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giovedì 11 settembre 2025

Una pallottola spuntata: la nostra recensione del film comico diretto da Akiva Schaffer, prodotto da Seth MacFarlane, che porta sulla scena, con il volto di un divertito Liam Neeson, l’esilarante e politicamente scorrettissimo figlio del leggendario tenente Frank Drebin


Ci troviamo in una Los Angeles dei giorni nostri, assolata e caricaturale come si conviene a una commedia demenziale anni ‘80. 

Una banca del centro è presa d’assalto da un intero esercito di criminali con armi pesanti, con centinaia di ostaggi e un piccolo plotoncino disorganizzato di polizia pronto al poco convinto all’assedio nell’ingresso. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti, a parte una bambina con divisa delle scuole medie, con treccine e lecca lecca, che varca l’ingresso canticchiando e saltellando nello stupore generale. I criminali provano ad avvicinarsi sconcertanti, scoprendo prima con orrore che il lecca lecca è in realtà un’arma acuminata e poi che la bambina, mingherlina e di un metro e venti, è in realtà un astuto travestimento del numero uno della Squadra di Polizia di Los Angeles, il tenente Frank Drebin Jr (Liam Neeson). Un uomo aitante di due metri, con incredibili capacità di lotta, in grado in pochi secondi di stenderli tutti, far esplodere tutto, quanto apparire smagliante, credibile ed eroico ancora vestito da scolaretta: con tanto di una gonna corta che non nasconde gambe pelose e delle enormi e virili mutandone con i cuoricini. 

Ma qualcuno dei malfattori è riuscito comunque a scappare indisturbato sul retro, dove lo attendeva per la fuga un’auto sportiva, portando con sé un oggetto preziosissimo e  misterioso che era stato custodito in una cassetta di sicurezza: il “P.L.O.T.” (letteralmente in italiano “la trama”, potevano adattarlo come T.R.A.M.A.). Frank Drebin jr rientra in centrale e insieme ai colleghi inizia a sorseggiare un numerino sproporzionato di tazzine di caffè, una ogni cinque secondi. Quasi sepolto da una montagna di bicchierini di plastica, Frank ascolta una accorata ramanzina del capo, che lo rimprovera del fatto che a seguito del suo ingresso in banca siano arrivati all’ospedale centinaia di persone ferite in modo più o meno grave, tra cui criminali, passanti, varie ed eventuali. Tutte spese che verranno affrontate dalla collettività e quasi dello stesso importo dei danni procurati dai malfattori. Viene quindi assegnato a un caso apparentemente più tranquillo e lontano dal P.L.O.T., in cui dovrà indagare sulla strana morte di un informatico, annegato in un laghetto mentre era alla guida di un nuovo modello di auto elettrica assegnatagli da poco dalla multinazionale per cui  lavorava, la EdenTech del magnate Richard Cane (Danny Huston). Inciampando da un indizio all’altro, Frank verrà a conoscenza di altri strani accadimenti in cui sono coinvolti dei dipendenti EdenTech, legati tutti guarda caso ad auto elettriche che impazziscono e fanno fuori il rispettivo conducente. Fino a che la Squadra di Polizia non assegnerà anche a lui un'auto elettrica: un dono del sempre più ambiguo magnate Richard Cane, che minuto dopo minuto assumerà sempre più i contorni di qualcuno interessato proprio al P.L.O.T.. Ma Frank non ha tempo per verificare la tenuta di strada (probabilmente rivolta verso un laghetto) della sua nuova auto elettrica guidata da IA: insegue curve ben più pericolose. Le curve mozzafiato della biondissima sorella dell’informatica portano infatti il volto di Pamela Anderson: una donna esplosiva che canta in un Night Club, con una voce sexy ma stranissima, e sembra non vedere l’ora di “infornare il biscotto di Frank”, offrendogli così la colazione della vita. Sarà l’inizio di un grande amore che porterà entrambi lontanissimi dal P.L.O.T., in vacanze lontane, in una baita innevata dove una sera troveranno in soffitta una tavola Oui-Ja, forse evocheranno un demone che, impossessatosi di un pupazzo di neve, vorrà fare con loro giochi sessuali a tre nella vasca idromassaggio. Ma il P.L.O.T. alla fine  forse troverà un modo per imporsi, con tutte le sue forze, nella scombinata successione di eventi di una delle storie più anarchiche e divertenti che la recente filmografia comica abbia mai prodotto.


Ho riso “abbestia”. 

Non mi capitava da anni.  

Ho apprezzato il bravo regista Akiva Schaffer fin da quando confezionava quel piccolo gioiello di comicità demenziale di Hot Rod, passato purtroppo quasi inosservato in Italia. 

Ho riso tanto per Family Guy, American Dad, Ted e le altre strampalate opere del produttore di questo film, Seth MacFarlane, al punto che per “completismo” ho riso pure per il suo stralunato “Accalappiadenti” con The Rock nei panni di una fata dentina. 

Ero pronto a ridere qui pur con una smorfia malinconica, perché sulla scena non può più purtroppo esserci quella maschera comica incredibile che era Leslie Nielsen, nonostante in qualche modo “appaia”, come una sorta di “lunare” controparte/simbolo dell’aquila americana. 

Sognavo da anni un film con al centro “lo spirito” di un film dei fratelli Zucker, e non sto certo certo parlando di Ghost con Whoopi Goldberg e Patric Swayze, ma degli storici Top Secret!, L’aereo più pazzo del mondo. Piccoli mondi filmici in cui tutti i generi narrativi venivano sovvertiti e mischiati, mischiati e amalgamati in nome del più semplice e onesto meccanismo comico. La prima sceneggiatura di Jarry Zucker, che sarebbe diventata nel 1977 un film di John Landis, aveva già il titolo di un manifesto programmatico: Ridere per ridere. In quegli anni, carichi delle opere geniali e citazioniste di Mel Brooks, del talento camaleontico di Peter Sellers, dei primi vagiti della National Lampoons, effettivamente “si poteva farlo”: si poteva creare qualcosa con il solo fine di “ridere di tutto”, mettere alla berlina tutto, dal perbenismo alla pubblicità, dalla politica al gender, dall’istruzione “decadente” al servilismo del mondo del lavoro, dalla psicologia allo sport al sesso. Perché sì, si poteva anche parlare di sesso senza di diecimila tabù odierni, infarcendo di doppi sensi e pure parolacce, senza incombere nel forcone di qualche censore indignato. Si poteva ridere per ridere fino all’eccesso, con meccanismi comici sempre più folli e simili a skatch umoristici, che andavano a sovrapporsi e deflagrare su canovacci “canonici” dal sapore debitamente dimesso e polveroso, portarono in questo impatto alla definizione di “cinema demenziale”. 

Era un naufragare dolce in un mare di pazzia che i benpensanti scambiarono per l’anticamera del nichilismo ed edonismo che si sarebbe poi affermato negli anni ‘80, e Una pallottola spuntata è stato infatti un fierissimo film demenziale targato 1988. 


Ma ogni volta che la comicità demenziale sarebbe tornata alla ribalta, peraltro con enormi (e quindi “preoccupanti”) incassi ai botteghini, come per la saga degli Scary Movie, si è sempre avvertito il pericolo intellettuale di spegnere subito i “fuochi sovversivi”: come se chi “si abituasse troppo” del concetto di “ridere per ridere” potesse poi diventare un pessimo cittadino, magari meno “terrorizzabile dal potere costituito”. Temendo con Nietzsche che con “una risata sarebbero stati sepolti tutti”, i produttori spinsero il cinema verso forme di risata più trattenute. I “piccoli sussulti garbati” da salotto per bene. Le “boutade sarcastiche” da commedia sofisticata francese. I risolini a scatto, forse un po’ nevrotici, da commedia psicanalitica. Le “gonfie di risate gonfie di gioia infantile”, da Cartoon, offerte da buffi, ma in fondo innocui, attori con facce di gomma (che però sotto sotto erano molto più profondi e meno innocui di quanto si aspettassero). 

Ma ecco che nonostante tutto, comprese critiche preventive e finestre di lancio forse infelici, la grande commedia demenziale torna in sala oggi con questo Una pallottola spuntata versione 2025. 

Un film che trova in Liam Neeson un interprete semplicemente eccezionale e versatile nel passare con gusto e disinvoltura da maschera seria a maschera comica. Come Nielsen era passato da ruoli seri in film catastrofici della saga Airport alla loro parodia diretta, con uguale naturalezza e senso del divertimento, Neeson si diverte su set al punto da trovare, tra una risata e l’altra, una bellissima intesa con la sua co-protagonista: una Pamela Anderson recentemente “rinata” dopo la straordinaria e struggente interpretazione nel bellissimo The Last Showgirl di Gia Coppola. Pamela è così raggiante e sorridente che tra lei e Neeson sembra sia nata una piccola ma forse grande love story. In sala si vede bene come duettino; in dialoghi convenzionali che diventano subito brillanti con piccoli giochi di sguardi, scene che dovrebbero essere sexy che in realtà si rivelano buffamente tenere, momenti di puro non-sense che raccontano invece una storia. Loro funzionano e funziona con loro anche tutto l’intreccio che cerca continuamente di “sfuggire” alla storia, funziona un montaggio votato non allo spiegare quanto al confondere con ironia le carte, funzionano i tanti comprimari compresi quelli che sembrano sul set assolutamente per caso come Dave Bautista. Funziona la Detective Story mischiata all’umorismo gioiosamente surreale che da sempre era la cifra della saga di Frank Drebin. E sì, ci sono anche le parolacce: che saranno pur figlie di una “libertà espressiva” triviale, che per qualcuno suonerà solo “un po’ vintage”, ma funzionano. 


Sarebbe letale svelare sulla trama di più di quanto già detto in sinossi, è un film da scoprire da soli o in compagnia, in sala, tra amici magari attempati che vogliono solidalmente ridere “come ai vecchi tempi”, stando attenti magari a non soffocarsi con i popcorn e la coca cola tra una risata e l’altra.  Ma potrebbe piacere anche ai giovani, cresciuti magari con South Park, Rick e Morty e I Griffin e per questo oltremodo desiderosi di scoprire che “c’è anche un film” sboccacciato ed esilarante come quelle serie animate.

È di sicuro un film che fa bene alla muscolatura facciale, sollecitando la mobilità della cavità orale, spingendola in elasticità ad ampliarsi in modi più “completi”, che possiamo ritenere utili anche per accedere a una più corretta pulizia dentale. Ridere fa bene, dovremmo farlo di più. Anche il vostro dentista apprezzerà. 

Che la stella di Leslie Nielsen vi guidi verso la sala o lo streaming più vicino, per riprovare ancora una volta la piccola magia di ridere di gusto, di “ridere per ridere” al cinema come una volta. In attese che torni dallo spazio anche Mel Brooks.  

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lunedì 8 settembre 2025

Locked - In trappola: la nostra recensione del claustrofobico thriller di David Yarovesky, con protagonista assoluto un brillante Bill Skarsgard accompagnato sulla scena dalla “voce” di un cattivissimo Anthony Hopkins

America dei giorni nostri, dalle parti di un quartiere di periferia di una grande metropoli. 

Con occhiaie di tre giorni, una trasandata tintura di capelli giallo punk da rifare, una brutta felpa rosa sporca e un cielo plumbeo che non promette nulla di buono, lo scombinato Eddie (Bill Skarsgard) cerca di elemosinare, da una losca officina, il ritiro post riparazione del furgone “multi-problematico” con cui lavora e sul quale probabilmente vive. Ovviamente mancano i soldi, non si fanno prestiti e tutto ciò di cui dispone Eddie è un sorriso storto e un biglietto della lotteria, che forse potrebbe essere vincente ma “non basta”.

Riavere il furgone serve soprattutto per alzare due spicci e comprare un regalo per il compleanno imminente della figlia, che ormai vive da tempo con la sua ex, non vede più da giorni e forse non vedrà del tutto in ragione di prossimi trasferimenti. 

È l’ultima occasione per almeno sembrare di essere stato un buon padre e per Eddie c’è solo una strada da percorrere, quella “cattiva”: alleggerire qualcuno di un’auto.

Lavoro poco nobile di cui Eddie un tempo era forse esperto, ma che oggi è complicato: troppi allarmi, troppe telecamere, strade troppo affollate. Ma dal nulla, in un brutto parcheggio periferico compare lei: un SUV “Dolus” nero metallizzato: Full Optional, rivestimenti in pelle, vetri oscurati. Costerà un occhio e il fesso del proprietario non ha nemmeno guardato che fosse chiusa a chiave. Eddie non entra, ci si tuffa. Di istinto, anche solo per portare via lo stereo e telare al volo.

Ma le porte si chiudono. 

Eddie è in trappola.

Una trappola architettata da un vecchio medico ospedaliero di nome William (Anthony Hopkins), con tanto tempo libero, il complesso del giustiziere e la voglia morbosa di osservare un topo in una gabbia, la “sua gabbia”, grazie alle tante telecamere interne istallate nella “Dolus”.  

William ha lasciato che il caso scegliesse la vittima della sua vendetta contro una “società alla deriva”, non si accontenterà del sorriso storto e del biglietto della lotteria di Eddie per cambiare idea. L’interno dell’auto è blindato quanto l’esterno. 

Ben nascoste, forse delle razioni di sopravvivenza. Un microfono permette ai due di “comunicare”, anche perché per “empatizzare” servirebbero presupposti migliori e William si diverte di più a sparare nei timpani di Eddie la musica della radio a tutto volume o ad abbassare e alzare la temperatura interna da 40 a -20 gradi, con un climatizzatore effettivamente non “di serie”.

L’idea è vedere quanti giorni resisterà.

Eddie all’inizio scalcia dappertutto, sbraita, sibila minacce. Poi inizia a ferirsi cercando vie di fuga sotto la moquette o il quadro elettrico, arrivando a farsi male sempre più gravemente, in modo compulsivo come un cervo in una tagliola. Qualche volta perde i sensi e quando si sveglia si trova bendato e medicato. Non può uscire, piange. William si diverte, sordo a qualsiasi preghiera, attaccato come un bambino al suo nuovo “gioco”.

Per scappare l’unica alternativa che ha Eddie è forse rovinare quel gioco. Ma come fare?


Conosciamo e stimiamo il resista David Yarovesky da un piccolo film del 2019, prodotto da James Gunn, chiamato Brightburn. Una pellicola che immaginava una variante giovanissima e fuori controllo di Superman, per collocarla in un universo narrativo supereroistico condiviso con il personaggio di “Saetta Purpurea” del Super di Gunn, un film del 2006. Oggi Gunn dirige il Superman canonico DC, ma già in quel caso aveva permesso a Yarovesky di dimostrare un particolare talento nello sfruttare al meglio un budget ristretto, giocando con con scenografie e inquadrature, una buona direzione degli attori e ottime capacità di editing. 

Questa volta il produttore dì Yarovesky è Sam Raimi.

Bill Skarsgard è uno degli attori più interessanti e curiosi degli ultimi anni. Elegante, giovane e “ribelle” in Atomica Bionda e John Wick 4. Appropriato nel ruolo del diabolico Pennywise nel dittico It di Muschietti, non sfigurando davanti a Tim Curry, maestoso come Conte Orlok nel Nosferatu di Eggers. La sua spiccata fisicità non lo fa sfigurare neanche in action splatter folli come Boy Kills World o nell’ultimo Corvo (che lui a parte non è riuscito in effetti benissimo). 

Ci era piaciuto particolarmente però in una parte più “fragile” di quelle menzionate finora: il ruolo di “vittima designata” nel bellissimo horror psicologico Barbarian di Cregger.

Non ha bisogno invece di alcuna presentazione Sir Anthony Hopkins, che qui si diverte a fare al telefono la voce di un matto come il suo caro e mai scordato psicologo/cannibale Hannibal Lecter. Nella versione italiana del film ha la voce del doppiatore di Robin Williams Carlo Valli.

La sceneggiatura, ad opera di Michael Arlen Ross, si basa su un soggetto degli argentini Mariano Cohn e Gaston Duprat, diventato nel 2019 il film 4x4, a sua volta ispirato a un direct to video del 1998 di Peter Liapis, Captured. Possiamo trovare però alcune affinità visive anche con il “più fantascientifico” fumetto di Uzzeo e Ceccotti Monolith, diventato a sua volta una interessante pellicola di Ivan Silvestrini nel 2017, ma Locked ci ha fatto più che altro pensare a un’altra pellicola.


Fare film ambientati in spazi angusti è qualcosa di estremamente difficile quanto stimolante, tanto per gli attori che per i tecnici del montaggio e delle riprese. A volte più lo spazio è piccolo più alta è la sfida, così ci piace mettere in relazione Locked con una pellicola ambientata in un luogo ancora più piccolo di un’auto: la vecchia cabina telefonica a gettoni di quel piccolo gioiello thriller di In linea con l’assassino, di Joel Schumacher. 

In quel caso la “vittima” era un meravigliosamente spaesato, arrogante ma fragile Colin Farrell, mentre il carnefice dall’altro capo del telefono era il luciferino e istrionico Keifer Sutherland. Il “legame” tra i due, la circostanza che non faceva uscire il primo dalla cabina telefonica, era la lucetta rossa del puntatore laser di un fucile, con cui il secondo teneva sotto tiro Il primo, con tanta voglia di parlare al telefono con lui del destino, del futuro, del “più e del meno”.

Il gioco di “sopravvivenza”, del gatto con il topo in trappola, per sua natura narrato teatralmente in modo “statico”, si colorava grazie a brillanti dialoghi e improvvisazioni per la durata, condivisa da questo Locked, di circa 80 minuti. Solo che in Locked è più spazioso di una cabina il tetro SUV della immaginaria “Dolus”. È un casermone lussuoso: un’elaborazione fantasiosa di un SUV Defender che nell’insieme risulta comunque affascinante al punto che magari immaginiamo già idealmente una produzione in serie, magari in successivi capitoli di quello che potrebbe benissimo diventare una serie. Resistentissimo a ogni tipo di colpo, proiettile, scontro. Perfettamente insonorizzato, top privacy con i vetri oscurati, il meglio della tecnologia domotica e comandi a distanza applicati. Insieme a Skarsgard e Hopkins il Dolus è a ragione coprotagonista della pellicola. È divertente quando sarcastico, osservare quanto tutto gli optional che in genere servono per rendere il viaggio su un’auto il paradiso, vengano qui usati per allestire un piccolo inferno in terra. Il Dolus diventa arma massima di tortura: in grado di impedire ogni tipo di fuga, arrostire, congelare o elettrificare il “passeggero”, renderlo sordo con musica a tutto volume. Il povero ma bravissimo Bill Skarsgard si dimena in continuazione, in modo credibile, facendoci percepire tutto il dolore che il suo personaggio patisce. Il personaggio di Hopkins lo guarda arrostire/ibernarsi/impazzire come si osserverebbero svogliati delle lasagne che cuociono sui microonde. 

Semplice ma terribile, il film funziona. 


Funziona la chimica che si viene a creare tra gli attori. Funzionano degli effetti visivi molto realistici, la fotografia “plumbea”, quasi “sepolcrale” di Michael Dellatorre, la musica ossessiva di Tim Williams.

Ci sentiamo anche noi come pubblico, piano piano, trasportarti in un ambiente in cui si fa fatica a respirare e ragionare. Almeno finché la pellicola decide di “cambiare regole”, diventando di fatto qualcosa di diverso, forse di “meno estremo”. È una svolta che è perfettamente funzionale alla trama e presenta anche dei passaggi  tragici e visivi interessanti, anche splatter, ma che in qualche modo fa perdere di potenza alla narrativa. È al contempo qualcosa che forse può davvero aprire il film a nuovi sviluppi, che dei sequel appropriati saprebbero magari cogliere e valorizzare. Tuttavia è una svolta che ci porta in un film diverso, “meno teatrale”, che potrebbe piacervi come risultare magari lontani dalle aspettative maturate. 

Ad ogni modo rimane un film che sa divertire e risulta perfetto come horror da gustare al cinema con tanti popcorn.

Locked al netto di un cambio di prospettiva che forse ci ha spiazzato ci è piaciuto e ci ha convinto.

Nel paragone con In linea con l’assassino perde forse il confronto, ma con onore: come nel film di Schumacher, anche qui sono tante e interessanti le idee, la qualità dei dialoghi è alta, l’intesa tra gli attori è buona. 

Forse, se ben gestito, il punto di inizio di una saga. Chissà. 

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giovedì 4 settembre 2025

The Conjuring: il rito finale - la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror sui demonologi Warren di James Wan, diretto da Michael Chaves


America, anni ‘60. Una notte cupa e piena di fulmini. Il primo caso di due giovanissimi e inesperti Ed e Lorraine Warren li vuole nell’ufficio di un antiquario, trovato misteriosamente impiccato nel magazzino, dopo i molti strani accadimenti avvenuti pochi giorni prima in seguito all’arrivo in negozio di uno strano specchio. Alto più di un metro, nero, molto pesante, sormontato sulla cornice in alto da tre putti dall’aria triste, in basso da decorazioni di tipo floreale. La commessa dell’esercizio, durante la registrazione del primo incontro con i Warran, appare confusa: parla di porte e luci che si accendevano e spegnevano in modo anomalo, oggetti trovati in luoghi diversi, voci sinstre, un forte senso di oppressione che ha caratterizzato senza sosta i giorni antecedenti, dando la sensazione di un pericolo imminente. Mancano troppi dettagli per procedere, ma una Lorraine agli ultimi giorni di gravidanza decide istintivamente di affrontare da sola l’oggetto maledetto: al buio, nel suo territorio, senza troppi preamboli. Quasi sfidandolo, con un senso di “urgenza”: avvertendo vicino a lei nel magazzino la presenza addolorata dell’antiquario, ancora dondolante alla trave su cui era stato rinvenuto appeso. Lo specchio però è troppo potente. La attacca appena lei si avvicina troppo alla sua superficie riflettente, nel modo più subdolo e spietato. La colpisce con strane visioni, accelerando le contrazioni del suo parto. Ed è costretto a portarla via e correre sotto la tempesta in auto nel primo ospedale possibile. In sala parto è chiaro che l’influenza dello specchio non è ancora finita: una creatura di color cenere si palesa a Lorraine in travaglio tra le ombre del soffitto o dietro medici e infermieri, con i suoi occhi grigi penetranti, allungano le sue mani oscure fino al ventre della partoriente. Urla e lampi. Salta la corrente e non parte il generatore di emergenza. Cade di colpo un surreale silenzio. La piccola viene estratta senza vita, con il cordone ombelicale stretto con forza sul collo, “impiccata”, proprio come l’antiquario. Judy nasce morta, ma dopo un intero minuto di preghiere torna alla vita. Una vita in cui fin da piccola dimostra di avere lo stesso “potere” della madre: la capacità innata di vedere spiriti e demoni. Lorraine non ha mai voluto che sua figlia vivesse le sue quotidiane ed estenuanti lotte contro gli spiriti, come non ha mai preteso che la piccola partecipasse o credesse alle loro indagini paranormali. Per aiutarla, le ha insegnato una buffa filastrocca per allontanare le visioni, l’ha sempre incoraggiata a non dare ascolto alle voci moleste e imploranti dei morti, fino a darle la consapevolezza di poterli ignorare del tutto: con la sola volontà togliergli ogni potere, relegarli a nulla di più che uno sporadico attacco d’ansia.

Ma ora, nel pieno degli anni ’80, Judy (Mia Tomlinson) è diventata una ragazza adulta, forse a livello di una medium potente come lo era nel 1966 Lorraine. Con voci dall’aldilà che ormai la affliggono quotidianamente, anche se non riesce a confessarlo alla madre per paura di spaventarla. Vive insieme al timido Tony (Ben Hardy), che per uno strano scherzo del destino è un ex poliziotto proprio come lo era suo padre. Lui ha saputo da subito capire e aiutarla nella sua strana condizione, è innamorato dal primo momento che l’ha vista e oggi è impacciatissimo all’idea di essere presentato a tutta la famiglia, per la ricorrenza del compleanno di Ed.


Judy ha ormai la stessa età di quando la madre ha incontrato lo specchio nero per la prima volta. L’artefatto, intanto, di rigattiere in rigattiere e di tragedia in tragedia, è finito in Pennsylvania, nella casetta di periferia di una grossa zona industriale in cui vivono, piuttosto stretti, gli 8 membri della famiglia Smurl. È stato comprato a prezzo bassissimo con l’idea futura di restaurarlo, ma intanto è stato subito impacchettato e offerto come regalo di cresima per la figlia maggiore. Un regalo sgradito e inquietante, al punto che nottetempo le ragazze hanno provato a disfarsene affidandolo come “ingombrante” agli uomini della nettezza urbana. Ma proprio mentre lo specchio è finito tra le fauci del tritarifiuti, la ragazzina ha iniziato inspiegabilmente a vomitare sangue misto a pezzi di vetro, finendo in ospedale. Sono seguiti per tutta la famiglia giorni inquietanti e carichi di rumori, voci, apparizioni spettrali: fenomeni così terrificanti e numerosi che presto sono arrivati alla stampa, trasformando la piccola abitazione degli Smurl come la casa più infestata d’America. Una situazione che non è sfuggita a Padre Gordon (Steve Coulter), lo storico amico e collaboratore dei coniugi Warren, che proprio durante la festa di compleanno di Ed, tra un torneo di ping pong e la grigliata del gruppo di investigazione soprannaturale prova a proporre un intervento alla coppia. Ma ormai Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga) si sentono troppo vecchi e malandati per affrontare un nuovo caso. Anche se lo nega, Ed ha grossi problemi al cuore da anni, dopo l’ultimo tragico “scontro” con il soprannaturale. I due si sono ritirati da anni dall’attività di indagine e dagli ultimi convegni appare evidente che l’interesse e la credibilità del loro lavoro non vengono più presi in grande considerazione. Ormai si sentono come vecchi comici del Saturnday Night Live, con giusto ogni tanto qualche avventore ancora interessato a fare un giro nel loro “museo degli oggetti maledetti”, magari per dare una sbirciata alla terribile bambola maledetta Annabelle. Hanno ormai appeso bibbia e crocefisso al chiodo. Per Judy però è diverso. L’urgenza di aiutare il prossimo, che potrebbe in parte aiutarla a stare meglio, la fa subito interessare alla storia degli Smurl. Senza dire una parola a nessuno parte così verso la Pennsylvania per incontrare la famiglia.

Questo darà il via a una battaglia terribile con le forze dell’aldilà.

 


La zona di confine tra la tragedia famigliare e il paranormale

Una delle scene più inquietanti di La Loorona - Le Lacrime di Sangue, del 2019, il primo lungometraggio di Chaves, reso “in corsa” dalla produzione targata Atomic Monster di James Wan uno “spin - off” del Conjuring Universe dopo l’apprezzamento del corto The Maiden del 2016 (si trova anche in rete), si svolge giusto nei primi minuti della pellicola. Un’assistente sociale trova dei bambini rinchiusi a chiave in uno sgabuzzino, da una madre problematica “già nota ai servizi”. I bambini piangono, sono disidratati, è buio. La madre sostiene di averli rinchiusi lì dentro per non farli prendere da un fantasma. Già dal prologo, così come nel corso della visione, ci viene mostrato con dovizia di effetti visivi e una buona direzione artistica “chi è il mostro”: una creatura che agisce come un animale, seguendo un preciso schema predatorio ricorrente. Ha la sua “zona di caccia”, vittime designate, limitazioni nei movimenti dettate da precisi vincoli ambientali. Esistono per affrontarla precisi “oggetti mistici” e “rituali codificati”, in grado di contenerla o scacciarla, che se vogliamo ci portano all’interno di uno scenario quasi fantasy: rendono il mostro simile alla creatura magica di un gioco di ruolo, trasformano ogni azione in una stimolante partita tra “chierici e demoni”. Chaves dimostra di conoscere bene la “grammatica” di questi “scontri soprannaturali”: inquadra con particolare enfasi gli oggetti mistici, tiene conto nelle inquadrature di tutte le regole e i confini in cui possono muoversi le creature, ha un convincente senso estetico, a tratti gioiosamente patinato, che sa rendere la messa in scena accattivante anche al di là di alcuni presupposti narrativi già visti. Tuttavia, il colpo da vero maestro è la scena dell’assistente sociale e dei bambini chiusi a chiave dalla madre. Una scena che inconsciamente continua a rimbalzarci nella mente, in modo sottile, come se in quel contesto la “giustificazione paranormale” non ci bastasse ad “accettare i fatti” e al contempo forse evidenzi una fragilità umana inedita, dai contorni terribili. Come non ci bastava un tale tipo di giustificazione nel precedente film della saga, del 2021, The Conjuring – Per ordine del diavolo, diretto ancora una volta da Michael Chaves. Anche perché in questo caso la vicenda era “tratta da una storia vera” e aveva avuto pure dei risvolti processuali concreti. A monte, una reale tragedia familiare ben narrata in tutta la sua ambiguità. Anche grazie alla interessante sceneggiatura di David Leslie Johnson-McGoldrick: autore della saga sui Warren dal secondo fino a questo capitolo, ma anche ai tempi del suo esordio professionale, del 2009, autore di un’ottima pellicola “tra realtà e orrore” come il thriller di Jaume Collet-Serra Orphan.

Come già evidenziato negli altri capitoli della saga sui Warren scritti da Johnson-McGoldrick, nella scrittura si avvertono magari delle “piccole indecisioni”, relative principalmente alle scene di esorcismo, che nell’economia generale rendono questi momenti a parere dello scrivente meno incisivi del resto della storia. Sono tuttavia momenti che vengono ben compensati nel resto della narrazione da scene ben gestite dal forte impatto visivo e soprattutto da dialoghi in grado di affrontare con molta cura la complessità della psicologia umana.

Chaves ad ogni modo sa sempre portarci su una bellissima “giostra”. Nello specifico qui protagonista assoluta de L’ultimo rito è una bella casa degli orrori piena di figuranti terrificanti e specchi deformanti, pareti che crollano di colpo e pavimenti che si sgretolano. Dotata di tutti i migliori trucchi visivi e sonori per spaventarci e scenario pieno di spunti per scena d’azione ancora una volta avvolgenti, gioiosamente ludiche e divertenti. Ma al contempo la pellicola sa offrire il dubbio, se non il “disincanto” delle ragioni profonde che muovono gli eroi stessi sulla scena. Ed e Lorraine diventano così un po’ anti-eroi pittoreschi e decadenti, da western crepuscolare, vistosi e forse innocui “intrattenitori” come Il cavaliere elettrico di Sydney Pollack con il volto di Robert Redford. Anti-eroi umanissimi, come lo sono sempre stati del resto in tutta la saga i personaggi dei bravi Wilson e Farmiga; ma in più piene di dubbi, su sé stessi e sui loro stessi casi passati. Persone che riflettono, ragionando sulla loro vita, sul fatto di aver aiutato tante persone per lo più solo parlandoci al telefono: ascoltando, tranquillizzando, magari dirottando verso uno psicologo. Anti-eroi che nel pieno dell’edonismo e vuoto spirituale degli anni ’80, lo scenario di questa vicenda, per le nuove generazioni diventano sadicamente, per i super-sadici Chaves e Johnson-McGoldrick, meno credibili dei Ghostbusters.


Se Willson e la Farmiga ormai indossano con assoluta naturalezza i panni di Ed e Lorraine Warren, conferendo sempre molta credibilità e “cuore” ai personaggi, appaiono ugualmente convincenti anche Mia Tomlinson e Ben Hardy (visto nei panni di Roger Taylor in Bohemian Rhapsody). I nuovi personaggi si integrano bene all’interno di una trama che diventa generazionale, portando con loro nuovi dubbi e speranze, in certi frangenti riuscendo anche a toccare straordinarie note di leggerezza e ironia. La “continuity” funziona, alimentando un divertente gioco di specchi nel film sui Warren che più di tutti parla di “specchi”, opposti e contrari, luci e ombre interiori.

La colonna sonora ad opera di Benjamin Wallfisch (It, Blade Runner 2049, L’uomo invisibile) funziona molto bene nel sottolineare l’arrivo sulla scena di ogni “spavento”, valorizzando in pieno il montaggio serrato, quasi a “ghigliottina” di Elliot Greenberg (Chronicle) e Gregory Plotkin (Get Out – Scappa). Le scenografie di John Frankish (Gosford Park), solide e piene di piccoli dettagli grotteschi, unite all’ottimo lavoro svolto dal reparto effettistico, del trucco e dai chiaroscuri della fotografia di Eli Born, conferiscono all'abitazione degli Smurl un fascino tutto particolare che la rendono diversa e unica rispetto alle precedenti “case infestate” protagoniste della saga. Menzione d’onore proprio per lo “specchio maledetto”: a tutti gli effetti un “villain da favola”, misterioso e “immortale”, sinistro e solo all’apparenza “immobile”.

 

Finale

The Conjuring: L’ultimo rito è una pellicola che ci ha convinto, grazie alla interessante e ricca messa in scena, al talento di attori convincenti e a un bel numero di scene terrorizzanti che ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine, facendoci vivere in prima persona l’atmosfera di una casa stregata. Il nuovo capitolo della saga horror di James Wan attraverso l’occhio del regista Chaves si fa poi a tratti quasi western crepuscolare, malinconico e struggente, a tratti leggerissimo, a tratti drammatico: andando a raccontarci in modo credibile e non scontato la complessità della parabola umana dei protagonisti.

La trama presenta alcune piccole sbavature che risultano però ben compensate da scene dal grande impatto visivo e una sceneggiatura ben congegnata, che pur cavalcando un genere molto noto riesce a esprimersi anche con spunti originali e inaspettati momenti introspettivi. Davvero ben riuscito il “villain”.

Se avete amato la saga creata da James Wan, un film semplicemente imperdibile.

Sarà davvero l’ultima avventura cinematografica per i coniugi Warren?

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martedì 26 agosto 2025

Dangerous Animals: la nostra recensione del divertente horror estivo a base di squali e pazzi di Midnight Factory, con per matto mattatore un sorprendente Jay Courtney. Regia del grande Sean “Devil’s Candy” Byrne, nuovo talento dell’horror australiano.

Tempo di vacanze in Australia, dalle parti di una delle coste più belle ed amate dai surfisti di tutto il mondo. 

In cerca dei brividi estremi nella più torrida delle stagioni estive, una coppietta molto legata e molto lontana da casa (interpretata da  Lian Greinke e Ella Newton) non si accontenta di guardare coloratissimi pesci tropicali negli acquari di Sea World, ma decide di stare a fissare gli squali “senza vetro”, direttamente a pochi centimetri dalle loro zanne, guardandoli reciprocamente nelle palle degli occhi, in immersione, dentro una gabbia metallica. 

Tutto sicuro o quasi. 

La barca che offre questo servizio è un catafalco rugginoso ma solido. La loro “guida”, Bruce Tucker (Jay Courtney), un torvo omone pieno di muscoli, dal discutibile umorismo, ma dagli occhi gentili.

L’argano è mezzo rotto, ma la gabbia è spessa e soprattutto è una bellissima giornata di sole.

Al largo il motore si ferma, al centro del nulla, calma e silenzio assoluto. 

Bruce da secchiacci enormi e logori getta in acqua delle frattaglie di pesce miste a budella e tanta, tantissima emoglobina, per attirare i predatori.

Il mare inizia a tingersi di sangue e la coppietta di colpo ripensa ai vantaggi di Sea World. La barca un po’ trema e lo fanno pure i suoi ospiti.  Bruce tranquillizza tutti intonando con loro “Baby Shark” e quando i sorrisi tornano sul volto partono le procedure di immersione: tute da sub, imbracature di sicurezza, bombole e macchine fotografiche per souvenir. Inseriti tra le comode sbarre di metallo e calati lentamente dall’argano. 

Sotto il tetro velo di acqua cremesi, tutto però è bellissimo. Un piccolo branco di squali si avvicina calmo e armonioso: si muove con la grazia in un balletto classico, hanno occhioni da Pokémon, quasi allungano una pinna in segno di amicizia. 

La coppietta a fine tour è davvero al settimo cielo. Al ragazzo viene spontaneo abbracciare con gioia e gratitudine il torvo barcaiolo, come fosse il migliore amico che la vita gli ha messo davanti. 

Bruce sorride, ricambia.

Poi accoltella. 

Il ragazzo cade, mezzo morto e mezzo incredulo è a terra, come alcuni dei pesci, pezzi e frattaglie usati per richiamare gli squali che ancora sono sul ponte. La ragazza urlante spezza il meraviglioso silenzio di quell’angolo di mondo e grida ancora mentre è trascinata sotto coperta come un quarto di bue, in una specie di prigione segreta, dove viene legata a un letto metallico. 

Non ha invece mai amato prigioni e legami di qualsiasi tipo una surfista bionda che si fa chiamare Zephyr (Hassie Harrison). Libera come il vento e tutte le ventenni, forse da troppo tempo, batte la costa da sola, con il suo furgone pieno di tavole da surf e musica rock, in cerca di onde e forse nient’altro. 

Forse nascondendo qualcosa di inconfessabile. 

Ogni tanto le si avvicina tra i flutti qualcuno come l’imbranato surfista per caso Moses (Josh Heuston): un tipo buffo e gentile, ma pressante, che fa troppe domande personali che la fanno inevitabilmente scappare. All’ennesima fuga da un Moses poco romantico ma “particolarmente pressante”, che inizia a cercarla  quasi come un serial killer confrontando targhe di furgoni nei database della motorizzazione e provando a visionare videocamere poste vicino ai parcheggi delle spiagge, Zephyr finisce in un parcheggio decisamente isolato, in piena notte. Un luogo da lupi dove viene inevitabilmente stordita, rapita e poi portata sulla sua barca per turismo proprio da quel vecchio lupo di mare di Bruce. 


Zephyr si sveglia legata a un letto di ferro in una stanza che abbiamo già visto. Al suo fianco, su un altro letto una ragazza in fin di vita che forse riconosciamo. Incisi alle pareti tanti, troppi nomi, di donne che come loro sono state lì: per poi diventare parte dei “veri show” che Bruce ama filmare professionalmente con la sua telecamera: niente roba per turisti, qualcosa forse da rivendere nel dark web. Spettacoli in cui il barcaiolo attacca a un gancio metallico come quarti di bue vittime umane ancora vive, per poi farle calare in acqua lentamente, gocciolanti, “al sangue”, senza gabbie di ferro che possano infastidire la masticazione degli squali. Bocconi così ghiotti che, per assaporarli, qualche squalo è pure disposto a saltare a favore di camera più in alto del solito, come un delfino davanti al pubblico. Chi voleva andare a Sea World? Chi vuole ora cantare insieme Baby Shark? 

Riuscirà Zephyr a sopravvivere, magari facendo affidamento su qualche skill che le ha donato la sua vita solitaria? 

Ma soprattutto, se mai arriverà Moses a salvarla, sarà davvero una condizione migliore che finire sulla barca di Bruce?


Questa estate Midnight Factory, per tornare trionfalmente in sala nel periodo più amato dai fan dell’horror, ha deciso di puntare su un cavallo decisamente vincente: il regista australiano Sean Byrne, autore di quello straordinario Devil’s Candy che da tempo è uno dei più pregiati titoli del loro catalogo. Un film divertente, psichedelico, chiaro e preciso nella costruzione della tensione. In Devil’s Candy soprattutto Byrne si è dimostrato molto bravo nella costruzione della messa in scena e nella direzione degli attori, regalandoci un “villain” davvero speciale, che ha saputo valorizzare al meglio la fisicità ambigua e la recitazione sottile del mai troppo celebrato Pruitt Taylor Vince: un attore caratterista già apprezzatissimo (come nello psico-thriller Identità) che qui per la prima volta riesce a porsi al centro della scena, regalando una performance davvero unica. 

Per Dangerous Animals Byrne sceglie come villain di puntare sul bravo ma poco fortunato Jay Courtney: un attore “grosso” ma dallo “sguardo fanciullesco” ,che nonostante le partecipazioni a serie come Spartacus, Terminator e Die Hard non è mai riuscito a emergere, finendo anche lui per lo più in ruoli da caratterista.

In Dangerous Animals tornano di fatto molti degli elementi della crew che hanno reso così grande e iconico Devil’s Candy: dall’autore della sua straordinaria colonna sonora “dark metal”, Michael Yezerski, al direttore del suo montaggio “sincopato/subliminale” Andy Canny, fino al direttore della sua “psichedelico/mistico” fotografia Simon Chapman.

Questa volta Byrne non si occupa direttamente della sceneggiatura, affidandosi all’esordiente Nick Leopard.

Per “final girl” è stata scelta invece Hassie Harrison, attrice che si è fatta notare nella serie Yellowstone ma anche nel 2015 per quella piccola bomba horror australiano/lovecraftiana di Southbound (che potete trovare anch’essa nel catalogo Midnight Factory).

In sala, Dangerous Animals conferma molte delle buone sensazioni che riponevamo nella pellicola. 

Un horror fresco, semplice nella costruzione ma in grado di essere diretto e incisivo,  pieno di colpi di scena quanto “gioiosamente sanguinolento”, divertente e autoironico, in grado di tenerci attaccati allo schermo dal primo all’ultimo minuto grazie a un'atmosfera che non cala mai. La sceneggiatura di Leopard nella costruzione del villain strizza un occhio a un altro classico dell’horror australiano, il Wolf Creek di Greg McLean, con un Jay Courtney che sa giocare bene e amabilmente nell’alternare affabilità quando spietatezza, umorismo e cinismo, vulnerabilità e disumanità. Il suo è un vero e proprio One Man Show ed è un vero piacere guardarlo giganteggiare davanti a una telecamera che lo segue così da vicino che quasi non riesce a contenerlo, allo stesso modo in cui appare quasi troppo grosso e impiccato tra gli stretti corridoi in metallo della sua nave-prigione. Una nave-prigione grottescamente bellissima: che ci racconta la “sua storia” tra i mille dettagli della scenografia, tra quadri ricavati da vecchi quotidiani e scritte sui muri realizzati da unghie umane cariche di angoscia, troppi liquori e una vasta collezione di archivi video realizzati, all’inizio, forse in cerca di grandi “domande esistenziali”. Uno scenario da tragedia, ma anche da incubo, che spesso viene percorso dagli occhi e muscoli tesi di una bellissima e convincente Hassie Harrison: in cerca di vie d’uscita impossibili mentre da spettatrice è chiamata più volte ad assistere sul ponte a performance degne del grand guignol che di sicuro faranno la felicità degli amanti dello splatter. In attesa di un confronto con l’enorme personaggio di Jay Courtney, che fin dall’inizio ci appare davvero impari. Sul piano visivo e sonoro la crew di Byrne si conferma eccezionale quanto versatile: Dangerous Animals ha colori e suoni molto differenti da Devil’s Candy, ma il livello è sempre alto, convince e conquista attraverso una visione e ritmo ancora una volta precisi, distintivi. Ci sembra quasi di avvertire la puzza di frattaglie, di sentire i polsi legati al letto di ferro in una morsa che non tende a cedere. Dal mare sentiamo emergere e circondarci alla cintola denti bianchissimi di squalo.

Un piccolo gioiello per tutti gli amanti dell’horror “balneare” più “slasher” e ludico. Imprescindibile se amate i film ad alta tensione e magari siete un po’ orfani di quel “florido filone” su persone distratte che a vario titolo finiscono di punto in bianco in mare, senza poter tornare indietro. Qui però non ci sono tempi morti e soprattutto siamo in compagnia di un barcaiolo terribile di lusso. 

Un tuffo nel blu rosso sangue per chi apprezza ancora uno slasher vecchia scuola anni ‘80. 

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sabato 16 agosto 2025

28 anni dopo: la nostra recensione dell’horror apocalittico di Danny Boyle, Alex Garland e Andrew MacDonald, terzo capitolo della saga iniziata nel 2002 con 28 giorni dopo


La storia finora:

Era iniziato tutto 10.228 giorni prima, a Londra, in un laboratorio di Cambridge. Degli animalisti, muniti di tutte le migliori intenzioni e di una buona preparazione militare, avevano deciso di liberare delle scimmie utilizzate come cavie dall’industria farmaceutica. In pochi istanti sarebbero stati trucidati e contagiati da quella che sarebbe poi stata definita come la variante più aggressiva del virus della Rabbia. Sarebbero “rinati” come creature veloci e implacabili, affamate, spinte solo dall’istinto. Un piccolo contatto, con la loro saliva o una goccia del loro sangue, poteva bastare per creare in pochi secondi nuovi contagiati: intere legioni. In pochi giorni l’intera Gran Bretagna arrivò al collasso. Le nazioni limitrofe decisero di mettere in quarantena tutto il Regno Unito, sorvegliando militarmente i confini dall’esterno, lanciando saltuariamente sul territorio scatole di viveri o bombe. 

28 giorni dopo, un rider di nome Jim (Cillian Murphy) si risvegliava dal coma, nel suo posto letto del Saint Thomas Hospital, scoprendo di essere il solo individuo rimasto vivo nel centro di Londra. Si unì a un gruppo di sopravvissuti, cercando di muoversi in fretta, a piedi, verso Deuport e poi Manchester. Alla ricerca di risorse alimentari, risposte dai canali radio ancora attivi, altri compagni non contagiati da soccorrere. Cullando il sogno di andare a costruire insieme un’altra società. Ma il gruppo si accorse presto che i contagiati erano solo uno dei problemi e forse non il peggiore: anche i non contagiati, abbandonati a loro stessi in quel caos, in brevissimo tempo sarebbero regrediti allo stato di barbari.

28 settimane dopo (come da film omonimo, il sequel, uscito nel 2007) l’esercito degli Stati Uniti e la Nato decretarono la fine della quarantena. Per gli scienziati, i contagiati che si nutrivano principalmente solo di carne umana “viva” dovevano orami essere senza più risorse. L’Isola dei Cani, una penisola nell’East End circondata sui tre lati dal Tamigi, divenne il punto di raccolta per organizzare i primi rimpatri di chi era riuscito a fuggire in tempo alla mattanza. L’esercito avrebbe provveduto a mettere in sicurezza progressivamente tutti i territori, ma per ora Londra era pronta a rinascere. Uno dei guardiani dei nuovi insediamenti, Don (Robert Carlyle), riuscì a ricongiungersi con i suoi due figli (una è interpretata da una giovanissima Imogen Poots), ritrovati dopo che erano stati ospitati in Spagna. Ma la vera sorpresa per Don fu ritrovare, nella loro vecchia casa e ancora in vita, sua moglie Alice (Catherine McCormack). In stato confusionale ma in buona salute, non minacciosa seppur con quegli “occhi rossi” tipici dei contagiati. Per l’epidemiologa Ross (Rose Byrne), Alice costituiva una preziosa portatrice sana del virus della Rabbia. Studiando il suo sangue e la sua saliva sarebbe stato possibile trovare una cura, ma gli eventi precipitano in modo inatteso. Il virus tornò a circolare. Il generale Stone (Idris Elba) chiese ai militari di uccidere con fucili e lanciafiamme l’intera popolazione inglese presente, tutti gli infetti e non infetti, per eliminare alla radice il problema. Essendo insufficiente il contenimento, arrivò a chiedere il bombardamento totale di Londra. L’epidemiologa Ross e il sergente Doyle (Jeremy Renner), un miliare che si era rifiutato di sparare sui civili, cercarono di salvare la famiglia di Don dal “fuoco amico”, dai contagiati e dalle imminenti bombe che sarebbero piovute sulle loro teste.

 


Sinossi:

Ci troviamo 28 anni dopo l’inizio del contagio, con la quarantena ancora in vigore.

Siamo nel nord est dello Yorkshire, su una piccola isola difesa da torrette cariche di frecce e balestre (per le riprese è stata utilizzata Lindisferne, conosciuta anche come Holy Island).

Un luogo piccolo e in gran parte indipendente dal resto del mondo, dove si coltivano i campi e si allevano pecore, ma che per ogni altro bisogno “più tecnologico” deve fare affidamento sulla terraferma. Una terraferma che si può raggiungere solo durante le poche ore concesse dalla bassa marea, camminando veloci lungo una stretta strada lunga alcune centinaia di metri. Cadere o farsi sorprendere dall’alta marea significa finire al centro di forti correnti che spingono verso il mare aperto. Una difesa naturale, che per decenni ha preservato la pace insieme all’alto grado di preparazione degli “arcieri” dell’isola. Fin da bambini tutti vengono addestrati dal vecchio Sam (Christopher Fulford) a prepararsi a combattere come veri militari, almeno fino al giorno in cui sarà deciso il loro passaggio all’età adulta: un momento sancito dalla prima missione sulla terraferma e dall’uccisione di un infetto.

Spike (Alfie Williams) è un ragazzino di 15 anni, minuto e molto legato alla madre malata, Isla (Jodie Comer). Proprio per cercare al di là della bassa marea una cura per lei, magari in una vecchia farmacia o ospedale, Spike si è addestrato e ha deciso con suo padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) di andare con l’arco “a caccia di infetti”, per diventare adulto. Il mondo al di fuori dall’isola appare al ragazzo sconfinato quanto rigoglioso: pieno di boschi e mandrie di animali che corrono liberi su campi di grano. Un paradiso in cui gli infetti sembrano essersi perfettamente integrati con il resto della natura. A causa dell’alimentazione cui si sono dovuti adattare, in assenza di “carne umana”, alcuni di loro hanno però subito dei cambiamenti fisici. Alcuni si sono involuti e hanno cominciato a strisciare: destinati a cibarsi di vermi e insetti. Altri, chiamati Alfa, sono diventati giganti di quasi tre metri, predatori inarrestabili in grado di dare ordini agli altri infetti e quasi di “comandare gli animali”. Colossi e al contempo “stregoni”, che non possono essere abbattuti se non dopo essere colpiti da almeno 20 frecce. Creature quasi divine che con una sola mano possono strappare la testa di un uomo dalla sua colonna verticale.

La prima caccia di Spike è confusa e terribile.

Si protrae per giorni, perché subito un Alfa (Chi Lewis-Parry) inizia a dare la caccia a loro, costringendoli a nascondersi e perdere la coincidenza dalla bassa marea. Il padre lo incoraggia ed esalta, ma Spike non riesce a tendere abbastanza bene l’arco, le frecce scarseggiano, la paura circonda ogni minuto di quell’esperienza orribile. Al ritorno, nonostante le lodi e i festeggiamenti, il ragazzo è certo di non volere mai più uscire dall’isola, ma il vecchio Sam sa dare una spiegazione interessante a una cosa strana che Spike ha visto di sfuggita sulla terra ferma: una colonna di fumo che illuminava la notte. Quella poteva essere la prova che da quelle parti era ancora vivo il Dott. Kelson (Ralph Fiennes) un medico di base che da anni stava cercando di convivere pacificamente con gli infetti, erigendo enormi colonne di teschi per onorare la memoria dei caduti dell’epidemia. Un uomo forse impazzito, ma che avrebbe potuto aiutare Spike a curare la madre.

Pieno di frecce e coraggio, Spike decide di tornare sulla terra ferma.

 


Alle radici di una delle saghe Horror più amate degli ultimi anni:

“Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra”. Questa è una celebre frase/profezia attribuita a George Romero, ma è anche una delle paure e suggestioni umane più diffuse. Al punto che la cinematografica ha sempre saputo nutrirci di pellicole cariche di zombie, “contagiati” e in genere creature figlie di una degradazione fisica e psicologica del corpo umano post-mortem. Tutte creature che ci vogliono mangiare/sostituire/obliterare. Spesso gli zombie e i “contagiati” di Romero ci appaiono come metafore del degrado umano, all’interno di una società consumistica arrivata al capolinea, ma i non-morti al cinema hanno avuto anche chiare valenze religiose (Rec), satiriche (Il ritorno dei morti viventi) e soprattutto sono sempre stati una ottima “carne da cannone”, in film action-splatter adrenalinici quanto truculenti (L’alba dei morti viventi di Snyder) e in film così truculenti da diventare comici (Splatters di Peter Jackson).

Nel 2002 Danny Boyle inseguiva l’horror. L’autore inglese che aveva esordito con la commedia nera Piccoli omicidi tra amici ed era diventato celebre adattando Trainspottig di Irving Welsh, affiancato dal suo sceneggiatore di sempre, John Hodge, era reduce da The Beach, una pellicola con protagonista Leonardo Di Caprio. Un thriller/ ecologista che adattava il romanzo di esordio di un giovane di belle speranze di nome Alex Garland (uscito nel 1996 in Italia con il titolo L’ultima spiaggia). Nel 2003 anche il secondo libro di Garland, Black Dog (in Italia uscito nel 1997 come The Tesseract), sarebbe diventato un film, per la regia di Oxide Pang dei “Pang Bros” (autori di cult come la saga horror The Eye). Il terzo e per ora ultimo romanzo di Garland (The Coma, in Italia semplicemente Coma, del 2004) non avrebbe mai avuto un adattamento ufficiale, anche se uno dei suoi temi portanti, il confine psicologico tra il pensiero conscio e inconscio, ancora un tema “horror”, avrebbe avuto molte affinità con il primo grande incarico che Danny Boyle gli diede in qualità di suo nuovo sceneggiatore: l’horror apocalittico 28 giorni dopo.

La sceneggiatura di Garland si presentava subito come una autentica love letter agli Zombie-Movie di George Romero e in specie de La città verrà distrutta all’alba, che parlava nello specifico di contagiati e non di zombie. Ma tra le fonti di ispirazione veniva ricordato, per ammissione dell’autore, anche Il giorno dei Trifidi, un romanzo di fantascienza del 1952 a opera dell’inglese John Wyndham (autore che ispirò anche Il villaggio dei dannati), diventato nel 1963 il film L’invasione dei mostri verdi. Si parlava in questo caso di creature di origine vegetale “diventate antropofaghe” (potremmo azzardare qualcosa di abbastanza vicino ai Bloaters della serie The Last of Us), ma di fatto molte delle dinamiche narrative e scene-chiave del libro sono riscontrabili tanto in 28 giorni dopo che nel suo sequel 28 settimane dopo.

Non avendo tra le mani un altissimo budget, per abbassare i costi il produttore Andrew MacDonald spronò Boyle a girare a Londra alle 5 di mattina, di fatto replicando quello che fece Fulci per il suo horror-cult Zombie 2: girato a Brooklyn all’alba.

La fotografia del bravo Anthony Dod Mantle (Festen, Mifune, Dogville, The Millionaire, Antichris), l’ottima prova di tutti gli attori e la scelta (parimenti economica) di usare telecamere a mano digitali ad alta definizione, in luogo di ingombranti telecamere classiche con pellicola, conferirono alla pellicola un forte grado di realismo. Alcuni momenti sapevano davvero fare paura.

28 giorni dopo arrivava in sala 2 anni prima de L’alba dei Morti Viventi di Snyder e di Shaun of the dead di Edgar Wright. Tre anni prima del ritorno al genere del grande Romero con La terra dei morti viventi. Otto anni prima dal remake de La città verrà distrutta all’alba. L’opera di Boyle e Garland andava in qualche modo a riempire nel pubblico un vuoto di paranoie esistenziali sopite.

Il successo commerciale fu favoloso, ri-lanciò la moda dei film di questo tipo e lanciò la carriera del giovane protagonista, Cillian Murphy, che nel 2007 Boyle e Garland avrebbero voluto per il fantascientifico e horrorifico Sunshine e che nel 2023 avrebbe ricevuto l’oscar come miglior attore protagonista per il biopic Oppenheimer di Nolan. Fin da subito Murphy aveva manifestato l’intenzione di tornare nella saga di 28 giorni dopo, ma 28 settimane dopo entrava in produzione proprio parallelamente a Sunshine, con Boyle, Garland e MacDonald che si ritagliavano giusto un ruolo produttivo, mentre la regia veniva affidata allo spagnolo Juan Carlos Fresnadillo (nel 2024 regista di Damsel, per Netflix, con Millie Bobby Brown), che si occupò in parte anche della sceneggiatura. Si dice che Garland collaborò attivamente allo script, seppur come non accreditato. Con tanti film di zombie tornati in voga, l’approccio della sceneggiatura doveva cambiare: il film si riempiva di suggestioni “politiche”, un cast maggiormente internazionale e un gran numero di scene d’azione di stampo quasi Hollywoodiano. Il budget di cui poteva disporre MacDonald si era letteralmente moltiplicato, ma la cosa più interessante era che si potevano già riscontrare, qui, alcuni degli elementi da “horror sociologico” che di fatto “avrebbero anticipato” di anni un celebre lavoro di Garland uscito nel 2024: Civil War.  La formula risultava nuovamente vincente e dopo Lord of Dogtown la pellicola lanciava la carriera di un Jeremy Renner in piena ascesa, che solo un anno dopo sarebbe stato candidato a miglior attore protagonista per The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Alla promessa di Murphy, Boyle Garland, MacDonald di voler tornare in futuro in quel mondo post-apocalittico si sarebbe unita, intorno al 2020, anche quella che nel 2007 era la piccola Imogen Poops, ora diventata una attrice molto quotata.

Ma la data di inizio della produzione del terzo capitolo era ancora lontana.

Garland iniziava a adattare il libro Non Lasciarmi, di Kazuo Ishiguro, per il film omonimo diretto da Mark Romanek che sarebbe uscito nel 2010. Nel 2012 avrebbe scritto e si dice anche co-diretto (non accreditato) il fanta-fumetto Dredd - il giudice dell’apocalisse, con un “esordio completo” alla regia che sarebbe avvenuto nel 2015 con un grande horror psicologico: il film sui pericoli dell’intelligenza artificiale Ex Machina, diventato presto un vero e proprio cult. Garland sarebbe poi passato nel 2018 al lovecraftiano Annientamento, nel 2022 al thriller surreale Men, nel 2024 al capolavoro fantapolitico Civil War (che di fatto è una delle visioni del presente Geo-politico più horror che si possano immaginare) e nel 2025 al claustrofobico e disperato war movie Warfare. Nel frattempo, Boyle aveva scelto come suo sceneggiatore di riferimento Simon Beaufoy, con il quale avrebbe realizzato la pluripremiata favola urbana Slumdog Millioaire nel 2008 e il thriller claustrofobico 127 Ore nel 2010. Sarebbe tornato poi con John Hodge per il fantascientifico In Trance del 2013 e poi per T2 Trainspotting nel 2017. Avrebbe realizzato il biografico Steve Jobs con lo sceneggiatore Aaron Sorkin nel 2015 e la favola musicale/nostalgica Yesterday con lo sceneggiatore Richard Curtis nel 2019. Tutte cose poco horror, mentre nel frattempo 28 anni dopo “aleggiava”, con una prima stesura della trama che si diceva pronta già nel luglio del 2008, ma anche con dei consistenti problemi riguardanti i diritti, come dichiarato da Garland nel 2010. Per molti anni MacDonald si sarebbe impegnato nel trasferimento della proprietà intellettuale dalla Searchlight Pictures a un nuovo distributore, che sarebbe diventato Sony con la promessa della realizzazione di una trilogia.  Nel 2007 però Paco Plaza e Jaume Balaguero’ avevano già messo a punto una geniale reinvenzione dei “morti viventi” con Rec, utilizzando anche le stesse le telecamere digitali e inquadrature “vivide” del primo 28 giorni dopo.

Nel 2009 era già uscito il dissacrante Benvenuti a Zombieland di Ruben Fleischer.

Nel 2010 prendeva il via la serie tv The Walking Dead, che di fatto per anni e anni avrebbe cannibalizzato tutto il genere post apocalittico a tema “infetti/zombie/mutanti”, andando più volte, ironicamente, anche su quei territori narrativi che rendevano originale 28 giorni dopo. Forse per la saga di 28 giorni dopo serviva tempo perché il fenomeno Walking Dead “si sgonfiasse”. Magari serviva guardare a Oriente: a Train to Busan del 2016 e a The Sadness del 2021. Oggi sembra arrivato il momento giusto.

 


La Produzione:

28 anni dopo partiva idealmente già come una nuova trilogia.

Nel pensare al primo capitolo, Alex Garland dichiara di essersi imbattuto, per poi rimanere stregato, dal secondo film di Ken Loach per il cinema, del 1969, tratto da un libro di Barry Hines: Kes. La storia di un quindicenne dello Yorkshire del sud, molto simile allo Spike di 28 anni dopo, cresciuto negli anni '60 ma anche lui in una famiglia problematica della working-class. Se Spike cerca un “futuro impossibile” per salvare sua madre, il protagonista di Kes cerca di vivere in un “passato impossibile” dal giorno in cui si imbatte in un falco.

Il ragazzo, minuto, introverso e spesso bullizzato, trova un nido e poi un libro su come allevare i rapaci. In breve tempo decide di abbandonare un ambiente scolastico feroce, quasi di stampo militare, dove soprusi e umiliazioni sono all’ordine del giorno, per diventare a tutti gli effetti un falconiere e magari trascorrere sempre più tempo nei boschi. Un luogo benigno, in cui poter scegliere una vita antica, solitaria, quasi “medioevale”. Un luogo in cui poter scoprire di avere quel “valore” che la “società matrigna” non gli conferiva. Tuttavia ciò non lo sottrarrà al “destino/maledizione” di far parte, pur controvoglia, di una famiglia difficile in un mondo reale.

Con questo racconto di formazione, dal sapore dolce/amaro, il “concreto e politico” Ken Loach ci porta con malinconia quasi dalle parti della favola, sulle ali della fantasia e nello specifico di un falco. Ma come suo solito lo fa in modo “disilluso”, demolendo epica ed eroismi vari, puntando a ribadire il concetto che le favole come gli eroi non esistono. La premessa ideale per l’anti-favola post apocalittica che aveva in mente Garland.

Era centrale trovare un giovane protagonista bravo e “puro” come l’esordiente, David Bradley, scelto ai tempi da Loach. La scelta è ricaduta su Alfie Williams, già visto in un piccolo ruolo nella serie tv Queste Oscure Materie. Il resto del cast vedeva la presenza della brava Jodie Comer (The Last Duel) e di Christopher Fulford, ma anche di attori internazionali già affermati come Aaron Taylor-Johnson e di Ralph Fiennes.

Anthony Dod Mantle veniva di nuovo scelto come direttore della fotografia.

Serviva uno scenario naturale quasi “fantasy” come quello di Kes, così le riprese si sono svolte proprio nello Yorkshire del sud scelto da Loach, ma anche in una zona lussureggiante come la contea di Northumberland: tra Holy Island, Hexham, la Kielder Forest e le Aysgarth Falls.

Per la colonna sonora e stato scelto il gruppo scozzese progressive hip hop Young Fathers, alla sua prima esperienza con il cinema ma con sonorità a tratti quasi dalle parti di Trainspotting.

 


In Sala:

La cifra stilistica del nuovo film di Boyle e Garland arriva, forte e dirompente, quando nella colonna sonora di 28 anni dopo inizia a farsi largo, in modo ossessivo, la marcia Boots – All Quiet on the Western Front: una epica e inquietante rielaborazione sonora, opera di Fenton Rider, di un brano di Rudyard Kipling, recitato da Taylor Holmes nel 1915. Un brano che l’esercito degli Stati Uniti utilizza in addestramento, a livello subliminale, per ricreare la condizione di stress psicologico legata alla sensazione di essere prigionieri. Boyle ci fa ascoltare Boots in momenti sottolineati dalla sovrimpressione sulla scena di immagini in bianco e nero o tratte da pellicole usurate: filmati di repertorio sulla Grande Guerra e scene che ritraggono cavalieri medievali in arco e armatura pronti alla guerra, che dialogano attivamente con la vicenda di un ragazzino costretto a trasformarsi in arciere in un mondo post-apocalittico. Il linguaggio comune sembra essere la “predestinazione al conflitto”: all’inizio come alla fine dei tempi, l’uomo fin da bambino si prepara a combattere. Mettendosi in marcia con la testa bassa, guardando soli i suoi scarponi (boots, in inglese) e ricordando ogni passo che “tutto va bene”, per tranquillizzarsi prima del prossimo, inevitabile scontro.

Il direttore della fotografia Anthony Dod Mantle cerca di trasformare ogni scontro tra gli arcieri e gli infetti in un momento congelato nel tempo. Mentre l’arco si tende la scena rallenta, quasi a enfatizzare ogni sforzo. Quando la freccia trova il bersaglio la scena si blocca dentro un fermo immagine: un “frame” volto a sottolineare il disfacimento dei corpi contusi come fosse un piccolo fuoco d’artificio, quasi un esercizio di arte astratta.

Il viaggio di Spike, interpretato dal bravissimo Alfie Williams (molto struggenti le sue interazioni con il personaggio della madre, interpretato da Jodie Colmer), è però anche il viaggio di un bambino che non può vivere di sola “arte astratta”. Un bambino che rincorre ancora (e per forza) sogni di vita e di speranza. Sogni “illogici” che non possono essere capiti da una guida inadeguata come il padre, che cerca continuamente di “distrarre” il figlio dai dubbi, nella speranza così di farlo sopravvivere. Ma sogni che una figura sciamanica come il dott. Kelson (un incredibile Ralph Fiennes “metafisico”) può forse aiutare a comprendere meglio, introducendo Spike a una specie di culto dei morti volto a capire quanto ogni vita spezzata, anche quella di un nemico, sia importante all’interno della natura delle cose. 28 anni dopo gode di molti momenti visivi forti, che andranno a “infestare” la mente dello spettatore almeno quanto la terribile scena dell’incubo “sul bambino” di Renton, in Trainspotting. Ma come Trainspotting sa raccontare anche situazioni estremamente folli e leggere. Sa giocare con una colonna sonora pop, non teme l’arrivo sulla scena di personaggi eccentrici come lo erano appunto Renton, Spud e Silkboy, non smette mai di costruire un piano emotivo ricco e mai banale che riesce a coinvolgere anche i personaggi “più distanti” sulla scena. Bravi tutti gli interpreti, bellissimo il lavoro svolto a livello visivo, interessante anche la caratterizzazione, sul piano del make-up e degli effetti speciali, di infetti che sanno trasformarsi in lubrichi uomini-larva quanto in spaventosi giganti. Al termine della visione si avverte che il mondo di Boyle e Garland ha ancora moltissimo di nuovo e unico da raccontare, in un mondo in cui gli zombie-movie sembrava avessero già raccontato tutto.

Finale:

Il nuovo film di Boyle e Garland ci ha piacevolmente sorpreso sotto molti punti di vista. Ottimi tutti gli interpreti, molto affascinante l’ambientazione, originale la rappresentazione dell’azione, ma soprattutto unica e preziosa una storia capace di colpire al cuore facendo riflettere sul futuro e su come stiamo facendo crescere le nuove generazioni in un mondo con sempre meno prospettive di felicità. Garland si è fatto ispirare dal cinema sociale di Ken Loach e mai una tale scelta fu più azzeccata. Romero approverebbe.

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