Ci troviamo in una Los Angeles dei giorni nostri, assolata e caricaturale come si conviene a una commedia demenziale anni ‘80.
Una banca del centro è presa d’assalto da un intero esercito di criminali con armi pesanti, con centinaia di ostaggi e un piccolo plotoncino disorganizzato di polizia pronto al poco convinto all’assedio nell’ingresso. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti, a parte una bambina con divisa delle scuole medie, con treccine e lecca lecca, che varca l’ingresso canticchiando e saltellando nello stupore generale. I criminali provano ad avvicinarsi sconcertanti, scoprendo prima con orrore che il lecca lecca è in realtà un’arma acuminata e poi che la bambina, mingherlina e di un metro e venti, è in realtà un astuto travestimento del numero uno della Squadra di Polizia di Los Angeles, il tenente Frank Drebin Jr (Liam Neeson). Un uomo aitante di due metri, con incredibili capacità di lotta, in grado in pochi secondi di stenderli tutti, far esplodere tutto, quanto apparire smagliante, credibile ed eroico ancora vestito da scolaretta: con tanto di una gonna corta che non nasconde gambe pelose e delle enormi e virili mutandone con i cuoricini.
Ma qualcuno dei malfattori è riuscito comunque a scappare indisturbato sul retro, dove lo attendeva per la fuga un’auto sportiva, portando con sé un oggetto preziosissimo e misterioso che era stato custodito in una cassetta di sicurezza: il “P.L.O.T.” (letteralmente in italiano “la trama”, potevano adattarlo come T.R.A.M.A.). Frank Drebin jr rientra in centrale e insieme ai colleghi inizia a sorseggiare un numerino sproporzionato di tazzine di caffè, una ogni cinque secondi. Quasi sepolto da una montagna di bicchierini di plastica, Frank ascolta una accorata ramanzina del capo, che lo rimprovera del fatto che a seguito del suo ingresso in banca siano arrivati all’ospedale centinaia di persone ferite in modo più o meno grave, tra cui criminali, passanti, varie ed eventuali. Tutte spese che verranno affrontate dalla collettività e quasi dello stesso importo dei danni procurati dai malfattori. Viene quindi assegnato a un caso apparentemente più tranquillo e lontano dal P.L.O.T., in cui dovrà indagare sulla strana morte di un informatico, annegato in un laghetto mentre era alla guida di un nuovo modello di auto elettrica assegnatagli da poco dalla multinazionale per cui lavorava, la EdenTech del magnate Richard Cane (Danny Huston). Inciampando da un indizio all’altro, Frank verrà a conoscenza di altri strani accadimenti in cui sono coinvolti dei dipendenti EdenTech, legati tutti guarda caso ad auto elettriche che impazziscono e fanno fuori il rispettivo conducente. Fino a che la Squadra di Polizia non assegnerà anche a lui un'auto elettrica: un dono del sempre più ambiguo magnate Richard Cane, che minuto dopo minuto assumerà sempre più i contorni di qualcuno interessato proprio al P.L.O.T.. Ma Frank non ha tempo per verificare la tenuta di strada (probabilmente rivolta verso un laghetto) della sua nuova auto elettrica guidata da IA: insegue curve ben più pericolose. Le curve mozzafiato della biondissima sorella dell’informatica portano infatti il volto di Pamela Anderson: una donna esplosiva che canta in un Night Club, con una voce sexy ma stranissima, e sembra non vedere l’ora di “infornare il biscotto di Frank”, offrendogli così la colazione della vita. Sarà l’inizio di un grande amore che porterà entrambi lontanissimi dal P.L.O.T., in vacanze lontane, in una baita innevata dove una sera troveranno in soffitta una tavola Oui-Ja, forse evocheranno un demone che, impossessatosi di un pupazzo di neve, vorrà fare con loro giochi sessuali a tre nella vasca idromassaggio. Ma il P.L.O.T. alla fine forse troverà un modo per imporsi, con tutte le sue forze, nella scombinata successione di eventi di una delle storie più anarchiche e divertenti che la recente filmografia comica abbia mai prodotto.
Ho riso “abbestia”.
Non mi capitava da anni.
Ho apprezzato il bravo regista Akiva Schaffer fin da quando confezionava quel piccolo gioiello di comicità demenziale di Hot Rod, passato purtroppo quasi inosservato in Italia.
Ho riso tanto per Family Guy, American Dad, Ted e le altre strampalate opere del produttore di questo film, Seth MacFarlane, al punto che per “completismo” ho riso pure per il suo stralunato “Accalappiadenti” con The Rock nei panni di una fata dentina.
Ero pronto a ridere qui pur con una smorfia malinconica, perché sulla scena non può più purtroppo esserci quella maschera comica incredibile che era Leslie Nielsen, nonostante in qualche modo “appaia”, come una sorta di “lunare” controparte/simbolo dell’aquila americana.
Sognavo da anni un film con al centro “lo spirito” di un film dei fratelli Zucker, e non sto certo certo parlando di Ghost con Whoopi Goldberg e Patric Swayze, ma degli storici Top Secret!, L’aereo più pazzo del mondo. Piccoli mondi filmici in cui tutti i generi narrativi venivano sovvertiti e mischiati, mischiati e amalgamati in nome del più semplice e onesto meccanismo comico. La prima sceneggiatura di Jarry Zucker, che sarebbe diventata nel 1977 un film di John Landis, aveva già il titolo di un manifesto programmatico: Ridere per ridere. In quegli anni, carichi delle opere geniali e citazioniste di Mel Brooks, del talento camaleontico di Peter Sellers, dei primi vagiti della National Lampoons, effettivamente “si poteva farlo”: si poteva creare qualcosa con il solo fine di “ridere di tutto”, mettere alla berlina tutto, dal perbenismo alla pubblicità, dalla politica al gender, dall’istruzione “decadente” al servilismo del mondo del lavoro, dalla psicologia allo sport al sesso. Perché sì, si poteva anche parlare di sesso senza di diecimila tabù odierni, infarcendo di doppi sensi e pure parolacce, senza incombere nel forcone di qualche censore indignato. Si poteva ridere per ridere fino all’eccesso, con meccanismi comici sempre più folli e simili a skatch umoristici, che andavano a sovrapporsi e deflagrare su canovacci “canonici” dal sapore debitamente dimesso e polveroso, portarono in questo impatto alla definizione di “cinema demenziale”.
Era un naufragare dolce in un mare di pazzia che i benpensanti scambiarono per l’anticamera del nichilismo ed edonismo che si sarebbe poi affermato negli anni ‘80, e Una pallottola spuntata è stato infatti un fierissimo film demenziale targato 1988.
Ma ogni volta che la comicità demenziale sarebbe tornata alla ribalta, peraltro con enormi (e quindi “preoccupanti”) incassi ai botteghini, come per la saga degli Scary Movie, si è sempre avvertito il pericolo intellettuale di spegnere subito i “fuochi sovversivi”: come se chi “si abituasse troppo” del concetto di “ridere per ridere” potesse poi diventare un pessimo cittadino, magari meno “terrorizzabile dal potere costituito”. Temendo con Nietzsche che con “una risata sarebbero stati sepolti tutti”, i produttori spinsero il cinema verso forme di risata più trattenute. I “piccoli sussulti garbati” da salotto per bene. Le “boutade sarcastiche” da commedia sofisticata francese. I risolini a scatto, forse un po’ nevrotici, da commedia psicanalitica. Le “gonfie di risate gonfie di gioia infantile”, da Cartoon, offerte da buffi, ma in fondo innocui, attori con facce di gomma (che però sotto sotto erano molto più profondi e meno innocui di quanto si aspettassero).
Ma ecco che nonostante tutto, comprese critiche preventive e finestre di lancio forse infelici, la grande commedia demenziale torna in sala oggi con questo Una pallottola spuntata versione 2025.
Un film che trova in Liam Neeson un interprete semplicemente eccezionale e versatile nel passare con gusto e disinvoltura da maschera seria a maschera comica. Come Nielsen era passato da ruoli seri in film catastrofici della saga Airport alla loro parodia diretta, con uguale naturalezza e senso del divertimento, Neeson si diverte su set al punto da trovare, tra una risata e l’altra, una bellissima intesa con la sua co-protagonista: una Pamela Anderson recentemente “rinata” dopo la straordinaria e struggente interpretazione nel bellissimo The Last Showgirl di Gia Coppola. Pamela è così raggiante e sorridente che tra lei e Neeson sembra sia nata una piccola ma forse grande love story. In sala si vede bene come duettino; in dialoghi convenzionali che diventano subito brillanti con piccoli giochi di sguardi, scene che dovrebbero essere sexy che in realtà si rivelano buffamente tenere, momenti di puro non-sense che raccontano invece una storia. Loro funzionano e funziona con loro anche tutto l’intreccio che cerca continuamente di “sfuggire” alla storia, funziona un montaggio votato non allo spiegare quanto al confondere con ironia le carte, funzionano i tanti comprimari compresi quelli che sembrano sul set assolutamente per caso come Dave Bautista. Funziona la Detective Story mischiata all’umorismo gioiosamente surreale che da sempre era la cifra della saga di Frank Drebin. E sì, ci sono anche le parolacce: che saranno pur figlie di una “libertà espressiva” triviale, che per qualcuno suonerà solo “un po’ vintage”, ma funzionano.
Sarebbe letale svelare sulla trama di più di quanto già detto in sinossi, è un film da scoprire da soli o in compagnia, in sala, tra amici magari attempati che vogliono solidalmente ridere “come ai vecchi tempi”, stando attenti magari a non soffocarsi con i popcorn e la coca cola tra una risata e l’altra. Ma potrebbe piacere anche ai giovani, cresciuti magari con South Park, Rick e Morty e I Griffin e per questo oltremodo desiderosi di scoprire che “c’è anche un film” sboccacciato ed esilarante come quelle serie animate.
È di sicuro un film che fa bene alla muscolatura facciale, sollecitando la mobilità della cavità orale, spingendola in elasticità ad ampliarsi in modi più “completi”, che possiamo ritenere utili anche per accedere a una più corretta pulizia dentale. Ridere fa bene, dovremmo farlo di più. Anche il vostro dentista apprezzerà.
Che la stella di Leslie Nielsen vi guidi verso la sala o lo streaming più vicino, per riprovare ancora una volta la piccola magia di ridere di gusto, di “ridere per ridere” al cinema come una volta. In attese che torni dallo spazio anche Mel Brooks.
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