mercoledì 29 novembre 2023

La sedia: la nostra recensione del dramma surreale e psicanalitico scritto e diretto da Gianluca Vassallo e con protagonista Michele Sarti

Sardegna, oltre 40 gradi, a tutti gli effetti “l’estate del diavolo”. 

Un uomo barbuto, alto e accartocciato in un completo sgualcito e sporco, Pietro (Michele Sarti), trascina una sedia lungo strade sterrate, boschi e piccole abitazioni. È l’arrabbiato con il mondo e con se stesso, ride e impreca a ogni passo, spesso parla da solo e porta in tasca una pistola. 

La sedia e la pistola sono due “lasciti”, l’eredità di un padre appena scomparso ai suoi due figli che ormai gli vivono lontani, assenti. Così Pietro sta cercando per quei luoghi tracce e testimonianze di un fratello che non vede ormai da anni, per dargli quanto gli spetta. 

La pistola è una pistola comune, di quelle che sparano. La sedia è una “Sedia1”, disegnata da Enzo Mari nel 1974: un oggetto semplice ed essenziale fatto di chiodi e legno come la croce di Gesù Cristo, come ci premura di raccontarci alla radio una esperta d’arte in una rubrica culturale. Pietro la trascina perché il suo viaggio è anche “espiazione”, una via crucis con tutto il peso del passato e delle colpe da sostenere. Pietro la trascina perché in un lungo viaggio a piedi, per luoghi diroccati, può essere anche uno strumento di riposo, dove qualche volta adagiarsi o magari far sedere qualche altro viandante al suo fianco. Di recente Pietro ha molto bisogno di sedersi: la sua vita è colata del tutto verso il basso e il caldo che lo circonda in questa Sardegna di fuoco sembra quasi un'anteprima dell’inferno, da combattere con la poca acqua che sul territorio può trovare per rinfrescarsi. Ma intorno a lui, tra paesaggi da sogno e da incubo, non troverà solo natura matrigna. Ci sono donne mute come Nada pronte ad accoglierlo e abbracciarlo senza chiedere nulla in cambio. Ci sono bambini da rincuorare e con cui scherzare su una spiaggia, parlando della cattiveria del mondo e del modo giusto di affrontarlo (anche se credendoci poco). Ci sono eccentrici imprenditori veneti che portano capre al guinzaglio proponendosi come agricoltori solidali e più umani 2.0. Ci sono custodi di campetti da calcio armati di fucile a pallettoni per non voler sentire nessuno schiamazzare mentre tira un pallone. Di notte poi il caldo finisce e appaiono le stelle. Ma il giorno dopo tutto ricomincia e il destino si avvicina alla svolta: l’incontro tra i due fratelli, i due lasciti di un padre strano, un sentimento di amore da ricomporre o distruggere del tutto. Dopo brutti ricordi e troppa solitudine i due potranno vedersi e dividersi il bottino e il futuro: sarà una sedia o una pistola?

Gianluca Vassallo costruisce in Sardegna un piccolo mondo pieni di metafore e suggestioni dove Michele Sarti tra paesaggi unici si muove tra uomini fuori dal tempo, fantasmi e allucinazioni. La cifra è intimista. La messa in scena, aspra quanto essenziale, richiama nel suo uso simbolico degli oggetti scenici il teatro di Bertold Brecht. 

È una storia urgente e intima, quasi “autoanalitica” per parole dello stesso regista, che nella vita è anche un artista di design e arte moderna e ora sente di trovarsi a un bivio. La Sedia1 è “nata” lo stesso giorno in cui è nato anche Vassallo e forse non è un caso che qui diventi l’oggetto “brechtiano” sulla scena, il “fardello da trasportare”. 

Vassallo cerca con un uso molto personale dell’arte cinematografica di trasmettere un stato d’animo tormentato e carico di disillusione, soffocato dal concetto di eredità e discendenza, in perenne e difficile ricerca di tenerezza anche in ambienti “estremi” come la Sardegna a 40 gradi dell’ultima estate. 

“Fa suo” il cinema come fosse una delle sue sculture, occupandosi da solo quasi di ogni singolo aspetto, dalla scrittura alla fotografia, dagli effetti sonori alla cura delle location. Vive la produzione giorno per giorno, costruendolo per gradi il suo mondo e il suo viaggio narrativo, in un momento emotivo per lui particolarmente delicato in cui dice di aver trovato supporto nel mood malinconico dei Radiohead e del loro OK computer, un album che lui ama molto. Come nel disco, Vassallo ricerca vagando tra i luoghi e i personaggi della sua Sardegna una “karma Police”: qualcosa che lo guidi e gli dia una meta, qualcosa che permetta di esprimere il suo dolore e i suoi sogni. Il regista sceglie come “corpo messo a nudo” delle sue emozioni il musicista Sarti, un interprete che con grande trasporto e passione riesce a divorare la scena riempiendola di molti colori, di rabbia quanto di ironia, di fisicità distruttiva quanto di profonda vulnerabilità emotiva. Ogni personaggio diventa essenziale per portare alla luce i molti tormenti esistenziali del protagonista, in incontri/scontri che in qualche modo vanno a ricostruire il suo animo tormentato. Si passa dall’infanzia rubata impersonata dall’uomo con il fucile che piantona il campetto di calcio (Giuseppe Boy), all’indifferenza “bonaria” di una comunità impersonata dal prete Don Luigi (Renzo Cugis), per il quale “tutti si somigliano”, anche gli opposti. L’ingegner Crosetta (Tiziano Polese) con il suo strano “compagno” al guinzaglio sembra invece uscito da Aspettando Godot di Beckett e offre a Vassallo l’occasione di muovere una velata critica al mondo dell’arte quanto a una Sardegna, che per lui si sta “svendendo”, anche emotivamente, al miglior acquirente. Il personaggio della prostituta Nada (Michela Sale Musio) nella sua dimensione di “silenzio”, è l’unico che offre al protagonista Pietro l’occasione per spogliarsi di ogni corazza emotiva, svuotarsi delle troppe parole che logorroicamente lo divorano e affrontare i suoi sentimenti, confortato da una sensualità sincera, quasi materna quanto rara. 

Vassallo ci fa vivere ogni emozione senza filtro, con brutale onestà e genuinità, con una prosa semplice quanto precisa.  

Il viaggio è accompagnato dalla colonna sonora dei Tanake, un gruppo rock con sonorità molto ricercate che riescono al meglio a trasmetterci tutte le emozioni e tormenti della storia con sonorità elettriche e a volte sincopate. 

La sedia è una pellicola che offre il viaggio interiore unico e stimolante nell’immaginario di un giovane artista molto originale, che sta muovendo i primi passi nella settima arte, dopo un paio di prove con i documentari. Il suo punto di vista è particolarmente sperimentale e il suo approccio è spesso personale quando coinvolgente. 

La sedia è un fulgido esempio di cinema come strumento della coscienza e dell’anima: quasi un'installazione artistica moderna, ma al contempo anche qualcosa dì immediatamente accessibile e  avvolgente. Non è per tutti, scalza molti canoni e parla forse di più al mondo del teatro moderno, ma è un’esperienza interessante per chi vuole provare a vivere la sala cinematografica in modi nuovi.

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martedì 28 novembre 2023

Thanksgiving: la nostra recensione del nuovo film horror diretto da Eli Roth, perfetto per celebrare il giorno del ringraziamento quanto il Black friday

Ci troviamo nella placida provincia americana dei giorni nostri. 

Siamo nello specifico nello stato del Massachusetts, nella ridente cittadina di Plymonth fondata nel 1620 dal leggendario pellegrino della Mayflower John Carver. 

Il giorno del ringraziamento sta per arrivare e qui è la ricorrenza per antonomasia: tra striscioni, addobbi, parate e tacchini al forno si respira ovunque aria di festa. 

Una festa che quest’anno è addirittura doppia, perché insieme al giorno del ringraziamento ricorre anche la festa del “Black friday” dei super saldi pre-natalizi, con l’apertura notturna del locale mega store, il RightMart, prevista per la mezzanotte di giovedì.

Purtroppo tra tanta gioia, ghirlande e voglia di regali, la tragedia è dietro l’angolo. 

Quando lo sceriffo Newlon (Patric Dempsey) e Amanda Right (Gin Gershon), parente della ricca famiglia che gestisce il negozio, arrivano al centro commerciale, infuria già un caos quasi dantesco. 

Le centinaia di persone che per ore si sono accalcate contro ai vetri del RightMart hanno infine sfondato l’ingresso e si sono fatte largo tra calci e spintoni, travolgendo anche le guardie di sicurezza. 

In molti si sono tagliati vistosamente con le schegge di vetro rimaste attaccate alle porte, alcuni sono stati calpestati dalla massa, qualcuno nella frenesia di impossessarsi di una padella antiaderente ha colpito di istinto alla testa chi stava per rubargliela. 

Simili ad animali rabbiosi, anche trascinandosi coperti di sangue pur di accaparrarsi una tv gigante in saldo, i clienti del RightMart incedono devastando e sbattendo contro ogni cosa.

Ma qualcuno ride di loro, riprende la scena per i social. 

Sono gli amici di Jessica (Nell Verlaque), la giovane figlia del proprietario mr.Right, gli stessi che entrando nel negozio prima della mezzanotte, con la chiave dei dipendenti, hanno contribuito a aizzare la folla in coda con insulti e gesti volgari, fino al punto di farla esplodere. 

Anche Amanda infine viene travolta nella calca e cade a terra, con ancora in mano una fetta di tacchino portata lì dalla festa di famiglia per suo marito, il responsabile di reparto Mitch. I capelli ricci di Amanda si attorcigliano tra le ruote di un carrello della spesa che viene spinto con tanta forza e rabbia. La sua testa viene trascinata e urtata più volte, fino a procurarne lo scalpo. La donna muore davanti allo sceriffo, che in un momento di pianto e disperazione scarica tutti i proiettili della sua pistola verso l’alto.

Ci sono dei morti, incalcolabili feriti, una strage.


L’anno dopo Plymonth ancora piange le vittime della notte al RightMart, mentre si prepara alla annuale sfilata del ringraziamento con la banda, il tacchino che fa da mascotte al liceo e i carri allegorici. 

Il super store ha preparato degli eventi commemorativi per le vittime, si parla di borse di studio e solidarietà, ma il clima è pesante e qualcuno inizia a parlare di boicottare tutto. Dalla storica casa del pellegrino John Carver scompare la celebre ascia del fondatore della città. 

Qualcuno inizia a indossare la maschera e il vestito nero con cappello di Carver, per usare l’ascia destinata ai tacchini su chi ritiene responsabile della notte di sangue dell’anno precedente. 

La lista è lunga e alcune persone iniziano a morire nei modi più cruenti e brutali, con le foto dei cadaveri che vengono poi condivise sui social in immagini che li ritraggono sinistramente insieme: mutilati o a pezzi ma tutti seduti, davanti a una tavola imbandita, come vuole la tradizione conviviale del ringraziamento.

In città gli avvistamenti di John Carver si susseguono e cresce anche la paura, specie nel liceo frequentato dagli amici di Jessica Right, la figlia del padrone del RightMart. La paranoia inizia a diffondersi e John Carver sembra ovunque. Ma il killer, nonostante il grande dispiegamento di forze della polizia e tanti cittadini armati e guardinghi, sembra non volersi fermare. Anzi, è intenzionato a portare il caos anche durante la parata storica, causando direttamente al centro del paese incidenti a catena, incendi e ulteriori mutilazioni. 

Chi sopravvivrà da questo giorno del ringraziamento? 

  


Un film per chi ama l’horror più classico, fatto da chi ama l’horror più classico. Il regista e sceneggiatore Eli Roth è stato uno dei nomi più interessanti del panorama horror degli ultimi vent’anni. L’esordio folgorante avviene nel 2002 con Cabin Fever, un piccolo body horror gustosamente splatter ma anche molto ironico e satirico, in cui un gruppo di amici capita nel classico “chalet tra i boschi” (alla Sam Raimi) della provincia americana, per poi finire vittima di un contagio cruentissimo, ma che satiricamente non appare meno “cattivo” del modo di trattare i forestieri della popolazione locale. A Cabin Fever segue nel 2005 Hostel e nel 2007 il suo seguito, pellicole altrettanto splatter e sarcastiche, incentrare sulla mercificazione, “dei corpi e del dolore”, che avviene nei cosiddetti paradisi del piacere dell’est Europa. Nel seguito si citano apertamene anche Fulci e Argento e come co-protagonista torna sulla scena Edwige Fenech. Nel 2013 arriva Green Inferno, un omaggio al classico Cannibal Holocaust di Deodato ma in salsa moderna, dove degli squinternati e ipocriti eco-attivisti vengono ridotti a polli arrosti farciti di spezie da dei simpatici aborigeni mangiatori di uomini. Il 2015 è l’anno del sexy thiller Knock Knock, in cui uno spaesatissimo e “perbenista” Keanu Reeves si fa trascinare da due donne bellissime (una delle quali era l’attuale compagna del regista) in un incubo sexy-domestico, potenzialmente letale, che omaggia i sexy horror e al cui confronto Il gioco di Gerard di King è quasi da educande. Nel 2018 esce il suo personalissimo Il giustiziere della notte, con Bruce Willis, dove il classico con Bronson viene rivisitato, mettendo originalmente e spericolatamente alla berlina e “a nudo” il ruolo del giustiziere stesso, nonché la patologia sadico/autodistruttiva che lo muove. I malavitosi appaiono calmi e quasi pragmatici, i giustizieri dei pazzi esagitati pronti a investire ogni dollaro in negozi d’armi pieni di donne sexy e lanciamissili (forse un omaggio diretto a una famosa scena di Jackie Brown di Tarantino). Una ridicolizzazione geniale ma che fece incazzare enormemente molto del pubblico che in genere amava i revenge movie.  Sempre nel 2018 esce Il mistero della casa del tempo ed è nella filmografia di Roth un po’ una eccezione alla regola: un horror per ragazzini con interpreti Jack Black e Cate Blanchett, innocuo e accomodante come i Piccoli Brividi, ma con un gusto estetico che strizza alle produzioni Hammer. 

Eli Roth è un cultore dell’horror in tutte le sue forme e declinazioni, che ama raccontare da sempre  storie di disagio e dolore con ironia, dove i ruoli di vittime e carnefici spesso si confondono e sovrappongono. Film dove il grottesco nasconde sempre criticità sociali e morali specifiche, che  l’autore ama spernacchiare a colpi di “corpi arrosto”, maxi vomitate di sangue “post-sbornia”, “eccitazioni inconsulte” dovute all’impugnare un’arma da fuoco. Il “gore” diviene un cortocircuito che punisce e trasforma i personaggi in palloncini che esplodono ma Roth, quando in vena, punta a essere anche un autore “vecchio stampo“, di scuola quasi horror italica anni '70. Idealmente seguace di Fulci e Deodato, ma con certi codici visivi “meta/culinari” pure vicini a Ferreri. Un autore così affezionato a tutto il genere horror da dedicarvi anche interessanti documentari tematici, nonché produttore e sceneggiatore di pellicole come 2001 Maniacs, The sacrament, The Clown. 


Un film slasher nato da un trailer realizzato per gioco 16 anni prima. Inevitabilmente il sodalizio tra Eli Roth e Quentin Tarantino è stato folgorante, con il regista di Pulp Fiction che gli ha prodotto personalmente Hostel (a cui ha partecipato anche il leggendario regista Takashi Miike in un cameo!) e poi lo ha voluto anche come attore protagonista, nel suo Inglorious Basterds

È sempre Tarantino che lo coinvolge nell’amorevolmente strampalato progetto Grindhouse, un film a episodi pieno di sangue, attori che recitano sopra le righe, donne nude e scene d’azione esagerate alla maniera dei b-movie anni ‘70.  Incentrato su due mediometraggi principali (poi gonfiati a due film effettivi), diretti da Tarantino e Robert Rodriguez, il progetto prevedeva la realizzazione anche di finti trailer, da collocare all’inizio del film. Vennero commissionati a vari autori, come Rob Zombie, Edgar Wright e proprio Eli Roth, che si “sfogarono” realizzando autentici micro-film pieni di creatività, che avrebbero benissimo fatto mostra di sé in una sala cinematografica del passato specializzata in b-movie. Si può dire che negli anni sono nati sullo stile di Grindhouse alcuni film che ne hanno ripreso bene lo spirito leggero e sanguigno quanto ruspante e “fuori tempo”, come Hobo with a gun, Father’s Day e L’uomo dai pugni di ferro, ma da quei finti trailer è nata anche una pellicola “ufficiale”: Machete di Robert Rodriguez. Per anni Edgar Wright ha poi provato, ancora senza successo, a trasformare il suo trailer Don’t in un lungometraggio, ma prima di lui oggi arriva proprio Eli Roth con il suo Thanksgiving


In questo trailer di un minuto c’è già tutto il film di oggi: un horror-slasher alla maniera del carpenterianio Halloween, ambientato però nel giorno del ringraziamento americano, seguendo anche quel filone di “sangue e feste” di opere come San Valentino di Sangue e Black Christmas

Al posto di Michael Meyers troviamo un uomo in nero con cappello e accetta vestito da pellegrino. Un uomo nero che abbatte un grosso pupazzo a forma di tacchino durante una sfilata, per poi fare fuori la classica serie di “adolescenti in preda agli ormoni” (tra cui figura anche Eli Roth stesso, che recita nella scena dell’auto!). Tutto è così folle ed esagerato per efferatezze che “fa il giro tre volte”, con le scene più truci che diventano quasi comiche per l’eccesso di emoglobina finta e teste mozzate di cartapesta: esilaranti e dissacranti proprio come gli “ecologisti al forno” di Green Inferno


La versione 2023 di un piccolissimo horror di un minuto del 2007. Roth voleva  prima o poi tornare a quel trailer/mini-film e oggi, 16 anni dopo, eccolo qui in sala, nell’anno del reboot dell’Esorcista, Saw X e Scream VI. 

L’atmosfera è più “moderna”: oltre che il classico Halloween degli anni ‘70, che viene citato e omaggiato più volte, fin dalla prima scena, ci sono molti momenti che richiamano gli horror anni ‘90/2000 come Scream, Final Destination, San Valentino di Sangue “versione 3D”.

Sfiziosa la presenza un Patrick Dempsey che, prima di affascinare il pubblico femminile con la serie Grey’s Anatomy dal 2005, nel 2000 era già in Scream 3, ma soprattutto esordiva nel 1985 con l’horror stra-cult Stuff - il gelato che uccide

Il villain ha ora rispetto al vecchio trailer una “maschera tutta sua”, che nella sua fisionomia, insieme al costume, gli conferisce quasi l’appeal del V per Vendetta di Moore. Al contempo è però anche una “maschera generica delle feste popolari” come Il costume da babbo natale di Silent Night del 2012 e  la Ghostface. 

Roth non si dimentica di amare lo splatter e infarcisce tutta l’opera di cattivissimi momenti in cui i corpi esplodono nei modi più cruenti, fantasiosi, buffi ed esagerati. L’azione sulla scena è sempre estrema, cattiva quanto sopra le righe, con le mattanze del killer che più volte si infarcisco di un black humor quasi a livello delle produzioni Troma.

Eli Roth mette invece da parte la sua vena più “kinky”, per dirla come Paul Verhoeven. Il film non ha tutto quell’eros che “con thanatos” funzionava così bene negli horror di genere del passato e soprattutto funzionava nel passato di Eli Roth, che non si è mai dimostrato parco nel mostrare narrativamente in tutte le sue opere (salvo il film per ragazzi con Jack Black) le grazie delle sue attrice in momenti particolarmente bollenti. L’eros è qui trattenuto, contratto, quasi “accettato con l’accetta” di John Carver, anche se infine il regista ci concede la scena dell’allusivo trampolino elastico (che però era più “spinta” nel vecchio trailer) e un momento dall’alto tasso fetish, in cui sono protagoniste le lunghissime gambe della bellissima milf Karen Cliche. 


Particolarmente riuscita la sequenza iniziale dedicata al Black Friday, che sembra la versione sadica di quanto più o meno avviene nelle sequenze di caccia agli acquisti nel classico di Columbus con Arnold Schwarzenegger Una promessa è una promessa. Di pari impatto la lunga e articolata sequenza del corteo celebrativo. 

Appropriata e al passo con i tempi la critica alla mercificazione del dolore che avviene oggi nel mondo dei social. Se i consumatori resi folli dal Black friday incedono come bestie dissennate, i sorrisi cattivi dei giovani che li riprendono per burlarsi di loro mentre si ammazzano sono pure peggio: parlano di un vuoto di valori ormai fuori dai limiti. 

Thanksgiving è un film horror di intrattenimento “spiccio”, divertente e molto sopra le righe, che si mette a pieno titolo nel filone dei “b-movie di razza” che affettuosamente omaggia, ma presenta anche qualche riflessione interessante. 

È un film pensato per i fan degli slasher movie, ben confezionato in ogni aspetto, con un villain “simpatico”, attori sempre appropriati e una trama che si lascia seguire senza intoppi, aspettando che la scena successiva sia ancora più esagerata ed estrema della precedente. 

Né innovativo né cervellotico, “tira dritto” e lo fa bene, con l’umiltà di non offrire “lezioncine sociali” e un particolare gusto per il grottesco e lo splatter che sa mantenersi dall’inizio alla fine.  

È la nascita di un rinnovato filone di horror-slasher sulle feste o rimarrà solo un omaggio a un genere amatissimo ormai quasi “vintage”? A noi che siamo “un po’ vintage” il tacchino è piaciuto e non ci dispiacerebbe un’altra fetta. 

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lunedì 27 novembre 2023

Casanova Opera pop


Casanova Opera pop è l’incarnazione dell’eleganza innata di Red Canzian fatta musical. Storia interessante, protagonisti bravissimi, belle musiche, canzoni che ti restano in mente e che canticchi, abiti stupendi. 

Casanova Opera pop - Il film è la dimostrazione di quanto Red Canzian tenga alle persone e abbia a cuore i suoi fan. Sperimentando sulla propria pelle un momento di malattia e impossibilità di uscire di casa a causa del Covid-19, ha voluto portare su grande schermo (ed in seguito uscirà anche il dvd) questo musical che sogna in grande e che vuole essere un novello Notre dame de Paris, in modo che anche le persone che non hanno la possibilità di poterlo vivere live a teatro potessero vederlo, con immagini immersive, audio 5.1 ed immagini super mega hd. Ma qual è la trama? Casanova torna a Venezia dopo l’esilio. Le donne non vedevano l’ora (birichine…) gli uomini ne facevano anche a meno. Tra sotterfugi e malignità il nostro Casanova dovrà superare delle prove per poi vivere l’amore con la sua amata. Recitato benissimo, su tutti il protagonista Gian Marco Schiaretti nato per interpretare musical (citazione solo per esperti: Ramin Karimloo fattene una ragione ma Gian Marco è pronto per il ruolo del Phantom of the Opera…), gipeto (con la g minuscola, ci tiene a precisare) nel ruolo del cattivo e Jacopo Sarno in plurimi ruoli. Parte vocale affidata a Chiara, figlia di Red. Orchestrazioni a Phil, figlio di Red. Prodotto da Bea, moglie di Red. Insomma, il musical ha la firma Canzian in tutto e per tutto. 

Consigliatissimo a tutti gli amanti dei musical e a tutti gli amanti dei Pooh! Dodi Battaglia, attendo con ansia il tuo musical!! Nel frattempo, torno a vedere Casanova del grande Red! 


By B-Gis

lunedì 20 novembre 2023

Cento domeniche: la nostra recensione del film scritto e diretto da Antonio Albanese sulle truffe bancarie ai risparmiatori

Mai un giorno di riposo e lavorare gratis anche se in prepensionamento, per stare ancora vicino a chi lavora e magari preparare i giovani. Questo è il credo di Antonio (Antonio Albanese), anche se poi con i lavoretti in cantiere tira comunque su quelle due lire per l’affitto del pollaio e dell’orto dal Sig. Carlo, che è il suo capo ma anche un amico. 

Certo dopo l’ultimo controllo in fabbrica Antonio risulta irregolare e i burocrati proferiscono “ai corsi di formazione degli apprendisti deve pensare la regione”; così al lavoro non ci può andare più e toccherà tirare un po’ la cinghia per il futuro. Al mutuo di casa pensa già la pensione della madre, mentre quelle due lire della sua  pensione da operaio per ora gli bastano.

Almeno fino a che non si concretizza per lui il “sogno più grande”, quello che da anni si immagina solo sfuocato, dove in un assolato prato fiorito accompagna all’altare la figlia Emilia. Quando lei era bambina se lo immaginavano sempre quel momento, ci giocavano le domeniche pomeriggio: lui la portava per mani e a volte camminava storto, a volte si sentiva male prima dell’arrivo alla meta e “dallo sposo”. Emilia aveva forse otto anni e rideva, rideva sempre. Ora tutto poteva essere vero, il suo moroso Chicco ha deciso di portarla all’altare. 

Al vestito provvede la stessa Emilia, alle fedi i testimoni. Non si pensa a viaggi di nozze perché sono brutti tempi e non si può chiudere il negozio, ma almeno il pranzo da tradizione sente che deve pagarlo tutto Antonio, che è il padre, anche se è una usanza del dopoguerra e ora la spesa se la dividono entrambi i suoceri. Gli tocca ed è felicissimo di farlo. Tanto quando potrebbe essere?  

Si dice 25, forse 30.000 euro. Antonio ne vuole chiedere in banca 30, 5 li deve mettere di sicuro per l’apparecchio acustico nuovo di mamma Elisa, che ormai a ogni domanda risponde “sì sì”, ma tutti gli altri 25 sono per il matrimonio di Chicco ed Emilia.

Tanto in banca i soldi sono più di ottanta, sotto sicure obbligazioni, basta giusto accordarsi per il ritiro. 

Tutto per il sogno di accompagnare la figlia all’artare e forse al matrimonio questa volta ci porta pure Adele, che è sposata ma ormai tutti sanno in paese che sta con Antonio, mentre alla Margherita, la sua ex moglie che intanto si se rifatta una vita, in fondo la cosa non dispiacerebbe. 

Allargare la famiglia, nuovi sogni a occhi aperti.

Poi la realtà al credito artigiano è diversa. Dicono che non va bene togliere ora i soldi, che si era capito male e “carta canta”: non erano fondi messi su obbligazioni ma azioni. Rendono di più però, ora molto di più, è peccato toglierli e non lo vogliono fare. Serve un consulto col direttore. 

Quello che si può fare è quindi chiedere un prestito da 30.000 il cui capitale e interessi saranno ammortizzati dalla grossa rendita delle azioni. Sarà come non spostare niente, si recupera in alcuni mesi e tutti felici. Del credito artigiano si conoscono tutti da quando erano bambini, tutta brava gente, è il confessionale di tutta la città. Non può crollare o crollerebbe il mondo. Ci si fida sempre e comunque la prospettiva è ora allettante, roba da fare i salti. Bravo il nuovo direttore della filiale 12!

Solo che allo sportello un po’ defilato c’è quel ragazzo che ha fatto la scuola con Emilia ed è tanto gentile da far entrare Antonio dalla porta di servizio, perché la porta di sicurezza della banca lo “opprime”. Lui il giorno che si apre il mutuo è cupo e quasi non gioisce quando gli dice che l’Emilia si sposa. Anche alla bocciofila il barista Ricky dice che c’è brutta aria in banca, ne parlano tutti i giornali che in zona però non vuole più leggere nessuno. Una cosa “più concreta” però è che anche l’idraulico Peppo sia finito in ospedale per un attacco di panico, dicono dovuto proprio alla situazione del suo conto e davanti alla filiale 12. 

Dopo queste voci c’è già alla mattina la coda di chi vuole ritirare i suoi soldi, ma in filiale c’è già un nuovo direttore diverso, che dice di tranquillizzarsi e offre biglietti da visita e numero di telefono per domande più precise. Ora lui non ha tempo, ma sono solo fluttuazioni, roba momentanea.

Il matrimonio si avvicina e la situazione non cambia. Il nuovo direttore è così evasivo che non c’è mai neanche al telefono, tutti i dipendenti sono evasivi e quasi sembra che non vogliamo guardare negli occhi i clienti. 

Poi un giorno  al supermercato  appare davanti ad Antonio il compagno di classe di Emilia. Chiede scusa e dice che si vergogna, lo implora di portare via i suoi soldi appena può, la banca sta fallendo. 

Antonio non sa più a chi credere, fino a che il bubbone scoppia.

Il tornitore inizia a cadere in una spirale di paranoia e frustrazione, si dimentica di accudire la madre malata, litiga con tutti, gira a vuoto per la città, non dorme più. Un medico gli racconta che il termine insonnia non ha come significato originale mancanza di sonno, ma proprio mancanza di sogni. Ed è così che Antonio si sente: derubato del sogno di portare Emilia all’altare più che dei soldi, derubato della sua dignità di uomo umile che non ha mai chiesto niente a nessuno.


Antonio Albanese scrive, dirige e interpreta un film dedicato alle molte vittime dei crack bancari: spesso persone comuni che per gestire i loro pochi risparmi si sono affidati alle banche locali, con dipendenti persone con cui hanno fatto la scuola insieme. 

La crisi ha reso più instabile il mercato, la cronaca ha documentato come molte banche abbiano agito male e senza tutelare i loro correntisti “più deboli”, nei tribunali si sono moltiplicate le class action, intere comunità hanno rischiato di finire al collasso e molte famiglie si sono inevitabilmente distrutte. 

Qualcuno è stato in parte risarcito anni dopo o si è ripreso anche grazie a operatori finanziari più onesti, qualcuno non ha avuto indietro una lira. 

L’apparato sociale e il volontariato si sono mobilitati, anche con medici e psicologi, per cercare di aiutare chi si è trovato in questa terribile situazione.

Il personaggio di Antonio incarna a vive all’interno del mondo pieno di incertezze e sogni infranti di queste persone, spesso “troppo gentili” anche per pensare di arrabbiarsi con chi le ha truffate. 

Un piccolo mondo antico di provincia, dove la fiducia parte da una stretta di mano e la massima ambizione di una vita di risparmi è riuscire almeno a pagare il matrimonio di una figlia, sperando che una pensione basti per coprire il mutuo della casa. Un mondo di piccoli risparmiatori in questo caso “comaschi”, che spesso per indole conservativa non comprano neanche i gratta e vinci e mai si sarebbero sognati di giocare in borsa, finiti in un ingranaggio crudele del quale qualcuno più senza scrupoli ha sicuramente beneficiato. 

Con grande umiltà e rispetto delle istituzioni, Antonio Albanese guarda la realtà “dal basso”. Racconta i suoi personaggi con taglio quasi documentaristico, mentre con umiltà e sorriso lavorano o percorrono le strade provinciali e le vie cittadine di una “provincia” rappresentativa proprio di molte zone del comasco che negli ultimi anni sono venute incontro ad alcuni di questi crack. Il modo di parlare è spesso dialettale e carico dei toni squillanti e della forte autoironia di quei luoghi. In tutti i personaggi traspare una spontanea tendenza a sdrammatizzare le cose, ma anche la caratteristica a volte di lunghi silenzi malinconici. 

Albanese sa descrivere bene lo spirito di queste persone apparentemente burbero ma solare come zone dell’alto Lario. Uno spirito gentile ma anche combattivo e solidale, che ci viene raccontato dal regista con dei colori e una passione che non sono troppo distanti da quello della classe operaia inglese raccontata da Ken Loach: i bar e i locali pubblici diventano spontaneamente luoghi di mutuo aiuto, si parla proficuamente di agire conto le banche con le class action, si raccontano percorsi di terapie di gruppo gestiti da professionisti volontari. Il tessuto sociale c’è e si muove, con gentilezza ma anche determinazione, ma il dolore del protagonista è forse troppo grande e Albanese riesce a sottolinearlo anche con un registro visivo diverso. 

Il mondo interiore del protagonista Antonio è quasi in bianco e nero, quasi fosse ripreso dalla macchina da presa “distante e documentaristica” del cinema sociale dei fratelli Dardenne, nella sua meccanica e tragica ineluttabilità. Antonio che percorre e ripercorre gli stessi luoghi in silenzio, beve al bar nel solito posto. Antonio che fissa lo schermo della tv la sera, senza guardare effettivamente ciò che trasmette. Antonio che si permette giusto di sognare immaginando un futuro coloratissimo ma “sfuocato”, caldo ma indefinito come un ricordo di quando si era bambini. Intanto la banca, l’unica altra realtà che a un certo punto “lui riesce a vedere” lo stritola con l’indifferenza, lo fiacca con infiniti muri di parole volte a incolpare la sua “leggerezza” negli affari e lo fa sentire solo, con gli sguardi omertosi dei dipendenti che guardano sempre altrove pur di non incrociarlo negli occhi. 

Il film racconta la caduta lucida in un incubo, che viene bene sottolineato dalla colonna sonora curata da Giovanni Solimma, in cui i vìolini comunicano la glaciale distanza dei sentimenti e lo svuotamento delle emozioni che preparano all’ultimo atto, spiazzante ma profondamente coerente, liberatorio quanto tragico.

Cento domeniche è un film bellissimo e profondo che arriva allo stomaco come un pugno. 

È un film sincero e gentile sulla esasperazione e i sogni infranti, non lascia indifferenti e certo sa parlare al cuore delle tante persone che si sono ritrovate nell’ingranaggio infernale delle banche in fallimento. È anche un film che cerca di immaginare un futuro migliore grazie alla macchina della solidarietà e strumenti di controllo e giustizia più equi, nella speranza che questi prima o poi riescano davvero a fare la differenza.  

Molto bravi tutti gli interpreti, come sempre perfetto Albanese nell’indossare la difficile maschera malinconica, ma sorridente, dell’uomo qualunque. Preparate i fazzoletti. 

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domenica 19 novembre 2023

The Marvels: la nostra recensione del nuovo film supereroistico Marvel Disney “tutto al femminile”

Sinossi: Nello spazio profondo “Hala” sta morendo. Il leggendario pianeta dei guerrieri Kree, già fiaccato anni prima dagli eventi che hanno portato alla distruzione della Uni-Mente (avvenuta nel film Captain Marvel), oggi va incontro al tragico e progressivo spegnimento del sole che lo irradia. Il cielo è sempre più cupo, la terra è arida e l’aria ormai irrespirabile.

Il comandate Kree Dar-Benn (Zawe Ashton), dopo una infinita serie di poco fruttuose guerre coloniali è in cerca di una soluzione “radicale” al problema, che la spinge infine a impossessarsi di un artefatto molto antico e potente, sepolto tra le rocce di un misterioso pianeta: un bracciale quantico del tutto simile a quello ereditato dalla nonna dalla giovane terrestre Kamala Khan (Iman Vellani, protagonista della serie tv Ms.Marvel), da poco diventata la supereroina Ms. Marvel. 

Il ritrovamento di questo oggetto intriso di energia a base di luce e in grado di aprire squarci tra i pianeti, crea da subito, nel tessuto dello spazio-tempo, uno strano fenomeno che coinvolge in prima persona proprio Kamala, l’agente Monica Rambeau (Teyonah Parris, una delle protagoniste del telefilm Wandavision) e la supereroina Carol Danvers/Captain Marvel (Brie Larson, protagonista del film Captain Marvel). 

Forse perché accomunate tutte e tre da superpoteri riguardanti la stessa misteriosa forza luminescente, quando queste tre eroine si trovano sul punto di sprigionare al massimo i loro poteri, i loro corpi iniziano a “scambiarsi di posto tra loro”, anche se si trovano nelle zone più disparate dell’universo. 

È così che Kamala, dalla sua cameretta al secondo piano nella periferia di Jersey City, dove con poca voglia si dedica ai compiti, si trova di colpo su un pianeta dall’altra parte dell’universo, a combattere contro soldati alieni al posto della sua supereroina preferita, Captain Marvel. Una Cap Marvel che a sua volta, incredula e un po’ imbarazzata, viene catapultata sulla Terra nella cameretta della ragazza, piena di poster e marchandising che la ritraggono. Ma i salti continuano e subito dopo Kamala si ritrova nello spazio orbitale terrestre, in una tuta spaziale della taglia del soldato Monica Rambeau, davanti alla stazione spaziale S.A.B.E.R. , comandata dall’eminenza grigia dello S.H.I.E.L.D. Nick Fury (Samuel Jackson, il cui personaggio è protagonista anche della recente serie tv Secret Invasion), durante l’indagine su una strana forma di luce apparsa dal nulla. 

Ogni “teletrasporto” avviene in modo rapidissimo e coinvolge a volte anche le persone nelle dirette prossimità delle nostre tre eroine, con la conseguenza che nella casetta del Jersey arrivano nel soggiorno davanti ai parenti di Kamala anche dei supersoldati Kree, mentre il gatto spaziale di Cap, Goose, finisce a fianco di Nick Fury dopo aver sviluppato una specie di “malore cosmico” simile al mal d’auto.

Per sistemare le cose e soprattutto per permettere a Kamala di sopravvivere, considerando che è l’unica non in grado di volare o di respirare nello spazio durante i combattimenti, le tre decidono sotto la guida di Fury si riunirsi a casa di Ms.Marvel, per poi intraprendere con l’astronave/monolocale di Cap un cosmico viaggio on the road alla ricerca della causa di tutti i problemi: Dar-Benn.

Giocoforza dovranno stare “insieme”, pur inconsapevoli del fatto che il comandante Kree con quel bracciale è così forte da essere in grado di annullare tutti i loro poteri, compresi gli straordinari poteri cosmici “distruggi-astronavi” di Cap Marvel. 

Se l’unione fa la forza e il brano “Intergalactic” dei Beasty Boys aiuta il gruppo a esercitarsi nel coordinamento del loro nuovo “potere combinato”, rendendo più gestibili i micro-teletrasporti, l’armonia generale risulta più difficile del previsto.

Monica conosceva Cap Marvel quando ancora era solo la terrestre Carol Danvers (eventi raccontati in Captain Marvel) e ancora non le ha perdonato il fatto di aver abbandonato sua madre, la sua migliore amica, sul letto di morte, per partire per sempre nello spazio. 

Kamala a sua volta è sempre vissuta nel mito di Cap Marvel e non è forse pronta a vedere i lati più “duri” che il carattere della sua eroina è costretta a mostrare nei momenti più difficili di una guerra. Cap a sua volta vive da tempo di continui sensi di colpa per non essere all’altezza del ruolo che gli altri le hanno assegnato, chiudendosi sempre di più in una corazza emotiva che sta iniziando a mostrare le prime falle, spezzando il “soldato Kree implacabile” che è in lei e facendo emergere, per la prima volta, tutta la fragilità e “umanità” di una ragazza che ha dovuto crescere troppo in fretta.  

Sarà un viaggio lungo e complicato, tra disneyani pianeti popolati da bellissimi extraterrestri canterini e planetoidi sull’orlo della esplosione carichi di deportati Skrull. Ma con il tempo, mentre Nick Fury dovrà fare i conti con una misteriosa invasione di “uova di carne spaziali” che sta per far affondare la sua stazione spaziale,  le tre donne inizieranno a conoscersi meglio, collaborare, comprendersi e alla fine a sentirsi quasi una squadra: le Marvels. 

Riuscirà questo strano gruppo tutto al femminile, legato da una misteriosa energia aliena, a salvare l’universo nuovamente minacciato dai kree? 


Tre supereroina in cerca della grande occasione: Marvel Disney torna in sala con un film che si può guardare e apprezzare in piena autonomia, ma che al contempo è legato a tutta la continuity del Marvel Cinematic Universe, quando a personaggi le cui origini scavano in precedenti opere autonome, cinematografiche quanto legate ai telefilm in streaming su Disney Plus. 

Captain Marvel esordiva in sala nel 2019, in una pellicola diretta da Anna Boden e Ryan Fleck dal forte spirito “girl power”, che vedeva l’eroina impersonata da Brie Larson impegnata in un percorso di crescita e consapevolezza molto duro. 

Un percorso emotivo e fisco da soldato alieno spinto dall’addestramento a essere una macchina quasi anaffettiva, che alla fine della vicenda non riusciva ancora a recuperare l’umanità perduta, dimostrandosi anzi ancora più indurita e disincantata, se non quasi cinica. 

Anche se il film aveva i colori gioiosi degli anni ‘80 e la trama era piena zeppa di azione, divertimento, gattini alieni e citazioni di Top Gun, la pellicola dava vita a un’eroina “troppo dura e distaccata”. Un'eroina che nel film successivi (come Avengers End Game) sarebbe diventata ancora più sfuggente e chiusa, attirandosi anche l’antipatia di molti fan, che l'avrebbero voluta più coinvolta in prima linea insieme agli altri eroi, invece che “girovaga per lo spazio”, chissà dove, per questioni di trama mai davvero affrontate. Questioni vaghe motivate anche dalla circostanza che Captain Marvel, un po’ come Superman o Saitama, fosse sul piano della “potenza del personaggio” molto difficile da gestire per ogni sceneggiatore. Dotata di super raggi che la rendevano quasi onnipotente, nei film corali come Avenges Endgame poteva “drammaturgicamente” entrare in scena solo all’ultimo momento, come risorsa finale: per lo più per non far sfigurare ai fini della trama i superpoteri di tutti gli altri eroi coinvolti nell’azione. 

A tutto questo si aggiungeva una produzione della pellicola che forse spinse con troppa forza su temi oggi ancora divisivi come il “patriarcato” e una Brie Larson che all’epoca, nonostante il suo divertente ruolo in Scott Pilgrim, aveva un’immagine personale molto seria, quasi austera.

Captain Marvel era in breve diventato uno dei personaggi più “antipatici e inutilmente seriosi” del Marvel Cinematic Universe. 

Decisamente più simpatica è invece da subito apparsa la serie tv Disney Plus dedicata a Ms.Marvel, scritta da Misha K.Ali. Incentrata sulle avventure tragicomiche di una ragazza americana di origine pakistana con i superpoteri, interpretata dalla brava Iman Vellani, la serie, muovendosi tra la commedia e un tipo di azione “alla Power Rangers” ha saputo affrontare, anche con tatto e intelligenza, temi sempre difficili come l’integrazione culturale, l’adolescenza e i legami intergenerazionali. Temi che Disney negli ultimi anni ha più volte dimostrato di avere cari attraverso opere come Red e Elementals. Iman Vellani interpretava poi un personaggio buffo, ma dall’animo profondo, dal fisico non scultoreo come tutte le ragazze che non fanno le fotomodelle e dal sincero “carattere nerd”. Un po’ come per l’agente Phil Coulson di Clark Gregg, era per una grande fetta del pubblico molto facile immedesimarsi in lei ed infine era interessante guardare i supereroi attraverso i suoi occhi da “eterna ragazzina”. Una ragazzina che stravedeva proprio per la “ombrosa” Captain Marvel. 

Il personaggio di Monica Rambeau lo abbiamo conosciuto invece in due momenti distinti e diversissimi. 

Nel film Captain Marvel Monica era una bambina di otto anni interpretata da Akira Akbar: la figlia del pilota di caccia Maria Rambeau e uno dei pochi legami con la terra della super eroina interpretata da Brie Larson. Nella serie tv Wandavision, all’apparenza quasi una “sit-com” alla Mia Moglie è una strega ma dai risvolti più  misteriosi e drammatici,  Monica era già adulta e interpretata da Teyonah Parris: un soldato ultra segreto della SWORD (una specie di SHIELD che si occupa di questioni meta-umane relative allo spazio aereo) addetto alla soluzione di una strana “crisi magica” che aveva coinvolto una piccola cittadina americana, forse per colpa di Wanda Maximoff, la supereroina Scarlet Witch interpretata da Elizabeth Olsen. I superpoteri arrivano a Monica durante gli eventi di Wandavision, in un modo molto sorprendente e originale, ma effettivamente anche alla fine di quella serie non sapevamo molto su di lei: era un personaggio interessante ma in fondo un comprimario, il cui potenziale necessitava ancora dell’occasione giusta per essere espresso. 

Proprio The Marvels poteva essere l’occasione giusta per rilanciare Captain Marvel in una chiave “più umana”, sviluppare meglio il carattere di Monica Rambeau e offrire a Ms.Marvel e il suo primo film cinematografico. 

Come “comprimario di lusso” è stato scelto il Nick Fury di Samuel Jackson, personaggio-chiave di tutto il Marvel Cinematic Universe da poco esule a sua volta di una serie tv, la spionistico-fantascientifica Secret Invasion, che lo ha portato narrativamente ora a gestire una stazione spaziale. 

Dar-Benn (Zawe Ashton) è in Marvels il nuovo comandante Kree dopo Ronan L’accusatore, personaggio che abbiamo visto interpretare da Lee Pace nel primo film dei Guardiani della Galassia. Ne ha ereditato la stessa uniforme, l’indole malinconica e il martello gigante. 

In un ruolo geniale e al contempo folle, quanto profondamene “disneyano”, appare nella pellicola anche la stella del pop coreano Park Seo-Joon. 

Ovviamente in tutto questo non poteva essere assente il mitico micino spaziale di Captain Marvel.


A spasso per la galassia: il tono generale dell’opera è decisamene vicino ai toni da commedia proposti dalle avvenute televisive di Ms.Marvel o da Wandavision, con un tocco da space-opera umoristica alla James Gunn, per lo più volto a stravolgere i temi cari a Star Trek.

La sceneggiatura è stata realizzata dalla autrice di Wandavision Megan McDonnell, dall’autrice della serie tv Loki Elissa Karasik e da Nia DaCosta, che qui anche dirige la pellicola, dopo aver scritto e diretto nel 2022 il magnifico nuovo capitolo della saga horror Candyman

Fin dai primi trailer The Marvels si presentava come un’opera leggera, piena di azione e ricchissima di effetti speciali, rivolta al pubblico di adolescenti.

Promesse tutte mantenute al netto di una sceneggiatura dai toni leggeri e dell’ottima sinergia che sembra essersi creata sul set tra le tre protagoniste. Il personaggio interpretato da Iman Vellani è il vero cuore del gruppo; il suo talento principale è riuscire con incredibile spontaneità a disinnescare tutti i momenti in cui la pellicola potenzialmente si perderebbe nel melodrammatico, riportandola sulle corde dell’ottimismo e della leggerezza. Il personaggio di Monica Rambeau è in effetti qui più centrale che in Wandavision, ma ancora incredibilmente rigido nella sua caratterizzazione, risultando infine ancora all’interno di un processo di “svelamento” che dovrà necessariamente palesarsi in futuro. 

La grande sorpresa è una Cap Marvel di Brie Larson che, incredibilmente, riesce a essere per la prima volta “umana”. Carina e vulnerabile quasi come una principessa Disney, Cap Marvel sembra ringiovanita, più timida e insicura, anche più divertente e autoironica. Le tre sceneggiatrici con lei sono davvero riuscite ad aggiustare il tiro, senza al contempo perdere per strada i tratti anche tragici e “militari” di un personaggio che ora appare davvero più complesso quanto convincente. L’avventura spaziale che coinvolge le tre eroine è sempre carica di trovate narrative interessanti, con la prima parte della pellicola, quella sullo “scambio continuo dei poteri”, che risulta particolarmente frenetica quanto ironica.

Sul finale il tono della narrazione si fa più cupo e “maturo”, ma il tutto avviene senza troppi strappi, in modo bene organizzato e credibile: se nella prima parte è il personaggio di Kamala che spinge per “risvegliare” un senso di gioia e complicità quasi adolescenziale tra sue compagne di viaggio, ragazze entrambe per motivi diversi “cresciute troppo in fretta”, nella parte finale sono Monica e Carol ad accompagnare e guidare le loro amica più giovane alle scelte più difficili proprie della vita adulta: quando il “gioco dei supereroi” si trasforma, giocoforza, in un “impegno militare” degli stessi, in conflitti dagli esiti anche tragici e dolorosi. È una bella sinergia. 

Come nel film Captain Marvel, anche in The Marvels il Nick Fury dì Jackson svela i lati più giocosi e sarcastici del suo personaggio, lanciandosi nella sua base spaziale in una surreale “caccia all’alieno” dagli esiti tragicomici, nella quale viene coinvolta anche tutta la buffa famiglia di Kamala. 

Forse il personaggio della villain, come del resto capita in moltissime pellicole Marvel, è quello che alla fine della storia rimane un po’ sacrificato. Fuori fuoco, irrisolto e inespresso, nonché a livello estetico infelicemente quasi un clone “al femminile” di qualcosa di già visto. Non per demeriti della brava Zawe Ashton, che anzi cerca appena può di far trasparire sotto il trucco, il martellone e l’armatura pesante tutta la tragicità e “fragilità” di un personaggio “cattivo per le ragioni sbagliate”, di fatto una vittima manipolata e tormentata dalle circostanze. Un cattivo per sbaglio che cerca di risistemare le sorti del suo pianeta “delocalizzandone le disgrazie”, in momenti che sanno parlarci tra le righe anche delle conseguenze del cambiamento climatico, quanto delle politiche “meno nobili” che certe società mettono in atto per “smaltire le proprie colpe” a danno di altri. 

Ad ogni modo l’avventura diverte e intrattiene per le sue due ore di durata, tra fantastici momenti pieni di citazioni ai musical, astronavi, alieni e pianeti tanto lontani quanto colorati, scontri all’insegna di raggi laser, inseguimenti intergalattici e tutti i classici “luoghi comuni” sempre presenti e graditi in ogni cinecomic. 

Come sempre è presente la classica scena dopo i titoli di coda, che in questo caso apre su scenari futuri particolarmente interessanti e per molti versi da molto tempo “attesi” dai fan. 


Finale: The Marvels è un film gradevole e divertente, con la rara dote di migliorare dei personaggi già scritti in precedenza con ottime intuizioni visive e buoni approfondimenti della loro sfera personale. Bravissima Iman Vellani, questa volta davvero convincente Brie Larson, come sempre simpatico Samuel Jackson. 

Se avete amato Ms.Marvel, questo film rappresenta la sua giusta espansione cinematografica. 

Se non avete ancora visto Ms.Marvel, prima della visione consiglio di recuperare almeno le prime puntate della serie Disney+, non tanto per problemi di comprensione della trama, quanto per valutare se può piacervi l’approccio ai supereroi, leggero e pieno di humor, nonché rivolto a un pubblico al femminile prettamente adolescenziale, della divertente serie curata da Misha K.Ali. 

Se amate i gattini spaziali come Goose, sarete di sicuro già stati al cinema ancora prima di leggere tutto questo pezzo. 

Talk0

sabato 18 novembre 2023

Trolls 3: la nostra recensione del cartone animato musicale e “avventuroso” di Dreamworks, sui mitici pupazzetti cappelloni ideati da Thomas Dam

Dopo la fine della guerra musicale tra le tribù dei Trolls, è finalmente arrivato nel regno un lungo periodo di pace.

È un giorno di ferventi preparativi nel villaggio dei Trolls “del Pop”, perché il malinconico Branch (con la voce del cantante Stash dei The Colors e in originale di Justin Timberlake) e la super spumeggiante principessa Poppy (con la voce di Lodovica Comello e in originale di Anna Kendrick) sono stati invitati, come ospiti d’onore, al matrimonio dei loro amici bergen, re Gristle e Brigida. L’evento è organizzato da Miss Maxime (in originale con la voce di RuPaul) e si presenta come la cosa più fantastica di sempre. La sposa ha un bellissimo abito realizzato insieme a Poppy, tutto fatto di palloncini a elio. 

Tra coreografie e balletti colorati, fuochi d’artificio e canzoni ad hoc,  sembra filare tutto per il verso giusto fino al fantomatico “sì”, quando all’improvviso, dal cielo, irrompe sulla scena il fratello più grande di Branch, l’autoritario e un po’ egocentrico John Dory. 

I due non si vedevano ormai da anni, da quando il gruppo musicale/familiare costituito da tutti i fratelli di Branch, i BroZone, aveva deciso di sciogliersi per “divergenze interne multiple” mai chiarite, delle quali si sono incolpati un po’ tutti decidendo infine di non poter più nemmeno vivere insieme. 

Ma ora i termini per una Reunion dei BroZone sono diventati davvero impellenti e per nulla relativi alle solite ragioni commerciali: John Dory ha ricevuto da poco terribili notizie sul loro generoso ed empatico fratello Floyd. 

Rapito da una coppia di cantantucoli, Velvel e Veneer, Floyd è stato infilato in una specie di “diffusore in cristallo” per fare sì che il suo talento musicale possa essere spruzzato quotidianamente su queste sedicenti nuove star del pop. L’effetto ha fatto scalare al duo tutte le hit parade, ma il “talento spray” è solo momentaneo 3 dopo ogni spruzzata la vita di Floyd è sempre più prosciugata. Velvet e Veneer non hanno alcuna intenzione di fermarsi, rinunciando così alla fama. 

Per salvare Floyd e infrangere quella prigione di cristallo che lo rinchiude c’è solo un modo al mondo: l’onda d’urto che può scaturire la melodia perfetta che può essere generata solo una boyband perfettamente coordinata e al top della forma. 

Come lo erano i BroZone dei tempi d’oro.

Prima però bisogna escogitare un piano di salvataggio e prima ancora è necessario riformare il gruppo, seguendo i pochi indizi su dove ora si trovino, dispersi nel mondo, gli altri fratelli: Clay “il buffo”, che però voleva ci si riferisse a lui come all’intellettuale del gruppo (uno dei mille motivi di scioglimento della band), e l’atletico capellone Spruce. 

Terminate le nozze con gli amici Berger che partono per la luna di miele,  a bordo di un simpatico autobus millepiedi (simile al gattobus di Totoro) partono per l’avventura Poppy, Branch, John Dory e il mitico e carismatico troll glitterato Baby Diamante, ormai stufo di essere per tutti “baby” e in cerca di “avventure da adulto”. Durante il viaggio il gruppo avrà modo di allargarsi, scontrarsi e chiarirsi, ma incontrerà sulla strada anche una tribù di pop troll scomparsa anni prima dopo la terribile guerra contro i Bergen, quando ancora Poppy era una bambina. Questi ora si nascondono in un tetro campetto da mini golf abbandonato, usando i loro lunghi capelli per mimetizzarsi con le palline e spaventando gli avventori con un terribile pagliaccio gigante. 

A comandarli è Viva, una troll che assomiglia tantissimo a Poppy e che forse nasconde dei segreti. 

Riuscirà la band a riunirsi e la “forza delle Boyband” a trionfare di nuovo nel mondo?


Tornano nelle sale per la loro terza avventura cinematografia i pupazzetti capelluti creati da Thomas Dam e prodotti da Mattel, nuovamente animati dalle sapienti mani della Dreamworks Animation e nuovamente accompagnati musicalmente da una colonna sonora da sballo assoluto, prodotta da Theodore Shapiro, che pesca a piene mani e “reinventa” dal meglio della musica pop di ieri e di oggi. 

Lo stile visivo non cambia nella sua commistione tra figure semplici ma “morbide”, “slapstick” nelle espressioni facciali ma “coccolose” nei movimenti, inserite in un mondo pieno di colori e in continuo movimento, che sa sempre portarci idealmente su montagne russe psichedeliche e glitterate dalle quali non vorremmo mai scendere.

In questo terzo capitolo c’è ancora tanta voglia di sperimentare sul piano visivo, creando per il mondo dei Trolls nuove razze, animali e paesaggi dalla fisionomia e fisiologia strana, senza farsi mancare artisticamente geniali momenti in grafica “bidimensionale” che citano direttamente la storia della “musica animata” come  The Yellow Submarine (ma anche la Guida galattica per gli autostoppisti). 

I personaggi risultano ancora ben scritti e stimolanti nel loro apparirci tutti simpatici quanto autoironici, sempre pronti a lanciarsi in qualche mirabile scena d’azione o gag esilarante con uguale incoscienza. Anche i nuovi protagonisti riescono a integrarsi subito bene nel gruppo, diventando in breve tempo familiari e riconoscibili. 

Dopo un capitolo “geo-pop-politico” dedicato allo scontro e poi fusione di più popoli Trolls, nel segno della contaminazione musicale/culturale di ogni tribù, le avventure di Poppy e compagni si spostano sul tema della “famiglia” come nel classici film di Natale e in Fast’n’Furious. Questa svolta tematica, in un mondo colorato e densissimo di riferimenti musicali come è quello dei Trolls, si traduce in “storia delle Boy Band Cap.1”: nello specifico l’era passata delle Boy Band della MTV Generation. Un periodo particolarmente oscuro dell’intrattenimento musicale televisivo, quando ancora internet era agli albori, in cui i programmi radio e tv che potevano farci ascoltare il meglio dei Radiohead, del Bowie elettronico e dei Red Hot Chili Peppers venivano invasi da torme di ragazzine dall’ormone impazzito che “deviavano” da casa la programmazione “telefonando”, impestando il palinsesto degli smielati gorgheggi e testi diabetici di ragazzetti carini e ben pettinati come i Boyzone, i Take That, gli N’Sync, i Backstreet Boys. Oggi dopo vent’anni ho personalmente fatto pace con quel mondo e riconosco i meriti e le indubbie competenze musicali di quegli artisti, come tra 20 anni troverò sicuramente un senso ai cantanti che oggi rappano con l’autotune, ed è anche per questo che il nuovo film dei Trolls mi ha subito “nostalgicamente catturato”, con delle musiche davvero fantastiche ed eseguite al meglio anche nella versione italiana, per poi convincermi con una trama che riesce ancora una volta ad essere divertente e piena di idee dissacranti quanto esilaranti. 


I BroZone come personaggi sono il distillato massimo, garbato quanto ironicamente “tragico”, della storia artistica ed emotiva che negli anni d’oro hanno vissuto un po’ di tutte le Boy Band, ma nelle dinamiche c’è anche qualche accenno ai Jackson 5, si citano “svolte intellettuali nel gruppo” che riecheggiano i Beatles. C’è tutta la voglia di tornare a cantare insieme fuori tempo massimo di un gruppo già sciolto, che era anche l’anima di The Blues Brothers. Si parla anche di famiglia e “allargando il tema” arrivano pure dei momenti ABBA, dei momenti Bee Gees.  

I “villain della storia” sembrano epigoni dell’euro-pop moderno, ma hanno felicemente il sapore e i colori acidi degli Aqua: sono divertenti e stralunati nel loro essere retro/moderni. 

Per chi ama la musica c’è in ogni sequenza tantissima ironia e nostalgia in cui immergersi, mentre i più piccoli in sala si divertiranno tra colori, canzoni, inseguimenti e gag a rotta di collo.  

Inoltre si parla di Boy Band e Mr JT, voce originale di Branch, arriva proprio per questa pellicola, e in perfetta sinergia con il messaggio del film, a realizzare il sogno di centinaia di fan: rimettere virtualmente insieme il gruppo degli N’Sync e realizzare ad hoc nuovi brani. 

Di rilievo anche il lavoro di localizzazione per il nostro paese. Branch è di nuovo con la voce del bravo Stash, mentre Poppy ha ora la voce di Lodovica Comello, che raccoglie onorevolmente l’eredità di Elodie e di Elisa. Molti brani sono stati interamente tradotti in italiano mentre altri rimangono in lingua originale anche in quanto canzoni notissime: il lavoro sonoro generale risulta ancora una volta di altissimo livello.

I Trolls tornano al cinema con una nuova pellicola particolarmente frizzante e piena di rifermenti alla storia della musica contemporanea. L’animazione, la storia e l’accompagnamento sonoro si mantengono ancora una volta su altissimi livelli. Il divertiremo non manca mai e anche i nuovi personaggi si integrano al meglio nella grande famiglia dei Trolls.

Bravi anche gli interpreti vocali italiani. 

Per i fan dei personaggi e per chi ama l’animazione dai toni più leggeri o è un nostalgico della musica delle Boy band, il nuovo film dei Trolls è una pellicola da non perdere. 

Talk0

venerdì 17 novembre 2023

Il libro delle soluzioni: la nostra recensione del nuovo film dal sapore autobiografico, tra sogno e realtà, di Michel Gondry

Dietro a ogni film c’è un intreccio di cavi, luci, viti e vite. Un flusso complesso, e a volte contorto, di mille idee, tecniche e istanze che progressivamente prendono forma, diventano arte. 

Il nuovo lavoro di Marc (Pierre Niney), visionato per la prima volta dal regista e la troupe insieme ai produttori non convince: “troppo monocorde, troppo grigio”. Per evitare che il terribile produttore Max (Vincent Elbaz) decida di passare a qualcuno di esterno la lavorazione finale della pellicola, per “migliorarla/completarla”  secondo il volere degli Studios, Marc, la suo aiuto regista Sylvia (Frankie Wallach), la montatrice Charlotte (Blanche Gardin) e il tecnico/tuttofare/“schiavo” Carlos (Mourad Boudaoud) in tutta fretta raccolgono i materiali e si preparano a fuggire dagli uffici. Ad aiutarli è anche la giovane montatrice esterna/indipendente Gabrielle (Camille Rutherford), della quale Marc si innamora perdutamente a prima vista, mentre i loro sguardi si incrociano sotto un tavolo. Gabrielle permette al gruppo di scappare con il furgone inscenando uno svenimento davanti ai cancelli, bloccando così in un atto quasi kamikaze l’auto dei produttori/inseguitori. 

Marc è sicuro di poter sistemare le cose e arrivare a un prodotto migliore in pochi giorni. Gli basta avere intorno la sua piccola troupe, l’aria del paesino di campagna dove è vissuto da piccolo accudito con affetto dalla zia Denise (Francoise Lebrun), il suo libro delle soluzioni. 

Arrivati in quella bellissima località circondata dal verde il regista, ancora “bloccato” sulle scelte di montaggio, fin dalla prima sera decide di prendere una decisione ulteriore: per poter esaltare a pieno la sua creatività, è necessario una volta per tutte rinunciare a tutti gli psicofarmaci che ultimamente è costretto ad assumere per qualche astruso volere medico. Marc vorrebbe buttarli tutti nel water ma Denise lo trattiene, lo convince a darli a lei in custodia. 

La mattina seguente Marc decide di rigirare una scena-chiave all’aperto, in modo artigianale, dietro la casa di Denise. Le riprese le effettua personalmente, con la telecamera in una mano, mentre con l’altra impugna una canna dell’acqua per simulare “l’effetto pioggia”. Per non richiamare gli attori originali, decide di usare delle comparse del posto, riprese debitamente di spalle. Tra queste c’è la stessa Denise, che dopo una mattinata di riprese sotto l’acqua è già tutta raffreddata. 

Marc ogni tanto va nel panico e scappa a nascondersi nel boschetto vicino all'abitazione, con tutto il gruppo che si avvicenda nelle ricerche senza trovarlo. Dopo ogni fuga il regista torna però da questi “isolamenti silvani” con nuove straordinarie idee. 

Si potrebbero girare nuove scene dalla prospettiva di un buco in una foglia. 

Si potrebbe rimontare tutto il film da capo con sequenze invertite nell’ordine, come una serie di flashback dentro flashback.

Si potrebbe girare tra il primo e il secondo tempo un cortometraggio animato sulla vita di una volpe che sogna di aprire un locale da parrucchiere, utilizzando solo cartoncini colorati. 

Si potrebbe chiamare un intero complesso sinfonico polacco a suonare una colonna sonora, improvvisandola sul momento, con gli orchestrali che seguono le indicazione estemporanee di Marc. 

Marc compare e scompare dal gruppo, spesso riapparendo alle due di notte davanti a qualcuno di loro mentre sta dormendo, svegliandolo con le richieste logistiche volte a dare concretezza alle sue più assurde nuove intuizioni. 

Il regista si sente inarrestabile e nel mentre decide di consultare/riprendere/scrivere/ultimare finalmente “Il libro delle soluzioni”, il suo best seller tenuto nel cassetto che presto cambierà il modo di pensare di tutto il mondo e in parte “per infusione” sta già cambiando lui in meglio. 

Sollecitati da Denise, anche per permettere al gruppo di Marc di lavorare almeno di giorno e avere delle pause dai costanti “attacchi d’arte” del genio, in paese chiedono al regista il favore di sostituire le attività giornaliere del sindaco, di recente impossibilitato alla carica dalla malattia della moglie. Solo per poche ore, giusto per levarselo dalle palle.

Ma Marc è incontenibile e tra mille progetti decide che è arrivato pure il momento di trovare il tempo per fare colpo su Gabrielle, la amata montatrice/kamikaze/freelance conosciuta in pochi secondi prima della partenza.

La ragazza, travolta dalla bizzarria del regista, prova a farsi coinvolgere e infine lo raggiunge durante la lavorazione. 

Tra mille attriti e defezioni della troupe, tra idee strampalate che alla fine si rivelano sorprendentemente interessanti e in uno stato di costante ansia per quello che potrebbe accadere il giorno dopo, il film va avanti in qualche modo. 

Riuscirà l’amore di Gabrielle a stabilizzare l’umore di Marc? 

Riuscirà la pellicola infine a uscire nelle sale come programmato? 

Riuscirà il tutto ad avere un senso? 


Il libro delle soluzioni è un vero e proprio viaggio negli ingranaggi mentali del geniale Michel Gondry. Uno striptease emotivo, che diviene un film sul mestiere di fare cinema e su come questo si mischi inevitabilmente con l’emotività, inguaiandola ma anche felicemente ingravidandola con l’arte, come 8 1/2 di Fellini. 

A tratti è anche un film sul momento in cui il velo tra reale e finzione vada a infrangersi in paranoia, come raccontatoci di recente da Ari Aster in Beau ha Paura, ma anche a fumetti dal Gipi di Stacy. 

Tutto è infuso in tanta ironia surreale sulla working class del “dietro le quinte”, luogo dove impegni, passioni e ossessioni si fondono e scontrano in modo spesso anarchico, come nella serie tv Boris

Il regista dell’Arte del sogno Michel Gondry firma una pellicola che è anche romantica, facendoci riflettere su quanto sia difficile essere romantici senza cadere in romanticismi spesso criptici, cose che “capiamo solo noi” e che all’altro magari rimarranno per sempre oscure, seppur bonariamente accettate.

Sognante e “caotico”, ma anche una delle opere più personali, autobiografiche e autoironiche, in cui con Gondry anche il suo protagonista Marc, il cui volto “teneramente dispotico” è quello del bravo Pierre Niney, racconta un‘infanzia di provincia dove ha scoperto di potersi staccare dal mondo e immaginare di viaggiare lontano, verso realtà costruite con carta e filo come nei giochi creati dai bambini. 

Come Gondry anche Marc ha vissuto momenti di “blocco” e depressione a causa di aspettative e fama. Come lui, davanti alla “dolce ossessione” di coniugare sogno e cinema, si è spesso perso nel magmatico e coloratissimo caos della sua fervida immaginazione, dove il significato più intimo di ogni cosa è spesso taciuto se non criptico al punto da dover essere spiegato dall’autore stesso (in una scena esilarante in cui spiega alla troupe il significato simbolico del suo prossimo film, guidandoli per una “parete della follia” grande un’intera parete piena di fili e mille foto). 

Gondry, da autore umile quanto intelligente, gioca a farsi un po’ beffe di se stesso e delle situazioni più assurde che il suo modo di lavorare ha “inflitto” su colleghi e amici. 

Ci riesce e quasi fa finta di non averlo mai fatto, mettendo da parte e “prendendo a calci” la sofferenza e il dolore con l’immaginazione: con l'assoluta leggerezza da cartone animato che lo contraddistingue.


Ci sono a monte la paura e l’insicurezza del domani che creano incubi come quello del “film nel film”: descritto come la fuga disperata di un uomo in bianco e nero, inseguito da qualcosa di pericoloso in un mondo grigio. 

Ci sono all’orizzonte i tentativi dell’autore di salvarsi da queste paure attraverso l’amore, che purtroppo (come capita a tanti di noi, me compreso) riesce a gestire sono nel modo più maldestro e inopportuno possibile, esibendosi in comportamenti seduttivi assolutamente “da rivedere”. Il peggiore è il complimento dedicato al personaggio di Camille Rutherford: dove per lodare il modo gentile in cui lei gli soffia sulle mani per riscaldarle dal gelo, lui sogna che lei offra un servizio simile in ogni bagno pubblico francese al posto dell’asciugatore ad aria calda. 

È da tante piccole cose di questo tipo che si costruisce questo geniale, spiritosissimo, profondo, melodrammatico e sincero quanto magniloquente “film su situazioni personali”, che sappiamo in parte essere pure note, specie dopo che ci sono state narrate nel divertente documentario su Gondry A letto con Michel Gondry scritto e diretto dal suo collaboratore François Nemeta, a sua volta “seguito” di un primo documentario di Nemeta, sempre su Gondry Michel Gondry, do it yourself. Un dittico che ci dimostra con evidenza di suo quanto già oggi servano vari documentari per parlarci di Michel Gondry, con risvolti esilaranti quanto commoventi. 

Come sempre quando ci troviamo davanti al cinema di questo autore ci è dolce naufragare nel suo mare di simboli e virtù, passioni e fantasia. Ancora un altro film di Gondry che “fa stare bene” e che a ogni visione nasconde uno scrigno sempre nuovo di significati ed emozioni. 

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