martedì 29 giugno 2021

A quiet place II - il nuovo capitolo della sorprendente saga action-thriller-sci-fi diretta da John Krasinski, ora al cinema

 



Sono arrivati gli alieni e in breve tempo hanno invaso la Terra. Sembrano essere ciechi, ma sono veloci e letali. Assomigliano a dei ragni di tre metri che si muovono veloci come pantere. Sono molto resistenti ai colpi di arma da fuoco in quanto coperti da una spessa corazza, con un solo colpo dei loro artigli possono uccidere. Che sia giorno o notte, stanno sempre vigili, in agguato nell’ombra, assalgono le loro vittime spesso muovendosi in branco, quando sentono come segno della loro presenza anche il più piccolo rumore e il mondo, per sopravvivere, è diventato un “posto silenzioso”. I pochi sopravvissuti vivono in luoghi isolati, camminano a piedi scalzi per non fare rumori, comunicano attraverso segnali visivi. Da quando è iniziata l’invasione e l’umanità si è sottomessa al ruolo di “preda”, ben poco è rimasto per sognare di un futuro. Fino a che da una piccola famiglia americana, gli Abbott, al cui interno ci sono dei bambini sordi, è arrivato un barlume di speranza. L’impianto acustico per i non udenti, se potenziato con onde radio, riesce a emettere un suono in grado di far impazzire gli invasori, immobilizzarli e aprire di riflesso parte della corazza che protegge la loro testa. Da lì, con una mazza da baseball, è possibile abbatterli. Ma come comunicare agli altri la scoperta? Dove trovare pile, proiettili e tutto quanto occorre per sopravvivere, in un mondo pieno di mostri e predoni? Per di più nella piccola famiglia guidata dalla signora Abbott (Emily Blunt), che di recente ha perso due dei suoi membri, ora sta accudendo una bambina in fasce, che deve essere trasportata in una scatola anti-rumore provvista di bombole di ossigeno. È un momento duro, ma forse un amico del passato (Cillain Murphy) potrebbe tornare e forse una radio, una emittente ancora attiva, potrà dare una svolta al silenzioso conflitto. 


Quando un paio di anni fa l’attore John Krasinski ha scritto, diretto e interpretato, insieme alla moglie Emily Blunt, il primo A Quiet place, è stata per il pubblico e la critica una vera rivelazione. Una cornice curata, credibile e complessa, che entra di diritto nella scia della recente moda degli zombie quando di dinamiche di opere videoludiche di successo come The Last of us, dimostrandosi uno degli esponenti migliori del genere. Una scrittura intelligente, sempre opera di Krasinski, che affronta di petto, con una sapiente metafora, una delle paure moderne più recenti: quella di venire sempre più spesso “spiati”, al punto da sentirci inibiti nel comunicare con gli altri. Ottimi attori perfettamente a loro agio nella parte, come la Blunt, lo stesso Krasinski (che è anche il nuovo Jack Ryan della serie Amazon Prime) e i piccoli Millicent Simmons e Noah Jupe. Gli Abbott sono una famiglia credibile e unita, vitale e funzionale, che affrontano con tatto e competenza anche la comunicazione attraverso i gesti con i figli, senza cadere mai negli stereotipi che affliggono spesso i protagonisti degli horror. E poi c’è il cuore del tutto, il vero motivo per cui A quiet place è grande: la straordinaria capacità di Krasinski di trasmettere emozioni forti attraverso il silenzio. I mostri sono in agguato, sempre, è il pubblico come i personaggi trattengono il fiato, concentrandosi sui minimi rumori. Lo scenario su schermo, come la sala, vivono “l’apnea” del silenzio, la percepiscono come un equilibrio fragile da conservare per non cedere alla paura. È una piccola magia del cinema stare in mezzo a sale cinematografiche così silenziose, sospese e terrorizzate. Senza dimenticare il dettaglio che tutta l’azione ”è maledettamente divertente”, costruita con il cesello, piena di colpi di scena studiati. Nella serie di Krasinski si respira la (poca) aria del migliore Alien. 

Replicare il successo della prima pellicola era difficile, motivo per cui Krasinski si è preso i tempi giusti per scrivere e dirigere al meglio il nuovo capitolo. Cillian Murphy è un innesto importate quanto riuscito al cast, il suo personaggio è complesso quanto tragico. Lo scenario si allarga e l’acciaieria, con i suoi “forni” e le sue torrette di guardia,  è un ambiente vivo, pieno di stimoli. 

A quiet place II continua al meglio la storia iniziata nel primo capitolo, senza adagiarsi sugli allori e con la voglia di continuare a sperimentare soluzioni nuove. Una vera boccata di aria fresca per chi ha voglia di cinema, dove la pellicola è uno dei titoli di punta per la ripresa della programmazione nelle sale. Siamo già in attesa del terzo capitolo. 

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giovedì 24 giugno 2021

Storm Boy - la nostra recensione

 


In una zona costiera dell’Australia del sud, nei pressi di una casetta sperduta a qualche miglia di barca da un piccolo paesino di pescatori, un tempo viveva un uomo, Tom “l’isolato” (Jai Courtney), insieme a suo figlio, il “ragazzo della tempesta“ (Finn Little). Questo curioso soprannome, “Storm Boy” venne dato al ragazzo da Bill Ditaossute (Trevor Jamieson), un vecchio aborigeno australiano che da tempo inenarrabile difendeva i pellicani della costa dai cacciatori. Per le storie tramandate a Ditaossute dai suoi antenati, la vita di un pellicano è legata all’arrivo di una tempesta e durante un giorno di tempesta il ragazzo era intervenuto per salvare la vita di tre piccoli pellicani, rimasti orfani dopo che la madre era stata uccisa dai cacciatori. “Storm Boy” li porta a casa e decide di crescerli insieme al suo scorbutico ma dolce papà. Impara da Ditaossute come dargli da mangiare, tritando il pesce con il motore della barca e servendolo semiliquido in provette. Impara a trattarli come animali di compagnia, al punto che i tre pellicani iniziano a girare per il villaggio di pescatori come mascotte locali. Imparerà  un modo per insegnargli a volare e ritornare nel branco dei pellicani e questa sarà la sfida più grande. Quella che lo farà sentire di nuovo solo, dopo averlo reso “adulto”. Ben presto i tre piccoli pellicani riusciranno a volare, ma uno di loro, Mister Percival, forse un giorno tornerà a trovarlo. Sono passati molti anni e Storm Boy (Geoffrey Rush) è diventato un uomo anziano e di successo, quando all’improvviso sente arrivare, dall’alto del suo palazzo, una forte tempesta. Una sorta di grido, che lo riporterà, insieme alla sua nipotina Madeline (Morgana Davies), sulla costa dei pellicani della sua infanzia. 

Shaun Seet, regista dello sperimentale e premiato serial poliziesco Underbelly, adatta il libro omonimo di Colin Thiele, una favola non troppo distante per temi dal tenero La Gabbianella e il gatto di Sepulveda. Si parla di “famiglia incrinata" e della necessità  di ricostruirla in assenza di una figura materna. Si parla della natura selvaggia come corretto ambiente di cura dell’animo umano ferito, come della impossibilità di non potersi isolare per sempre dal mondo e della “circostanza dolorosa“ di crescere, lasciare il nido e imparare a volare. Fino a quando non si è adulti e si viene costretti allo stesso modo a dover lasciare liberi i propri figli di prendere la loro strada. 

Storm Boy usa parole semplici e metafore chiare. Ci culla con la leggerezza della colonna sonora di Alan John. Ci riempie gli occhi con i paesaggi assolati e tranquilli del direttore della fotografia Bruce Young. Funziona bene ed è “radioso” nella parte dell’infanzia di Storm Boy, grazie all’alchimia che si crea tra il piccolo protagonista, il padre, i pellicani e il misterioso e sciamanico Ditaossute. Diventa crepuscolare e malinconico nella narrazione di Storm Boy da adulto, dove anche il cielo si riempie spesso di nuvole. Funziona un po’ a singhiozzo sulla tre quarti di durata, dove il pellicano Mister Percival viene coinvolto in imprese “eroiche” a metà tra il commissario Rex e il delfino Flipper. Ma è una parte che piacerà di sicuro ai più piccoli.

Storm Boy è una piccola fiaba sull'amicizia di un bambino con dei pellicani, che arriva con passo gentile al cinema, dopo essere stata posticipata a lungo per via della pandemia. È un’occasione per vedere un film in famiglia, soprattutto se con bambini piccoli, sognando un giorno di vedere da vicino quelle straordinarie coste australiane piene di pellicani, che ne fanno da magnifico scenario. 

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domenica 20 giugno 2021

Revolt - il film di debutto di Joe Miale

 


Siamo in Kenya. Quello che sembra un soldato americano (Lee Pace) che ha perso la memoria, ma possiede strani poteri di matrice elettrica, si sveglia in una prigione. Fuori infuriano contro dei soldati male equipaggiati dei robot alieni simili a polli giganti, in grado di vaporizzare tutti con un raggio stile La guerra dei mondi. Mentre scoppia tutto il nostro eroe fugge, dimostrandosi un’iradiddio delle arti da combattimento, con una dottoressa imprigionata con lui. Lei spiega che era dentro per questioni tipo miliziani locali contro forze di pace internazionali, ma forse anche no perché di fatto il mondo è ormai distrutto, non ci sono più eserciti, furoreggiano i robo-polli. Lei sembra confusa, lui risponde “Boh” e lei decide di chiamarlo “Boh”. Sostanzialmente “perché Boh”, una cosa vaga vale l’altra e a lui di essere chiamato “Boh” non frega un granché. Che “Boh sia”. Poi i due partono per un viaggio verso qualche parte “perché boh” e incontrano gli irregolari kenyoti che parlano Swahili, ma forse pure americano, ma tanto va bene uguale perché si scopre che il Soldado e la dottoressa sono poliglotti e chissenefrega. I miliziani forse vogliono dell’acqua, forse vogliono rapirli, forse vogliono ammazzarli, forse chissenefrega. Poi il super soldato elettrico ne ammazza un paio e diventano quasi simpatici, danno informazioni, dicono che gli americani hanno mandato i robot polli per invadere il Kenya, che comunque è colpa loro perché è tutto distrutto tranne una parabola americana più avanti, ma in fondo che ne sanno loro, erano solo lì di passaggio, forse non sono neanche kenioti, forse i tizi uccisi dal soldato gli stavano pure sulle palle. I due eroi dicono “vabbeh, amici, noi vi prendiamo il jeeppino, andiamo avanti, vediamo posti, incontriamo gente, ci si vede. Forse si va alla parabola, ma anche no”. Parte un viaggio on the road tra animali della fauna keniota, tra cui elefanti visibilmente di gomma e le scimmiette. Poi arrivano altri  kenioti, questi sono bracconieri a caccia di scimmiette che però catturano anche i nostri due, perché sì, proprio mentre i due erano interessati ad ascoltare una radio che in inglese parlava di una invasione aliena di robot polli imminente, o che forse era già iniziata da anni o roba così. Arrivano altri mega polli robotici alti quattro metri che disintegrano tutti come palloncini, mentre in sottofondo c’è una musica da fantascienza anni ‘80 stile Moroder. In effetti è tutto molto bello da vedere e da seguire, grazie alla fotografia ed effetti speciali di tizi che hanno lavorato a Stargate e Indipendence day. Poi c’è il super potere segreto del soldato “Boh” che si attiva!! In pratica i robot polli non gli sparano. Naturalmente la cosa non viene spiegata. Con la trama così a dir poco così confusa, deve piovere dal cielo un tizio a dare informazioni: un fotografo di guerra americano. Questo racconta di quando era in Kosovo a fare i servizi seri, che è poi arrivato lì in Kenya per una roba sui soldati bambini, che poi ha visto una tempesta elettrica, ma forse erano robot polli alieni, che comunque lo ha mandato Dio per dargli la foto della parabola. Anzi, non ha una mappa o un gps, ma dà ai due una serie di foto che secondo lui, a vista d’occhio, lette in sequenza, possono ricostruire la strada per arrivare alla parabola. Tipo “briciole digitali”. Poi il fotografo sta morendo e poi boh, forse no. Con la trama che rimane confusa, il regista decide pure che deve partire un flashback che spieghi al soldato smemorato Boh delle cose che non si ricordava. Cose che alla fine del flashback comunque non si ricorda. I due cercano la parabola seguendo quella demenziale caccia al tesoro proposta dal fotografo, cercando a ritroso tutti i luoghi dove ha scattato le foto in sequenza. Poi il regista ci ripensa, capisce che è una stronzata e “fa finire la batteria della telecamera che contiene le foto”. Ma fa trovare ai due una macchina americana custom in pieno Kenya, che il soldato riesce a riparare con buffi rumori fuori dalla scena. Poi i due, beh, partono per qualche parte, anche perché da qualche parte a caso comunque arriveranno, fino a che un esercito di robot polli inizia a inseguirli come per dirigerli verso un sensato sviluppo narrativo. Ossia una casetta di riparo dove i due possono innamorarsi, scoprirsi anime gemelle e poi perdersi perché lei è tipo risucchiata da un'astronave aliena, ma lui no perché è trattenuto a terra perché sì e perché boh. Da qui lui vaga e il film continuerà a vagare con lui fino alla fine. Ancora tanta gente da incontrare, cose da fare, i mega polli, e qui prima era tutta campagna... quella roba lì, dai...

Fino a che si troverà questa cavolo di parabola! Che stava a chilometri come a tre passi, piena di alieni ma forse anche di brave persone kenyote, roba così.



Questo film è “vago” e “ondivago”. Non si perde in dettagli, non indaga i personaggi, fa “capitare le cose” e poco più. Ma dà la sensazione di un bel viaggio e forse è questa la cifra importante di questa opera prima. Belli gli effetti speciali, bella la fotografia, ben girate le scene d’azione e oserei dire ben diretti gli attori. La sceneggiature invece è di un vacuo maledetto e tende a peggiorare in modo costante, perdendo pezzi logici e annientando in pochi secondi una serie infinita di personaggi con cui non si fa materialmente in tempo ad empatizzare. C’è un mistero che viene risolto verso la fine e che premette, se non a farci trovare un senso profondo alla trama, almeno di orientarci verso un possibile finale. Alla fine devo dire che mi sono divertito però. Ho spento il cervello ed è andato tutto bene. Sarà la musica elettronica, l’ambientazione originale di stampo “Kenyota” (ma è girato a Johannesburg), gli effetti, i botti, i fulmini. Sono belli anche i robottini alieni alla fine e la decisione di eliminare un personaggio via l’altro dona un senso di crudezza generale interessante, anche se spesso parossistico. Alla fine sembra di stare dalle parti di District 9, anche se qui l’esito è più acerbo, meno satirico, meno ispirato. Però, se volete passarci una serata senza troppe pretese, magari con un paio di birre, il film fa il suo dovere. Leggendo un po’ in giro sembra che il film abbia dovuto far fronte a un budget minimale per lo standard dei film sulle invasioni aliene. Ma questa prova mi appare felicemente superata, confermando da ora il grande talento del regista nel confezionare immagini action di forte impatto e complessità. Un talento cristallino che farà perdonare facilmente ai fan degli action sci-fi una sceneggiatura con il potenziale, ma anche no, ma anche, come il nostro protagonista “un po’ Boh”. 

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giovedì 10 giugno 2021

I profumi di madame Walberg - la nostra recensione del film di Gregory Magne


Esiste una misteriosa professione in cui eccellono persone dalla spiccata sensibilità olfattiva. Li chiamano “nasi”. I nasi sono esperti di profumi e odori e operano per “normalizzare” un prodotto o un ambiente a quello che viene percepito come un livello olfattivo comunemente  “accettabile”. Se nei supermercati odierni, quando mettono le scarpe vicino al reparto pesce per una misteriosa tradizione pagana che risale all’alba dei tempi, non si sente più quel particolare e “avvincente” afrore, probabilmente è opera di un “naso”. Dalle creazione di fragranze per addolcire gli aromi di borse in pelle allo studio di sistemi di ventilazione, passando fino all’urbanistica e alla riqualificazione industriale, un “naso” opera all’interno di molteplici realtà ed è molto ambito. Certo per essere un “naso” serio bisogna vivere dentro profumi e puzze tutto il giorno, con il rischio di sviluppare uno specifico quanto complicato problema su come gestire gli odori a livello professionale quanto nella vita di tutti i giorni. Allo specifico “naso” protagonista della pellicola si aggiunge un poco edificante stress psicologico, dovuto a un recente quanto cocente fallimento lavorativo e ad una possibile malattia professionale cronica che inficerebbe la sua capacità di riconoscere gli odori. La nostra protagonista (Emanuelle Devos), Madame Walberg, è infatti nientemeno che la creatrice di un profumo di punta di casa Versace, pubblicizzato da Charlize Theron, che si vede nei cartelloni di tutto il mondo. Ma la vita l’ha condotta a diventare ora un “naso”. 

Un giorno il “naso”, che ha un po’ di problemi nel gestire le relazioni interpersonali, viene affidato alle cure di un autista e “accompagnatore tuttofare” (Gregory Montel). Un ometto volenteroso ma un po’ spiantato, con i cocci di un matrimonio da raccogliere, una figlia da crescere, troppe multe alle spalle. A fare da carico da novanta, sul nostro eroe grava il giudice della separazione, che si rifiuta di concedergli di vedere i suoi figli nei weekend se non prende una abitazione più grande per permettere una “cura adeguata della prole”. Per questo il nuovo incarico, che da subito si presenta come particolarmente ben pagato, sembra la soluzione a molti dei problemi dell’autista, ma riuscirà a gestire una persona abbastanza complicata come Madame Walberg? Riusciranno i due a imparare conoscersi, sopportarsi e forse diventare soci?



Che bel lavoro quello del “naso”! È un po’ un detective, un po’ uno scienziato, un po’ un artista. La malinconia e ironia di Madame Walberg ne fa quasi una sorta di Sherlock Holmes, con l’autista che subito diventa il prode Watson. Quando il dinamico duo interviene sulla scena di una “puzza”, si trascinano dietro questa fantastica valigia metallica carica di boccette di essenze. È poi tutto un susseguirsi di nomenclatura scientifica sulla natura di un odore e sul suo possibile “contrasto”. Poi arrivano i battibecchi, poi si arriva a fantasticare e ricercare i “sapori dell’anima”, dal legno di una casa di campagna che si frequentava nell’infanzia al profumo di un detergente per le mani che andava di moda negli anni ‘80. Davvero interessanti e profonde le riflessione sulla cera d’api e sul profumo dell’erba appena tagliata. È una narrazione altamente “sensoriale“ quindi, che voglio idealmente avvicinare alle imprese del detective culinario del fumetto Chew di Layman e Guillory. Cinema da annusare, fumetti da mangiare. Ideali in un periodo storico in cui dobbiamo tornare a riconoscere il profumo delle cose, dopo troppo autoconfinamento domestico, mascherine e gel igienizzanti. Ma il film possiede anche un’anima ulteriore, centrale, che posiamo legare agli effetti economici legati alla crisi sanitaria e economica che ha travolto questi ultimi mesi. Si parla della difficoltà di accettare una menomazione improvvisa. Si parla della difficoltà, e della gioia, di sapersi reinventare “nonostante tutto”. Il film decide qui di essere “pragmatico”, lesinare i  sentimentalismi, andare al cuore dei problemi. Un approccio alla vita diretto, quasi clinico, che al contempo è la cifra originale della narrazione della pellicola, che ogni tanto quando serve riesce comunque a commuovere attraverso le immagini e il montaggio. Come nella scena della gita al mare sotto la pioggia, che riesce a raccontare con garbo e sintesi un intero caleidoscopio di sentimenti.

Molto bravi gli attori. Un film originale per tornare in sala dopo tanto tempo. 

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mercoledì 9 giugno 2021

Estate ‘85 - la nostra recensione del nuovo “tempo delle mele” di Francois Ozon


In una cittadina francese in riva al mare è estate e il giovane e mingherlino Alex (Felix Lefebvre), di 16 anni, appartenente a una famiglia di umile estrazione, noleggia una barchetta in una giornata assolata. Si risveglia al largo, isolato, mentre sta per infuriare una tempesta. La barca si ribalta e Alex aggrappato allo scafo teme il peggio, quando come una specie di dio greco, con alle spalle dei fulmini, appare in suo soccorso, su un’altra barchetta, l’aitante David (Benjamin Voisin). È il figlio della titolare del negozio di attrezzi per la pesca, ha un sorriso grande come l’oceano, la tranquillità del Buddha e sa navigare sotto la tormenta sbadigliando. David avvicina la sua imbarcazione a quella di Alex e traghetta tutti a riva, barche comprese. Poi Alex si ritrova senza nemmeno capirlo a casa di David, dove la madre (Valeria Bruni Tedeschi) lo denuda e mette in una vasca da bagno come fosse un pupattolo “per riscaldarsi dopo il naufragio”. Mezz’ora e sono tutti a tavola. Un’ora e sono sulla moto di David in una notte eccitante e sfrenata. Otto ore dopo e Alex ha trovato il lavoretto estivo che sognava, nel negozio di David. È amore, da raccontare sulla spiaggia alla nuova amica inglese Kate (Philippine Velge). Un amore fulmineo e travolgente, nel momento più bello: l’adolescenza. Ma David e Alex sono persone troppo diverse e sono destinati a lasciarsi in modo tragico e veloce quanto la loro storia d’amore è iniziata e che durerà giusto l’arco di un’estate. Lo sappiamo fin dai primi minuti e lo sanno da prima quelli che conoscono il titolo originale del romanzo da cui il film è tratto: Danza sulla mia tomba di Aidan Chambers. Un libro che Ozon ha così adorato da inserire alcune delle sue suggestioni in molte delle sue opere. 

Ma come sono accaduti i fatti? Alex, dopo gli eventi tragici di quell’estate, è sotto torchio degli assistenti sociali e del giudice e deve in qualche modo ricostruire una serie di eventi che lo hanno portato a compiere un'azione disdicevole. Con l’aiuto di un insegnante che crede nelle capacità di Alex come scrittore, il ragazzo scriverà un libro che sarà al contempo la sua “versione dei fatti” quanto una struggente lettera d’amore al compianto David. 


Il regista ha dichiarato, circa la scelta del titolo del film e l’anno in cui la pellicola è ambientata, che diverge dal romanzo, che l’estate del 1985 (cui sarebbe seguita nell’autunno la morte di Rock Hudson) è stato per lui l’anno della “perdita dell’innocenza”, il momento in cui è esploso il fenomeno dell’Aids. Un evento che ha colpito come una scure in special modo la comunità omosessuale, che si è vista additare i mali del mondo e la nomea di “untori”, cui è seguito un inevitabile periodo di discriminazione, angoscia e dolore. È stato per lui un “passo indietro” nel processo di integrazione cui voleva dare voce, rappresentando tanto l’amore gay quanto la percezione sociale di quel particolare amore. È un film su una promessa d’amore che diviene simbolicamente un modo di vivere la vita senza pregiudizi. Un istinto che ha bisogno di essere metabolizzato trova la giusta mediazione attraverso la riflessività dell’arte, rappresentata dal libro di Alex. Un libro che è prima di tutto un libro sull’amore, che sceglie di tenere solo sullo sfondo le “parti brutte” delle miserie umane. L’amore tragico di Alex e David vive quindi in bilico precario su questo ultimo spensierato momento, prima e dopo che lo “stigma” esplodesse, ma Estate 1985 è tutt’altro che una pellicola abbattuta sul lato della malinconia. Costituisce invece un tenero e genuino inno all'adolescenza e al primo amore, non lontano nei modi e nei temi dal generazionale Tempo delle mele. È intriso della gioia di correre in moto con il vento nei capelli tanto come la ricerca del rischio. Parla di chi si perde nell’amore dell’altro e di chi non riesce a farlo per via della difficoltà a lasciarsi coinvolgere. Parla della paura e della difficoltà di avvicinarsi a una persona che si ritiene sbagliata “purché non si riesce a fare altrimenti”. Parla di coinvolgimento, corna, pianti, gioie e manipolazione (e non è che i genitori ne escano benissimo, a dire il vero). C’è l’intero pacchetto e molte persone possono facilmente ritrovarsi nelle dinamiche di questo rapporto. L’amore riesce a esserne  rappresentato in modo universale, per lo più di stampo platonico, giocando con le affinità elettive, mentre la connotazione omosessuale del rapporto di coppia emerge come “tema tabù”, rapportato al modo di pensare del 1985, solo in una divertente scena ambientata in un obitorio, dove viene affrontato con una buona dose di ironia e tenerezza. Molto bravi gli attori, che riescono a portare in scena personaggi genuini quanto sfaccettati. Curioso e complesso anche il personaggio della madre di David, interpretata da una Valeria Bruni Tedeschi in ottima forma. 

Carico di vitalità e malinconia, Estate ‘85 di Ozon è una piccola è gradita sorpresa che saprà catturare il pubblico più giovane e sentimentale che si avvicinerà al cinema in questo momento di riaperture. 

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