venerdì 30 giugno 2023

Houria-la voce della libertà: la nostra recensione del nuovo film della regista Mounia Meddour, sulla danza e l’inclusione

Algeria dei giorni nostri. La giovane Houria (Lyna Khoudri), il cui nome significa “libertà”, balla sul tetto del palazzo dove abita fin dall’alba, ascoltando la musica nelle cuffie e sognando qualcosa di diverso. Per lei basterebbe avere dei soldi per un’auto che la porti qualche volta fuori città, mentre la sua sodale amica Sonia (Amira Hilda Douaouda) vorrebbe che i soldi servissero per lo meno a mollare tutto e andare a vivere a Barcellona, a costo di consegnarsi a qualche scafista clandestino che in poche ore di un viaggio orribile può portarti in paradiso. Houria ha i piedi graffiati e coperti di cerotti ma continua a ballare con assoluta dedizione, perché con la sua piccola compagnia sta per portare in scena Il lago dei cigni e il ruolo di ballerina di fila è lì molto complesso. La mattina presto agli esercizi sul tetto seguono il lavoro come donna delle pulizie in un hotel e poi gli allenamenti in una palestra fatiscente, con la sera che è dedicata a un secondo lavoro da ballerina nei locali notturni, per poi il giorno dopo ricominciare il tutto. È una vita dura, ma che fa senza lamentarsi anche la madre di Houria, Sabrina (Rachida Brakni) che è una ballerina ancora in attività di balli tradizionali algerini. Madre e figlia così si sostengono e aiutano a vicenda, ma i soldi per comprare un’auto o arrivare a Barcellona sono tanti e l’unico modo per farne un po’ sono gli scontri clandestini tra arieti. Gli arieti hanno nomi altisonanti come Batman, Bin Laden, Putin e Trump. Tutti ci scommettono sopra in modo pesante, come se non ci fossero davvero altre alternative. C’è crisi e sono tutti poveri. Una notte, puntando su “Joker” che vince su Bin Laden, Houria porta a casa una somma ragguardevole. Ma un tizio sbandato, Ali (Marwan Fares), che ha scommesso sull’ariete perdente, ritiene che la vittoria sia truccata. Così insegue Houria, fino a che la prende e la butta giù dalle scale in cemento di un un vicolo isolato. La ragazza rotola in modo scomposto e picchia la testa. Ali la lascia lì senza prendersi i soldi e, convinto che sia morta, fugge. Houria però sopravvive riaprendo gli occhi in una stanza di ospedale. Il piede è rotto in modo grave e non potrà più ballare come prima, ma i danni che ha subito alla testa sembrano peggiori: Houria non riesce più a parlare. 

Le possibilità di procedere legalmente contro il suo assalitore sembrano davvero poche, perché l’uomo in qualità di ex estremista religioso pentito gode di un particolare status che di fatto gli consente di fare liberamente quello che vuole, senza conseguenze. Per cercare di contrastare il terrorismo, i poliziotti hanno le mani legate e ogni tipo di azione legale decade per paura di ritorsioni. 

Tutto ciò che può fare Houria è quindi essere seguita da un gruppo di aiuto rivolto a persone rimaste vittime, come lei, di estremisti religiosi. È un gruppo eterogeneo, dove sono presenti donne che hanno subito i peggiori tipi di abusi e traumi. Alcune hanno perso i propri figli in un'esplosione e continuano a dialogare con loro. Ci sono donne che si sono chiuse in un loro mondo interiore e donne non più autosufficienti. Ci sono donne che come Houria non parlano più, ma con cui la ragazza inizia a parlare attraverso il linguaggio dei segni. È una piccola rinascita per la ragazza, quasi una nuova famiglia. Il gruppo si affeziona a Houria e lei si affeziona a loro, decidendo di introdurre delle lezioni di ballo nelle attività comuni. La ballerina cerca così di integrare il linguaggio della danza a quello dei segni, creando una nuova forma di espressione. Il tempo passa e l’uomo che l’ha quasi uccisa per uno scherzo del destino torna a farsi sentire, in cerca dei “soldi rubati” e con la voglia di distruggere la sua vita se non li otterrà. In questo difficile momento anche l’amica di sempre, Sonia, dopo aver raccolto i soldi, decide di scappare a Barcellona con una barca clandestina, mettendo a rischio la sua vita. La vita della ballerina sta cambiando velocemente ma forse il suo amore per la danza riuscirà ad aiutarla in questo difficile percorso. 


Dopo Papicha, uscito nel 2019, Mounia Meddour torna a parlare della vita delle donne nell’Algeria dei giorni nostri, in un modo ancora una volta originale quanto intrigante. Sono raccontate di nuovo storie di donne forti e generose, aperte alla modernità quanto ossequiose delle tradizioni, che spesso vengono quasi impossibilitate ad avere una propria “voce” della società. Nel film questa voce viene non troppo metaforicamente “sottratta” con un atto di violenza, con la protagonista Houria che deve quindi mettersi alla ricerca di nuovi “linguaggi possibili” con cui potersi esprimere, in un percorso che la porterà infine a creare un modo di danzare in grado di fondere i passi della tradizione con i gesti con cui comunicano i sordomuti. Per Houria occorre trovare prima di tutto un modo di ballare semplice da imparare, quanto giocoforza la sua arte è stata “azzoppata dalla violenza” e non può più competere con Il lago dei cigni che stava preparando con tanta dedizione. Da questa prima consapevolezza, la ballerina deve integrare la danza con un linguaggio dei gesti che le viene insegnato con amore dalle sue nuove amiche, proprio nel momento della sua maggiore crisi esistenziale. Il risultato è un ballo che tutto il gruppo delle donne, ballerine o meno, è ora in grado di approcciare, diventando una nuova autonoma forma di esprimersi: un mezzo per veicolare pensieri e azioni attraverso l’arte, non troppo dissimile concettualmente al rap e alla capoeira. Un linguaggio ai più invisibile quanto per chi vuole vederlo potente, inclusivo quanto universale, sintesi perfetta del concetto di “resilienza”. La resilienza è un termine mutuato dalla siderurgia che indica in campo sociale la capacità di una persona di riprendersi da un forte urto e riorganizzare positivamente la sua vita, ed è esattamente quanto fa Houria: dopo l’incidente offre una nuova forma alla sua vita e alla sua arte rinascendo dal dolore, senza fuggire. L’amica Sonia invece fugge, come fuggono dal reale le masse che ogni sera si giocano tutti gli spicci per gli scontri tra arieti, che tanto tutti sanno che sono truccati. Se la pellicola parla di come Houria e le donne del suo gruppo di aiuto riescano con forza e determinazione a rialzarsi, trovando un nuovo senso alla loro vita senza piegarsi al destino, non manca nel film della Meddour una critica diretta più che ai singoli a una politica che di fatto sembra essersi piegata del tutto. È un paese che si è piegato ai desideri degli “estremisti pentiti”: soggetti pericolosi lasciati dalle istituzioni liberi di fare ogni cosa in quanto preziosi per una lotta al crimine che per ora non sembra ripagare di tanto sacrificio. È un paese che si è piegata al gioco di azzardo, alla quotidianità degli scafisti, alla corruzione e all’immobilismo. Anche la figura della donna avvocato che si è ritirata dall’impegno sociale urla una situazione istituzionale divenuta ormai insostenibile per la difesa del singolo. Fortuna che in tanta tragedia  ci sono ancora i colori e i balli di Houria e di sua madre, che rimandano a un Oriente magico e accogliente magari per i turisti che è ancora presente e può essere altrettanto forte, in grado di rinascere dalla bellezza. La regista con passione e amore descrive ogni ballo come ogni magnifico scorcio architettonico storico, tramonto e panorama notturno. Trasmette la forza e il sorriso di un paese che come Houria, nonostante tutto, sta cercando di rialzarsi inventandosi strade nuove, attraverso la sua cultura e i suoi magnifici paesaggi. La Meddour crede ancora in un futuro possibile al di là degli scontri degli arieti Joker e Trump. 



Molto brave tutte le attrici coinvolte, tanto le interpreti delle ballerine quanto delle donne abusate. Sono tutte in grado di creare tra i loro personaggi un rapporto umano ricco e sfaccettato, basato sul sostegno reciproco ma anche sul rispetto degli altri e la gentilezza, sul duro lavoro e l’impegno attivo a favore della comunità. Si avverte nella seconda parte, per la spontaneità del gruppo nel supportasti vicendevolmente, quasi la sensazione di trovarsi di fronte a una famiglia allargata. Glaciale “ma non per colpa sua” il personaggio di Ali, che l’interprete riesce comunque a rendere non banale, facendoci intuire un vissuto di disperazione e isolamento che ne ha compromesso il sistema di valori. Quasi tutti gli uomini in scena sono “soli” e in preda al demone del gioco, su cui puntano ogni speranza di un futuro vacuo. 

Houria è un film tragico, ma che dalla sua tragedia riesce a parlarci al meglio di rivalsa e futuro grazie al coraggio delle donne, guidandoci a passi di danza più che dietro a mille parole. È un film di speranza, che la Meddour riesce a confezionare con molta raffinatezza ed equilibrio, dosando ogni immagine e trasmettendo appieno la voglia di cambiamento delle sue protagoniste.  

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martedì 27 giugno 2023

Olga - in fuga per le Olimpiadi: la nostra recensione del film di Elie Grappe che racconta l’Ucraina degli ultimi anni dal punto di vista di una sua ginnasta olimpica

Siamo nel 2014 a Kiev, in Ucraina, all’inizio della cosiddetta “rivoluzione della dignità”. Il presidente Yanukovych non aveva firmato lo storico accordo che avrebbe reso il paese più vicino all’Unione Europea e il paese andò in subbuglio. Piazza Majdan divenne l’epicentro degli oppositori al governo e tutta la città si riempì di barricate e inni rivoluzionari. Poi arrivarono le cariche dell’esercito e lo scontro civile. Fu l’inizio di una sanguinosa guerra civile che quindicenne ginnasta Olga (Anastasia Budiashkina) non poteva vivere in prima persona, perché si trovava ad allenarsi alle parallele in una palestra in Svizzera. Poco tempo prima era rimasta infortunata alla gamba a causa di un incidente in auto in cui guidava la madre Catherine (Stephanie Chuat). Catherine era una giornalista che si opponeva al governo, l’incidente era stato a tutti gli effetti un attentato e la ragione che le spinse a mandare la figlia lontana in Svizzera, paese di origine del padre, per sua incolumità, per riprendersi e completare con più tranquillità gli allenamenti in vista dei campionati europei di ginnastica artistica. In quel paese sconosciuto Olga faticò a trovare nuove amiche: troppo rigida o poco sorridente, troppo concentrata o poco festaiola, veniva considerata “il classico robot anaffettivo dell’est”. Anche gli allenatori svizzeri non capivano tanta dedizione per gli esercizi quanta poca cura nei rapporti umani. Anche i parenti del padre la guardavano con commiserazione, non perdendo occasione per rimproverare la eccessiva passione per il giornalismo della madre, con tali parole di fuoco che Olga non riusciva a stare in loro compagnia. Era “sola” in tutti i giorni del suo esilio, dall’alba al tramonto, chiusa in quel centinaio di metri che separavano il suo alloggio dalla palestra. Sola con la sua passione, da vivere a testa bassa e muso duro, Olga si concentrava solo sul rimettersi in forma e perfezionare tra mille cadute la complessa evoluzione chiamata “Jeager”. Ogni tanto tramite internet arrivavano dalla sua vecchia compagna di squadra e amica Sasha (Sabina Rubtsova) aggiornamenti su quanto avveniva a Kiev. Si parlava di grande fermento e atti di eroismo, ma anche di momenti drammatici che avevano cambiato per sempre la vita di tutti. Anche la vita di Sasha sarebbe per sempre cambiata, dopo averle fatto scoprire l’odore della carne bruciata dalle molotov.  Qualche volta pure la madre si faceva sentire da Olga di sfuggita, tra un bombardamento, una rissa e un soggiorno in ospedale, con il volto spesso trasfigurato dalle botte. La ginnasta incassava tutto e non poteva fare altro che andare dritto per la sua strada. Anche il suo vecchio allenatore ucraino, cui era molto legata, ora faceva una vita diversa. Dopo la rivoluzione aveva “tradito” la nazionale ed era finito ad allenare le ginnaste della Federazione Russa, nel biasimo generale della squadra. Battere le russe ai campionati poteva diventare quindi per la ginnasta qualcosa di simbolico: un atto di sport ma anche di politica. La dimostrazione che potevano averla spezzata ma non l'avevano ancora sconfitta. Ma per Olga quel campionato poteva essere anche un atto di emancipazione: la volontà di distaccarsi da tutto quel “mondo” che aveva cambiato per sempre la sua vita. Allenamento dopo allenamento aveva iniziato a fasi capire e apprezzare. Aveva nuove amiche. Per questo Olga avrebbe gareggiato, ma come ginnasta svizzera, fino a che fosse stata un grado di scegliere il modo giusto di ricomporre la sua vita. 


Nel 2021 la regista svizzera Elie Grappe esordiva al cinema con questo film che racconta una storia di sport, adolescenza, sradicamento e guerra civile. Un film che oggi, dopo l’inizio della guerra tra russi e ucraini, testimonia in modo quasi profetico il doloroso percorso umano (prima ancora che politico) che ha portato agli ultimi eventi. Si racconta, “dentro  lo sguardo” profondo e doloroso di una ragazzina ferita, di una Kiev sotto assedio in cui gli animi sono già pronti a esplodere e dove la violenza ha iniziato a riempire di sangue le strade, muovendosi quasi casa per casa, trasformando in Nemico persone conosciute da anni. Una violenza di cui noi Italiani e l’informazione internazionale in genere siamo stati inconsapevoli fino a un paio di anni fa. Olga è interpretata da una bravissima attrice non professionista, una vera ginnasta ucraina che in questo momento storico è proprio in Ucraina a combattere, non solo “attraverso l’arte” ma anche in prima linea. Quasi l’intero cast è composto da vere ginnaste e allenatori, ucraini e svizzeri, scelti dalla Grappe perché possano parlare con la loro esperienza diretta dello sport quanto, sul lato ucraino, del fatto di essere umanamente, da anni e in prima persona, coinvolti in un conflitto che si trascina da fin troppo tempo, quasi nell’indifferenza dell’Occidente. La Olga di Anastasia Budiashkina, dal fisico ancora acerbo per quanto scolpito, affronta con rigore militare ogni esercizio della sua complessa preparazione, così come riesce a svelare quasi di nascosto, con assoluto pudore e compostezza, tutto il turbinio di emozioni che tiene represse, pronte a esplodere solo attraverso il gesto agonistico. Ha lo sguardo severo e malinconico, usa poche parole anche per le difficoltà della lingua diversa che deve usare nel suo “esilio svizzero” e sceglie per comunicare con il mondo di concentrarsi solo sui movimenti. Osservando anche i movimenti delle compagne di squadra passa così anche al “coaching”, aiutando le altre ginnaste, sostenendole  e instaurando così i primi rapporti con il nuovo gruppo. Per un attimo il personaggio di Olga ci fa credere che lo sport possa diventare davvero una specie di linguaggio, universale quanto inclusivo. Per un attimo sembra possibile che lo scontro civile tra russi e ucraini si possa vincere sul piano dello sport come in quella metafora anni ottanta della guerra fredda che fu Rocky IV, ma il film sente amaramente la necessità di andare oltre, raccontandoci la guerra. L'amica di Olga, Sasha, ginnasta rimasta a Kiev interpretata da Sabina Rubtsova, sceglie di rinunciare a esibirsi nel campionato e questo crea un forte cortocircuito emotivo che blocca questa forma di comunicazione. Sasha rinuncia “per lanciare un messaggio al mondo”, ma questo gesto cade nell’indifferenza generale di chi quella guerra civile non la conosce e vuole solo vedere della ginnastica. Un gesto che quindi è visto “dall’estero” come folle, come viene tacciata per “matta” la madre di Olga, che rimane sul campo di Kiev a documentare lo scontro civile invece che scappare all’estero “da brava madre”. Olga vive anche l’impotenza di non poter prendere un aereo per tornare nel suo paese, dovendo essere trattenuta “per il suo bene”, come un ostaggio, nella silenziosa e tranquilla Svizzera. Una frustrazione che sale quando il suo ex allenatore passato ai russi la incontra e in modo tragicamente lucido risponde ai suoi sguardi ribadendo che per lui “lo sport non è politica”. Quasi sostenendo che è dunque possibile da un lato rispettare una persona per la sua arte e al contempo accettare la possibilità che venga uccisa, in quanto nemica, per un “bene superiore”. Così  il film della Grappe diventa progressivamente più che un film sullo sport un film sulla impossibilità di comunicare tra le persone: una pellicola più vicina a La messa è finita di Nanni Moretti che a Rocky IV di Stallone. Un film dove ogni tipo di comunicazione va a scontrarsi con mura lucidamente invalicabili. È una lezione amarissima quanto bene rappresentata sullo schermo da una regia sempre sobria e composta, dall’ottima prova delle interpreti e da una costruzione narrativa che predilige la sottrazione al melodramma, lasciando che a esprimere le emozioni “ci provi” il linguaggio universale dello sport. Le corse preparatorie nel cuore della notte, la palestra solitaria, le cadute e i traumi, i muscoli tesi e la volontà di arrivare alla fine di una routine di gara diventano così il titanico e romantico tentativo di dare un senso alla vita: concentrato attraverso i pochi secondi di un esercizio ginnico. Una sintesi unica per la quale Olga è un film che colpisce non solo gli amanti dello sport: metafora di come il mondo perda ogni capacità razionale di comunicazione ed empatia quando si scatena malauguratamente un conflitto. La Grappe arriva in sala con un film oggi più che mai urgente. 

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domenica 25 giugno 2023

Emily: la nostra recensione del film scritto e diretto da Frances O’Connor sulla vita di Emily Bronte, autrice di Cime Tempestose

Ci troviamo nella collinosa cittadina di Thorton, nello Yorkshire, a inizio dell’Ottocento.  Emily (Emma Mackey), la terzogenita figlia del rigido pastore Patric Bronte (Adrian Dunbar), ha sempre la testa tra le nuvole. La sua diligente sorella maggiore Charlotte (Alexandra Dowling) è già avviata all’insegnamento in una scuola prestigiosa, il secondogenito Branwell (Fionn Whitehead) ha già ricevuto dei riconoscimenti per meriti nella pittura e scrittura presso la Royal Academy of Art ed Emily è ancora in giro per casa, quasi incapace di affrontare il mondo e la scuola, spaventata dallo studio e dalle compagne di corso, perennemente avvolta in un mondo tutto suo. Un mondo fatto di strane storie fantasiose che inventa mentre ascolta la natura o gioca a rotolare giù da una piccola collina come una bambina. Ormai anche la sua sorellina più piccola Anna (Amelia Gething), l’unica davvero sempre avida nell’ascoltare le strane storie di Emily prima di dormire, sta diventando più adulta di lei. Padre Patric è sconfortato, fino a che appare a Thorton un giovane curato di nome William Weightman (Oliver Jackson-Cohen). È un uomo intelligente e integerrimo, affascinante e ancora in cerca di moglie. Subito desta l’interesse di molte ragazze del luogo tra cui Charlotte, ma Patric vede in lui soprattutto l’insegnante di francese ideale per Emily. Tra Emily e William nasce una strana chimica che presto si trasforma in un sentimento consumato, clandestinamente e sempre meno saltuariamente, all’ombra di una casetta diroccata tra i boschi. Oltre alla bellezza, Emily attira William soprattutto per le poesie che lei gli dedica. Sono potenti quanto sfacciatamente erotiche e l’uomo le conserva avidamente di nascosto,  spronandola a scriverne sempre di nuove. Molto affascinato dalla nuova scrittura “più adulta” di Emily è anche suo fratello Bran, che da qualche tempo ha lasciato la scuola per vivere nello spirito degli autori bohémienne, a contatto con la natura e i bar. Con Emily, Bron si diverte ad andare a bere al pub ma anche ad osservare i suoi vicini di casa. È una cosa divertente anche se un po’ matta e morbosa, che i due condividono spesso di notte, osservandoli dal giardinetto al di là della finestra che dà sul soggiorno, acquattati nel buio. Guardano  i loro vicini di casa che mangiano e si inventano storie su cosa si dicano, fanno casino fino a che vengono inevitabilmente scoperti e costretti a scappare di nascosto dai cani mandati al loro inseguimento. Emily si sta divertendo scambiando poesie con Bran e “giocando” William, ma il tempo passa e le cose si fanno sempre più strane e distorte, il suo rapporto con il curato non sembra andare da nessuna parte e Bran sembra sempre più perso dietro alla sua bottiglia di alcol. Alcuni eventi drammatici cambieranno presto per sempre la sua vita, ma al contempo Emily sta maturando la voglia di scrivere qualcosa ancora di nuovo, magari un romanzo. Forse un giorno il padre inizierà a guardarla non come una specie di fallita e lei troverà il suo posto nel mondo e lontano da Thorton. 


L’attrice e sceneggiatrice Frances O’Connor esordisce alla regia con questo dramma in costume che interpreta la vita della scrittrice Emily Bronte come un percorso emotivo simile a quanto descritto dal suo unico romanzo, il capolavoro Cime Tempestose. Thorton è ritratto come una serie di casette affastellate in un luogo dalla natura lussureggiante, ma perennemente tempestosa e piovigginosa, in cui le sorelle Bronte (che diventeranno tutte celebri scrittrici), tra drammi e momenti di gioia, incespicano continuamente tra gli alberi e la terra scoscesa con i loro vestiti ottocenteschi: rotolando ridendo a valle o cadendo rovinosamente per essere inciampate in un ramo in un momento complicato. È come se la natura benigna/matrigna di quei luoghi avvolgesse i personaggi guidandone invisibilmente i passi, e così il processo creativo di Emily viene tradotto in un continuo incontro con il vento e le foglie cadute, nelle corse a perdifiato lungo le colline e nella malinconia nell’ascolto della pioggia, per lo più lontano dal rigore istituzionale dei sermoni paterni. Fino a che con la stessa naturalezza, innocenza, ingenuità e sfrontatezza, l’autrice arriva a descrivere gli incontri amorosi tra i corpi di due persone che si amano: diventando a tutti gli effetti, all’ombra della rigida educazione religiosa della sua famiglia, una delle penne più trasgressive dell’epoca. Emma Mackey trasmette con molta spontaneità emotiva e passione tutti i sentimenti che prova Emily in questo processo di emancipazione, che la porta a diventare in breve tempo da bambina a donna, riuscendo a cogliere il cambiamento sia sul piano espressivo quanto fisico, dando prova di una ottima interpretazione, complessa quanto riuscita. Anche la sorella “apparentemente austera” Charlotte, interpretata dalla brava Alexandra Dowling, cambia in ragione del cambiamento di Emily, arrabbiandosi furiosamente con se stessa e il mondo (ma soprattutto con la sorella) per non essere in grado di fare altrettanto “lasciandosi andare”. Charlotte è perennemente inquisitrice, contratta e incazzata e per questo nei modi brutali quasi eccessiva, buffa: come se questo difficoltà nella gestione dei sentimenti la rendesse di fatto più fragile e bambina di Charlotte. Buffo ma pure un po’ inquietante è pure il Bran di Fionn Whitehead, che vive un percorso di dissolutezza che ne conferma più fragilità che “grandiosità maledetta”. Rigido per stile di vita più che per indole, e per questo interiormente dilaniato, è invece il curato William, che l’attore Oliver Jackson-Cohen interpreta in perenne sottrazione, quasi fosse un personaggio che cerca disperatamente di diventare invisibile a tutti senza riuscirci, patendo continue crisi dietro una facciata di accomodante controllo e compostezza. All’opposto il capofamiglia Bronte portato in scena da Adrian Dunbar è gigante e dispotico, grandioso quanto quasi anaffettivo, alla continua ricerca di una auto-celebrazione che vive attraverso i successi dei suoi figli. Un moloc con cui ogni figlio e ogni abitante di Thorton fatica a confrontarsi senza prima riverentemente genuflettersi. Sono tutti personaggi molto complessi, quanto incredibilmente ben scritti e diretti da una O’Connor che si dimostra fin da questa prima prova un'autrice davvero completa, decisamente da tenere d’occhio anche per le sue opere future. Una autrice che per creare questi personaggi è in grado di spremere al meglio ogni attore fino a rendere unica ogni interpretazione, quanto di fare fondo a tutta la magia del cinema per raccontarli al meglio. Abbiamo già accennato alle meravigliose location naturalistiche che anche grazie alla fotografia dai colori tenui di Nanu Segal riescono quasi a dialogare “sensorialmente” con l’interiorità degli interpreti, a questo aggiungiamo scenografie e costumi in grado di trasportarci in un ottocento pieno del legno lucido e scricchiolante delle case quanto l’acciaio sferragliate delle ferrovie e il fumo dei pub. La colonna sonora, avvolgente e gentile ma carica di “scoppi drammatici potenti” è ad opera di Abel Korzeniowski, che ricordiamo di recente per l’horror The Nun ed è qui una scelta azzardata quanto vincente, a tratti simile nell’impatto al lavoro di Jonny Greenwood per il film Spencer. L’editing ordinato ma sempre in grado da un momento all’altro di farsi sincopato e sensuale è ad opera di Sam Sneade, già conosciuto per il ritmo tra l’austero e il sensuale de La favorita e per il modo in cui passava dalla calma al caos nel cult con Ben Kingsley Sexy Beast. Tutti i comparti funzionano e i centotrenta minuti di Emily volano in un attimo, coinvolgendoci in una storia apparentemente semplice, ma che proprio in ragione di questo peculiare lavoro artistico risulta carica di mille dettagli e sfaccettature tutte da esplorare e scoprire. Un’opera che non passerà inosservata di un'autrice che non passerà inosservata. Bravi tutti. 

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sabato 24 giugno 2023

Transformers - Il risveglio (Transformers: Rise of the Beasts): la nostra recensione della nuova pellicola di Steven Caple Jr legata al celebre brand della Hasbro, seguito diretto degli eventi del film Bumblebee del 2018


C’erano una volta, in una galassia lontana lontana, i “Maxilmals”.  Erano creature “robotico-extraterrestri-modulari” (definizione di “Transformers” per cui ringrazio Wikipedia) particolarmente evolute, in grado di camuffarsi in forme di vita animali che potessero aiutare e accompagnare gli autoctoni di un determinato pianeta, verso un radioso futuro di inclusione, energie rinnovabili e rispetto della natura. Lo avrebbero fatto in un modo silenzioso quanto saggio, spiritoso quanto spirituale, come immaginiamo facciano per noi i “delfini” (citazione da Guida galattica per autostoppisti). Forze del bene robotiche al servizio della salute di “pianeti standard”, che operavano in genere ricoperte da buffi peli, piume o squame biodegradabili, non inquinanti e senza glutine. Creature dalle origini misteriose ma con un nemico/nemesi noto e inesorabile: un pianeta non standard chiamato Unicron. Un pianeta-Transformer nello specifico, gigantesco, che amava risucchiare energia da altri pianeti, fino a “mangiarseli” del tutto quando raggiunte particolari “condizione di masticazione”. Al suo servizio c’erano i perfidi “Terrorcon”, robot extraterrestri modulari non inclusivi, inquinantissimi e in grado di camuffarsi male in creature orripilanti da incubo tutte piene di spuntoni, aculei e chele. Perfetti masticatori di pianeti. Si potrebbe voler accarezzare un soffice “panda maximal” che assomiglia a una versione avanzata del “Furbi” o del “Teddy Ruspin”. Un Terrorcon puntuto non è bello da toccare se almeno non si è fatto un richiamo o due dell’antitetanica. I Terrorcon sognavano da sempre di creare dei passaggi spazio temporali da cui Unicron poteva “bersi i pianeti” pre masticati come da un cannuccione, senza fare troppa strada: perché il loro padrone era lentissimo quanto affamato. Si dava il caso che i Maximals possedessero giusto giusto una chiave spaziale di “transcurvatura” (o qualcosa dal nome simile) per spostarsi nello spazio e nel tempo per le loro missioni equo-solidali. Lo scontro era inevitabile. Così un bel giorno dei maximal-gorilla si trovarono di nuovo davanti ai terrorcon e al loro capo, il poco espressivo Scourge, su un pianeta primitivo verdeggiante, a riempirsi di botte per una chiave spaziale. Le cose stavano andando malissimo, un maximal schimmione/leader carismatico di nome “Apecar” (se Optimus Prime è un camion, il suo omologo maximal si chiamava come una Apecar, giuro) stava per avere la peggio ed ecco l’idea delle idee: trasferirsi all’ultimo minuto su un diverso pianeta per gabbare Unicron e soci, ma al contempo dividere la chiave in più parti, da nascondere in zone diverse del nuovo pianeta, all’interno di artefatti di dubbia fedeltà storica, rintracciabili solo attraverso diabolici enigmi paleo/linguistici e templi maledetti alla Indiana Jones. Il pianeta scelto per questa caccia al tesoro era ovviamente la Terra. Così ci troviamo negli anni '90 del secolo scorso, a Brooklyn. Qui lavora come stagista sottopagata in un museo di storia antica la giovane e un po’ sfigata Elena Wallace (Dominique Fishback), massima esperta mondiale di artefatti di dubbia fedeltà storica, conoscitrice degli enigmi paleo/linguistici più oscuri e in attesa di scoprire templi maledetti alla Indiana Jones. Elena giocherella con un artefatto stranissimo a forma di pollo egizio con sopra scritte strane in una lingua sconosciuta. Cerca di datarlo con la “fantascienza” dei musei di storia antica ed ecco che il pollo svela la sua vera natura: è un pezzo della chiave “transmorfica” (o qualcosa del genere, credo che a un certo punto sia chiamata anche in questo modo) che spara un raggio di energia (invisibile all’uomo ma ai Transformers no) che avverte tutto l’universo della sua presenza. Il segnale viene avvertito da Optimus Prime e i suoi autobot, che cercano di tornare sul loro pianeta di origine Cybertron da qualche tempo dopo che sono rimasti confinati sulla Terra per quello che definiscono un “pitstop finito male”. Detta così suona quasi come una truffa su dei buoni carburante omaggio, ma le ragioni sono quelle solite, spiegate anche nel film su Bumblebee con il generico “problemi politici”. Optimus, come il Grande Puffo dei Puffi, sceglie sempre per le missioni solo alcuni dei membri della sua sterminata comunità e questa volta decide di chiamare per la missione solo un paio di amici stretti. Il primo della lista è l’insostituibile Bumblebee, che da poco ha aiutato una giovane ragazza terrestre a superare la paura di tuffarsi in piscina (questa era la trama del film “Bumblebee”, credeteci) e da allora continua a giocherellare con il suo microfono interno per fare vocine e suoni buffi come Frank Matano. Lui è un po’ il Puffo Burlone dei Transformers. Convoca anche la robottina sexy/Puffetta Arcee in grado di trasformarsi in una moto Ducati rosso-rosa perché oggi se non lo fai non è politicamente corretto e soprattutto convoca il ro-“bro” Mirage: un transformer che parla e si muove come Michelangelo delle tartarughe ninja, può diventare una Porsche blu da gangsta rapper e quando si presenta all’incontro con Optimus ha al suo interno per un motivo divertente un essere umano: Noah (Anthony Ramos). Noah è anche lui un ragazzone di Brooklyn, un ventenne dall’aria gentile, ex soldato addetto alle “cose tecnologiche” ma finito male e congedato peggio. Il suo fratellino Kris (Dean Scott Vazquez) è molto malato e Noah ha bisogno di soldi per aiutarlo, così dopo un paio di colloqui di lavoro finiti malissimo decide di assecondare il suo amico trafficone Reek (Tobe Nwigwe) e rubare da un parcheggio una Porsche blu lì ferma da molto tempo, incustodita e piena di polvere, che mai nessuno verrà a reclamare e ci facciamo due spicci. In poco tempo finisce che è la Porsche a rapire Noah durante un inseguimento della polizia, costringerlo poi ad aiutare gli autobot a entrare in quel museo dove Elena ha scoperto il primo pezzo della chiave, per recuperarla. Solo che il segnale della chiave ha attirato pure il redivivo e sempre inespressivo Scourge e i suoi Terrorcon, che dopo millemila anni sono giunti sulla terra degli anni ‘90 pieni di mazze ferrate rotanti, spadoni e palle d’acciaio. Anche loro hanno in squadra un robot donna per via dei tempi che corrono e in tutto sono tre gatti. Presto arriveranno alla festa pure tutti i Maximals (altri tre gatti) guidati da un nuovo capo-scimmione, che da secoli custodiscono gli altri pezzi della chiave di transmorficazione (o quello che è) in vari luoghi misteriosi della Terra, tutti a bassa emissione di co2 e ricchi di cultura e inclusività. Riusciranno i nostri eroi a tornare su Cybertron, aiutare il fratellino malato, battere Unicron e Terrorcon e arrivare a girare un nuovo film del franchise? 


Il regista di Creed 2, Steven Caple Jr, viene chiamato a proseguire la saga dei Transformers dopo il suo soft-reboot, avvenuto con la fortunata pellicola dedicata a Bumblebee per la regia del capo della Laika Animation (ed erede della fabbrica di scarpe Nike) Travis Knight. È interessante che al centro delle vicende appaia proprio Unicron, il personaggio/divinità anticipato già nel finale dell’ultimo film del Franchise diretto da Michael Bay, Transformers The Last Knight. Se Bay avesse davvero diretto un film con al centro Unicron, proseguendo la sua “personalissima poetica” dei film sui Transformers, ci sarebbe scoppiato il cervello a tutti. Sarebbe stato probabilmente un film di 4 ore e mezza con protagonisti almeno trenta Transformers diversi, pieno di musica a palla nu-metal, esplosioni multiple che fanno saltare le tubature di tutti i bagni pubblici con persone che vengono dai cessi lanciate sul soffitto da getti d’acqua, dirigibili che si scontrano con sommergibili in vuoti di gravità, carri armati che fanno le impennate come in un Fast and Furious, missili boomerang colorati, donne bellissime in bikini e coperte solo da crema solare tante quante ne potreste trovare in uno stadio, cani e gatti che si accoppiano mentre degli anziani li osservano commentando la performance, robot componibili grandi come grattacieli che ballano come in un musical di Bob Fosse, marines che fanno il barbecue sull’aereo prima di paracadutarsi in un vulcano con tute alari termiche hi-tech in dotazione alle truppe regolari, battute sulle scoregge proferite da una spalla comica che viene subito dopo disintegrata da un raggio congelante mentre scorreggia, John Turturro che gira nudo per San Francisco urlando per quaranta minuti “sono dentro di me!!!” con una sonda anale nel deretano. E tutto questo ce lo siamo perso per sempre, per avere questo seguito di Bumblebee che è un film molto lineare nella sua trama, quasi il perfetto cartone animato del pomeriggio. È ordinato nella costruzione dei misteri e colpi di scena quanto nella caratterizzazione dei personaggi. È quasi ingenuo nell’immaginare uno sviluppo  “da videogame” per raccontare con chiarezza anche le azioni più complesse. È spiccatamente pensato per “ragazzini” ancora ben lontani dallo scoprire che dopo le macchinine che si trasformano si potrebbe incontrare nella vita…Megan Fox e tutte le follie da Hangover che amava mettere in scena Bay. 

Però il film funziona. 


Visivamente il lavoro è rimarchevole sul piano visivo e sonoro, gli effetti speciali che muovono i robottoni (tutti molto accattivanti e caratterizzati, a parte Scourge) sono molto validi, non c’è una sola sequenza che sia incomprensibile o crei crisi epilettiche. Optimus Prime ha una caratterizzazione interessante e diversa dal solito, Mirage è un vero mattatore insieme a Noah e ha tutta una sua scena madre, anche Bumblebee si ritaglia un paio di scene epiche importanti, citando addirittura L’attimo fuggente di Robin a Williams. Gli attori in carne e ossa sono tutti in parte e alcuni di loro sono piuttosto simpatici, come Anthony Ramos che dà vita a un “eroe umano” sensibile e molto composto, anni luce da quei personaggi/schegge impazzite di Shia LaBeoff e Mark Wahlberg. 

Anche le scene d’azione più concitate sono roboanti ma sempre intellegibili. 

Transformers il risveglio incarna decisamente meglio lo spirito originale della serie tv e di sicuro è la strada giusta per ricostruire il franchise in modo più omogeneo rispetto alle fonti originali, assecondando così i desideri di molti fan storici del brand e accogliendo i nuovi fan grazie a una pellicola che non mette mai troppa carne al fuoco, parla in modo semplice, vive di buoni sentimenti con giusto qualche piccola e gradita sterzata umoristica e tanta azione. Dura solo un paio d’ore, non ha incredibilmente nessun buco di trama (significativo) rispetto alla continuity con il film precedente, non uscirete dalla sala con quel l’inconfondibile senso di nausea e labirintite che sa offrire un film di Bay. A qualcuno questa forse cosa dispiacerà un po’, ma si divertirà anche lui alla fine. 


I Transformers escono al cinema con un film divertente, spettacolare e ben girato che guarda molto alla struttura della serie animata classica, accontenta i fan storici e promette un paio di ore di divertimento disimpegnato da gustare rigorosamente al cinema, in una sala bella grande per gustare colori, musiche e popcorn insieme ai più piccoli. Non è necessario aver visto un film precedente per entrare nella trama, gli attori sono molto simpatici e gli effetti speciali davvero ben riusciti. Ottime le scene d’azione e di inseguimento, ottimo tutto il primo tempo per ritmo e narrazione, l’organizzazione generale della storia nella seconda parte a tratti può apparire un po’ macchinosa e derivativa della struttura narrativa di alcuni videogame odierni, ma si fa perdonare per i molti effetti speciali messi in campo. Nel complesso un film che gli amanti dei Transformers non dovrebbero lasciarsi scappare, anche se chi amava di più la “follia di Michael Bay” potrebbe valutare che in questa pur riuscita ricetta manchi un po’ di salsa piccante. Si consiglia per compensare di prendere delle patatine alla paprika. 

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lunedì 19 giugno 2023

Denti da squalo: la nostra recensione di una interessante “favola criminale” dai produttori di Lo chiamavano Jeeg Robot e per la regia di Davide Gentile

Ci troviamo sul litorale romano dei giorni nostri, in un caldo pomeriggio di giugno. Potrebbe essere l’inizio di una classica estate spensierata, da passare tra la  spiaggia e l’ombrellone, impiastricciandosi di crema solare offerta dalla mamma (Virginia Raffaele), mangiando gelati e aspettando l’ora di gettarsi tra le onde del mare, ma per il tredicenne Walter (Tiziano Menichelli) non è un’estate come le altre. Suo padre Antonio (Claudio Santamaria), operaio edile, è di recente morto in un incidente di cantiere, un fatto riportato anche dai giornali. Di dice che è morto da eroe, ma comunque ora non c’è più. Era un padre enorme, dalla voce sempre calda e calma, generoso e misterioso. Walter avrebbe voluto conoscerlo un po’ di più e ogni tanto indaga tra le sue vecchie foto, che la mamma sta cercando da tempo di distruggere senza riuscirci. Ci sono immagini di persone che sembrano molto amiche di Antonio, ma che il ragazzino non ha mai incontrato. In una sembra esserci un amico coetaneo di suo padre. Alcune sono state scattate nei pressi di una torre misteriosa, che sembra quasi uscita da un romanzo di pirati. In un pomeriggio d’estate in cui Walter non ha nessuna voglia della spiaggia, mentre si allontana in bicicletta dagli ombrelloni portandosi dentro tutta la tristezza del mondo, il ragazzo si imbatte proprio in quella torre misteriosa delle foto, che un po’ nascosta dalla vegetazione e dal paesaggio non aveva mai fatto caso si trovasse non troppo lontana da casa sua. C’è la torre e a fianco una grande villa con parco, con al centro un'enorme piscina coperta delle foglie. Tutto è sigillato dietro un grande cancello, ma la zona pare disabitata. Superato il cancello scavalcandolo, Walter si trova in un attimo proprio davanti a quel piccolo specchio d’acqua nascosto dalla vegetazione: si tuffa dentro senza pensarci ed è come se il mondo si fermasse, restando sospeso.  Arriva un silenzio caldo e gentile ad avvolgere tutti i pensieri che gli girano per la testa, arriva la calma. Poi silenziosa un ombra si avvicina. La vede di sfuggita mentre si trova ancora sott’acqua, si svela quasi per caso alla luce del sole dalle foglie smosse dopo il suo tuffo. Istintivamente il ragazzo riemerge e vede una pinna minacciosa: l’ombra nascondeva uno squalo. Un mako. Nella piscina c’è uno squalo mako e Walter può solo nuotare con tutta la sua forza fino a bordo vasca per cercare di saltare fuori e lasciarlo lì, con i suoi denti da squalo ancora a bocca asciutta. La fuga riesce ma il ragazzo non può andare via da quel luogo, è quasi ipnotizzato, eccitato, non si è sentito mai così “vivo”. La casa e la torre sono chiuse a chiave, non c’è nessuno nei paraggi. Qualcuno ha posizionato una specie di amaca dove sdraiarsi e con un paio di aggiustamenti quel posto potrebbe essere quasi confortevole. Quello potrebbe essere il suo covo personale e lo squalo il suo nuovo amico per le vacanze. Certo gli squali dovranno pur mangiare qualcosa e occorrerà attrezzarsi. Il giorno dopo Walter, mentre la madre va a lavorare al ristorante, torna alla villa con del pesce surgelato. Con stupore e un po’ di risentimento incontra così Carlo (Stefano Rosci), un ragazzino poco più grande di Walter, con i capelli tinti biondo platino e l’aria da gangster cattivo. Dice con strafottenza che il covo è gestito da lui e solo lui si cura dello squalo e può dargli da mangiare: non vuole altri ragazzini intorno a parte lui stesso. I due si squadrano, si pesano e quasi ai scontrano, ma presto arrivano i compromessi e per la magia di quel posto diventano amici. Subito parlano di scuola, calcio e di vita da gangster. Un attimo dopo sono insieme su una ape-car per una specie di piano per rubare del pesce fresco per lo squalo, assaltando una pescheria in orario notturno. Sono già inseparabili. L’accesso alla torre rimane inespugnabile ma in qualche modo in seguito, con Carlo che non è d’accordo, i due entrano nella villa e scoprono che è piena di autentici tesori. Quadri, statue, lampadari e tappeti pregiati. Dentro una cassa ci sono anche delle autentiche pistole “gemelle”. Carlo sa qualcosa di vago e misterioso su quel posto e racconta che un tempo era proprietà di un boss chiamato il Barracuda, l’uomo più pericoloso della zona. Il Barracuda era stato sfidato da un ragazzino temerario come loro due, che si faceva chiamare il Corsaro. Il Barracuda era grosso ma aveva perso tutto, fortuna e villa. Probabilmente il vecchio boss vagava ancora come fantasma in quei luoghi, ma Walter era più interessato a scoprire se il Corsaro in questa impresa fosse stato aiutato da un amico, uno con cui condividere delle foto. Nessuno sapeva però come ci fosse arrivato lì uno squalo e se c’era ai tempi del Barracuda o del Corsaro. Nessuno conosceva ancora la stanza sotterranea dalla quale si poteva scrutare la piscina e il grande predatore come davanti a un enorme acquario, seduti su una poltrona in pelle. L'avrebbe scoperto Walter da lì a poco. All’insaputa della madre perennemente al ristorante e con la voglia di dimostrarsi simile e intraprendente come Carlo, “cattivo e determinato” come uno squalo, Walter inizia a frequentare con lui il bar sulla chiatta dei pescatori dove ha il suo piccolo covo il piccolo boss locale, Tecno: un ragazzino di poco più grande di Carlo, amante dei videogiochi e della musica da discoteca, ma già alla guida di un bel gruppetto, tra cui ci sono anche delle ragazze. Walter si fa notare dal mini-boss e sembra che la sua vita sia finalmente svoltata: è di colpo diventato grande e fa una vita grande, eroica e piena di emozioni. Una vita che non lo avrebbe mai fatto finire come suo padre, morto da povero in un incidente di cantiere. Ma, nonostante l’impegno, a Walter i denti da squalo che accomunano il suo amico nella vasca e i gangster forse non sono ancora cresciuti del tutto. E infine a cosa serve essere un temibile squalo, se ti mettono poi a vita dentro una piccola piscina da cui non puoi più scappare? Walter sta per scoprire che esistono in natura predatori più grossi. 


Gabriele Mainetti, insieme ai produttori di Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, accompagnano nel suo esordio al lungometraggio il promettente regista Davide Gentile. Alla sceneggiatura ci sono Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, autori delle serie tv crime Gomorra e Suburra, ma anche dietro a opere più stralunate, come Addio fottuti musi verdi dei The Jackal. Denti da Squalo esce nell’insieme come un crime abbastanza stralunato: un'interessante favola sull'“adolescenza criminale” che si mischia a Free Willy, dove il “male”, con le sue liturgie di grandiosità e potere, viene smitizzato dallo sguardo fanciullesco dei piccoli e bravi protagonisti della vicenda. In una periferia avida di prospettive reali al di fuori del lavoro duro e ampiamente sottopagato dei genitori, più che sognare di diventare l’uomo-ragno i due ragazzini sognano che gli crescano denti da squalo come quelli degli altri “duri” della zona. Sognano di fare la “scalata al potere”, pensando di raggiungere così la più grande libertà e indipendenza dal mondo degli adulti, fino a quando questo gioco, come sempre, si trasforma inesorabilmente in una frustrazione con poche vie d’uscita. Un gioco di potere dove c’è sempre qualcuno di più potente, uno squalo più grosso pronto a schiacciarti e rinchiuderti in una piscina, a meno che non si decida di giocare un gioco diverso. Il film veicola questo messaggio nel modo più cristallino possibile, risultando comprensibilissimo anche agli spettatori più piccoli, a cui la pellicola è principalmente rivolta, portandoci in un mondo molto colorato e pieno di luoghi del litorale romano caldi e quasi magici (ottime tutte le scenografie e location), si potrebbe dire a tutti gli effetti “pirateschi”. Edoardo Pesce diventa sulla scena il Corsaro perfetto: l’immagine dell’uomo duro a tutto tondo: malevolo, malinconico quando ironico, quasi mitologico. Claudio Santamaria interpreta “fantasmaticamente” il ruolo del padre di Walter ed è per molti versi agli occhi del figlio speculare al Corsaro, lo “completa idealmente” anche se i due attori non sono mai davvero insieme sulla scena. La sempre bellissima Virginia Raffaele, ha in Denti da Squalo un ruolo drammatico quanto profondamente umano: da madre imperfetta e irrigidita dalla vita. Una donna spesso sfuggente e assente, che riesce a sorridere solo a denti stretti e che cerca di essere gentile anche se risulta sempre arrabbiata e triste, costantemente sul punto di voler lasciarsi il passato alle spalle senza però mai riuscirci. Una mamma che sgrida e poi se ne pente. Tutti i personaggi adulti vivono riflessi negli occhi del piccolo Walter e gli attori riescono a creare una bella intesa e chimica con il giovane e bravo protagonista. Ma quando il piccolo Tiziano Menichelli è in scena con il giovane Stefano Roschi, la pellicola dà il suo meglio. I due piccoli attori dialogano con spontaneità assoluta, costruendo tra i loro personaggi un'amicizia credibile e non stereotipata, vitale quanto spigolosa, competitiva quanta affettuosa. Un piccolo percorso di crescita condiviso emozionante. Ci sono poi i baby-gangster e lo squalo nella piscina: tutte creature tragiche ugualmente inconsapevoli di vivere all’interno di un piccolo recinto, in cui si possono mostrare i denti e poco più, fino a essere “rimessi al proprio posto”. Tutto il cast “corale” risulta ben integrato nel contesto e anche lo squalo riesce grazie agli effetti speciali quasi a sviluppare sulla scena una sua precisa personalità, scontrosa ma infine gentile. Il film potrebbe finire con una nota amara, ma cerca con coraggio di farsi favola e metafora fino alla fine, costruendo un ultimo atto quasi onirico in cui si prospetta un futuro migliore per tutti, uomini e squali. Il realismo qui viene forse messo un po’ da parte in ragione della spettacolarità, ma l’operazione infine riesce. 


Denti da squalo è una favola moderna piena di luoghi magici e ottimi interpreti. Gli effetti speciali sono adeguati, l’atmosfera è calda e avvolgente, il messaggio dell’opera è esposto con precisione e garbo senza mai essere lezioso. È un ottimo film da vedere al cinema, adatto a tutte le età o magari assieme a ragazzi della stessa età dei protagonisti, per parlare poi con loro e confrontarsi su quanto è difficile o è stato difficile, ma bellissimo come una favola, avere 13 anni. Un buon esordio alla regia per Gentile, di cui aspettiamo con piacere le future prove. 

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sabato 17 giugno 2023

Daliland: la nostra recensione dell’ironico e malinconico, epico e psicanalitico film sulla vita del grande pittore Salvador Dalì. Diretto da Mary Harron, regista di American Psycho e interpretato magistralmente da Ben Kingsley

C’era una volta un uomo che con la sua arte e sensibilità sapeva dirigere le onde del mare come un’orchestra. Poteva quasi disciogliere il tempo e riusciva a trasformarne con il suo sguardo ogni donna in una dea. Era il grande Salvador Dalì (Ben Kingsley), genio e rockstar incontrastata dell’arte, conosciuto e amato da grandi e bambini, cullato da ogni salotto artistico e aristocratico quando dalla tv commerciale. Un uomo forse anche in possesso delle chiavi per poter accedere ai party più incredibili e trasgressivi di New York: quelli che si tenevano in uno dei più lussuosi piani del più lussuoso albergo della città. Feste che duravano giorni a cui partecipavano anche Alice Cooper, Andy Warhol e lo stesso Gesù di Nazareth: nel senso dell’attore Jeff Fenholt (Zachary Nachbar-Seckel) protagonista nel ruolo di messia del musical Jesus Christ Superstar. Si dice che Dalì stesso provvedesse al mantenimento “terreno” di Gesù, albergo ed extra compresi, per conto dell’unica persona al mondo che lui riteneva più grande: sua moglie Gala (Barbara Sukowa). Gala lo aveva accolto nella sua vita quando era giovane (da giovane Dalì ha il volto del bravo Ezra Miller), in una bellissima giornata di sole. Gli era stata quasi portata dal mare e da allora lo aveva amato e guidato, mentre altri lo credevano solo un pazzo. Dalì le aveva dato il suo cuore e le chiavi della sua sanità mentale, designandola come amministratrice unica di ogni sua pur piccola decisione: amante, moglie e madre, sua dea e padrona, per sempre. Con questo compromesso , una certa briglia sciolta di Gala, era così diventato un uomo felice, in grado di realizzare ogni suo sogno e opera di ingegno. Un uomo che poteva sedurre chiunque lo incontrasse, pagare il ristorante con un “autografo” che sarebbe stato rivenduto a caro prezzo, circondarsi perennemente di ninfe. Ninfe moderne/amanti/ancelle come l'aristocratica “Ginestra” (Suki Waterhouse) e la solare “Amanda” (Andreja Pejic). Ma nonostante la grandezza, l’amore, la fama, i soldi e la vicinanza diretta con il figlio del Padre Eterno, talvolta non era comunque facile essere Dalì. 

Ogni tanto anche un genio come lui “si bloccava”, con le mani che non riuscivano più a orientarsi correttamente sulla tela. Dalì temeva allora l’ira funesta di Gala. Viveva così sempre più spesso le emozioni in modo forte e contraddittorio. Se gli affari non andavano bene, doveva per Gala dipingere di più, sempre di più per sostenere il piccolo mondo di nani e ballerine in cui vivevano, la sua “Daliland”. 


A New York, nel 1974, presso l’appartamento di lusso del Saint Regis Hotel dove aveva momentaneamente sede legale “Daliland”, arrivò così San Sebastiano (Christopher Briney). Si faceva chiamare “James”, diceva di essere assistente di una galleria d’arte ma c’era effettivamente di più: sapeva guardare Dalì con un occhio diverso da tutti gli altri. Sapeva riconoscere il differente stile con cui il pittore rendeva unica ogni sua firma sugli assegni e autografo, come fosse un piccolo originale regalo, un‘opera personalizzata. Da qualche tempo gran parte del lavoro di Dalì consisteva in firmare litografie, in quanto il tempo non bastava mai e non avrebbe mai avuto più la capacità di produrre tutti i quadri e sculture che servivano a mantenere il suo piccolo mondo. In quelle piccole firme c’era un Dalì che non si piegava alle logiche da catene di montaggio delle repliche e James lo aveva colto: San Sebastiano conosceva il martirio che lui viveva e poteva volergli bene. James lo avrebbe seguito anche nelle successive sedi di Daliland, ma avrebbe dovuto fare i conti anche con uno sfuggente e meteoropatico Gesù e soprattutto con Gala: una donna ormai indurita dagli anni e forse diventata incapace di amare, ma al cui volere il pittore che dirigeva le onde e controllava il tempo non poteva opporsi.

La regista di Ho sparato a Andy Warhol e America Psycho (vero manifesto sociale del “post yuppismo”), Mary Harron, dirige un film scritto da John Walsh: suo sceneggiatore nella serie Netflix L’altra Grace, ispirata a una storia vera tra cronaca nera e psicologia, ma anche autore di un corto su Armani e regista di seconda unità di The Notorius Betty Page. La fascinazione comune della Harron e di Walsh per la cronaca, la società dell’immagine, la psicologia e alcune delle figure più iconiche della storia recente, li ha portati così a scegliere il camaleontico Ben Kingsley per celebrare, umanamente e “mitologicamente”, prima ancora che artisticamente, una delle più controverse e amate icone del novecento. L’intento era raccontare  l’uomo nel suo essere fragile quanto “dionisiaco”, scegliendo un periodo della vita del grande artista particolarmente turbolento e caotico, ma anche incredibilmente affascinante, “pantagruelico e luculliano”, da tragedia greca ma con le luci psichedeliche e psicotrope della rivoluzione e contro-cultura hippy. Kingsley indossa i baffetti arricciati di Dalì con la stessa eleganza con cui inforcava i rotondi occhialini di Ghandi, fondendosi in tutto e per tutto con l’icona. Quasi posseduto dal suo spirito, il pittore rivive in lui nello sguardo pungente, nei movimenti eleganti quando nell’eloquio magniloquente ma non superficiale, tra grandiosità e fragilità, eccentricità e sensibilità. Più che un uomo un titano ferito, perennemente incatenato al destino ingrato che lo lega emotivamente e forse subdolamente a Gala, una donna descritta in modo altrettanto “imponente”, matrignamente divina, dalla eccezionale Barbara Sukowa, che fu già nel 1981 (a pochi mesi da Ghandi di Kingsley) la fatale ammaliatrice Lola per Fassbinder, per essere poi la diabolica scienziata/dittatrice dell’Esercito delle 12 scimmie di Gilliam. Vedere insieme Kingsley e la Sukowa a impersonare Gala e Dalì ci proietta nella tragedia greca: con Dioniso e le sue baccanti che devono fare quasi i conti con la divina madre di tutti gli dei, la vendicativa (chiedere a Hercules...) Era, nel momento di “massimo sgarro”: la mancanza di tributi in denaro. Alla tragedia il plus da “estasi mistica pop” in cui come coprotagonisti intervengono lo sfuggentissimo e inconcludente Gesù del musical hippy Jesus Christ Superstar, “alleato di Gala”, che dialoga sul successo insieme al “compassato e luciferino” Alice Cooper, alleato del rock quanto di Dalì. È un’estasi per cui uno stagista di una galleria d’arte belloccio è trasfigurato da Dalì in San Sebastiano: per similitudini fisionomiche e artistiche con il San Sebastiano di Mantegna o del Perugino, ma anche quasi con un tocco da allucinazione fantozziana. 


C’è il piano epico e il piano mistico, ma al di sotto c’è anche tutto un universo psicanalitico che la regista e lo sceneggiatore da sempre amano rappresentare con dovizia di dettagli anche da “addetti ai lavori”, che rende la costruzione di questi personaggi ancora più gustosa. 

Mentre i “giganti”, Gala e Dalì, combattono su un piano tragico irraggiungibile, come Godzilla contro Mothra, tra bene e male, ordine e caos, noi spettatori li guardiamo un po’ da lontano mettendoci nei panni proprio del simpatico San Sebastiano/James di Briney. Un ragazzo intraprendente ma dall’aria gentile, coscienzioso ma anche con voglia di sperimentare cose nuove, che come il protagonista del musical Hair (versione cinema) viene subito gettato “in pasto a Daliland”, tra le “ninfe di Dalì“ e un universo di colori e suggestioni nuove, sedicenti e seducenti. Una esperienza psichedelica ma anche umanamente strana. La “Ginestra” di Suki Waterhouse è una donna ammaliante come la Venere di Milo il cui fondoschiena può essere dal grande pittore usato come pennello per arte d’avanguardia, ma al contempo dietro a tanta maschera soave e maliziosa è una ragazza bene della New York alto borghese: è una musa part-time e forse pure hippy part-time. La Amanda Lear di Andreja Pejic ricorda invece molto per fascino, simpatia e sensibilità, l’amatissima soubrette nota anche in Italia: è un personaggio solare e accogliente che vive davvero fuori dagli schemi, simile a una musa classica, quasi una eroina moderna. Il rapporto che le due musa hanno con James viene spesso “spiato” da Dalì, come gli dei greci spiano “le vicende umane” nei miti. Si creano così  strane triangolazioni e suggestioni, emotive ma anche erotiche, che permettono all’artista di evadere dalla gabbia psicologica/morale in cui Gala lo ha infine rinchiuso insieme all’Onnipotente del musical, permettendo al contempo a James di avvicinarsi a lui, diventando quasi un suo possibile e seppur momentaneo “alter ego”. Quanto più James si avvicina a Dalì, tanto più riusciamo a cogliere il processo creativo delle opere del grande artista. Opere che vengono alla luce in momenti di vivace ribellione quanto in stati quasi di estasi, dove la natura che circonda il pittore sembra rispondere ai suoi stimoli fino a riplasmarsi, assecondandone fantasia e amore.  Non vediamo le opere di Dalì se non a livello di “idea”, in momenti lisergici quanto onirici, ma se dopo il film le approcciassimo ne scopriremmo forse un po’ di più l’intima poetica e tormento, la bellezza come l’angoscia, il modo austero come convivano in loro ordine e caos: Gala e Salvador. Questa è la magia del film di Mary Harron: la capacità di raccontare l’arte cercando di accedere alle persone e alla loro psicologia, al di là di un elenco di mostre e riconoscimenti come troppi film biografici continuano ancora  a fare.

Daliland è un film che in breve tempo conquista grazie alla sfarzosa quanto accurata messa in scena, la straordinaria interpretazione di Kingsley e della Sukowa, un ritmo travolgente e una storia raccontata in modo affascinante, tra l’epica, la religione, l’arte  e la psicanalisi. È il film ideale per approcciarsi alle opere di Dalì ma anche un’opera a tutto tondo, complessa quanto intrigante. Sullo stesso ideale solco di Amadeus, un ottimo modo per raccontare l’arte al cinema. 

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martedì 13 giugno 2023

Spoiler Alert: la nostra recensione sulla love story diretta da Michael Showalter con protagonista Jim Parsons (lo Sheldon di Big Bang Theory) e Ben Aldridge (il Thomas Wayne della serie tv Pennyworth)

America dei giorni nostri. Spesso la vita procede a “scossoni” improvvisi, dove commedia a tragedia si alternano quasi senza logica, come fosse un copione scritto male. In genere si urla, ci si fa del male, alcuni personaggi importanti vengono dimenticati dalla “trama”, si piange, si ricordano quasi per niente i momenti felici e ci si incolpa pure di questo. Le famiglie esplodono, le persone muoiono, la scuola fa schifo, il lavoro fa schifo, tutto fa schifo. Questo però non succede mai in molti telefilm: sensati progetti editoriali nati per essere seguiti da persone che vogliono rilassarsi dallo stress di tutti i giorni. Nei telefilm c’è sempre una risata, magari registrata, a stemperare gli animi seguendo tempi comici ed emotivi perfetti. Ci sono veri amici a portata di mano “giù al bar” tutti i giorni, che non ci fanno sentire mai soli. I parenti sono ingombranti ma buffi, i colleghi di lavoro sono ugualmente ingombranti ma ugualmente buffi. Non ci sono incomprensioni e quindi anche i drammi più catastrofici si riducono a piccoli battibecchi risolvibili entro fine episodio, l’atmosfera può essere sempre frenetica e gioiosa come la mattina di Natale quando da bambini si scartavano i pacchi. Se serve, arriva sempre qualcuno che come deus ex machina con pazienza e coerenza trova una soluzione, la soluzione sensata e politicamente corretta migliore a tutti i problemi. Questo è “il mondo che vorrebbe” il giornalista della guida tv Micheal (Jim Parsons), un ragazzo timido e sensibile che ama il Natale, i Puffi e il suo compagno di vita: l’affascinante e comprensivo fotografo Kit (Ben Aldridge). Fin da piccolissimo Michael sognava di vivere una vita parallela in una famiglia simile a quelle delle serie tv. Una vita in cui stava perennemente seduto in un salotto da sit-com stile Genitori in Blue Jeans, pieno di fratelli che non aveva, con una madre sempre comprensiva e con i bulli della scuola rigorosamente fuori dalla scena. Ogni periodo della vita di Michael è stato per lui come un “telefilm diverso”: il suo attuale lavoro nella redazione è simile a una stagione del telefilm The Office e la vita che sta costruendo insieme a Kit il suo grande telefilm sentimentale perfetto, un po’ come lo era Una mamma per amica. Deve diventare un telefilm ancora “più perfetto” soprattutto ora che Kit, Spoiler alert, nei primissimi minuti del film, si trova in punto di morte in ospedale, con un cancro incurabile che lo sta uccidendo. Michael è presente e combatte insieme a Kit in questa sua battaglia, ma al contempo il giornalista della guida tv ci racconta, rivolgendosi direttamente a noi come pubblico (ma anche un po’a se stesso) di quando la sua storia con lui sia stata “come nei telefilm”: tra gioie, successi, amori, sfide e problemi affrontati con la serenità di una sit-com. Sceglie di mettere decisamente da parte le burrasche del quotidiano che alla fine, col senno di poi, si sono comunque risolte con il tempo senza problemi, proprio come accade nei telefilm. La vita di Michael e Kit diventa così una specie di album dei ricordi pieno della sua passione “fuori controllo” sui Puffi, tanti Natali da passare felici sdraiati sotto l’albero a guardare le lucine colorate, cene di famiglia potenzialmente imbarazzanti fino a quando non si comprende che l’imbarazzo è sempre qualcosa di relativo, specie quando i sentimenti sono più importanti. Le stanze  dell’ appartamento condiviso tra Kit e Michael si animano come le stanze di Friends, ma periodicamente i due devono necessariamente tornare a quelle atmosfere poco gioiose da medical drama stile E.R.: dove medici corrono e cercano letti liberi per i pazienti, la musica diventa concitata e dove infine… gli episodi finiscono con parte del cast non riconfermato per le puntate successive. 


Il regista della commedia The Big Sick, Michael Showalter, dirige una curiosa pellicola sulla “narrazione di un amore” che sovverte in modo originale le regole classiche della commedia e del dramma. La sceneggiatura, scritta a tre mani dal produttore della serie tv Brothers & Sisters David Marshall Grant, dal produttore di The Real O’Neals Dan Savage e dall’attore e sceneggiatore Michael Ausello, prende spunto dalla storia personale di quest’ultimo, raccontando il rapporto di Michael con il suo compagno Kit, proprio a partire dai suoi ultimi momenti di vita. Protagonisti assoluti della scena sono Jim Parsons, che dopo il successo nel  ruolo di Sheldon nella serie tv Big Bang Theory è uno degli attori più amati del momento. e Ben Aldridge, il Thomas Wayne della serie tv Pennyworth. Entrambi sembrano aver trovato la giusta intesa sul set, riuscendo a rappresentare bene l’affetto che lega i rispettivi personaggi: una coppia molto diversa ma alla continua e proficua ricerca di una intesa felice tra loro.

Ci sono da sempre film che “giocano” con in linguaggio e la messa in scena “tipiche” dei telefilm. Da un lato ci sono pellicole come il riuscito Pleasentville di Gary Ross, che ironizzano sul contrasto tra mondo reale e mondo della tv portando alla luce i tanti cortocircuiti interni che si vengono inevitabilmente a creare. D’altro lato ci sono pellicole che “inglobano” il linguaggio stesso della tv “nel reale” per farne un unico meta-linguaggio, che in parte è proprio riflessone sul modo odierno di “raccontare la realtà” attraverso i media. Oliver Stone prendeva così Woody Harrelson, l’interprete del dolce e amatissimo ragazzino apprendista-barman della sit-com Cin Cin  (Cheers),  ai tempi amato quanto Sheldon, e “usando il linguaggio della tv anni 90” gli faceva “indossare” i panni dell’assassino psicopatico Mickey Knox, in Natural Born Killer. Se in Cin Cin Harrelson “viveva” in divertenti e tranquillizzanti puntate da trenta minuti trasmesse in fascia pre-serale, in Natural Born Killer la vita del suo personaggio era scandita cinque minuti per volta da un furioso e turbolento “zapping tra i canali”:  tra un brano di musica hard Rock di Patty Smith e una ballad di Leonard Cohen, un film horror in bianco e nero e un programma sui true crime, un telegiornale che segue in diretta una strage, un documentario sui nativi d’America, il wrestling, i mostri giapponesi giganti, la pubblicità, i cartoni animati e altro. Tutto veniva “mesciato” e contaminato più volte tra i vari stili narrativi e visivi dei rispettivi show, per essere poi annaffiato con una generosa dose di psichedelia in un modo dissacrante quando potente, disturbante quanto malinconico. Alla fine a essere trasfigurata “toccava pure” alla serie tv tranquillizzante, stile Cin Cin o Genitori in Blue Jeans: quella con il salotto, i buoni sentimenti e le risate registrate. Quello diventava di colpo il momento più terribile di tutto il film di Stone, anche perché alle scene da sit-com familiare venivano alternate delle immagini “di come erano andati nella realtà i fatti”, con scene di violenza familiare reale filmate in glaciale bianco e nero, proiettate in brevi flash subliminali. Spoiler Alert, nel costruire la “realtà ideale” voluta dal protagonista/narratore, se vogliamo compie un viaggio inverso rispetto a quello di Natural Born Killer, ma non meno ardito: trasformare/riscrivere davvero, per quanto possibile e in funzione di un “dolore attuale”, la realtà in una specie di album dei ricordi positivi. Anche egoisticamente a costo, qualche volta, di estraniare lo spettatore dalle reali dinamiche emotive dei protagonisti sulla scena. L’epilogo doloroso della storia tra Kit e Michael è “decisamente reale e terribile”, ma diviene fin dai primi minuti del film quasi la condizione necessaria, per raccontare una relazione amorosa che si vuole con tutta la forza del mondo che appaia perfetta come un telefilm del pomeriggio “dall’inizio alla fine”. Possiamo certo comprendere idealmente quello che prova il nostro narratore, Michael, nella sua volontà di cancellare le cose brutte dal suo racconto, ma fino a che torniamo al “piano reale”, nella situazione iniziale dell’ospedale tra lui e Kit, parte del pubblico può pensare di sentirsi come quegli amici che negli anni '80 venivano invitati il sabato sera a vedere le diapositive delle vacanze dalla Grecia di qualcuno. Immaginate che siamo nel dopocena e che chi deve mostrare le foto abbia una scaletta rigida per dire più cose in pochissimo tempo. A corredo delle foto caricate sul proiettore, nascevano  frasi del tipo:  “in questa foto siamo in aereo, c’è stato un problema con il biglietto del volo ma abbiamo risolto. Foto successiva”. Oppure: “qui siamo davanti al Partenone. Un turista ci ha impedito di riprendere quel dettaglio del capitello, ma è andata bene lo stesso con... Foto successiva”. Questo per dire che “le cose accadono” in Spoiler Alert, anche importanti e non scontate (tra il modo in cui viene affrontato tanto il “coming out” che la crisi di coppia), ma ci vengono narrate in modo per lo più veloce ed edulcorato per una precisa “policy aziendale”, senza che le “sintesi emotive” possano essere in qualche modo filtrate da ironia o da quegli agghiaccianti scorci nel reale in bianco e nero di Natural Born Killer. Sembra che il film voglia trincerarsi in un continuo e  pur umanissimo: “Kit e Michael sono bellissimi così e basta!”, quando il punto di vista di Kit (perennemente “tagliato” in quanto protagonista, ma non narratore/protagonista come Michael) alla fine con ci viene mai davvero rappresentato, se non con l’idealizzazione che ne fa Michael. È una scelta di stile, interessante, “emotiva”, coraggiosa e che di fatto svela alcuni meccanismi psicologici poco esplorati che esistono nei rapporti di coppia. È qualcosa che rende questo film unico. Ma al contempo questo stile può risultare per qualcuno in sala una scelta quasi  “antipatica”, divisiva almeno fino alla parte finale del film, dove la pellicola in parte ripara questa situazione con una soluzione originale che riflette in modo intelligente proprio su questa ambiguità di linguaggio, donando al film un livello di lettura ulteriore.


Spoiler Alert è una pellicola “dramedy” romantica, spiritosa e dalla struttura narrativa originale, portata in scena con gusto e con al centro una coppia di attori molto affiatati e coinvolti nella parte. È un film che può sembrare un po’ strano, almeno fino a che entriamo davvero nel punto di vista del personaggio di Parsons, ma è un film che può infine conquistare e anche commuovere. Portare i fazzoletti. 

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lunedì 12 giugno 2023

Billy: la nostra recensione del film di esordio di Emilia Mazzacurati sulla provincia più depressa e disorganizzata, ma commovente, del nord est

Imilia: un piccolo paesino fuori dal tempo e dallo spazio, situato nel nord est dell’Italia. Siamo nella grande “provincia italiana”, il non-luogo che Samuele Bersani descriveva in una canzone “a tre chilometri di curve dalla vita”. Qui le strade sono infinite e deserte il paesaggio brullo e verdastro è uguale all'America “tra i campi” dell’Arizona, stile Little Miss Sunshine. Anche le persone che vivono in questo film sembrano coloratissime e stralunate come quelle uscite da Little Miss Sunshine, perché il nord est dell’Italia è di fatto  una succursale non segnata di quel mondo. In una casetta di Imilia insieme a una mamma divertente, un po’ repressa e un po’ alcolista di nome Regina, (Carla Signoris) vive Billy (Matteo Oscar Giuggioli), un ragazzone sui vent’anni segaligno, dall’aria sorridente e i capelli spettinati. Billy ama trascorrere il suo tempo nel suo fortino segreto: una roulotte tra i boschi con il tetto sfondato, dal quale si può ammirare il cielo e gli aerei che passano. Ogni aereo va da qualche parte e Billy e i suoi amici, i “piccoli giovani di Imilia”,  quando non sono intenti a giocare con qualche gioco da tavolo del covo, guardano e contano aeroplani col naso all’insù: fanno “Airplane-spotting”. Invece per “guardare i treni che passano”, dedicandosi così nel più tradizionale trainspotting, il posto migliore che esiste in zona è il Pitstop di Penelope, situato vicinissimo ai binari e gestito da una donna meravigliosa, anche se molto avida nel mettere la maionese nei panini. Non è un problema: c’è chi risolve portandosi la maionese da casa. I treni passano, gli aerei passano e Billy sta lì da vent’anni. Forse aspetta che suo padre ritorni a casa dopo che è sparito quando era bambino, mentre stavano giocando a nascondino. Avrebbero dovuto stabilire un “tempo massimo” per quella partita. Billy nel frattempo a 9 anni era già diventato lo speaker radiofonico più seguito della zona, gestendo una intera radio nella sua cameretta e conoscendo così canzoni e gesta del più importate idolo rock locale, Zippo (Alessandro Gassman). Zippo era un mito e alla fine è in poco tempo sparito nel nulla, forse anche lui “vittima” di una partita a nascondino. I tempi della radio e dei 9 anni sono finiti, anche se Billy in fondo frequenta ancora e solo ragazzini sui 9 anni: perché dopo quella età pure tutti i giovani sembrano sparire nel nulla per tornare a casa troppo raramente, prendendo infine uno di quei treni o aerei che a furia di guardarli sembrano sempre più affascinanti. In assenza di altri “esseri umani giovani” nei paraggi, con cui condividere la routine, la roulotte o la sera bighellonando tra le panchine del locale Al Lido, chiuso da anni ma ancora con una discreta insegna al Neon, Billy insegue una sirena, Lena (Benedetta Gris). Lena canta vestita da sirena e con una voce degna della mitologica creatura marina, anche se accompagnarla alle serate musicali in motorino con quella coda è un casino. Billy è cotto ma è ancora troppo timido per le danze acquatiche. Regina invece sembra pronta, tra un cocktail e l’altro che le viene servito dalla solerte collaboratrice domestica, a provare a cambiare la sua situazione: magari innamorandosi del pompiere Massimo (Andrea Battiston), single e che vive su una bella barchetta attraccata al molo, quasi un piccolo galeone pirata. È un uomo gentile, forse un po’ troppo fissato con la sua passione monotematica per il legno, ma è “disponibile”. Per attirarlo nella sua casa ha dovuto quasi darle fuoco, ma ha funzionato, la relazione si è avviata: quando si fanno le cose, qualcosa in genere succede. Così Regina subito dopo ha organizzato pure un bel mercatino per cercare di pagare le bollette e l’affitto (e forse pure la filippina tuttofare) e succede un’altra cosa inaspettata: riappare Zippo, la star. A volte ritornano, come scriveva Stephen King. Riappare dallo stesso nulla da cui era scomparso, veste ancora con giacche in pelle, è belloccio e interessato a una surreale pelliccia sintetica di colore blu scuro che Regina vuole vendere. Zippo conosce così Billy e le loro strade si incrociano, si contaminano e “sbandano”: c’è davvero un mondo oltre Imilia o è tutta una fantasia? Perché è così difficile tornare a casa “nella provincia”, anche solo qualche volta, anche solo “per salutare”? Zippo può avere delle risposte, ma nessuno è davvero sicuro che siano le risposte giuste. 


Esiste una provincia strana e con le sue strane regole, giù nel nord est dell’Italia. È un luogo magico quanto in larga parte ancora inesplorato dal nostro cinema, per lo più dimenticato e criptico, ma necessario da comprendere per capire come sono fatti alcuni alcuni dei popoli autoctoni di quella zona, se mai ne incontrerete uno. È gente “di frontiera”, in genere composto da grandi lavoratori e professionisti, che vive sul confine tra l’Italia e il resto del mondo e di fatto spesso “salpa per il resto del mondo”. Cosmopoliti più per nascita che per vocazione quanto nei rapporti umani generosi, anche se caratterizzati da una scorza un po’ ruvida: con quel tipico complesso del porcospino in virtù del quale anche nel film si dice “la gente qui non è così male, anche se io preferisco restare da solo”. Per comprendere lo “spleen”, quel misterioso stato di malinconia, amore e insoddisfazione dei quotidiano raccontato in poesia da Charles Baudelaire, dovreste farvi un giro nel nord est. Ogni tanto qualcuno è riuscito a raccontarci “tra le righe” il non-luogo geografico e dell’animo di chi vive queste zone, come Pier Paolo Pasolini e Tinto Brass (ma anche la voce della cantante Elisa) nelle loro opere più autobiografiche. Di recente ci ha raccontato il nord est il regista horror Lorenzo Bianchini anche con il suo ultimo L’angelo dei murice lo ha raccontato Matteo Oleotto con la serie tv Volevo fare la rockstar e ce lo racconta qui anche Emilia Mazzacurati, figlia del regista padovano Carlo Mazzacurati (quello che nel film comico La lingua del Santo faceva dire al personaggio di Bentivoglio: “la sola Padova fattura come l’intero Portogallo”) alla sua opera prima con Billy


Billy è un’opera con al centro uno Scott Pilgrim atipico, dolce quanto complicato, con il volto del simpatico e intenso Matteo Oscar Giuggioli. Billy vive avventure come fratello maggiore di una piccola banda di Peanuts, tenera ed eccentrica, sparpagliata in casette tra il verde o riunita nella mitica roulotte-covo con il buco sul tetto e illuminata da lucine di Natale collegate a un generatore, piena di giochi e carte con cui passare il tempo. Gli adulti quasi non ci sono, al di là di alcuni “nonni”, in quando la maggioranza sembra davvero scomparire come dopo un rapimento alieno. Chi rimane e sembra “anagraficamente adulto”, come i personaggi della Signoris, Gassman e Battiston, si è già scottato tra responsabilità e tragedie e a conti fatti “rinuncia a essere adulto” e sceglie uno stile di vita quasi-eterno adolescente, avvolgendosi di noia e malinconia. C’è quindi molto “spleen” in questa opera corale dai colori tenui e gli “animi scoloriti” alla Little Miss Sunshine, quanto appare un film genuinamente intimo e probabilmente autobiografico. Chi ha vissuto o conosce quella zona d’Italia qui raccontata, inevitabilmente nella narrazione della Mazzacurati “si riconosce in qualcosa”, magari anche solo a livello indistinto o inconscio. Riconosce qualcosa di unico quando non (ancora) codificato dai canoni consueti del cinema italiano. È un’opera dall’andamento più lineare del solito, quasi simile nella struttura ad una favola per il suo essere piena di sirene, pirati e covi, ma i personaggi sono costantemente immersi in un magma di sentimenti contrastanti intensi. Sentimenti che più che guidarli spesso li ostacolano, li “bloccano”, cercano di incatenarli alla coccola di una quotidianità gentile ma senza via d’uscita fino a che il “bubbone esplode” e inizia il meccanismo di “fuga” sopra descritto. L’ironia e l’autoironia, fin quando ci sono, sono le armi più potenti al mondo per tamponare questo “malessere esplosivo”. Anche l’alcol è un buon tampone, nel nord est diffusissimo quanto in grado di fare danni ulteriori. Alla fine il bubbone esplode e i giovani spariscono dal giorno alla notte, dalla provincia al circolo polare artico, viaggio di sola andata: alla conquista del mondo e al contempo con un senso di colpa lacerante per aver abbandonato la famiglia. Un sentimento che “non molla” a distanza di anni e che muta la favola della Mazzacurati in tragedia esistenziale. Anche chi nonostante il bubbone decide di rimanere, vive circondato da uno strano senso di solitudine, spesso incolpandosi oltre il lecito, spesso rinchiudendosi in una quotidianità meccanica, ciclica e dentata come un ingranaggio. Sentimenti forti e un rapporto con il territorio difficile che accarezzano, se vogliamo, anche le atmosfere del western crepuscolare. È un cinema italiano inedito, figlio di una realtà di provincia inedita rispetto alle province già ampiamente narrate al cinema in cui tutti i sentimenti umani sono esternati per lo più  con la forza e le urla del melodramma. Billy è un film quasi sussurrato, quasi timoroso di esprimere i sentimenti che lo agitano, umanamente irrisolto e non spettacolarizzato, ingentilito dalla grande voglia di sognare che riescono ad esprimere questi personaggi “troppo con i piedi per terra”. Il pitstop di Penelope con le sue luci soffuse davanti ai binari, la roulotte con il buco in cui può entrare la neve, la casa galleggiante da pirata del pompiere di Battiston, la sirena come massimo simbolo dell’amore che esplode nell’adolescenza, il rocker misterioso e leggendario che va in giro con in tasca la maionese e i genitori che scompaiono mentre si gioca a nascondino. La Mazzacurati nella sua opera prima con immaginazione e amore riesce a portarci nel “suo nord est”, un nord est quasi alla Michael Gondry. Ha un tocco leggero anche quando il dramma viene a svelarsi, anche quando il “destino” arriva beffardo a rimescolare le carte di chi sceglie di opporsi a lui. È un film tragicamente ottimista, che sceglie di mettere i sorrisi e il “sogno” sopra alle lacrime. Un film per molti versi complicato e ambivalente che ben si adatta a descrivere personaggi affettuosamente complicati. 


Molto bravi tutti gli attori coinvolti, tra cui si segnala ovviamente Giuggioli, perfetto anche nel duettare tanto con Gassman che con la Signoris. Simpatico come sempre Battiston, Benedetta Gris ha un piccolo ruolo ma è molto interessante, simpaticissimi tutti i piccoli interpreti. Buona la colonna sonora, belli i costumi e la fotografia calda e avvolgente, davvero riuscite le scenografie, dal Pitstop Penelope alla chiatta del pompiere, passando per la casetta di Billy e ovviamente la roulotte-covo. Billy è un film pieno di inventiva che racconta con ironia e malinconia una Italia di provincia poco rappresentata ma affascinante. Un “luogo nuovo” che il cinema italiano dovrebbe provare a esplorare di più. Se vogliamo, il vostro west crepuscolare. 

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