domenica 11 giugno 2023

Sanctuary: lui fa il gioco lei fa le regole - la nostra recensione del film sexy e intelligente di Zachary Wigon, con protagonisti Christopher Abbott e Margaret Qualley

Ci troviamo in una lussuosa stanza di hotel dei giorni nostri, con pareti rosse, tende sigillate e luce soffusa. Rossa è pure la moquette, su cui una fantasia oro riporta disegni simili a occhi. Bionda è invece una giovane donna di nome Rebecca (Margaret Qualley), affascinante e sicura di sè, che qui incontra lo scapigliato e ansioso Hal  (Christopher Abbott). Lei porta i capelli lisci a caschetto, veste in modo raffinato ma rigido: completo verde scuro da uomo giacca e pantaloni, una camicetta a balze bianca ben chiusa fino all’ultimo bottone, scarpe scure aperte con il tacco alto. Glaciale, quanto lui è quasi mediterraneo, quasi un pomodoro. Ha la barba di qualche giorno e i capelli scuri ricci, veste “casual” per non dire disordinato, senza cravatta, rievocando uno oggi troppo scolorito e triste Don Johnson dei tempi di Miami Vice. È un incontro molto esclusivo il loro, complesso quanto quasi intimo: la valutazione finale del candidato perfetto a un prestigioso ruolo di comando in una catena di Hotel. I due si mettono comodi, si versano un soft drink con ciliegina, vengono estratti dei questionari e inizia un complesso gioco di ruolo in cui non è mai chiaro fino in fondo chi sia l’esaminatore e l’esaminato. Dopo una prima fase Rebecca abbandona la parrucca bionda e si rivela mora, anche lei riccia. Hal non è per niente sorpreso, era già previsto e i due per un attimo iniziano a parlarsi con confidenza e quasi complicità da amici, ma poi il gioco delle parti prosegue, “deve” proseguire. Il colloquio si fa sempre più strano assecondando  dinamiche nuove. L’iniziale rapporto di lavoro già mutato in rapporto confidenziale, si evolve in pratiche di sottomissione tra schiavo e padrona, si sviluppa forse per un istante in amore autentico e poi arriva subito all’odio. Lo schema si ripete e contorce, conducendolo entrambi verso uno stato di paranoia che mette in dubbio le reali intenzioni e “limiti di entrambi”. Poco conta che i loro giochi, per regolamento severamente vergato a fuoco tra le parti, dovrebbero sempre  finire quando uno dei due pronuncia “Sanctuary”, la parola in codice di sicurezza. Quel giorno la coppia vuole andare oltre. Hal, da sempre uomo schivo e sottomesso prima dal padre e poi da tutti gli altri, vuole dimostrare a Rebecca, a se stesso e al mondo di essere diventato un uomo forte. Rebecca, da sempre spietata e calcolatrice donna di potere, vuole dimostrare ad Hal, a se stessa e al mondo di poter avere dei sentimenti. Nessuno dei due crede davvero alla buona fede dell’altro e nasce così uno scontro fisico quanto psicologico, che potrebbe unirli o separarli per sempre. Uno tsunami che sconvolgerà per sempre il loro rapporto. 


Il tecnico del suono di lungo corso Micah Bloomberg passa dalle colonne sonore alla sceneggiatura, costruendo una “partitura emotiva” perfetta, accorata quanto punk, per molti versi vicinissima alla piece La Venere in pelliccia, di David Ives già portata al cinema anche da Roman Polanski. Christopher Abbott interpreta un personaggio non lontano dal suo imbranato e improbabilissimo “killer di prostitute” nel divertente Piercing di Nicholas Pesce: un uomo con troppa voglia di dimostrarsi potente e spietato che finisce subito vittima, in una simile stanza di hotel, di una donna “forte per davvero”, che in Piercing aveva il volto della bellissima Mia Wasikowska. Bellissima e altrettanto forte è anche qui Margaret Qualley, figlia di Andy MacDowell, che già stregava Quentin Tarantino e tutto il pubblico in sala in C’era una volta a Hollywood con solo i suoi occhi penetranti e lo sguardo sensuale, oltre ai “classici” piedi nudi che il regista di Pulp Fiction ha voluto riprendere sporchi di terra come quelli dei ragazzini che giocano d’estate sull’asfalto. La perfetta donna/bambina “ammaliatrice definitiva”, dietro cui forse si nasconde ancora una sorta di purezza adolescenziale che tanto piacerebbe a Nabukov. La Qualley e Abbott, in un film che li vede unici protagonisti della scena dal primo all’ultimo minuto e ben “accordati” dalla partitura di Bloomberg, si mettono così al servizio di un promettente autore come Zachary Wigon, che dopo la sua prima opera del 2014 era entrato un po’ in stallo, di fatto aiutandolo a risplendere di nuovo in questo thriller psicologico dall’impostazione molto teatrale. La scena principale è tutta per la stanza d’albergo dalle pareti rosse e soffuse, che diventa un vero e proprio piccolo mondo a parte dove i due si analizzano, si amano, si cambiano di ruolo e vestito, complottano e si scontrano distruggendo o cannibalizzando tutto l’arredo che li circonda. Wigon sta al gioco e dà corpo a tutte le fantasie camaleontiche che attraversano Hal e Rebecca. Diventano così incredibilmente sexy le piastrelle bianche del bagno da pulire rigorosamente a torso nudo, mentre lei lo umilia “eccitandolo”. Il materasso si trasforma in una specie di muro di mattoni, perché nella relazione tra Hal e Rebecca le effusioni “pelle su pelle” sono bandite a favore di più intellettuali “simboli”, “ordini”, orologi preziosi e contrattazioni “multi livello” che piacerebbero al mister Grey e E.L.James. La moquette a un certo punto si scopre che ha “gli occhi” e non sono i soli occhi, forse né buoni né cattivi, che il luogo potrebbe nascondere, per scherzo o per rabbia. Oltre la porta c’è l’ascensore che porterebbe i due al di fuori della loro fragile e  “sanguigna” interiorità condivisa. È un limite emotivo più che fisico, che fa paura varcare “da soli” perché potrebbe distruggere come salvare entrambi ma “per sempre”, ponendo fine ad ogni modo a un idillio simile a una fune sospesa nel vuoto che viene costantemente allungata e impreziosita di cerchi di fuoco da saltare, minuto dopo minuto, seguendo affinità elettive eccentriche quanto “facili” da intercettarsi e infiammarsi tra loro. In questo percorso ad ostacoli reciproco e contrapposto appare subito evidente la grande complicità che si è creata sul set tra i due protagonisti, che riesce a dare quasi l’impressione che tutto sia nato durante un'improvvisazione. Christopher Abbott usa una recitazione molto spontanea, apparendo spesso in balia dei sentimenti quanto di ossessioni che fatica a gestire. Margaret Qualley ha un personaggio che indossa una corazza emotiva che in qualche modo ne contraddice gli intenti, e riesce sempre a mostrare questo doppio ruolo, entrando e uscendo con successo dal ruolo della manipolatrice. È una bella “lotta”, una lotta incredibilmente sexy se si considera il dettaglio non trascurabile che è combattuta quasi tutta a livello mentale e suggestivo, un po’ come quella scena dell’orgasmo finto di Harry ti presento Sally. È un film che vola via come il vento nella sua ora e trenta, senza perdersi in troppe lungaggini e anzi riuscendo a “cambiare pelle” quasi quattro o cinque volte, sempre tenendo desta l’attenzione del pubblico. 


Sanctuary è una piccola sorpresa, un film simile a una piece teatrale decisamente riuscito sul piano tecnico quanto artistico, benedetto da due interpreti in ottima forma. In nuovo ottimo biglietto da visita per Zachary Wigon e il film ideale da vedere al cinema, magari in compagnia, per una serata all’insegna della seduzione e dei brividi che solo i veri “giochi di ruolo” (fantasy e non) sanno regalare. 

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