mercoledì 19 dicembre 2018

Il ritorno di Mary Poppins : la nostra recensione!




Riassunto breve: siamo nella Londra della depressione, circa vent'anni dopo gli avvenimenti del primo episodio. Stessa casa al 17 del viale dei ciliegi, abitata ora dal vedovo Michael Banks (il bambino del primo, interpretato oggi da Ben Wishahw) e dalla sua prole. Il buon Michael non paga le rate del prestito bancario per cui il direttore della banca (Colin Firth) decide che quella bella casetta sarà sua. Mancano pochi giorni per poter estinguere il debito e ad aiutare Michael c'è solo sua sorella Jane (Emily Mortimer). In quel momento si alza il vento e una giovane tata si materializza dal cielo. Sembra non essere passato un giorno da quando risolse i problemi dei genitori anche se questa volta ha le sembianze di Emily Blunt e non di Juile Andrews. Ci sarà una canzoncina sui benefici del botox?
Basta un poco di zucchero: La regia di Rob Marshall è quanto di più auspicavo e sospirato per una produzione di questo tipo. Ha girato trasposizioni di musical come Chicago, Nine, Into The Wood, ci ha portato nell'oriente magico di Memorie di una geisha ed è salpato per i mari Disney de I pirati dei Caraibi, il capitolo con Penelope Cruz, cui virtualmente "tornerà" con il film live de La Sirenetta.  E se abbiamo un ottimo regista nelle corde del musical quanto della favola, le musiche di questo Ritorno di Mary Poppins sono di Shaiman e Wittman, che hanno lavorato insieme in Hairspray come anche nelle indiavolate musiche della Famiglia Addams del mai dimenticato Raul Julia, il duo che ha musicato i film di Sister Act


Mary Poppins è da sempre anche animazione e i talenti qui coinvolti sono molti, da Jared Beckstrand che ha lavorato a Hercules, Tarzan, Fantasia 2000 e Pocahontas, a James Baxter, con esperienze in DreamWorks, che vanno da Kung Fu Panda ai Croods, e aveva iniziato proprio in Disney ai tempi della Sirenetta, a Tony bancroft, animatore di Aladdin e regista di Mulan
La passione e la cura di questo team tecnico ha permesso a Mary Poppins di non invecchiare col cambio di attrice e di presentarsi ancora oggi con una storia fresca e nostalgica, molto vicina nei toni all'ultima trasposizione di Winnie The Pooh con McGregor, come all'oggi sempre più lunare Hook - Capitan Uncino. Citazione del passato e cambiamento: le favole sono "il passato" di bambini cresciuti, ma la loro magia non smette ancora di sprigionarsi, se stimolata al momento giusto. C'è quindi ancora l'ammiraglio Boom che vive all'inizio della via in una casa a forma di nave (anche qui cambio di attore). C'è Dick van Dyke che balla e interpreta mr Dawes junior, il proprietario della banca ( Nell'originale interpretava, oltre allo spazzacamino, anche Mr Dawes senior, truccato da anziano). 
Al posto degli spazzacamini ci sono oggi " gli acciarini", delegati ad accendere e spegnere i lampioni della città. Si spostano in bici, sono armati di scala e straccio e sono capitanati da Jack  (Lin Manuel Miranda). Le cose cambiano, ma sono per lo più sfumature, la favola rivive.


È un musical: Allora... Oggettivamente cantano tanto. In due ore siamo siamo oltre i dieci pezzi musicali abbastanza lunghi. La regia però è veloce, quindi in fin dei conti non annoia. Ha un buon ritmo. I brani più belli quella con una sempre brava Meryl Streep (che torna dopo Into the Woods a essere diretta da Marshall) e lo spettacoloso brano centrale, ambientato "all'interno di un vaso" in cui i protagonisti sono affiancati da disegni di animali come lo erano anche in Pomi d'ottone e manici di scopa (a quando il restyling anche di questo? Non vedo l'ora di vedere l'armata della magica Lansbury contro i nazisti!! Passerei con slancio dal Supercallifragilistichespiralidoso al supercallipagicextramotus...) 
Il ritorno di Mary Poppins è un salto indietro nel tempo con buone note di modernità, reso molto piacevole dall'ottima confezione, da una sezione animata davvero ben fatta e adrenalinica, da una Emily Blunt che riesce ad essere il vero effetto speciale del film, un inconsueto e complicato mix di sorrisi dolci e occhiatacce severe / autoritarie. Cura e controllo, come la migliore delle tate da cui vorremmo imparare a essere genitori migliori. La sfida con la Julie Andrews si pone a un certo punto, ma la Blunt riesce a dare una sua versione del personaggio che conquista. 
C'è una cameo tenero di Angela Lansbury sul finale.
In conclusione: Ballano tanto e cantano tanto. L'ho già detto, lo ripeto perché siate sufficientemente pronti, se non siete avvezzi del genere (se poi vi piace, andate di corsa a recuperare). 
Visivamente impeccabile. Colorato, ben caratterizzato, sceglie una messa in scena di matrice molto teatrale, carica di dettagli e coralità, all'interno di sontuose scenografie (musical in arrivo?). Da vedere per tornare un po' bambini e passare insieme un paio di ore con i propri cari.
Gianluca e Talk0 

domenica 16 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody: la nostra recensione



Vita e opera di Freddie Mercury e dei Queen, attraverso un film che interpreta alcuni degli eventi principali in chiave di musical, attingendo direttamente dallo straordinario portfolio musicale della band. Non è una biografia fedele ma una rielaborazione, peraltro approvata dai membri della band, che ci spinge tutti ad andare al cinema per sentire con l'impianto sonoro più grande che possiamo immaginare le canzoni dei Queen, mentre un attore straordinario, Rami Malek, si impossessa della fisicità e intensità dell'indimenticato ed indimenticabile cantante Freddie Mercury. C'è una dolcissima Lucy Boytnon che da corpo e cuore alla sua interpretazione di Mary Austin, donna amata da Freddie per tutta la vita (in tutte le forme che l'amore può conoscere), c'è un carismatico Gwilym Lee che dà una versione cazzuta e convincente dell'astrofisico Brian May. Il resto è nella norma, ma tutto confezionato in modalità extra-lusso, con i colori e ritmo delle produzioni di Brian Singer (regista che qui per divergenze creative è stato sostituito quasi alla fine dal geniale Dexter Fletcher di Eddie the Eagle, ma di cui il tocco non si è perso). Gli ultimi minuti, gli ultimi 30 minuti, sono pura adrenalina e potenza fisica. Rami Malek è lì che dà tutto se stesso e quasi si trasforma nel Rocky di Stallone o nel Mohamed Ali di Will Smith. Recita con il corpo e con le sue protesi dentali, sprigiona sudore e impegno, non lesina in passione e coinvolgimento. È mimesi, passione e resurrezione: la cifra irraggiungibile a cui deve puntare un attore che è chiamato a interpretare un'icona. Una sfida impossibile dalla quale Malek esce a testa altissima, coperto di applausi. 
Appena finita la visione ho avuto la voglia di buttarmi di nuovo in una sala. Appena sono arrivato a casa ho avuto la voglia di tirare fuori il dvd di un famosissimo concerto a cui hanno preso parte i Queen e rivederlo di nuovo, tre volte. 
Forse ci troviamo davanti ad un nuovo genere cinematografico. L'avevo già pensato ai tempi di The Doors di Oliver Stone, lo ripenserò all'uscita di Rocketman di Fletcher (che non a caso ha "completato" questo Bohemian Rhapsody), gli incassi stratosferici al botteghino di questo Bohemian Rhapspdy mi danno fiducia assoluta della mia convinzione. La Musica che diventa "Opera Rock Filmica". Un modo diverso di celebrare la grandezza di un gruppo musicale, che si affianca ai revival, alle tribute band e ovviamente a tutta la produzione originale ben conservata, in triplice copia e su tutti i media possibili. Forse è un'utopia. 
Forse è un'utopia perché, a giudicare dalla rete, è difficile dialogare con i fan che non capiscono la ricchezza di questa nuova "forma di celebrazione".  


Rami Malek è straordinario, ma non sarà mai Freddie. Basta ascoltare gli album e perché non ascoltare direttamente gli album! La storia dei Queen è diversa da questo "spettacolo ispirato agli eventi" (per altro molto diversi nella realtà) di un paio di ore scarse e ci sono tonnellate di documentari meravigliosi e libri ricchissimi di dettagli su ogni aspetto dei Queen! 
Ogni tanto può apparire favolistico, ogni tanto può sembrare semplificato, c'è di sicuro l'intenzione di portare in scena la carica positiva e la forza di volontà di un uomo complesso e unico, non potendo raggiungerlo in quanto irraggiungibile. 
Questo che arriva in sala però più che la storia dei Queen vuole essere appunto un trattamento di "Bohemian Rhapsody" , una visione libera della vita della band in un significato assimilabile al testo della canzone. In scena la vita del gruppo rock dei Queen che "si fa" Bohemian Rhapsody. Una canzone che è un autentico overture di stili e linguaggi musicali, diviene brano-guida e summa espressiva delle molte anime e delle uniche abilità del gruppo, accorpando così a sua volta, nella narrazione "musicata", molte altre delle più importanti canzoni del gruppo (a loro volta geometricamente centrate della personalità  dei diversi membri della band). La vita dei Queen si aggancia poi al Faust di Goethe come parabola della ricerca dell'immortalità, che qui si fa a tutti gli effetti autentica, abito dell'arte del loro frontman Mercury e sua eredità. Un Freddie che rivive, giovane, su schermo, grazie a al corpo di Malek e all'architettura energetica messa in scena da Singer per descriverne la grandiosa e turbinosa esistenza, nonché gli accennati (ma potenti) conflitti interiori. Un Freddie che rivive tutti i giorni mentre intoniamo, magari sotto la doccia, le sue canzoni. Un omaggio sentito, che mi è parso "di cuore" e che pertanto, per quanto patinato, imperfetto, troppo sintetico e celebrativo, ha reso possibile, a me, il piccolo miracolo di assistere a un'intera sala che felice se da un lato teneva il tempo della musica e cantava i ritornelli di ogni canzone (perché sono sempre i Queen), dall'altro si commuoveva per le buone interpretazioni degli interpreti e per la ricercatezza delle ricostruzioni storiche. Persone che magari come me a fine visione hanno tirato fuori i dischi e li hanno sentiti per una settimana o due. Potenza dei Queen. Potenza di una buona messa in scena. 
E questo, lo ripeto, visto il successo è solo un inizio. Malek e Singer sono solo i primi che affrontano Mercury e i Queen. Ne seguiranno altri, che con altre sfaccettature e punti di vista non faranno che arricchire il mito di una delle band più importanti della storia recente.  
Talk0

giovedì 13 dicembre 2018

Amici come prima: la nostra recensione



Cesare (Christian De Sica) è il direttore del Grand Hotel Colombo di Milano, conosce undici lingue e ha ai suoi piedi il mondo fino a quando, un brutto giorno, la proprietaria (Regina Orioli) lo convoca sul terrazzo dell'ultimo piano dell'albergo e lo licenzia. C'è di mezzo una fusione con i capitali cinesi, servono persone più giovani e dinamiche, grazie per il tuo impegno e tanti saluti. Cesare a casa tiene una moglie (Lunetta Savino) spendacciona, una suocera che ha voluto farsi il lifting da poco e un figlio giovane, rapper di belle speranze, con primo disco da produrre, minimo 30 mila euro con 10 da anticipare, con il singolo già pronto dal titolo "like me Silvia" (che sarebbe poi " like me Silvio", con la "o", in quanto lui è in realtà omosessuale ma teme che questo possa essere visto come uno stigma e canta canzoni dedicate a donne che non può amare... aspetto di trama che si poteva approfondire). Cesare sta in bolletta ed è senza lavoro, urge improvvisare qualcosa. La soluzione potrebbe essere il padre della proprietaria, il signor Massimo Colombo (Massimo Boldi), che cerca una badante e offre più di cinquemila euro al mese. In sedia a rotelle, sessuomane e amante delle eccentricità, il Colombo vuole però solo badanti donna. E così, controvoglia (ma si poteva e doveva approfondire) Cesare si traveste da donna, con un look e acconciatura a metà strada tra Crudelia, Paola Marella e Simona Ventura, si carica di seno finto prosperoso preso al pornoshop, scopre di camminare incredibilmente bene e con naturalezza nelle scarpe da donna (ma pure qui si doveva e poteva approfondire) e di proporsi come badante del Colombo.


Scorrono sulle note dell'amarcord gli 83 minuti della nuova pellicola cinepanettone, che riunisce dopo molti anni il duo comico Boldi - De Sica. La regia questa volta è di De Sica stesso e traspare evidente il lavoro di ri-armonizzazione dei tempi comici del duo, l'uso delle modalità migliori di "ricercarsi nelle battute" anche con l'uso dei più amati tormentoni. Il buon De Sica sfoggia il suo repertorio di "Aiutatemi!", "Ma questa è una cafonata!", "Questo strucco mi svacca", " Ettelevidallepalle!!!" mentre cavalca la sua ormai quarantennale versione di Tootsie di Dustin Hoffman. Boldi, con una parrucca in testa che lo fa assomigliare a Takeshi Kitano (oh, ma ci rendiamo conto del potenziale??? Gli vogliamo dare una pistola e un ruolo pulp da killer in un film noir a Boldi?) è un po' un bambinone stile l'Arturo di Dudley Moore e non rinuncia alla sua vena da autobiografia (ama i tamburelli) e alla sua cifra di comico lunare. In un primo frangente sembra che la coppia voglia mettere in scena la sua versione di Quasi Amici e una divertente e malinconica corsa in "semi go-kart" è forse il punto più riuscito del film. Manca forse il coraggio di far piangere, cosa che riesce nelle commedie francesi e si arranca invece a inserire, come in passato, nelle commedie italiane. E qui Neri Parenti mi bacchetterebbe, perché Amici come Prima è come genere, come tutti i cinepanettoni, una farsetta, un componimento leggero da "dopo pranzo di famiglia" fatto per scacciare le malinconie in modo leggero. Però buoni spunti per approfondire i personaggi in chiave non solo macchiettista qui ci sono, seppur tra le righe, e forse un pochino di più doveva e poteva emergere circa il loro rapporto, anche con un paio di minuti di film in più. Quindi "se fosse stato una commedia francese" il tema della solitudine di entrambi i personaggi principali sarebbe emerso ed esploso con la "svolta", che avviene quasi a fine film come presupposto narrativo (e Boldi poteva diventare "matto" dopo quella svolta, acquisendo più spessore). "Se fosse stato una commedia francese" si sarebbe indagato di più sulla naturalezza di De Sica di indossare abiti femminili, sulla relazione non idilliaca con la moglie, sull'accettazione senza riserve della natura del figlio. Però questo non è farsa ma commedia, toccare certi temi fa sì che le maschere diventino troppo diverse rispetto a quanto ce le immagineremmo, perché così ce le siamo immaginate da anni. Anche se, prive della carica sovversiva e scorretta di un tempo (ma quanto erano cattivi i personaggi alla "trivellone?"), prive della gioiosa sessualità che strabordava dai primi film della coppia (perché qui non c'è come ai tempi d'oro una Emanuela Foliero nuda coperta solo di bolle nella vasca da bagno? Che fine hanno fatto le donne nude?), prive del pantheon surreale di personaggi di supporto anarchicamente irresistibili e scureggioni (Casagrande non regge il confronto con i qui dolosamente assenti Enzo Salvi, Biagio Izzo, Ceccherini, i fichi d'india), le maschere storiche di De Sica e Boldi qui sono troppo depotenziate per far deflagrare la risata, ma al contempo troppo trattenute per far evolvere il film in una commedia alla francese. Obiettivo raggiungibile con poco sforzo e che avrebbe elevato il film su un altro piano rispetto agli altri, proponendosi come qualcosa di diverso! 
Insomma. Mi avete tolto le parti scoreggione e con queste se ne sono andati i momenti più gioiosamente matti della farsetta (a parte la classica, immancabile scena del "cambio d'abiti), ed è un peccato mortale. Mi avete tolto la "leggerezza" della figura femminile, anche di stampo erotico, per offrire alle donne dinamiche tragiche e non comiche. Regina Orioli e Lunetta Savino hanno personaggi costruiti in modo così razionale e credibile che sembrano davvero uscite da una commedia alla francese e non da una farsa. Si sente l'assenza ad alleggerire i toni una figura femminile più sbarazzina e stralunata come poteva essere stata in anni passati la Del Bufalo, la Francini o la Chillemi (c'è solo la macchietta sottosfruttata della zia col botox). Oppure la trama poteva rendersi più sfaccettata scegliendo di percorre un paio di vie. Da un lato (perché no?) si poteva ragionare su una "Drag queen" (nel film a un certo punto compaiono pure a un tavolo due possibili drag queen...) che avrebbe potuto insegnare a De Sica a muoversi sui tacchi (sarebbe stato interessante in questa ottica un trainer, se non si voleva prendere di petto lo spinoso argomento della sessualità)... ma poco altro, perché il personaggio di De Sica qui è quasi un santo, ben lontano dalle sue maschere più irriverenti, dotato di un certo realismo. 
Tirando le somme. La coppia si è riformata e come prima uscita ha scelto il terreno sicuro della Greatest Hits/Revival. Se lo hanno fatto i Litfiba, pure qui non ho di massima nulla in contrario e i fan della coppia gradiranno. Se non che, piccolo rimpianto, il film sembra sfiorare/volgere a/propendere verso, senza avere però la volontà di cogliere davvero, una dimensione nuova e che poteva dare nuova prospettiva  al "cinema panettonaro": perché  a questo punto, tolto l'umorismo più ruspante e la sensualità più esibita, costruiti alcuni personaggi pure realistici e con "i piedi per terra", la commedia sofisticata non sembra poi una meta così distante.  
Talk0

lunedì 10 dicembre 2018

Colette : la nostra recensione





Siamo in Francia, agli inizi del '900. Parigi è una calamita per la cultura e l'arte, per le strade si parla di progresso, moda, emancipazione, sessualità. La nostra protagonista (Keira Knightly) è francese, sarà nota come alle cronache (e parecchio gossip) come Sidonie-Gabrielle Colette, come scrittrice, attrice, performer, femminista, ambasciatrice del "gender", musa e voce della rivoluzione sessuale e di costume, divenendo l'incarnazione stessa dello spirito della Belle Epoque. Ma facciamo un passo indietro, quando la nostra eroina era giovane e non abitava proprio a Parigi, ma in una non troppo distante provincia francese coloratamente bucolica e un po' noiosa, nella città di Saint-Sauveur-en-Puisaye. E non sembrava all'epoca neanche un'eroina, quanto la classica ragazzina della porta accanto. È la figlia di un militare che abita in una bella casetta con granaio, ha gli occhi castani, è un po' imbranata, caruccia ma assolutamente nella media, unico segno distintivo estetico di rilievo una massa di capelli lunghi/stopposi/orribili/invadenti girati a trecciolona gigante. Pare una pigotta, la pigotta di una damina del secolo precedente. Lui (perché in tutte le storie arriva a un certo punto un lui) è Henry Gauthier-Villars, per gli amici Willy (Dominic West), per i suoi lettori il "grande Willy", un po' dandy, più maturo di lei, affascinante e sciupa femmine, seduttore e seducente per passione, decisamente moderno. È uno scrittore di talento di Parigi, pure con casa editrice propria, appassionato di del bel vivere, del gioco e della seduzione in tutte le sue forme. Willy vede questa pigotta con trecciolone a casa del suo amico commilitone in Saint-Sauveur-vattelappesca. Scopre che in fondo è un tipo interessante, una che ama scrivere dei raccontini anche con forse del talento e in fondo non è bruttina, così le tira un amo piuttosto economico: le regala una palletta triste con la neve finta con la Tour Eiffel da articoli per turisti. Lei pensa: "Beh, perché no?". E così Willy la seduce, vince un paio di evoluzioni nel granaio, la sposa e la porta a Parigi, dove lui "mentre scrive" continua a giocare ai cavalli e a frequentare ragazze più carine, sputtanandosi pure la casa editrice. Lei, non proprio felice, scopre di non amare poi molto un marito che per indole "scherzosa" per lo più diserta il talamo nuziale e ama scorreggiarle da vicino, ma come ogni donnina pigotta del secolo scorso fa spallucce e tira avanti. 


A un certo punto la creatività che ha reso famoso Willy è in un momento non fantastico, zero incassi. Poi l'illuminazione. Willy prende la pigotta  e le dice: "Ma tu non scrivevi quelle cosine buffe che mi hai fatto leggere ed eri pure bravina? E se ti do una mano? Se coltiviamo insieme una tua nuova coscienza artistica? Tu mi parli delle cose buffe che mi raccontavi che facevi quando eri piccola, cambiamo i nomi e creiamo un libro che anticipa di 100 anni la moda dei social? Che ne pensi?" E lei, un po' sorpresa e un po' motivata, sicuramente incosciente, risponde tranquilla: "Beh, è perché no?". Lui vede che la trappola è tesa e come nei più rinomati corsi di scrittura creativa la butta in una stanza con un block notes e una penna, la chiude a chiave e le dice: "Ora per quattro ore scrivi roba da best seller sulle tue buffe avventure adolescenziali o di qui non esci più". E lei lo fa. Il primo tentativo non soddisfa l'autore. Willy, che è preveggente sulla moda dei social del secolo successivo, sa che ci manca il dato della maialaggine. Il secondo, complici i debitori alla porte di casa, vede Willy collaborare di più a creare il personaggio principale "davvero social". Quindi  di fatto prende la moglie e le istilla dentro più pepe, modernità e umorismo, spregiudicatezza e stile di vita senza freni. E via quel cacchio di trecciolone brutto che pare una pigotta: capello corto a caschetto. Nasce il personaggio letterario di Claudine ed è subito best seller, Claudine a l'ecole, che va così bene che da avvio ad una collana tutta sua e con tanto merchandising che pare Guerre Stellari. La moglie di Willy trova un nome d'arte, "Colette". Il personaggio piace, le piccole donne si immedesimano in lei, nasce un modo di tagliare i capelli alla Claudine, uno shampoo, la linea profumi, i vestiti, i pupazzi. I libri, un po' da retrogrado marito di Mary Shelley, li firma Willy. Perché anche se le storie sono vita vissuta della moglie in fondo è lui l'artista, è lui il proto-influencer, il marketing gira così, le tasse, il pubblico. La moglie abbozza: "Beh, è perché no?" e la vita continua. Ma le cose iniziano a girare in modo imprevedibile. Colette e Claudine iniziano a fondersi tra letteratura e riduzioni teatrali, realtà e finzione. Willy sfoggia in pubblico una moglie che è "troppo ricalcata" sul "suo" personaggio best sellers. La vuole più spregiudicata per appassionare il gossip, in competizione con l'attrice che interpreta Colette a teatro (Aiysha Hart) e lei: "Beh, è perché no?". La vuole oggetto di una storia lesbica (con una bella e disinibita donna altolocata interpretata da  Eleanor Tomlinson) e lei: "Beh, è perché no?". A un certo punto vuole trasformare la cosa in un rapporto a tre e lei:  "Beh, è perché no?" (anche se sulle prime si incazza). La vuole libera di esprimere un pensiero profondamente femminista e lei: "Beh, è perché no?". Willy crede di stare facendo una manipolazione, ma in realtà sta liberando tutti i freni inibitori di Colette, che diviene sempre più consapevole di essere un'artista, di avere molto da dire, di essere lei il vero talento, di amare le donne, in special modo la nobildonna Missy (Denise Gough). Sarà ora che i diritti di sfruttamento delle "Claudine" tornino alla legittima proprietaria?


Tra corsetti e cappellini, strade chiassose e salotti altolocati, Wash Westmoreland, regista del favoloso Still Alice con Julianne Moore, dirige Keira Knightley in una delle prove più complesse e riuscite della sua carriera. Il compito era arduo, il risultato finale nell'economia dell'opera è di rilievo. La Knightley si mette a nudo e rinasce in una delle personalità più complesse e affascinanti della letteratura e arte francese, abbracciando a 360 gradi il suo estro e multiforme ingegno. Una prova non dissimile per intensità dalla trasformazione in Freddie Mercury di Rami Malek nell'ultimo Bohemian Rhapsody di Singer. Anche Dominic West dimostra una complessità interpretativa per lui inedita e insieme la coppia funziona, come funziona anche il "triangolo", con la bellissima e sensuale Tomlinson, come funziona anche il "quadrato" con straordinaria, algida e aristocratica Gough. È un film sulla conquista del ruolo sociale della donna, un film sulla ridefinizione della lotta tra i sessi, un film sulla strabordante forza dell'arte. È un film che funziona anche al di là dell'affresco storico, che spesso si identifica in una sorta di documentario per far conoscere o riscoprire un talento come quello di Colette. Il film di Westmoreland tuttavia è uno "starting point" alla lettura e "cultura" delle opere di Colette, ha un taglio agile che sfoltisce  un certo "documentarismo" della narrazione, ma rinuncia a essere qualcosa di più "vicino" alle opere di Colette. Allora si può forse sognare come questa materia vulcanica, la vita di Colette, che ha il profumo delle migliori chine di Crepax e di Manara, poteva essere maneggiata da un Cronenberg, un Verhoeven, un Almodovar, un Jordan, un Fellini o, perché no, un Brass. Cosa avrebbero fatto le sorelle Wachowski? E Ryan Murphy? Come avrebbe lavorato sugli sguardi e pose ipnotiche della performer Colette (ho in mente la parte del teatro di cui si fa un veloce accenno nella pellicola), ancora vive in rari filmati d'epoca, una mano come quella di Lynch? Vorremmo "averne di più" del mondo elegante e per ora solo qui "sbirciato" di Colette, perché a livello epidemico lo riconosciamo, il suo fascino ci ha già attraversato per anni, grazie alle mille influenze che ha generato nel cinema e delle arti. Valentina di Crepax viene da lì, le pose di Betty Page vengono da lì, molta della passione per il trasgressivo e al contempo per la ridefinizione del gender, argomento modernissimo, viene da lì, pure la pulsione e possibilità di fare della propria vita una "forma d'arte", viene da lì. Ne vogliamo ancora. Ma questo "primo assaggio", con una Knightley mai in passato così tanto convincente e sensuale, ha saputo già conquistarci e farci sognare. 
Talk0

venerdì 7 dicembre 2018

Avengers: Endgame e Captain Marvel - a sorpresa l'hype per il Marvel Cinematic Universe si riaccende con due trailer pubblicati a poche ore di distanza uno dall'altro



Da appassionati di supereroi ci aspettavamo di rimanere a bocca asciutta sulle novità Marvel - Disney almeno fino all'inizio del 2019, con la prospettiva di un periodo di feste che per Disney, tra Mary Poppins e niente film di Star Wars, con un Ralph Spacca Internet spostato a inizio  anno, sembrava più interessarsi alle bambine e alle loro mamme piuttosto che al pubblico dei "maschietti". Invece Disney ha deciso di divulgare queste due succose anteprime con cui potremo trastullarci a fantasticare per il prossimo mesetto. 
Il Focus è ovviamente il finale di Avengers: Infinity War e i "mattoncini cinematografici" che ci portano dritti al suo seguito, in uscita alla fine di aprile.
Ormai è storia lo "snap", lo schiocco di dita con cui il terribile e potentissimo Thanos (un imponente e bravo Josh Brolin, in un anno particolarmente fortunato della sua carretta) sconfiggeva tutti i supereroi della Terra e faceva scomparire metà degli esseri viventi di tutta la galassia. Da lì ripartiamo, con questo viaggio multi-filmico con alle spalle già la bellezza di 10 anni e una ventina di pellicole. 
Ripartiamo da Ant-Man and The Wasp (la nostra recensione più indietro nel blog, clicca qui), pellicola che ha una parte finale concomitante con Infinity War ed è da pochissimo disponibile in una sgargiante versione home video,  più o meno presso ogni dove (pure da Esselunga, con tanti bei punti fragola). Il supereroe microscopico e il suo team (tra cui un Michael Douglas e una Michelle Pfeiffer in ottima forma), assenti nell'ultima pellicola degli Avengers in quanto "impegnati in altri luoghi", hanno nell'ultimo film avuto un'esperienza molto particolare nel cosiddetto "reame quantico", una sorta di micro-mondo-parallelo che potrebbe giocare un qualche ruolo nel combattere e contrastare i piani di Thanos. 
Attendiamo per marzo anche l'arrivo nelle sale di Captain Marvel (ne abbiamo parlato anche qui in occasione del primo trailer, clicca qui!), supereroina (interpretata dalla bellissima Brie Larson) anche lei assente durante gli eventi di Infinity War, ma della cui importanza e potenza sembra essere stra-convinto Nick Fury (Samuel L. Jackson). Nel nuovo film, diretto da Anna Boden e Ryan Fleck, impareremo a conoscerla e a capire i motivi per cui un personaggio così potente è rimasto finora nell'ombra. E per rispondere in parte a queste domande Disney ha martedì reso noto questo nuovo trailer in italiano.



È una origin story, è ambientata ai tempi in cui c'erano ancora i Blockbuster (bei tempi!!!), Nick Fury aveva ancora due occhi. Ma quando è giovanile qui il buon Jackson? E gli piacciono pure i gattini!! Tra le righe si dice qualcosa sul passato di Captain Marvel, che sembra misterioso, "riscritto/cancellato mentalmente", legato a un addestramento militare quasi spartano (con uniformi da combattimento con tanto di "elmo con criniera", che ricorda gli elmi greci se non per una complicata messa in piega dei capelli/criniera che non so quanto costi ogni volta il trattamento dal parrucchiere). Si mette in luce il suo legame con la razza dei Kree, la stessa di Ronan l'accusatore e Korath, antagonisti dei Guardiani della Galassia nel loro primo film, sempre interpretati qui nel film su Captain Marvel, probabilmente per eventi antecedenti all'avventura di Star Lord e soci, da Lee Pace e Djimon Hounson. Si parla dei suoi nemici giurati, gli Skrull, una razza di infidi alieni mutaforma che nel trailer non hanno problemi a travestirsi da terribili vecchiette sull'autobus. E io l'ho sempre saputo!! Milano è piena di vecchiette Skrull!!  E dopo averci sollazzati di effetti visivi e alieni colorati, prima di farci vedere quanto piacciono a Nick Fury i gattini, il trailer ci regala una Captain Marvel a piena potenza, con criniera luminescente stile Goku (potremmo forse parlare della trasformazione in "Binary", ma aspettiamo la pellicola per conferme) che vola e spara dai pugni bande cosmiche nello spazio più dirompente di un X-Wing e più esaltante e potente di Visione nel suo periodo pre-innamoramento. Galattico. 
Se sappiamo quindi che Ant-Man e compagna e team allargato (Paul Rudd ed Evangeline Lilly, più Douglass, Pfeiffer ecc.) saranno della partita, se immaginiamo che a un certo punto anche Captain Marvel arriverà in scena a fare la sua parte, come hanno vissuto gli eroi della Terra la sconfitta e il "dopo snap" di Thanos. Qualcosa ci rivela il nuovo trailer uscito oggi.


Tira aria pesante tra le prime scene del prossimo film dei fratelli Russo in uscita a maggio nelle sale.
Iron-Man (Robert Downey Jr) è lontano da casa, alla deriva nello spazio, Thor (Chris Hemsworth) è tutto incazzato e sotto la pioggia, Banner (Mark Ruffalo) conta i morti su un proiettore olografico e Captain America, che si è rasato la barba nonostante l'apprezzamento per il nuovo look, guarda triste la foto del suo vecchio amore ormai scomparso, Peggy Carter (Hayley Atwell), nascosta sulla sua bussola. Rivediamo Clint Barton (Jeremy Renner), grande assente in Avengers: Infinity War. Ma non ha il costume e l'arco di Occhio di Falco, quanto il nero e vendicativo outfit del "ninja" Ronin. Che lo "snap " abbia colpito anche la sua famiglia, facendolo diventare un eroe disilluso e dal volto coperto (gli è comunque andata meglio che in Ultimates, dove dopo un momento ugualmente tragico iniziava ad assumere gli atteggiamenti e modi di un certo Bullseye). La vedova nera (Scarlet Johansson), ancora bionda, decide che è il momento di fare qualcosa e alla porta dei vendicatori "suona" proprio Lang, il piccolo Ant-Man. Nebula (Karen Gillian) sfiora desolata qualcosa che forse ha a che fare con gli scomparsi guardiani. Thanos intanto è ancora felice tra le montagne di un pianeta tipo il Trentino, a sfiorare spighe di grano come il nonno di Heidi. Cosa succederà? 
Iniziano a pensarci su, magari a sfogliare i fumetti, magari a "ripassare" i vecchi film. Sembra che con Avengers: Endgame arriveremo alla fine di un viaggio, durato già dieci anni, che ci ha portato a tornare bambini. Ci saranno altri viaggi e altre possibilità future per il genere supereroistico, così come prima di Marvel/Disney ci sono state ottime produzioni, ma questa è stata davvero la prima volta che abbiamo visto 20 pellicole così legate tra loro e pure intimamente appartenenti a generi diversi. Siamo passati dallo spy- movie (Captain America Winter Soldier) alla fantascienza "in salsa Lucas" (I guardiani della galassia), dalla commedia natalizia (Iron Man 3) al film sul paranormale (Doctor Strange), dalla metafora politica (Black Panther) al "film di rapine" (Ant-Man), dalla tragedia epica (Thor) al War movie (Captain America), dal film sull'adolescenza (Spider-Man) al film sul possibile "cambiamento di vita" dopo l'età adulta (Iron-Man). Tutti film che divengono connessi, incastrati e in simbiosi tra loro nelle esaltati, divertenti e "liberatorie" Battle Royale della serie Avengers. Non so cosa ci riserverà il futuro, ma è stato un bel viaggio e di sicuro a fine aprile starò in sala fino alla fine dei titoli di coda. Una traduzione virtuosa che premia i realizzatori di un'opera e che prima di Marvel/Disney sembrava una pratica poco ortodossa. 
Talk0

martedì 4 dicembre 2018

A private war - la nostra recensione



Rosamund Pike interpreta sullo schermo la leggendaria Marie Colvin, in una pellicola che espande quanto contenuto nel celebre articolo uscito su Vanity Fair dal titolo  "Marie Colvin's private war". La Colvin è una donna che ha trascorso tutta la sua vita come reporter di guerra. Sempre in prima linea, sempre dalla parte e a difesa delle popolazioni civili che si trovano a vivere sotto i bombardamenti. Una eroina e una martire civile di cui si dovrebbe parlare sui libri di storia moderna, una donna che con la forza dell'informazione ha portato nelle case delle tranquille e spesso indifferenti famiglie occidentali gli orrori di guerre che esistono ancora. La Colvin ha cercato di "svegliare" gli animi e molti operatori di pace che ancora oggi partono per aiutare le popolazioni vittime dei conflitti bellici si sono formati anche con i lavori della Colvin. Ma che ne è del lavoro e impegno della Colvin, se alcune persone al solo "parlare di guerra" chiudono le orecchie e gli occhi come se la cosa non li riguardasse? Come se il fatto di "non vedere le cose brutte" permetta a certe persone di non preoccuparsi e vivere sereni? Capita che il giornalista viene creduto un pazzo, alla stregua di un mitomane autodistruttivo che "gode" nel mostrarci lo sporco del mondo pur di farci "sentire in colpa" e apparire lei "migliore di noi". C'è una frase molto eloquente di una canzone di Jovanotti (Salvami), dedicata a una giornalista di guerra molto simile alla Colvin, al punto da essere simile negli atteggiamenti e nella scrittura.




Entrambe tabagiste incallite, entrambe esili, entrambe con la forza di mettere il fuoco nelle parole. Il Cherubini dedica alla Fallaci la frase: "la giornalista - scrittrice che ama la guerra, perché le ricorda quando era giovane e bella". Ed è questa l'esatta misura di tutti quelli che vedono i reporter e dicono "ma chi te lo fa fare?", "ma chissenefrega delle cose che accadono in quel paese medioevale, perché ci vai?". La pellicola, in un modo che può essere anche sgradevole, cerca di dare corpo anche a questa prospettiva. La Colvin "interpretata dalla Pike" è una donna rovinata dalla guerra che in qualche modo non riesce a sentirsi viva se non tra i proiettili di un conflitto. È una donna ferita e sfigurata dalla guerra che in una scena contempla il suo corpo mutato (lo Tsukamoto di Tetsuo ci andrebbe a nozze, ma anche il Cronenberg di Crash), si specchia riconoscendo la sua "nuova forma" come Tilda Swinton in Orlando di Sally Potter.  È una donna che vive una sensualità clandestina come medicina e rifugio dalle immagini di morte che circondano la sua esistenza. C'è una decadente bellezza che in qualche modo si sposa alla follia bellica, resa splendidamente luccicante e suggestiva  dalla fotografia di un "mostro" come Robert Richardson. Solo che la Colvin non era "solo questo". La scelta del "taglio da dare alla pellicola", mettendo al centro una eroina non inferiore alla Ripley di Alien, non ci parla del lato più umano della Colvin, del suo essere in prima linea "con i deboli e sotto le bombe". Alla ricerca di un'immagine forte quanto la forza della penna della reale Colvin, qualcosa si è perso nel passaggio, al punto che per alcuni spettatori la Pike (forse in una delle sue prove più convincenti e sofferte) rischia davvero di stare antipatica, vanificando un po' la corretta immagine di questa professionista generosa e solitaria. Insomma, "c'è dell'altro" e se la pellicola vi colpirà vi invito a documentarvi su Marie Colvin, magari partendo dal libro autobiografico di Matthew Heineman (peraltro "personaggio attivo" nella vicenda) che ha comunque contribuito come fonte alla riduzione cinematografica. Matthew Heineman è un regista che viene dai documentari e la sua passione per l'esattezza e precisione nella messa in scena traspare in ogni inquadratura. Il suo film, sulla spinta dei conflitti bellici cui ha partecipato la Colvin come giornalista, è uno dei più poderosi vademecum visivi delle guerre degli ultimi anni e non risparmia nulla, in termini di brutalità ed efferatezze visive, pur di seguire un ricercato realismo storico. Il film che ne esce è potente e duro come un pugno allo stomaco. Se l'intento era sparare in faccia la brutalità della guerra e al contempo far riflettere quanto a molti di noi "gli importi poco", l'obiettivo è raggiunto e molti capiranno alcuni dei motivi per cui la vita di Marie Colvin è importante è preziosa. 
A private war apre gli squarci di medioevo più dolorosi e spesso rilegati a "informazioni sommarie dei corrispondenti dall'estero" della storia presente. Ci mette davanti le guerre moderne che i telegiornali ci hanno fatto vedere il meno possibile e che noi non abbiamo voluto vedere "cambiando canale" prima della "pagina estera". Del resto sono argomenti che non ci riguardano, vero?  
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martedì 27 novembre 2018

Il re leone - il trailer già campione di visualizzazioni in rete






Questo sono io che cerco di replicare la scena del trailer che avete appena visto o che avete visto già un milione di volte da quando ha iniziato a imperversare in rete. Ero a Londra, un paio di anni fa ormai, ad assistere proprio al musical tratto da The Lion King presso il Lyceum Theatre, diretto da Julie Taymor. Magnifico. Tutto magnifico, tranne il mio sguardo da fesso un po' troppo cresciuto, che guarda un pupazzo come fosse la cosa più bella del mondo. Il Re Leone è in casa mia qualcosa di più di una istituzione. È la pellicola Disney più gettonata durante il periodo delle feste, ha una colonna sonora fantastica, che ci ha accompagnato praticamente ovunque, per oltre vent'anni all'interno dell'autoradio della macchina di famiglia, sia nella versione italiana che in quella internazionale. Di Hakuna Matata era obbligatorio conoscere tutte le parole. A memoria, soprattutto nelle giornate di pioggia. Un altro film stabilmente visto e rivisto con piacere sotto le feste è Il principe cerca moglie di John Landis con Eddie Murphy, in pratica una versione di Black Panther senza le tute potenziate. Anche lì come ne Il Re Leone (e in Guerre Stellari in versione originale, misteriosamente da noi in famiglia "film natalizio" pure lui) il padre del protagonista aveva la voce calda e potente  di James Earl Jones. 


Credo che la mia espressione sia stata la stessa, un po' da fesso, che vedete qui sopra, quando mi sono avvicinato la prima volta al trailer del nuovo film Disney diretto, come il nuovo Il libro della giungla, da Jon Favreau. Anche qui James Earl Jones è di nuovo il padre del protagonista, risentirlo con la sua voce, sempre calda e potente, mi fa sentire a casa sotto le feste, anche in questo acquoso e grigiastro mese di novembre. 
Il cast è ricco ed è molta la curiosità, ma in casa qualcuno avanza dubbi sul fatto che Beyoncé possa scavalcare nella memoria Ivana Spagna. Donald Glover, che dà voce a Simba (sostituendo Matthew Broderick), mi è ancora impresso, nella memoria recente come l'interprete più riuscito di Solo - A Star Wars Story, ossia Il giovane Lando (e quindi un nuovo strano legame tra Il Re Leone e Star Wars entra in essere, anche se non passa per Earl Jones!). A interpretare Scar, il "cattivo", è invece Chiwetel Ejiofor, che avrà il non facile compito di sostituire il grande Jeremy Irons. Seth Rogen sembra nato per interpretare il facocero Pumbaa, credo che la sua carriera di attore comico sia stata dedicata quasi integralmente alla preparazione più accurata e professionale di questo personaggio, spero che gli Academy Awards ne tengano conto. Favreau con Il libro della giungla è per me riuscito quasi a migliorare uno dei classici Disney più amati. La sfida qui se vogliamo è per me ancora più difficile, quasi da far tremare le mani. Ma se il film saprà sprigionare la magia e armonia delle scene riportate in questo trailer, sarà di sicuro uno spettacolo imperdibile. Non vedo l'ora di essere in sala. Forse mi porterò dietro il pupazzo. 
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venerdì 23 novembre 2018

Il vizio della speranza : la nostra recensione del nuovo film scritto e diretto da Edoardo De Angelis



Maria (Pina Turco, anche moglie del regista), una giovane donna dall'aria sofferente e dallo sguardo basso e arrabbiato, vive per lo più galleggiando sulla poppa di una barca insieme al suo cane, dalle parti del Volturno. Trasporta al di là del fiume le prostitute straniere nel cui corpo galleggiano piccoli feti di cui vogliono presto sbarazzarsi, in cambio di denaro. Le trasporta anche con il maltempo e in una certa misura sembra che anche il cielo pianga questo continuo abbandono. Il traffico si replica ogni giorno come la monotona, spietata e precisa costanza dell'attività corporale di un unico organismo. Il Volturno, con le sue correnti,  espelle "il futuro dimenticabile" di queste donne, i loro "nuovi nati" per poi riportarle a battere sulla strada, dall'altra parte del fiume. Questo flusso di anime, che a sua volte diviene flusso di soldi, viene gestito e sovrinteso da un'altra donna di nome Maria. Anziana, scontenta, delusa dalla vita e carica di gioielli, vive al di là dell'altra sponda del fiume, dove ha sede, tra le baracche adiacenti e un lurido maneggio per cavalli, un'improvvisata nursery fatta di camerette fatiscenti, fango e sbarre. Questa seconda Maria, chiamata da tutti "la zia" (Marina Confalone), è ammaliante come una strega,  paga bene e in fondo è lei la donna che permette il "vero futuro". In un mondo dove non esistono prospettive e i figli finiscono per essere buttati via, quegli stessi bambini giungono grazie alla zia nelle mani di famiglie per bene, che non possono avere figli, ma li vogliono per davvero. Gente che paga. E tutti sono felici, dopo quel piccolo viaggio di abbandono sul fiume. O almeno forse è così. La ragazza "traghettatrice" ha affari con la Zia, è sul libro paga. Affari grossi e una madre problematica che, a suo modo, vive anch'ella nell'acqua, in un mondo tutto suo, dissociata, perennemente nella vasca del bagno di casa, a mollo per lunghe ore, finendo spesso con l'addormentarsi, come cullata nel liquido amniotico. Poi tutto cambia.  Maria decide di alzare la testa, rompendo l'equilibrio monotono, quotidiano e tragico del viaggio dei bambini sul fiume. Le si insinua dentro lo strano vizio che le cose possano andare diversamente. Inizia a sperare, almeno per un bambino, un futuro diverso.  


Dopo Indivisibili De Angelis ci porta di nuovo in un sud Italia sinistro e medioevale, tra luoghi naturali maestosi quanto contaminati da una umanità malata che vive e sopravvive, assiepata e brulicante,  tra sporco e macerie. Un luogo dove si confondono vecchi e nuovi poveri, dove nell'aria echeggiano musiche (sempre opera del sodale Enzo Avitabile) che mischiano il neomelodico con ritmi africani ed arabeggianti, in una suggestione multiculturale quasi tribale che dà voce ai sentimenti di protagonisti per lo più muti, schiacciati nella loro condizione umana. Il Volturno assume l'aspetto di un crudele e ineluttabile regno acquatico che con forza sospinge e travolge, all'infinito, ciclicamente, le vite delle persone che cercano di vivere alle sue sponde, tra le macerie (vere macerie, quando la storia umana crea le condizioni più inverosimili!!) di una città dimenticata tra abusivismo edilizio e opere non terminate. Uno scenario reale ma che sembra il Mare Marcio di Miyazaki, un set da Mad Max già pronto che non richiede effetti speciali, che tramortisce per la forza, lo sporco e la crudele bellezza del Volturno e dei suoi luoghi limitrofi. Un luogo che potrebbe essere scenario di una favola di Giambattista Basile e che in parte lo è, laddove De Angelis sceglie per il suo racconto la sintesi e geometricità dell'intreccio, pescando ad ampie mani dal sacro, come del resto fece per Inseparabili. C'è magari un richiamo alla "cosmogonia di Dario Argento" (sempre più vivo in questo periodo con il remake di lusso di Suspiria) in queste tre donne che vivono sull'acqua (lasciamo ai tecnici le citazioni dantesche). Una Mater Suspiriorum, che sospinge donne disparate che devono abbandonare i loro figli oltre il fiume. Una Mater Lacrimarum che vive nella sua vasca a mollo nelle sue lacrime. Una Mater Tenebrarum spietata che abita oltre il fiume. C'è probabilmente una ricercata valenza simbolica (creazione e distruzione), un "legame", tra tutte le "forme d'acqua" descritte e visitate da De Angelis. L'isola di Kim Ki-duk sembra altresì un referente visivo chiaro quanto un metronomo dell'azione molto presente. C'è anche un libro, sempre scritto da De Angelis, che esce in concomitanza col film, approfondisce e ci porta in luoghi nuovi, con ampio tributo autobiografico del regista. Un compendio interessante per completare il "viaggio" di questo film a cavallo della favola, ma che sa pescare in quello che in fondo è il volto più oscuro del cinema realista. La storia è tragica e i personaggi trasudano di dolore e speranze infrante, in scena è spesso presente un coro greco di donne mute. Se si va oltre una scorza così ruvida e malevola il film di De Angelis sa però aprirsi a una dimensione nuova, complessa e "titanicamente" positiva. Una dimensione che permette alla pellicola di colpirci al cuore oltre che a cullarci di immagini forti. Una dimensione che ha la voce, il carattere e la fisicità esile ma potente di Pina Turco. Qui quasi una Gong Li per il suo Zhang Yimou o, se preferite, una Linda Hamilton per James Cameron. Una donna combattente che rimarrà impressa anche a fine visione. 
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mercoledì 21 novembre 2018

Overlord - la nostra recensione di un film con potenziale ma un po' moscio



- Sinossi fatta male: seconda guerra mondiale. Aerei in fiamme con dentro gente che vomita e precipita tra mitragliate letali, fuoco e paracaduti che non si aprono. In mezzo a tutto, lo spaurito Boyce (quel bravo ragazzo simpatico di Jovan Adepo) e il cazzuto Ford (uno Jena Plisskin wannabe convinto, fuoriuscito secondo un procedimento di "scienza esatta" dall'attore Wyatt Russell... che di fatto faceva già un piccolo ruolo da ragazzino orfano in Fuga da Los Angeles a inizio carriera e l'anno dopo interpretava proprio Kurt Russell da piccolo in Soldier e in fondo ci è nato proprio da Kurt Russell, perché è il figlio di Russell e Goldie Hawn!! Più scientificamente Kurt Russell di così...). I due, insieme ad altri tre tizi, sono tutto quello che rimane di una unità di assaltatori che avrebbero dovuto dopo l'atterraggio tirare giù una torre radio al centro di una piccola cittadina sinistra frequentata da gente oscura e strana stile Resisent Evil 4. L'orologio corre e la mega storica gita in Normandia delle truppe americane deve partire, bisogna improvvisare. Ripresi dalla brutta caduta i nostri si accorgono di essere effettivamente in una piccola cittadina sinistra frequentata da gente oscura e strana stile Resisent Evil 4, con l'aggiunta di nazi folli, stranamente invulnerabili e deformi provenienti da altri videogame e film stile Wolfenstein, Frankenstein Army, Dead Snow e roba così. C'è una specie di sostanza nera che scorre sotto il paesino e da strabilianti poteri curativi/rigenerativi, ci sono scienziati nazi che fanno esprimenti sulla cittadinanza locale, ci sono nazi cattivi che un po' puntano a sedurre con il fascino superomistico le contadine (come la bellissima e fragile Mathilde Ollivier) e un po' sparano a tutti a caso (Pilou Asbaek). Così la missione di sabotaggio si trasforma presto in una caccia al mostro condita di tante pallottole da sparare in testa ai soldati nazisti, da sempre il "cattivo da film" più "amato da odiare" dopo Darth Vader. 


- E poi non c'è altro, purtroppo: perché, maledizione, non c'è davvero altro. Il film ha una partenza a trecento all'ora che sembra il sogno bagnato di ogni videogiocatore medio di Call of Duty, ha scene ideali nate per appagare il videogiocatore medio di Wolfenstein e Resident Evil, ma si perde a girare su se stesso, per un mare di tempo, per lo più per via in una trama che riesce nel difficile compito di non approfondire manco per sbaglio i rapporti tra i personaggi, così come riesce a gestire  in modo confusionario una sequenza di azioni che sembrerebbero già chiarissime prima ancora di leggerle sulla sceneggiatura. Il regista Julius Avery è come un bambino che al parco giochi, davanti alla indecisione di salire sulle montagne russe o entrare nella casa degli orrori, si mette a leggere il bugiardino delle Zigulì per due ore. Avery sente la tensione spontanea verso il divertimento e una azione matta degna di un Planet Terror di Rodriguez, ma al contempo vorrebbe girare Inglorious Basterds e avendo a disposizione un Wyatt Russell "così tanto Kurt Russell" ha pure voglia di girare un po' di roba stile La cosa o comunque di citare "per conseguenza logico/tematica" il Carpenter dalle parti di Distretto 13, Fantasmi da Marte, Fuga da Los Angeles e pure perché no con un tocco di Grosso Guaio a Chinatown. E visto che una cosa contraddice l'altra, visto che non puoi essere action e introspettivo e Horror e divertente tutto insieme (se non sei appunto Carpenter o James Cameron), te lo vedi proprio Avery lì, sul set, inebetito, nel leggere il bugiardino delle Zigulì, mentre in resto del cast monta scene e corre a destra a sinistra seguendo la scaletta delle riprese. 
- In conclusione: una volta si ventilava che questo Overlord fosse legato al franchise di Cloverfield (la produzione è di J.J.Abrams) e in effetti che la pellicola non esploda in un crescendo hellzapoppin fatto di nazisti zombie, alieni, mostri giganti e realtà parallele è un peccato. A prenderlo come una specie di prequel apocrifo della saga di Resident Evil, il film di sicuro funziona, tutto sommato a vederlo ci si diverte. Il comparto artistico e tecnico è ragguardevole e riesce spesso a coprire il grottesco immobilismo e mancanza di slancio della regia. Belli i mostri, bello lo splatter, personaggi comunque divertenti e un cattivo piuttosto solido. Di sicuro è un film che invoglia a una seconda visione, anche solo per godere dell'ampio minutaggio dedicato alle scene action e alla messa in scena "cattiva quanto basta". Ma con un budget simile Carpenter ne girava dieci di film action b-movie, probabilmente tutti superiori a questo. Altri tempi e altri registi. Se volete ad ogni modo sfoggiare Overlord per una serata tra amici, tre birrette e rutto libero, al cinema o quando sarà in home video, un po' di divertimento la pellicola di Avery saprà donarvelo. Per il prossimo film però togliete le Zigulì dalle mani di quest'uomo. 
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giovedì 8 novembre 2018

Gungrave Gore - in arrivo per il 2019



Qualche tempo fa (il luglio del 2002) Sega, in collaborazione con il mangaka Yasuhiro "Trigun" Nightow portò sulle PlayStation 2 un assurdo videogioco sparatutto realizzato da Red Entertainment (che ricordo soprattutto per il per me bellissimo Blood will tell, videogame sempre per ps2, realizzato qualche tempo dopo, tratto dal manga Dororo di Tezuka). Parliamo ovviamente di Gungrave.


Realizzato in grafica cell shading per renderlo più simile ad un anime, arricchito di una struggente musica jazz e ambientato in un futuro hardboiled con elementi neo-noir, Gungrave era uno sparatutto in terza persona che ci metteva nei panni di un misterioso omone armato pesantemente, che portava costantemente con sé (come nello storico western Django) una bara. I'ingombrante feretro, pesante ed eccentrico (opera come tutto il mecha design di un altro nome illustre tra i mangaka, Kosuke "Oh mia Dea/Tales of" Fujishima), era legato alle braccia stesse del protagonista ed era in grado di cambiare il suo aspetto in una combinazione infinita di armi pesanti, similmente alla leggendaria croce del reverendo Wolfwood di Trigun. Ma il nostro oscuro eroe, conosciuto come Beyold the Grave, la teneva solo come extra, prediligendo farsi strada, tra montagne di gangster futuribili, robot da combattimento e una casta di vampiri, dando voce alle sue due enormi pistole. Grave è un non-morto, una specie di mostro di Frankenstein muto, tragico e letale. Per portare a compimento l'inevitabile sterminio che un gioco action a base di tanti proiettili impone, seguendo una trama che lo porterà a scontrarsi con figure legate al suo oscuro passato, Grave viene collegato periodicamente da uno scienziato a un macchinario che gli trasfonde grosse quantità di sangue. Giocare nei panni di Grave permette di assaporare l'onnipotenza, la tragicità e la bellezza di un personaggio unico, ma questo non rende il gioco un titolo perfetto, anzi. Grave è "troppo grosso", al punto che il suo personaggio di spalle + bara copre i tre quarti dello schermo di gioco. Grave è "troppo potente" e se si cerca una sfida il gioco risulta molto facile anche nei livelli di difficoltà più elevati. I livelli sono "troppo simili",  pur contando su alcuni guizzi davvero felici (che me lo fanno paragonare alle opere di Susa 51), la trama è "troppo breve". In genere c'è di molto meglio in giro per i videogame action e Red non è il top degli sviluppatori quanto un onesto e volenteroso team di pochi membri. Però l'intero gioco trasuda carisma e se preso nel modo giusto sa farsi amare. Il blasonato studio di animazione Mad House, non a caso uno degli sviluppatori di alcune puntate di Cowboy Bebop, non si lascia certo perdere il fascino di Beyond The Grave e del suo mondo. E così nasce un anime da paura, che è una vera tragedia non sia mai arrivato in italiano.



La trama dell'anima è più hard-boiled e molte delle derive steampunk  "alla Batman di  Tim Burton" del videogioco originale vengono accantonate in ragione di un contesto più concreto e tragico. Ma lo spirito è ancora quello, la realizzazione ottima e la storia avvincente. Non passa troppo tempo e arriva un nuovo capitolo del videogame, sempre targato Red.


Questa volta il nostro eroe è accompagnato nelle scorribande da una sua banda di Mariachi (ogni riferimento alla trilogia western moderna di Robert Rodriguez è assolutamente voluto). I livelli sono più vasti e ragionati, il divertimento è sempre presente, ma tutte le amabili imperfezioni che rendevano unico il primo gioco sono sparite. Gungrave Overdose è imprescindibile per i fan ma allo stesso tempo una delusione che di fatto affossa il piccolo brand. Ci sono meno scene animate evocative, si sente di trovarsi tra livelli spogli, anche se la formula e il budget impiegato sarà probabilmente lo stesso. La danza delle pistole ipnotizza come sempre i fan di Equilibrium (altra citazione voluta), ma il corpo lento e pesante di Grave appare "troppo piccolo". Gungrave chiude. 


Qualcosa è però rimasto nei sogni di una silenziosa comunità di videogiocatori che hanno adorato il primo piccolo ed imperfettissimo capitolo. Qualcuno aspettava un ritorno del pistolero con la bara. Ogni tanto ci rigioco a dispetto delle animazioni legnose, della scarsa interazione di gioco, dell'approssimazione dei comandi. Per me è uno dei titolo che riescono ancora oggi a trascinarmi di peso in un anime, come Asura Wrath, Killer is dead e Killer 7. Tutti titoli imperfetti (per questo non ho citato cose come Zone of The Enders second runner, che gli sta diverse spanne sopra), ma che rigioco come "riguardando un anime". Così ho fatto i salti quando un annetto fa sono iniziati i lavori di non uno, ma due Gungrave. Un titolo è per i visori vr e di lui per ora non mi interesso (forse i vr di prossima generazione...). L'altro è Gungrave Gore, ed è a tutti gli effetti il nuovo capitolo.



Sembra che presto, intorno all'inverno 2019, tornerò a impersonale il buon Grave su ps4.  La storia è ovviamente ancora blindata, il timore di un titolo non epocale è palpabile e giustificato da un Gungrave Overdose così così. Ma il fascino c'è tutto ed è ancora intatto e la produzione sembra promettere un lavoro di classe, benedetto da un alto budget. Se fosse uscito un capito 3 di Gungrave per la ps3 mi sarei immaginato meccaniche alla Gear of War o un ritmo di gioco indiavolato alla Vanquish. Certo aspettative altissime per il Red studio, ma qualcosa di "similare" mi avrebbe per lo meno fatto felice. Oggi incrocio le dita più che posso e non vedo l'ora di sapere di più di questo Gungrave Gore. Se saranno guilty pleasure fioriranno (tanto anche se sarà una ciofeca so che vorrò prenderlo), ma se la saga godrà di un primo, vero, titolo tripla A non vedo l'ora di esultare. 
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