mercoledì 31 agosto 2022

Chiudi gli occhi (All I see is you): la nostra regia di un piccolo ma visivamente molto interessante film per la regia di Marc Forster


Gina (Blake Lively) è una ragazza rimasta in giovane età vittima di un incidente che l'ha resa non vedente. Vive una vita tranquilla in una metropoli dell‘’estremo oriente, insieme al suo amorevole marito James (Jason Clarke) e ha serenamente accettato la sua condizione. Un giorno si prospetta però la possibilità del recupero dell’occhio destro tramite un intervento di trapianto di cornea, che potrebbe portarla a riguadagnare 4 decimi e tutto all’improvviso cambia. Quel mondo che aveva imparato ad amare in una “forma tutta sua”, attraverso tatto, luci sfuocate e tanti rumori, è diverso. Non ci sono più intono a lei immagini che si moltiplicano e intersecano, non ci sono più fiori luminosi e rumori che si fondono con il tatto. Come diverso di colpo le appare il marito James, la sua casa, le sue aspirazioni e desideri. Anche James sembra risentire della nuova condizione della moglie e ne è spaventato. Si sente messo da parte, non compreso nelle sue abituali premure, oltremodo geloso del fatto che ora la moglie possa vedere l’avvenenza di alti uomini, davanti ai quali si sente inferiore. Il rapporto sentimentale inizia a incrinarsi, insieme a quello più strettamente fisico. Gina cerca di  coinvolgerlo in alcuni giochi di ruolo che possano far provare anche al marito il mondo da lei vissuto fino a poco prima, ma tutto sembra controproducente. 


Chiudi gli occhi è un film drammatico narrativamente delicato, dalla trama semplice, ma valorizzata dalle ottime interpretazioni dei due interpreti. C’è molta intesa e naturalezza in questo ritratto di coppia a un passo dalla crisi, con alcune sfumature che virano qualche volta felicemente al thriller. Quello che sorprende e conquista è però lo straordinario lavoro visivo e sonoro con cui la storia ci viene “mostrata”, mettendoci spesso a contatto diretto, con la telecamera che ci porta a una soggettiva in prima persona che ci fa vivere direttamente il particolare modo di “sentire il mondo” di Gina. Un mondo carico di luci intermittenti e immagini sfuocate o moltiplicate, che spesso in una sorta di estasi onirica crea corpi nebulosi dai mille occhi o notti illuminate da fuochi artificiali. Un mondo in cui tutti i rumori ambientali vengono distinti uno dall’altro, dando luogo a suoni ora cristallini ora ovattati. Un mondo che può esprimersi al meglio anche attraverso le sensazioni del tatto e del gusto, in sequenze che mettono al centro lingua, mani e piedi, studiate con particolare cura per far risaltare tutti gli aspetti “materici”, a volte ruvidi, liquidi, se non  sensualmente caldi in cui Gina vive in serenità. Al contempo la pellicola ci mostra il marito James in un processo speculare, contrario, dove vengono messe in gioco le sue sensazioni e i suoi sensi. È un mix molto interessante in cui le proiezioni mentali e sensoriali si scontrano, cercano di dialogare e a volte si infrangono. 

Chiudi gli occhi è un eccitate viaggio sensoriale, creato con grande competenza e amore anche sul lato delle reali percezioni del mondo di una persona con gravi problemi agli occhi. Poteva “andare oltre” e diventare un horror come l’orientale The Eye dai fratelli Pang, ma è proprio in questa naturalezza descrittiva che il film sorprende e riesce a metterci davvero nei panni di una non vedente. Marc Forster, già premiato per l’ottimo film intimista Monster’s Ball, dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio con le piccole storie, rispetto che nei blockbuster come 007 Quantum of Solace o World War Z. Non sono molti i film che riescono a mostrarci davvero la disabilità e Chiudi gli occhi lo fa con garbo e degli interpreti strepitosi, aprendo anche un dibattito curioso quanto costruttivo sulle diversità con cui tutti noi, ogni giorno, entriamo in contatto e con il mondo che possiamo percepire e comunicare come solo “nostro”. 

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lunedì 29 agosto 2022

Outcast - l’ultimo templare: la nostra recensione di un action pensato per il pubblico malesiano con protagonista un tristissimo Hayden Christensen e in un ruolo più piccolo il mitico Nicolas Cage


Chiariamolo subito, questo non è il seguito/spin-off/prequel/newquel/requel de L’ultimo dei Templari. Quindi niente streghe e Ron Perlman a questo giro e pure poco Cage, che viene relegato a un ruolo di margine, pur gustosissimo, per il quale sfoggia un codino da samurai. Questo film è comunque una pellicola in cui vediamo dei crociati/templari/cavalieri roteare le spade, ma è più dalle parti del wuxia che dell’horror e soprattutto è “l’Hayden Christensen show”, un film in cui l’ex interprete di Darth Vader è mattatore semi-assoluto per la gioia incontrastata di tutti i suoi fan. Fan che non credevo esistessero in numero così cospicuo in Malesia, paese che ha potuto godere in anteprima, sei mesi prima del resto del mondo, di questa stranissima coproduzione realizzata tra America, Cina e Canadan. Ma tale scelta distributiva può anche essere compatibile con il fatto che sia appunto un wuxia, genere di punta nei paesi asiatici. Un wuxia girato in Oriente, tra Pechino e la regione del Yunnan, arricchito da tante scene di lotta e un nutritissimo cast di attori asiatici, tra cui Bozhao Wang (da noi visto di recente nel fantascientifico action Bleeding Steel con Jackie Chan), Simon Chin (visto di recente in Snake Eyes e nella serie tv di Snowpiercer), Fernando Chien (visto in Fast Five, Shag-chi, Transcendence, la Mummia 3,  nel Warrior con Nick Nolte e Tom Hardy), la bella Liu Yifei (cantante e attrice molto famosa in patria, vista nel 2020 in Mulan), Andy On  (New Police Story, con Jackie Chan). Lo sceneggiatore è uno specialista nell’adattamento di “romanzi d’avventura classici”, nel 2012 ha realizzato una serie tv sui viaggi di Sinbad, nel 2014 insieme a questo Outcast realizzerà una serie sui Tre moschettieri, nel 2016 una serie su Beowulf e nel 2019 sceneggerà anche alcune puntate della serie tv italiana ispirata alla famiglia dei Medici. Le location, tra Pechino e Baoding, sono bellissime, suggestive, piene di una natura rigogliosa, castelli e fortini accuratamente ricreati. Molto belle le armature, bella la fotografia di Joel Ransom, già direttore della fotografia di X-Files, Deep Rising e soprattutto di un action come Pallottole Cinesi. Le musiche sono di Guillaume Roussel, che ha collaborato nel dipartimento sonoro dei Pirati dei Caraibi. La pellicola è firmata da Nick Powell, qui al suo esordio da regista  ma già coordinatore di stunt per film come Braveheat, Robin Hood principe dei ladri, Bourne Identity, Il Gladiatore, L’ultimo samurai. Powell aveva tutte le carte in regola per provare a dirigere oltre ai combattimenti anche ”un film intero a base di combattimenti”, ma la forma di proporre al mercato asiatico uno stile di action occidentale mischiando le maestranze sembra essere piaciuta subito ai produttori. Al punto che uno di loro, Jeremy Bolt, aveva prodotto tutti i film di Resident Evil di Paul W.S. Anderson e pure gli Underworld di Len Wiseman, era così galvanizzato all’idea di un wuxia con Darth Vader che subito si era messo a rilasciare dichiarazioni sul fatto che era in forno anche il capitolo numero 2 e che avrebbe diretto lui personalmente la pellicola. Riassumiamo: Darth Vader, Nicolas Cage in versione samurai, gente che si intende di film di combattimento e narrativa d’avventura e ha partecipato alla produzione di svariati blockbuster, nomi di richiamo per il mercato asiatico, location bellissime. Cosa poteva davvero andare male? Partiamo dalla trama.


Il giovane Darth Vader è un crociato che a seguito di un inaspettato rigurgito di coscienza per le “brutture delle crociate” va in Oriente, alla ricerca di un suo vecchio commilitone carismatico come Nicolas Cage che una volta gli ha detto: “quando vuoi vieni a trovarmi in Oriente. È un posto piccolo, prima o poi mi trovi per strada da qualche parte”. Certo avere un indirizzo sarebbe stato più carino, ma il giovane Darth Vader parte per “l’Oriente” e presto inizia a dedicarsi all’alcol e alla depressione. Finisce senza neanche capire come in una faida familiare in cui un matto principe asiatico vuole sterminare tutti i suoi fratelli per succedere al trono. Vader diventa guardia del corpo di uno dei “fratelli da eliminare“, trova un love-interest (per la bellissima Liu Yifei) e trova forse un po’ il suo posto nel mondo. Ma chi invece sembra aver fatto davvero centro è Cage, che si è creato nell’Oriente il suo personale esercito di predoni, ha vissuto una vita intensissima, si è pure fatto il codino da samurai e ora si fa chiamare “il fantasma bianco”. È così figo che ha pure una entrata in scene che pare Lando Calrissian nell’ultimo Star Wars. Riuscirà il giovane Vader a salvare la dinastia reale, se stesso, il mondo? Nel mentre un sacco di combattimenti a spadate contro crociati, guerrieri asiatici e predoni. 


La trama, al netto di alcune sfumature davvero interessanti, è storicamente gustosa seppur “vaga”, piuttosto lineare e familiare nella messa in scena di alcuni archetipi del wuxia (dai generali fedelissimi fino alla morte ai principi capricciosi, al classico underdog in cerca di redenzione), pecca forse di alcune lungaggini ma risulta funzionalissima ad un buon film di cappa e spada. Menare è una questione centrale e Powel dimostra di saper fare bene il suo storico lavoro di coordinatore di combattimenti. Outcast infatti decolla quando arrivano le scene d’azione, molto corpose e ben coreografate, dove sia Christensen che Cage che tutto il cast asiatico di stunt-man si dimostrano a proprio agio tra capriole, duelli e piogge di frecce. Tutti gli allenamenti con la spada laser si fanno sentire e Christensen è particolarmente bravo nelle pose, nelle proiezioni, negli affondi, nel tirare con l’arco, ma la sorpresa più grande è un Cage che, pure non sfoggiando un fisco da “zero per cento di massa grassa”,  quando gli si dà in mano uno spadone va in autentica estasi. Era successo nell’Ultimo dei templari di Dominic “Fuori in 60 secondi” Sena e qui si replica con gioia. Cage gioca un po’ su un modo di lottare e recitare a scatti, nelle intenzioni come nel celebre stile “dell’ubriaco”, sfoggiando un incedere indeciso e una bottiglia per quasi tutte le sue pose. È un po’ a livello trascendente come se avesse introiettato lo stile dell’ubriaco dalla sua interpretazione di un ubriaco da Oscar in Via da Las Vegas: un esempio plastico di quando l’arte marziale nasce e si evolve dall’arte recitativa. Si getta animo e corpo negli combattimenti uno contro venti, dà vita ad alcuni momenti in cui sa essere fragile quanto pericoloso, instabile quanto chirurgico negli affondi. Momenti tragici, umani e brutali, ma forse troppi risicati nel minutaggio finale. Se ne “vorrebbe di più” di questo strano “samurai ubriaco style” e per questo giustamente Cage tornerà sei anni dopo a brandire spade in Jiu Jitsu di Dimitri Logothetis.  


Quando non si menano le mani, Christensen purtroppo non riesce proprio a renderci simpatico il suo crociato, neanche quando è per esigenze di trama in zona da coma etilico, neanche quando è a fianco della bella Liu Yifei. Dicevamo di come Cage ci ha vinto un Oscar interpretando un alcolizzato innamorato, mostrandone la fragilità e l’impeto, l’auto distruzione e la malinconia. Christensen, che avrebbe dovuto studiarsi Via da Las Vegas a memoria, fa giusto per il suo crociato ubriaco l’aria imbronciata, per tutta la durata del film. Troppo poco. Cage dà corpo a un personaggio secondario, il “fantasma bianco”, che in poche scene tra paure e spavalderia trova umanità e redenzione. Christensen, nel ruolo del classicissimo eroe da cinema asiatico che ha reso grandi le carriere di attori anche non esperti di arti marziali come Chow Yun-Fet e  Nicholas Tse e (quello che durante la storia ha una evoluzione sia fisica che morale), rimane invece imbronciato, sempre imbronciato. Così continuamente imbronciato che il film necessitava di scene d’azione extra per sopperire e coprire di più  questo monolitico “fare l’imbronciato”. Alla fine della visione siamo così anche noi un po’ imbronciati, anche perché Cage, che quando è sulla scena se la divora, lo vediamo davvero per troppi pochi minuti e il resto del film, per questo assurdo “haydenchristencentrismo”, risulta al più abbastanza convenzionale, ben confezionato ma un po’ con il pilota automatico. Christensen si mangia “in negativo” tutta l’atmosfera e prosegue un po’ in sordina la stagione dei wuxia con attori occidentali, l’anno prima “inaugurata” dal non felicissimo 47 ronin con Keanu Reeves, ma che in seguito avrebbe portato a film molto godibili come Dragon Blade (con Jackie Chan, Adrien Brody e John Cusack) e The Great Wall (di Zang Yimou, con Matt Damon e Pedro Pascal). 

Ma le “botte” alla fine ci sono, l’ambientazione pure e anche un Nicolas Cage con spadone e codino da samurai. Outcast è, così sommando i pro e contro, un film divertente, anche se forse non diventa mai memorabile. Il produttore non ha ancora smentito l’idea di farne un sequel, anche se non ha dato aggiornamenti sulla questione da quasi 8 anni. Credo che in questo momento Hayden Christensen sia imbronciato. 

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giovedì 18 agosto 2022

Tokarev ( Rage) : la nostra recensione di un sanguigno e folle revenge movie con Nicolas Cage e Danny Glover


La bella e biondissima Vanessa, interpretata da Rachel Nichols, vista nella serie tv ispirata al franchise di Taken sulle figlie rapite… viene rapita!! Il padre non è però in questo caso Liam Neeson ma Nicolas Cage, nel ruolo dell’ex criminale Paulie ora redento, che non sarà certo da meno nel gettarsi anima e corpo in cerca dei responsabili, a costo di mettere a ferro e fuoco tutta la città. Unico indizio: dei proiettili di una pistola di fabbricazione russa, una Tokarev. Unica conclusione a cui Paulie giunge: è stato un russo. Insieme a un paio di amici ex criminali, Kane (Max Ryan) e Danny (Michael McGrady, con Cage nel Cacciatore di Donne) e nonostante gli avvertimenti a “lasciare le indagini alla polizia” del boss (Peter Stormare, visto in Fargo, Bad Milo e mille altri ruoli), Paulie dichiara quindi guerra “a tutti i russi” e al loro super capo Chernov (Pasha D.Lychnikoff, visto in Deadwood, Shameless, Stranger Things). Finirà a mazzate e sparatorie senza fine, scoprendo pure qualche scheletro del passato di Paulie (che da giovane è interpretato da Weston Cage, figlio di Nicolas Cage). 

Ogni tanto Nicolas Cage ha interpretato il ruolo di un padre a cui rapiscono un figlio: accade in Segnali dal futuro, Drive Angry, Stolen, Left Behind, Pay the Ghost. Qualche volta gli rapiscono pure la moglie come in Left Behind e Mandy, qualche volta come in Arizona Junior è Cage stesso che rapisce un bambino, pur in una commedia a lieto fine dei Coen. Qualche volte finisce lui per essere rapito, come in Kick Ass. Una volta capita pure che gli rapiscono un adorabile maialino, come nel bellissimo Pig, qualche volta è Cage stesso che interpreta il detective alla ricerca di persone che vendono rapite come in The Wicked Man, 8mm, Il Cacciatore di donne. Se c’è in un film da trovare un figlio o una moglie o un maialino rapito, Cage non ha quindi nessuna lezione da imparare dal Liam Neeson del “periodo Taken”, anche se qui la figlia di Cage è interpretata da un'attrice del telefilm di Taken. A Cage non serve neanche il telefono per spaventare i criminali e piombare su di loro prima dei titoli di coda, probabilmente armato. Rimanendo in tema “armi”, esistono molti film che prendono il nome da un’arma specifica, come il mitico western dedicato al fucile Winchester’73 o il film d’azione russo il cui titolo è dedicato all’AK-47 Kalasnikov, fucile cui Goran Bregovic a sua volta ha dedicato anche una bellissima canzone presente nella pellicola di Emir Kusturica Underground. Ma Cage ha nella sua filmografia ben due pellicole dedicate a un’arma da fuoco/da guerra e una dedicata addirittura a una nave che trasportava bombe nucleari. Una pellicola è  Apache: pioggia di fuoco, che prende il nome dal famoso elicottero d’assalto Boeing AH-64 ed è un po’ il Top Gun di Cage. L’altra pellicola, almeno nella traduzione italiana che cambia il titolo originale (Rage), è questo Tokarev, che prende il nome da una pistola di fabbricazione russa meno nota del celeberrimo AK-47 Kalasnikov ma non meno carismatica. Poi c’è ovviamente USS Indianapolis, pellicola di cui abbiamo parlato nello specifico altrove. Certo la Tokarev è più piccola di un elicottero o di una nave da battaglia e pure il budget del film è proporzionalmente più piccolo, ma non per questo il film appare meno gustoso. 


Mettiamo insieme questi due elementi, film con i rapimenti e film con nomi di armi, mettiamo poi dietro la macchina da presa un regista spagnolo come Paco Cabezas, che fino a questo Rage/Tokarev targato 2014, ma girato nell’estate del 2013 a Mobile in Alabama, era forse poco noto, ma che dopo è stato scelto come regista di serie tv come Penny Dreadful, Into the Badlands, The Strain, Fear of the walking dead, American Gods. Quello che ricaviamo è un film che nonostante una critica internazionale violentemente contraria, non è riuscito esattamente così male come lo hanno dipinto e anzi possiamo quasi intendere come lo sfizioso Brawl in Cell Block 999 di Cage: un sanguigno e scacciapensieri b-movie per gli amanti delle sparatorie disimpegnate a sfondo drammatico. Un film in cui il nostro eroe può urlare come un matto tutto il tempo facendo gli occhi da pazzo, sparare ad ogni cosa con le armi da fuoco più disparate (spesso armato di due armi insieme come in un videogame alla Doom) e gettarsi in inseguimenti in auto. Tutto, dall’inizio alla fine, in modalità “ora ammazzo tutti”. Pura “Rage” cieca e acritica fino a uno snodo narrativo a sorpresa, malinconico quanto riuscito, che riesce a nobilitare il film, inserirlo in una logica “karmica” interessante. Il classico film da vedere quando si è incazzati per godere di piena catarsi e urlare con Cage dall’altra parte dello schermo, come nella scena in cui coperto di sangue ulula alla luna, ma con qualcosa in più. Insospettabilmente i personaggi da subito appaiono meno scontati delle figurine che possano inizialmente apparire, con il villain Chernov che pur nelle sue poche scene appare profondo, quasi un eroe tragico. Tridimensionale. I due amici dell’eroe vivono di una relazione complessa con Paulie, affettuosa quanto aggressiva, così come è non banale la parte della star di Arma letale Danny Glover. Un Danny Glover paterno e che da almeno 15 anni aveva detto di essere “troppo vecchio per queste stronzate” da film action, ma che nel 2013 è ancora qui, al suo al primissimo incontro cinematografico con Cage, in cui riesce subito ad instaurare con lui una discreta chimica nei pur classicissimi ruoli complementari del vecchio poliziotto e del vecchio criminale (una coppia se vogliamo gemella a quella di Stolen, dove a fianco del Cage “criminale” c’è “il poliziotto” di Danny Huston). Il nome degli sceneggiatori certo può all’inizio far venire un po’ i brividi, con Sean Keller e  Jim Agnew che avevano curato una puntata dell’antologico Into The dark, ma pure il terribile Giallo, la sfortunata prima esperienza internazionale di Dario Argento. Ma alla fine il lavoro di scrittura è discreto e funzionalissimo all’azione. La fotografia è invece nelle mani del veterano Andrzej Sekula, con in curriculum Le Iene, Pulp Fiction, American Psycho e che Cage “reincontrerà” sempre come direttore della fotografia in Uss Indianapolis. C’è poi per gli amanti della “lore familaire” di Cage la presenza del figlio Weston. Già autore come musicista di brani della colonna sonora di Drive Angry, Joe e Vendetta: una storia d’amore, Weston ha interpretato  con il padre un piccolo ruolo in Lord of War, è stato uno dei rapinatori in 211 e qui in Rage/Tokarev interpreta il personaggio del padre da giovane (in A score to settle invece la “versione giovane di Cage” è interpretata da Bailey Coppola, figlio del fratello di Nicolas, Christopher). È un breve ruolo, ma gustoso.  


Novanta minuti è il minutaggio giusto, un paio di scene sono da antologia e le sparatorie sono ben realizzate, esagerate e sanguigne. Rage/Tokarev è una pellicola di genere, di puro intrattenimento, gustosa al punto giusto, con una trama dalla parabola nichilista non scontata, un buon comparto tecnico e tante scene d’azione. Un film in cui si spara e si spara tanto. Non è un capolavoro e non cerca di esserlo, umilmente incasellandoli nei b-movie di intrattenimento. Cage è decisamente in buona forma e gioca bene con il resto del cast degli attori. Da degustare in coppia magari con A score to settle, in una serata dedicata al “Cage gangster crepuscolare”. Per poi tutti insieme ululare alla luna coperti di sangue. 

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mercoledì 10 agosto 2022

Primal - la nostra recensione di un action divertente per i motivi sbagliati, con protagonista un fantozziano Nicolas Cage

 


Un giorno Nick Powell, stunt-man di grandissima fama, ha pensato di fare il salto verso la poltrona da director. Era il 2014, più o meno lo stesso periodo in cui lo stunt-man di grandissima fama David Leitch andava a realizzare il primo John Wick per poi in breve lavorare su Atomica Bionda, Deadpool 2 e nel 2019 realizzare lo spin-off di Fast & Furious: Hobbs & Shaw. Oggi Leitch è di nuovo in sala con Bullet Train, che si preannuncia come il film dell’estate. Nick Powell nel 2014 decise invece di realizzare il tremendo, noioso e pasticciato Outcast - l’ultimo templare (nessuna correlazione e parentela con L’ultimo dei templari, sempre con Cage), con protagonista un Hayden Christensen in versione cavaliere cristiano a spasso per la Cina, con perenne sguardo da  stoccafisso (forse anche più che in Star Wars). Nonostante tutto il disastro che è Outcast, che in altra sede tratteremo, in quel film c’era comuque anche Nicolas Cage, il più grande attore vivente, in una particina da crociato-ronin-kungfu-panda sfiziosa quanto mattissima, iconica. Era così interessante questa nuova “trasformazione” in “maestro di arti marziali con codino” del nostro più grande attore vivente (di fatto re-immaginata ed “estesa” in seguito pure in Jiu Jitsu di  Dimitri Logothetis) che nelle locandine internazionali  Nicolas Cage, che vedremo in Outcast per 15 minuti, in sette ore e quaranta di durata complessiva del film (il film non dura così tanto, ma si percepisce una durata di questo tipo), era già grande due volte Christensen. Così nel 2019 Powell ci riprova, questa volta con Cage protagonista. Solo che dal 2019 Powell non gira più un film.

Cosa è capitato?

Vi lancio una immagine a scopo didattico. 


C’è quella scena famosa del “concorso”, in Fantozzi va in pensione. Il personaggio interpretato da Paolo Villaggio per partecipare alla prova scritta, ingannando il limite di età per l’ammissione, si tira a lucido a modo suo, cospargendosi di tinture improbabili per annerire capelli e sopracciglia. Poi nel bel mezzo della prova, nel classico momento di “svolta”, in cui titanicamente Fantozzi trova la rabbia, l’orgoglio e la capacità per affrontare ogni prova: arriva la sfiga. Le tinture vengono vinte dal sudore e tutto inizia a colare. Il volto di Fantozzi è percorso da liquami neri, mentre lui già inizia ad esultare e la magia finisce, l’imbroglio è palese. Una tintura amara. Anche Primal inizia con un Nicolas Cage alle prese con una tintura amara che cola, ma facciamo un passo indietro. 

Cage per il suo personaggio re-interpreta un grande archetipo di Hemingway, il “cacciatore bianco” dei Diari dall’Africa, peraltro interpretato sullo schermo in una divertente “variazione” proprio da Paolo Villaggio nel 1978, in Dove vai in vacanza? (film cult che ogni tanto citiamo sul blog). Primal parla in sostanza di un cacciatore bianco hemingwayano che insieme a gabbiette piene di tutti gli animali che ha cacciato per degli importanti zoo si ritrova per caso nella stessa situazione del “cuoco” di Trappola in alto mare con Steven Seagal: su una nave enorme insieme ad una gnocca e un matto. Solo che al posto della gnocchissima Erika Eleniak che esce dalla torta (nella scena più leggendaria della storia del cinema) o della lingeire tigrata di Anna Maria Rizzoli di Dove vai in vacanza?, abbiamo l’altrettanto leggendaria Famke Janssen dei primi X-Men cinematografici, in cosplay da milf militare sexy. Solo che per “villain” al posto del mattissimo Gary Busey abbiamo il buon “abbastanza matto” Kevin Durand. Nel senso che è un “matto discreto” Durand, pure simpatico, che per scappare dalle guardie decide di scatenare sulla nave tutte le creature catturate da Cage-cacciatore-bianco-hamingwaiano, tra cui serpenti, scimmiette e un cattivissimo giaguaro bianco realizzato in cattivissima computer grafica. Quindi in questo film diretto da Nick Powell a cinque anni da Outcast, abbiamo Hamingway, Trappola in alto mare, situazioni potenziali tra Jumanji e Snakes on a plane,  Famke Janssen. Ma Cage è in uno stato umano fantozziano, per motivi per noi abbastanza ignoti, così tutta la baracca non decolla o se vogliamo “decolla storta”. 


Primal è un film su un tizio che ha troppo le palle girate godersi tutta la giostra da blockbuster action al centro della quale si trova. Di sicuro ai tempi della lavorazione del film Cage era un po’ “in bolletta” dopo l’acquisto di oggetti come (fonte Vanity Fair) un dinosauro, una casa stregata, una Lamborghini appartenuta allo Scia’ di Persia. Il nostro eroe si è però stoicamente buttato anima e corpo nel lavoro e ne sono usciti pure film-bomba come Mandy e Il colore venuto dallo spazio. Ma nel mezzo c’è Primal, che si apre proprio con Cage appollaiato su un albero, intento nella lettura di “case da sogno”, mentre cerca di tendere una trappola ad un brutto giaguaro bianco realizzato in brutta computer grafica. Cage con case da sogno tra le mani e con in testa una tintura che cola di nero, come Fantozzi va in pensione, nel tentativo di sembrare più giovane e magari più Indiana Jones. Non sappiamo se la tintura sia stata o meno imposta dalla produzione. 

Così che Primal, film hamingwayano un po’ Jumanji e un po’ Snakes on a plane, in odore di trappola in alto mare e con Famke Jannsen, poteva essere anche un po’ Indiana Jones, alla ricerca del frullatone totale globale più appetibile possibile. Ma Cage cola, cola come Fantozzi e un po’ Fantozzi si impossessa di lui, fin dal minuto numero tre, cioè prima di un Disneyano duetto con un pappagallo che dice le parolacce, tanto per aggiungere altra carne al fuoco. Non possedendo i sacri giornalieri di Powell, non possiamo sapere se la prima scena della pellicola sia stata anche la prima scena realizzata, ma è un momento davvero sintomatico dello stress cui forse era sottoposto Cage. Forse faceva troppo il caldo sul set, forse c’è stato un avvelenamento alimentare, forse sarà stato aggredito dagli animali in brutta computer grafica, ma Nick è devastato e si aggira sulla pellicola incazzato e “sbracatissimo”, dicendo parolacce a chiunque, ostentando carisma con la panza di fuori, tutto sudato, per lo più attaccato a delle bottiglie più che a dei fucili da caccia grossa da cacciatore bianco. C’è pure un combattimento corpo a corpo con Kevin Durand ed è una vera rissa da strada. Mentre Durand cerca di gigioneggiare a andare a sbattere contro ogni cosa da stunt-Man consumato che interpreta il “cattivo”, Cage incede privo di ogni coordinazione, picchia l’aria e barcolla, incazzato e stanco con il mondo come un uomo che vuole solo finire le riprese ed andare a casa per due giorni, di riposo totale, prima della nuova pellicola. Un uomo troppo stanco e incazzato per guardare le forme o anche solo interagire sensatamente con una Famke Jannsen ancora avvenente. Un cacciatore che non si cura del Blue screen e affronta le creature digitali colpendole come una pentolaccia alle feste rionali. Un uomo inadatto per reggere i siparietti con la creatura più pericolosa e vigliacca di Primal: “ilbammbino”. Più subdolo e molesto di ogni altro elemento dell’equipaggio della nave, che riproduce il classico “presepe vivente” dei film di questo tipo (militare poco recettivo al dialogo, vecchio coraggioso ma miope, mozzo poco sveglio ma gentile, gnocca), ilbammbino petula, rincorre, urla, incasina, “empatizza”. Il personaggio di Cage, colorandosi di tutta l’irritazione che il Cage-attore sembra trasudare per motivi suoi, sviluppa per ilbammbino il classico effetto-Erode che colpì anche il personaggio di Kevin Costner in Waterworld. Cerca di mandargli contro gli animali feroci, lo bullizza, lo lascia da solo. Ilbammbino non si regge e nel doppiaggio italiano risulta se possibile ancora più irritante e petulante. Così Primal piano piano “fa il giro”, imperlandosi minuto dopo minuto di tutta la “gonzo action” in cui Cage è maestro anche quando lavora con il pilota automatico. Cage “trasuda” irritazione e non ci sono altri elementi che tengano. Cage si mangia il film insieme alla nave, i marines, Hamingway, gli animali buffi, il villain, la gnocca, ilbammbino, il pappagallo parlante, i giaguari in brutta computer grafica. Tutta la struttura e l’azione si piegano a Cage che suda e barcolla, calibrando l’attenzione su quello che è il vero “spettacolo”. Un po’ come Sharknado, dove alla fine lo show era Ian Ziering più che i pesci turbinanti in computer grafica. 


Farà Powell un nuovo film dopo il dittico Outcast/Primal? Non lo sappiamo, ma se cerchiamo un amabile b-film sbrindellato e mattissimo in cui Cage, con la tinta che cola, si aggira fantozzianamente per una nave piena di “cose colorate”, incazzato e con la panza di fuori, prendendo tutti a male parole, questo è il film che state cercando. Tragicamente ed esistenzialmente spontaneo come dopo una peperonata. 

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lunedì 8 agosto 2022

Vite parallele (Between Worlds): la nostra recensione di uno stranissimo thriller “sexy”con Nicolas Cage

 


Siamo sulle strade desolate della provincia americana, con in sottofondo una colonna sonora misteriosa alla Twin Peaks. Joe (Nicolas Cage) è un uomo di mezza età scontroso e distrutto dalla vita, anche se pieno di muscoli e tatuaggi, quando incontra una sera, in una stazione di sosta dell’autostrada, la misteriosa Julie (Franka Potente). È anche lei coperta di tatuaggi, di mezza età ma ancora piacente. Joe la sente ansimare in modo strano dietro la porta del bagno, la salva da un omone che sembra stia cercando di strangolarla e subito entra nello strano mondo della ragazza, che dice di poter accedere brevemente al mondo dell’Aldilà quando perde i sensi. L’omone non la stava strozzando, ma la stava aiutando a raggiungere paranormalmente la figlia Billie (Penelope Mitchell), che si trova in coma in ospedale dopo un incidente in moto, facendo in modo che “guidata dalla sua aura” si risvegli e “torni nel suo corpo a fine cure”, senza che lo spirito cada nella tentazione di passare anzitempo al paradiso. Julie si dice molto delusa dall’omone incontrato prima in bagno, perché dai due minuti in cui gli aveva esposto chiaramente le sue intenzioni forse lui aveva inteso solo una strana scusa per una fantasia sessuale e per questo si stava eccitando nello strangolarla. Vatti a fidare degli ubriaconi che incontri di notte in un bagno sull’autostrada per risolvere questioni ultraterrene urgenti!! Fortuna che c’è ora Joe, che pure se un po’ confuso da tutta la storia decide di portarla in ospedale dalla figlia, senza troppe domande. In ospedale Billie sembra vedersela brutta e Julie convince Joe a farsi strozzare un po’ nel corridoio per salvarla. La cosa sembra funzionare alla grande e pochi giorni dopo Billie, Julia e Joe finiscono tutti sotto lo stesso tetto. Joe, da poco vedovo dopo un brutto incidente domestico, riscopre con Julia le gioie di una relazione condita con del sano sesso acrobatico. Poi si accorge che pure Billie, che è una sventola di 20 anni, ha parecchio voglia di fare del sesso acrobatico con lui. L’uomo si trattiene fino a quando si convince che, per un errore paranormale della cosa che ha fatto Julie, nel corpo di Billie non c’è lo spirito della ragazza ma quello della sua moglie defunta Mary (Lydia Hearst). Ora mentre fa sesso acrobatico con Billie si immagina anche di fare sesso acrobatico con Mary, nei giorni in cui non fa sesso acrobatico con Julie. Per quanto tempo Joe riuscirà a fare sesso selvaggio con tutte e tre?


Scritto, diretto, prodotto e confezionato da Maria Pulera, girato in 26 giorni nel 2018, Vite Parallele è una piccola e geniale pazzia “direct-to-video”, plasmata sul carisma puro di Nicolas Cage, il più grande attore vivente. Alla fine dei 90 minuti della pellicola è evidente quanto il nostro eroe si sia divertito come un pazzo nel girarla cogliendo a piene mani gli ampi spazi di improvvisazione consentitigli dalla regista, primo tra tutti la possibilità di saltellare liberamente come un satiro tra tre donne bellissime in scene da alto tasso erotico tra divani roventi, letti, il retro del camion addobbato con le lucine di natale e gare continue di miss maglietta bagnata. Se in Grand Isle Cage interpretava un uomo “impotente”, immobile e quasi prosciugato di ogni entusiasmo, qui per contrappasso è un torello costantemente super eccitato ed euforico come un liceale, anche per via dei molti momenti pruriginosamente “psicotropi”, come forse non lo è mai stato se non ai tempi di Cuore Selvaggio. Sarà un caso che Vite Parallele si apre con citazioni sonore del “lynchano” Angelo Badalamenti? Questo stato di sovra-eccitazione straripa anche oltre le scene specifiche “hot” e Cage va presto in un folle e travolgente Over-acting che travolge emotivamente tutta la pellicola, con il suo personaggio che di fatto arriva a sdoppiarsi, triplicarsi, decuplicarsi e più, come fosse “posseduto” dalle anime dei mille personaggi interpretati negli anni da Cage e “rimasti prigionieri in lui”. Se la bellissima Penelope Mitchell è di fatto posseduta dal personaggio dalla bellissima Lydia Hearst, il camionista Joe interpretato da Cage vive e reagisce alle emozioni come se talvolta avesse i ricordi di un altro Joe (l’omonimo protagonista del film Joe del 2013 di David Gordon Green), rivivesse la morte della moglie come Red (protagonista di Mandy del 2018 di Panos Cosmatos), annegasse il suo dolore esistenziale nell’alcol come Ben (protagonista di Via da Las Vegas del 1995 di Mike Figgis), non riuscisse a gestire le emozioni come Peter (protagonista di Stress da vampiro del 1989 di Robert Bierman), avesse un rapporto con il fuoco sovrannaturale come Johnny (protagonista di Ghost Rider del 2007 di Mark Stevens Johnson) e Milton (protagonista di Drive Angry del 2011 di Patrick Lussier). E queste sono solo alcune delle personalità di Joe che i cinefili appassionati di Nicolas Cage sapranno scorgere, non solo tramite la sua recitazione “viscerale” alla Klaus Kinski ma anche guidati da dettagli visivi che il richiamano tramite le scelte di vestiario, la costruzione della scena, perfino l’uso degli effetti speciali. Vite parallele è pura autocelebrazione di un mito, che è Nicolas Cage, condita con una surreale storia sexy sovrannaturale. Un po’ come lo è Spider-Man: No Way Home, che magari avremmo voluto pure lui “più sexy”, visto che nel cast c’erano la Tomei e Zendaya.  

E credo ci sia davvero poco altro da aggiungere, se non “suggestioni”.


È una “stravaganza”, una piccola follia visiva peraltro dotata di un buon ritmo, donne sexy disinibite quanto accoglienti, scene spiazzanti fino al surreale e colpi di scena quasi indecifrabili se non si entra nel “mood giusto”, se non ci si ostina a leggere tra le righe, per metafore e con un occhio meta-cinematografico. Vista la sua strana genesi Vite Parallele può essere quindi una lucidissima riflessione su cosa Cage pensava intorno al 2018: c’è chi scrive un diario, Nic Cage fa un film sexy soprannaturale. Ci sta, possiamo immaginarlo come operazione sulla linea (certo non con gli esiti) di una specie di Un gatto nel cervello per Lucio Fulci. 

Forse qualcuno per il finale potrebbe pure evocare Mulholland Drive, ma non prima di essersi ubriacato pesantemente.

Nel 2018 è uscito Mandy, film che ha rilanciato Cage a livello internazionale, ma anche i tre bruttini direct-to-video The Human Bureau, Looking Glass, 211. Nel 2018 Cage è finalmente riuscito a impersonare Superman, ma non come protagonista nel colossal mancato e mai realizzato da Tim Burton, quanto come doppiatore nella versione americana del film sui Teen Titans. È stata anche la voce originale di Spider-Man Noir nella pellicola di Phil Lord, ma i colossal ad alto budget “con lui protagonista” sembrano ormai alle spalle. Possiamo pure immaginarci così che Cage nel suo cine-diario del 2018 immagini il suo modo di vivere da attore (che un po’ si è autoimposto “perché quando recita si sente bene” e un po’ “gli tocca” per far fronte a qualche problema economico) un po’ come quello del camionista Joe: uno che ha tante date di scadenza da rispettare, troppi rimpianti e un veicolo (la sua arte) che non sa quanto possa ancora andare avanti ma è tutto ciò che potrebbe usare per vivere. Joe/Cage incontra in Vite parallele Julie/Franka Potente: anche lei è una camionista come lui e può capire quello che lui prova, con magari simili rimpianti alle spalle e speranze future (anche l’attrice nel 2018 viene da un periodo di alti e bassi molto lungo, che nel suo caso l’ha allontanata dal grande schermo, dal quale è emersa da poco con la partecipazione a Conjuring 2 di Wan e al poco fortunato La settima musa di Balaguero’). 


L’incontro tra i due porta quasi a stregarli, fonderli, intrecciandoli in un rapporto viscerale quanto “umano”, in cui tornano quasi ragazzini, bello e “rivolto al futuro”. Entrambi si aiutano a riparare il proprio camion, a far ripartire insieme il loro lavoro, magari mettendo tra le priorità per una volta prima gli affetti e poi il lavoro. Fino a che “il passato” torna a bussare alla porta di entrambi tra le “forme da urlo” della giovane Penelope Mitchell, quasi come un complesso di Peter pan a tema horror. E in termini meta-narrativi Cage/Joe si distacca dal presente e dalla nuova compagna per inseguire una nuova giovinezza-passata impossibile con la Mitchell tornando a “ripercorrere per lei i suoi personaggi”, fino a scontrarsi tragicamente con la natura illusoria di tutta questa fuga, che era sbagliata fin dai suoi presupposti illusori. Certo questa lettura meta-narrativa bisogna “volerla fare propria” e se nemmeno ci si prova il film scappa letteralmente via, viaggiando da una scena assurda a una scena ancora più assurda senza continuità, in un crescendo di follie stranianti, buffe ed eccessive come quelle che piacciono ai “collezionisti di Meme”. Dopo Stress da Vampiro i collezionisti delle facce folli di Nicolas Cage hanno un nuovo film da venerare e studiare a memoria, da inserire subito in una virtuale enciclopedia dell’assurdo. Ma immaginate per un momento di essere quel tizio sbronzo che vede Vite Parallele e urla fortissimo Mulholland Drive, magari snocciolando diecimila caratteri in un delirio di recensione - adulazione senza senso. Non vi sembra di colpo di vivere in un mondo più bello? Non vi sembra che “tutto torni” e sia quasi poetico quando si vede un direct to video e ci si ritrova ad avere Un gatto nel cervello doppiato da Nicolas Cage? Vi lascio al dubbio e torno a ballare con il nano con in sottofondo Angelo Badalamenti e vi lascio al finale. 

Totalmente fuori di testa ma ultra divertente, intimista quanto criptico, Vite Parallele è una gemma trash per ogni fan di Cage duro e puro che si rispetti. Roba per palati forti, assolutamente immaneggiabile per chi lo approccia in modo diverso, seguendo schemi logici per comprenderlo. Solo per i più duri. Ma voi siete abbastanza duri da vederlo?  

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