sulla scena il signore del loro piccolo popolo: giocando con loro quanto muovendoli all’attacco. Jones si dimostra subito a suo agio e funziona benissimo con gli animali al suo fianco, dimostrandosi sempre amorevole quanto esperto nel comunicare con loro, con la voce e con piccoli gesti, dirigendoli quasi come un maestro d’orchestra. Lo staff tecnico e quello artistico creano un set pieno di suggestione, passaggi segreti a misura di cane, trappole e oggetti di scena ricercati, conferendogli colori simili al palazzo di The Raid. Con elaboratissime coreografie gli istruttori guidano i cani a esprimersi al meglio sulla scena, risultando a volte dolci come a volte minacciosi: sempre integrati in una trama variegata, dai risvolti action quanto maturi, duri quanto drammatici. 

Besson e Jones con la loro passione per i cani portano così al cinema qualcosa di davvero nuovo, che non si vede tutti i giorni, questo è solo una parte del vero fascino della pellicola, che è rappresentato proprio dalle evoluzioni del personaggio di Doug. 

Doug ama gli animali e da loro è ricambiato, in un legame che spesso da vedere diventa anche molto bello e commovente, ma il nostro (anti)eroe fa invece molta fatica a relazionarsi con gli esseri umani, indossando per sopravvivere molte maschere diverse che grazie all’estro di Jones quasi “lo moltiplicano”, facendolo esprimere in una gamma di emozioni continue. 


C’è il Doug giustiziere, che non può non ricordare in positivo la figura del Joker, con tratti dell’interpretazione più malinconica di Phoenix ma anche con il nichilismo dell’interpretazione di Ledger. Per chi ama i cinecomics di stampo più “adulto” e magari si interroga sulla direzione incerta che questi stanno prendendo negli ultimi anni, Dogman è un film da vedere, anche solo per accertarsi del fatto che creare qualcosa di nuovo quanto di vicino, e forse più appagante, dei cinecomics è possibile. I dialoghi del Doug “giustiziere” sembrano uscire dalla penna dissacrante di Garth Ennis e Jones li recita con la massima convinzione e naturalezza possibile, come se non avesse mai fatto altro nella vita. 

C’è poi il Doug innamorato dell’arte, della recitazione e della musica, che trova la sua massima ispirazione nell’incontro con il bellissimo personaggio interpretato da Grace Palma, intraprendendo con lei un percorso di crescita emotiva che lo porta a manifestare le sue emozioni più intime, a mettersi a nudo, in modo totale e spontaneo, come solo sapeva fare il compianto Philip Seymour Hoffman.

C’è il Doug “drag queen”, che oltre a una presenza scenica incredibile, in cui riesce a mediare compostezza e gentilezza attraverso una corazza artistica che lo libera di ogni paura, è in grado di cantare con delle tonalità da Soprano, frutto di un allenamento vocale davvero importante. È un Doug che riesce ad apparire del tutto femminile, seduttivo ma al contempo riservato quanto una Madame Butterfly. 

C’è il Doug più nascosto, il “Doug bambino” diretto riflesso dei traumi del giovane Doug, interpretato sulla scena dal giovane e bravo Lincoln Powell. Un bambino da sempre “capro espiatorio” a ogni difficoltà della vita e considerato per questo, Bibbia alla mano, a tutti gli effetti un diavolo. Un odio religioso che nasconde gli abissi di frustrazioni di un padre e un fratello orribili e brutali, legati l’uno con l’altro da un rapporto davvero ambiguo e malsano, interpretati come degli orchi dagli intensi e strazianti Clemens Schick e Alexander Settineri. Doug per questo, per “colpa loro”, è in perenne lotta con la religione e le sue immagini, esprimendosi in soliloqui esistenziali di particolare potenza ed ebbrezza quando viene definito: “diavolo”. È un Doug quasi “faustiano”, che spesso va in cortocircuito con le altre maschere che il personaggio indossa, che per sfuggire al dolore “trascendente” esprime il suo tormento attraverso il grottesco, con una teatralità e sarcasmo insistiti e plateali, vicini al William Finley del Fantasma del palcoscenico di Brian De Palma. 

Accanto ai cani e a Doug e le sue maschere si sviluppa una trama che racconta un percorso di marginalità e dissoluzione emotiva che coinvolge tutta la periferia di Newark. Un contesto in cui i servizi pubblici e sociali vanno sempre più a essere marginalizzati, dove la criminalità offre troppe opportunità di fuga dalla realtà e non esistono possibili soluzioni per chi voglia onestamente vivere una vita tranquilla. Un contesto crudo che Besson riesce però bene a frizionare anche con il sapore della favola nera, dando voce a tutta la sua fantasia immaginifica per rispondere alle esigenze reali di pace e sicurezza. Nella seconda parte così la storia si stacca quasi dal reale fino a deflagrare, come in Leon, in una lunghissima e articolata scena action piene di idee visive, momenti concitati e risvolti drammatici che mettono in luce tutta l’inventiva e amore che Besson sa immettere nella settima arte. Senza risparmiarsi il regista francese sa qui esaltarci, riesce a spiazzarci, commuoverci e divertirci. Dimostrando una generosità visiva ed emotiva nei confronti del pubblico che oggi è sempre più rara. 

Dogman è un film potente, che vive di tante anime, suggestioni e contraddizioni, facendoci assaporare la vera forza del cinema di Besson nel trasmettere le emozioni, anche a volte “tutte le emozioni insieme”. È un film che non si fa dimenticare per un grande interprete e per la elaborata impalcatura su cui poggia le basi, e per questo è un film che non dovreste dimenticare di vedere in sala. A meno che non vogliate perdervi qualcosa di bello. 

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mercoledì 18 ottobre 2023

The creator: la nostra recensione del nuovo film di fantascienza del sempre più bravo Gareth Edwards

Siamo nel 2055, in un mondo ultra tecnologico quanto “rugginoso”, abitato da uomini e robot. Gli automi si sono in breve tempo evoluti e hanno sostituito l’uomo in tutte le attività lavorative più pesanti, dall’agricoltura all’edilizia fino all’esercito. Ora stanno iniziando a sostituirlo in ogni tipo di mansione. Alcuni sono stati rivestiti di pelle sintetica e sono diventati quasi indistinguibili dall’uomo al punto da essere scelti come partner, anche perché la loro mente si è fatta sempre più sofisticata, “quasi gentile”, empatica. Non era strano che in tutto il mondo un uomo potesse amare una macchina e vivere insieme a lei, ma negli ultimi dieci anni è cambiato tutto, dopo l’incidente di Los Angeles. Fu colpa per qualcuno di dati errati raccolti dall’uomo, fu per altri un deliberato atto di guerra da parte delle macchine, ma la grande esplosione e i morti che ne seguirono divisero per sempre in blocchi Oriente e Occidente. 

In Occidente le macchine più evolute iniziarono a essere considerate come nemici dell’umanità, mentre i robot più semplici, come una razza inferiore, potevano essere sfruttati e  impiegati come soldati kamikaze. Per andare in guerra contro i robot orientali si crearono carri armati grandi come palazzi, stormi di aeronavi da sbarco superveloci e venne istituito un nuovo esercito ultra tecnologico, anche a costo di ibridare il corpo dei soldati umani al punto di farne quasi dei cyborg. Venne creato “Nomad”, una stazione spaziale dotata di armi in grado di distruggere intere città e sempre pronta all’attacco, come l’occhio di un dio maligno che dal cielo infligge punizioni. 

In Oriente invece, ora ribattezzato “la nuova Asia”,  il cammino comune tra uomini e robot proseguì, in piena armonia con la società, la natura e verso una sorta di spiritualità comune. Specialmente ai margini delle grandi città, tra quelli che un tempo erano templi buddhisti e le foreste ancora lussureggianti, ormai nessuno faceva più caso alla presenza di ossa o ingranaggi, che ugualmente invecchiavano come arrugginivano.  


Era in un piccolo paradiso terrestre fatto di casette in legno, nei pressi di una foresta lussureggiante vicino al mare, che l’ex militare occidentale Joshua (John David Washington) viveva insieme alla sua Maya (Gemma Chan), che portava nel grembo la loro prima figlia. Si trovavano all’interno di una pacifica comunità mista di uomini e robot, guidata con saggezza dal robot Harum (Ken Watanabe), quando subirono un attacco esterno. Gli assalitori erano alla ricerca del terrorista Nirmata e non ebbero intenzione di fare prigionieri. Maya e gran parte del gruppo provò a fuggire con delle barche, ma il Nomad attaccò e tutto scomparve tra lampi di luce. Joshua assistette inerme alla scena e in seguito fu riportato a Los Angeles alla stregua di un traditore e assegnato alla discarica: responsabile dello “smaltimento dei robot”, spesso condannati alla distruzione quando per i nuovi standard  si rivelavano “troppo umani”. 

Dopo cinque anni è un uomo distrutto, ma l’esercito ha di nuovo bisogno di lui: delle indagini hanno accertato come Nirmata sia ancora vivo e si trovi proprio nel villaggio di legno dove lui viveva con Maya. Intruppato in un plotone di super soldati comandato dallo spietato colonnello Howell (Allison Janney), Joshua dovrà guidarli in un territorio a loro ostile e aiutarli a recuperare la nuova terribile arma con la quale ora il terrorista potrebbe minacciare il mondo. Ma una volta che l’uomo si trova davanti alla fantasmatica arma scopre che in realtà questa è una bambina robot (Madeleine Yuna Voyles). Una bambina che gli ricorda molto Maya. Non riuscendo a ucciderla, dopo averle assegnato un nome umano, Alphie, decide di scappare con lei e seguire le voci che dicono che sua moglie, cinque anni prima, potrebbe non essere morta. L’arma-bambina è forse il suo biglietto per ritrovare l’amore, ma le cose potrebbero cambiare in modo sorprendente. 


Torna nelle sale Gareth Edwards con The Creator, la sua quarta opera cinematografica. 

Nel 2010 il regista inglese si era fatto notare con il suo lavoro di esordio, il piccolo ma sorprendente cult fanta-ambientalista Monsters, raccontandoci un futuro dove l’umanità combatteva misteriosi mostri giganti, il cui passaggio sulla Terra aveva effetti come la creazione di tsunami e terremoti. Un film in cui gli uomini erano piccoli piccoli e dove la migliore strategia di sopravvivenza era “adattarsi e non combattere”, in una perfetta metafora di come oggi si debba far fronte ai mutamenti climatici. Nel 2014 continuava a parlarci di mostri giganti ed equilibri possibili “non bellicosi” con la natura, con una personale versione di Godzilla dove il mostro, ideato da Honda e creato dagli esperimenti nucleari, si poteva interpretare, dopo le “necessarie incomprensioni”, quasi da protettore dell’uomo. Nel 2016 Edwards partiva per lo spazio con Star Wars: Rogue One, raccontandoci una storia di guerra e disincanto, molto cruda quanto apprezzata dai fan dell’opera di Lucas, in cui non dei super guerrieri Jedi, ma uomini comuni e robot, insieme a rappresentanti di altre razze aliene, combattevano fianco a fianco nella resistenza contro l’impero galattico, impossessandosi, dopo un grande tributo di sangue, dei piani per distruggere la massima arma di distruzione galattica: la Morte Nera. Lo scontro finale avveniva su un pianeta verdeggiante bellissimo che veniva completamente spazzato via dalla guerra, demandando la salvezza del futuro alle nuove generazioni. 

The Creator offre un po’ la summa di molte delle suggestioni e spunti di  queste opere, a cui si aggiunge una visione di insieme produttivamente da colossal, non distante per colori, azione, ma anche sviluppo dei personaggi e senso dello spettacolo, a quanto ci viene proposto dall’Avatar di Cameron. 

Un’opera enorme, roboante per gli effetti speciali e la grandiosità delle scene d’azione, ma anche in grado di commuovere con i buoni sentimenti e stimolare interessanti dibattiti sul senso della storia odierna. 

Al centro di tutto c’è Alphie, una bambina “che non è una bambina vera”, come lo era il piccolo David di A.I. di Spielberg e Kubrick. Una bambina che come David è “un modello nuovo”, in un mondo pieno di tanti robot rugginosi e derelitti, un po’ buffi e un po’ tragici, qualche volta simili al petulante R2D2 di Star Wars ma qualche volta vicini anche al casinista Chappie di Blomkamp. Alphie, interpretata dalla straordinaria Madeleine Yuna Voyles, deve sopravvivere alla sua distruzione, prima ancora di aver compreso il suo scopo. Mentre è costretta a una strana fuga che ha a volte i tratti del sogno e a volte le venature dell’incubo, Alphie si pone con l’ingenuità di ogni bambino le più spontanee domande sul mondo, sulla vita e sull’amore. Per avere risposte può fare affidamento solo su una sorta di “padre adottivo”, interpretato dall’ancora indefinito, ma qui più promettente del solito, David Washington. Un “padre” disilluso dalla vita e forse tradito dall’amore, per il quale considerare i ragionamenti della robottina come frutto di programmazione, e non di sentimenti “umani”, è una sorta di via di fuga dal dolore. Joshua ha infatti assistito (e noi con lui, in un suggestivo gioco meta-cinematografico) a situazioni che se non avessero riguardato direttamente dei robot sarebbero state di una crudeltà indicibile. Come androidi che si ponevano inermi a fermare con il loro corpo l’avanzata di carri armati. Come robot “disattivati” il cui corpo rimasto scheletrico veniva gettato nella discarica, simile a una fossa comune. Joshua cerca continuamente, anche con l’ironia, di separare mondo reale e mondo dei robot, i “diversi” dagli “umani”, anche perché passo dopo passo il suo viaggio si tinge sempre più di sangue e paura. Ma è un impegno sempre più doloroso quanto per lui impossibile, che ce lo rende umano almeno quanto la disorientata Alphie. 


Non essere umano è invece qualcosa di facilissimo per il colonnello Howell, interpretato da una granitica e spietata Allison Janney, che insieme alle sue truppe, seguendo il mantra “non sono umani, sono solo programmi”, non si pone problemi a fare fuoco su una folla inerme quanto a tritare una città sotto i cingoli di un carro armato gigante. Allo stesso modo come non si pone scrupoli a giocherellare con la “scatola nera” impiantata chirurgicamente nei suoi soldati 2.0, una volta che questo sono morti, e quindi “non più umani”. 

Edwards porta sullo schermo una storia dai tratti molto sanguigni, piena di guerra e violenze che vengono rappresentate nel modo più crudo quanto spettacolare che il cinema sa offrire. Ci parla di eroismo, di sacrificio ma soprattutto di paura, di tragedie inevitabili e della determinazione assoluta con cui spesso la gente decide di uccidere il prossimo. Ma al contempo, proprio come in tutte le sue opere passate, il regista riesce a raccontarci però anche di un mondo che va al di là del caos, un mondo che guarda con speranza al futuro e si può creare prima di tutto su un piano spirituale, con il dialogo e la comprensione. 

Un “mondo possibile” quando, attraverso il personaggio della sua robottina bambina, il regista arriva con intelligenza e sensibilità a farci ragionare anche su concetti difficili come “libertà” e “paradiso “.  

The creator non vuole essere una favola e anche per questo i suoi personaggi, pieni di difetti e paure, ci riescono ad apparire più vicini e autentici, conducendoci (e costringendoci) in una fantascienza utile per fantasticare di robot e astronavi, ma anche capace di farci leggere questo preciso momento storico, pieno di guerre e conflitti dove l’umanità, anche nei confronti di un nemico, è un concetto sempre più a rischio. Un concetto che nelle semplificazioni “necessarie” spesso si perde e che forse è compito anche del cinema del fantastico recuperare. 

In tutto questo il film riesce a non essere mai pesante, la narrazione si attesta sempre su ritmi elevati e la trama spesso sorprende con delle invenzioni interessanti e sarcastiche, che sanno strizzare l’occhio anche alla Storia del ventesimo secolo. 

Roboanti le scene d’azione di stampo bellico, anche se decisamente forti per un pubblico di più piccoli, che non hanno nulla da invidiare per potenza e coinvolgimento a un capitolo di Star Wars

Il film è lungo ma autoconclusivo, qualcosa di decisamente inedito ai giorni nostri. 

Il nuovo film di Edwards è di una bellezza visiva e sonora assoluta e riesce a portarci in un mondo futuro strano e pieno dì personalità, quanto sinistramente vicino ai problemi odierni. Bravo David Washington, straordinaria la piccola Madeleine Yuna Voyles. Molto intelligente il modo in cui si struttura una trama che a molti ricorderà anche il manga Alita

Edwards si conferma un grande narratore per immagini e uno dei registi specializzati nella fantascienza da tenere oggi maggiormente in considerazione. 

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martedì 17 ottobre 2023

Inu-Oh: la nostra recensione dell’opera rock ispirata al teatro Sarugaku e ai monaci cantastorie suonatori di biwa, diretta dal regista Masaaki Yuasa, l’autore di Devilman CryBaby e Mind Game

Ci troviamo in Giappone, intorno al XV secolo, nella cittadina di pescatori di Dan-no-ura.  Proprio nel vicino lago si è tenuta la sanguinosa battaglia finale tra l’attuale casato imperiale e il potente clan Heike, a seguito della quale è stata smarrita nelle profondità delle acque, tra i relitti di una imponente battaglia navale, la leggendaria spada Kusanagi.

Il giovane Tomona e suo padre, che da sempre si immergono in apnea alla ricerca di tesori di quel periodo da rivendere al mercato locale, vengono incaricati dalla capitale del recupero del mistico artefatto, ma una volta che se ne impossessano accade qualcosa di impensabile. Un enorme raggio di luce si propaga dalla spada per alcuni chilometri, accecando Tomona e dividendo a metà il corpo del padre. Con un rumore sordo, simile a una vibrazione, sembra inoltre inoltre essersi liberato dal profondo del lago qualcosa di oscuro, simile a una maledizione. 

Gli anni passano e dopo un lungo periodo, in cui Tomona si è sentito solo e impotente davanti al mondo, incontra sul suo cammino un monaco suonatore di biwa (uno strumento a corde tradizionale). Anche lui è non vedente, ma conosce la musica, la storia e il canto e in breve riaccende le voglia di vivere del ragazzo. Tomona inizia a seguirlo di città in città come apprendista e sotto la sua guida decide di prendere i voti e imparare a suonare tutte le storie della tradizione popolare. Da tempo nella regione mancano monaci. Molti sembrano misteriosamente scomparsi nel nulla, molti sono stati trovati assassinati lungo la strada sembra senza motivo. In questo clima di paura, la congregazione della capitale Kyoto è ben lieta che la storia del passato, almeno attraverso il giovane  Tomona, continui a essere tramandata alle future generazioni. Proprio tra i vicoli della grande città, in una notte piena di stelle, il giovane monaco incontra tra le strade una creatura strana e misteriosa, che da molto tempo terrorizzava tutti gli abitanti. Forse un demone. Una figura umanoide sinistra con un braccio lungo il doppio del normale e l’altro che sembra quasi attaccato all’orecchio. Ha gambe ricurve, la pelle del corpo ricoperta di squame, la schiena contratta simile a un guscio e un volto deforme e allungato, celato sotto una maschera ricavata da una zucca. Si dice che chi lo fissi, guardando sotto quella maschera, possa morire per lo spavento. La “zucca maledetta” vive derubando i passanti e condividendo il cibo con i cani randagi, nascosta tra le ombre, sempre in agguato. Ma Tomona non può vedere tutto questo e durante un assalto della zucca neanche si spaventa, gli pare di avere davanti per lo più un ragazzo coetaneo, molto affezionato agli animali che lo seguono. Anzi, il monaco ascolta con interesse i discorsi della creatura che si auto-proclama Inu-Oh, “il re dei cani”, e scopre che dietro le maschera ha una voce bellissima e un vero talento per il canto. Sotto le stelle, accompagnati dagli accordi della biwa, Tomona e Inu-Oh creano musica.

I due scoprono di avere tanto in comune, a partire dalla maledizione degli Heike, che ha reso il monaco cieco e forse trasformato in un mostro quello che era un ragazzo comune. Forse anche per via di questa condizione, i due hanno ricevuto un particolare dono, una sensibilità che gli permette di entrare in contatto con il mondo degli spiriti, che sono soliti suggerirgli all’orecchio racconti e melodie inedite agli altri monaci canta storie. 

I due decidono in breve di esibirsi insieme, cantare e ballare insieme per le piazze. Con una “musica nuova” fatta di storie e sonorità “di strada” diverse rispetto al repertorio classico dei monaci. Con storie che vengono portate sulla scena dalla “fisicità nuova” di Inu-Oh, che conosce tutti i segreti dei balli del teatro “sarugaku” e li reinterpreta con la sua peculiare corporatura e senso del ritmo. 

La musica tradizionale si contamina di rap, scenografie da musical, cori gospel e Hair-rock. Il balletto tradizionale acquisisce passi da disco music e break dance. Le esibizioni di Inu-Oh e Tomona infiammano tutta Kyoto e diventano sempre più complesse e partecipate: dei veri spettacoli live a cielo aperto, con coreografie ed effetti speciali, a cui accorrono centinaia di persone. Inoltre la musica “fa bene” a Inu-Oh, il cui corpo al termine di ogni esibizione torna progressivamente normale, come se venisse “esorcizzato” attraverso la gioia dell’arte. 


Il successo è grande, ma attira anche dei malumori. Gli artisti dei balli Sarugaku mal tollerano il modo in cui viene deformata la loro arte, peraltro con tanto successo. L’imperatore inoltre non vuole che ad avere tanto riscontro di pubblico siano dei racconti “apocrifi”, lontani dalla “Storia autorizzata”. Racconti che potrebbero contraddire la grandiosità “a senso unico” del suo regno o peggio suscitare sentimenti di ribellione, presentando storie in cui anche i nemici Heike risultano persone valorose e non esseri infidi.   

Il monaco e il re dei cani dovranno presto fare i conti con la realtà “politica” del mondo in cui vivono e sarà molto doloroso. 

Riusciranno a salvarsi attraverso la loro arte?


Inaspettato quanto a lungo bramato e sognato, arriva nelle sale italiane il capolavoro di Masaaki Yuasa, la medioeval-psichedelica “l’opera rock” Inu-Oh

Inu-Oh arriva inaspettato perché è a tutti gli effetti un musical, come Hair, Tommy o Jesus Christ Superstar e non siamo più nei mitici anni ‘70. Da questi anni e queste opere eredita un modo di fare cinema potente quanto trascinante, evocativo e sarcastico quanto fuori dal tempo. Un mondo che ci viene portato nel 2023 tradotto in italiano nelle poche parti narrative, ma con le canzoni, interpretato dagli straordinari Avu-Chan (Queen Bee) e Mirai Moriyama che costituiscono buon 80% del parlato, tutte rigorosamente in originale giapponese. Per la peculiarità dell’opera era impossibile tradurre le musiche (ed era pure quasi una lesa maestà), così si è scelto di non farlo. Inu-Oh arriva e con coraggio lancia un'autentica sfida all'avversione tradizionale del pubblico italiano per i film da seguire con i sottotitoli. 

Inu-oh ci arriva inoltre profondamente bramato, perché Masaaki Yuasa è uno degli autori più interessanti, ma anche anticonformisti, dell’attuale panorama dell’animazione giapponese. Fuori dai luoghi comuni e dagli stilemi più codificati degli anime moderni, conosciuto per opere artisticamente vertiginose, originali quanto inconsuete e uniche come Mind Game, Masaaki Yuasa è un autentico “crazy Diamond” tra gli autori moderni. Le sue sono opere così personali che in passato da alcuni distributori nostrani sono state considerate troppo difficili da esportare in sala, in quanto lontanissime da ogni possibile classificazione tradizionale sui gusti del pubblico. C’è da dire che comunque dopo il successo del remake “nagaiano” Devilman Crybaby per Netflix e di un’opera “più tradizionale” come Ride Your Wave, in molti fan hanno iniziato a richiedere anche i lavori più “estremi del regista”. Lo stile visivo di Inu-Oh è nuovamente qualcosa di unico: forti ispirazioni alla traduzione pittorica giapponese vicine al lavoro su La principessa splendente del compianto Isao Tahakata, che sembrano fondersi con figure dalla modernità plastica, quanto scanzonata, proprie dei lavori di Koike e Watanabe. Il tutto innaffiato con ampie dosi di psichedelia. 

È per questo che Inu-Oh arriva infine da noi “sognato”, come i sogni più acidi e psicotropi, affermandosi come una delle più impressionanti opere psichedeliche degli ultimi tempi: una travolgente e geniale follia dove il teatro Noh e la musica tradizionale si fondono all’estetica rock di un concerto dal vivo, cavalcando modi e mondi nuovi di raccontare una trama, in un tripudio di luci, effetti speciali, colori accesi e forme ardite, dove il significato stesso della Storia, intesa come il valore di raccontare la realtà, viene più volte de-strutturata e reinterpretata proprio dal “sogno” e dai linguaggi nuovi che vi discendono. Un monaco può diventare una rockstar e un ragazzo deforme cavalcare una balena di sola luce. Un quadro classico di Kyoto con i fiori di ciliegio che cadono può trasformarsi in una fantasia di draghi volanti, un ponte può diventare un palco con figuranti che balzando fuori dall’acqua come delfini. Tutto è concesso. Tutto è spettacolare e ardito e non parco di una certa drammaticità teatrale, di ironia e spiazzanti note cupe, vicine a oscure pellicole super cult horror/musical come Phantom of the Paradise di Brian De Palma e Repo! The genetic opera di Darren Lynn Bousman. 


Inu-Oh è qualcosa oggi di davvero mai visto, un'esperienza visiva e sonora unica posta al servizio di una storia fatta di spiriti e monaci anticonformisti, spade maledette e imperatori egocentrici, sulla nobile arte del raccontare e sulla ineluttabilmente pulsione di ribellarsi alle ingiustizie. Una storia che con le straordinarie voci di Avu-Chan (Queen Bee) e Mirai Moriyama ci trascina in prima fila in un unico grande concerto da sogno, dove tutto grazie all’animazione di Masaaki Yuasa e il suo staff è possibile.

Non sappiamo ancora come questa specie di ufo cinematografico sia atterrato nelle nostre sale italiane, ma perderselo è quasi un delitto: perché una cosa simile difficilmente si è mai vista dalle nostre parti. Ma se il pubblico sarà favorevole non è escluso che altri ufo possano atterrare a breve. Un plauso alla distribuzione italiana, un invito a voi a correre per aggiudicarvi una poltrona nella sala che avete più vicina a casa. Non perdetevelo e godetevelo. 

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