mercoledì 27 settembre 2023

Asteroid City: la nostra recensione del nuovo affascinate, multiplo e stralunato film di Wes Anderson: tra bambini scienziati, alieni, il deserto, la creatività e il suo “stallo”

Prima lettura: Asteroid City, una piccola, piccolissima cittadina abitata da scienziati e militari situata nel deserto, come la New Alamo di Oppenheimer. Siamo nel 1955 in concomitanza dell’annuale concorso per piccoli geni, lo “Junior Stargazer”. Tradotto, il nome del premio suona come “Giovani osservatori di stelle” e non è casuale, in quanto proprio in quel luogo, direttamente dalle stelle, è caduto l’asteroide che ha dato il nome alla cittadina. Ben sorvegliata da scienziati, militari e telecamere, la roccia spaziale risiede ancora nello stesso cratere che ha causato con il suo impatto, ora al centro di un edificio, nella sala della premi Stargazer. È piccola, sembra un uovo strano con le macchie e presto, prestissimo svelerà al mondo che “anche le stelle ci guardano”. Per guardare il figlio Woodrow (Jake Ryan) che concorre al premio, si muove verso Asteroid City con la famiglia il fotografo di guerra Augie (Jason Schwartzman), di recente diventato vedovo senza che sia ancora riuscito a comunicare ai figli la scomparsa della madre, avvenuta a seguito di un incidente. Ha trovato alloggio tra le casette di un motel a fianco di una attrice con poca fortuna, Midge (Scarlett Johansson), che a sua volta accompagna lì la figlia Dinah per il premio. Oltre ad altri bambini bizzarri quanto geniali, con a seguito le rispettive famiglie, la cittadina di scienziati e militari guarda con simpatia anche la presenza dagli alunni in gita di una scuola elementare e l’arrivo di un gruppo di musicisti country. 

Il concorso parte, la premiazione arriva e succede qualcosa di strano e inaspettato al meteorite. Nello specifico dal nulla arriva un alieno, piccolo e buffo, che sottrae il piccolo asteroide nello stupore generale, per poi andare via con il suo piccolo ufo. Il tutto dura pochi secondi, ma Augie riesce a scattare una foto. Dopo il furto dell’asteroide l’esercito impone la quarantena forzata a tutti i presenti: tutti dovranno essere osservati e valutati da esperti fino a data da destinarsi. O almeno fino a che avranno valutato la situazione dal coretto punto di vista i militare, gli scienziati, ma soprattutto i politici. Dopo un po’ di panico, quando la quarantena inizia a protrarsi per le lunghe, tutti iniziano a convivere con questa situazione di stallo, guardando sempre più timidamente alla sua soluzione. 

Tutti i bambini sono ancora euforici e cercano vie d’uscita per ribellarsi ai militari, politici e scienziati e tornare liberi. La maggior parte degli adulti appare invece, anche comprensibilmente, triste e rassegnata. Sono diventati schiavi di una routine monotona che sembra averne annientato la gioia di vivere per sempre. Si muovono meccanicamente come ripetessero da sempre gli stessi gesti e parole. Cosa è successo a queste persone nella misteriosa Asteroid City? Sarà avvenuto tutto per colpa di un adorabile furtivo alieno (“interpretato” da Jeff Goldblum)? Riusciranno i bambini a salvare gli adulti?  In realtà la storia è più complessa…


Seconda lettura: di fatto Asteroid City, ce lo dicono i primissimi minuti del film, racconta non solo la storia dell’asteroide e del premio Junior Stargazer. Su un diverso piano di lettura, ci troviamo di fatto sul set dello spettacolo teatrale dove è rappresentata questa storia. Nello specifico assistiamo a uno special tv con tanto di presentatore (Bryan Cranston), in cui lo svolgimento di una rappresentazione dal vivo viene alternato con interviste, aneddoti e approfondimenti propri di un poderoso speciale/making of. Dagli schizzi originali delle scenografie di Asteroid City passiamo ai set di posa (spesso solo tratteggiati come in Dogville di Von Trier) e agli elementi dello scenario e blu screen. Ascoltiamo aneddoti sulla costruzione del casting, assistiamo da dietro le quinte in tempo reale ai dialoghi tra il regista (Adrien Brody), i tecnici e gli attori, che controllano le battute prima della loro entrata in scena. Possiamo perfino assistere parallelamente a tutto questo a un documento di archivio: una lezione frontale di critica sull’opera stessa, tenuta in una università da un professore (Willem Dafoe) alla presenza del misterioso quanto affascinate autore dell’opera (Edward Norton), con le domande degli studenti sul significato di alcuni passaggi narrativi. 


Tutti questi dati e piani di lettura Wes Anderson in Asteroid City ce li propone “insieme”, in un unicum narrativo che continuamente li interseca e sovrappone.

Succede quindi che gli interpreti che guardiamo “recitare Asteroid City” li vediamo al contempo anche “impersonare gli attori” e parlare tra loro della messa in scena, con la produzione e con stampa e critica. Sono attori che da sei mesi, con le vicissitudini umane private più disparate, danno periodicamente vita a uno spettacolo che secondo il loro umore e l’umore di regista, autore e altri tecnici, volta dopo volta è mutato, non sempre per il meglio. Scopriamo ad esempio che Augie, il personaggio del fotografo di guerra, è anche un attore di nome Jones Hall, con il quale l’autore dell’opera teatrale durante le riprese ha iniziato a condividere una relazione clandestina quanto burrascosa. Una relazione che potrebbe aver reso quest’ultimo particolarmente “geloso”, al punto che il personaggio della moglie di Augie (Margot Robbie) è stato con il tempo tagliato dalla rappresentazione, insieme a molte delle battute che caratterizzava Augie. Così facendo l’autore ha di fatto “svuotato Augie”, rendendo a Jones sempre più complicato interpretarlo anche come figura paterna. Al punto che l’attore, insieme al suo personaggio in piena depressione, ha quasi smarrito il senso del proprio ruolo in una storia che da troppo tempo si ripete “senza un senso”, replica dopo replica. Allo stesso modo il personaggio di Midge è interpretato dall'attrice Mercedes e i lividi che spesso porta sul viso, più volte osservato con preoccupazione da Augie, non è chiaro se siano riferiti alle percosse che quotidianamente vengono inflitte dal marito del personaggio che interpreta o dal suo marito reale. Ogni replica in qualche modo fa rivivere dei traumi, ma l’opera è così grande, piena di personaggi, colori, umorismo, azione ed effetti speciali da gestire e coordinare che l’occhio del regista (sempre Adrien Brody) come quello del pubblico spesso “non se ne accorgono”. 

Considerando questo “making of” di fatto un film nel film: “riusciranno quindi anche gli attori di Asteroid City (ma anche chi vive dietro le quinte) a uscire dalla condizione esistenziale, strana quanto tragica, che da troppo tempo li condiziona la vita sul set di Asteroid City?”.


Scatole cinesi decorate con la fantascienza anni ‘50:  realtà e finzione si mischiano e probabilmente si sono mischiate per davvero per il regista Wes Anderson, anche al momento della creazione di questo film, che secondo le note di produzione si è svolta durante i travagliati mesi della pandemia da covid 19. 

Anderson come molti ha vissuto quei mesi con un senso di incertezza e attesa, che grazie alla sua arte ha saputo sublimare in una delle sue opere più strane e introverse, irrisolte quanto labirintiche. Asteroid City è un film sul teatro e i suoi interpreti, sulla fantascienza anni ‘50, ma soprattutto un film “sull’attesa”, sulla speranza puntualmente negata di un futuro migliore. Un tema concettualmente non dissimile dal Deserto dei tartari di Dino Buzzati, opera in cui tempo e personaggi vivono sospesi, per lo più impotenti e inerti, in attesa che qualcosa di esterno, un “deus ex machina”, intervenga a cambiare la situazione.

I bambini-genio e il personaggio di Tilda Swinton, attrice che ormai credo sia eternamente giovane come un elfo, cercano antidoti e soluzioni per far fronte all’attesa. Contrattaccano. Sono costantemente sovreccitati e immersi nella creazione di congegni strampalati come jet-pack, pistole molecolari fino a radio per comunicare con lo spazio. Creano con il solo loro passaggio sulla scena continui siparietti umoristici e surreali pieni di ribellione e vitalità. Sono curiosi e l’arrivo di qualcosa di nuovo come “gli alieni” è un fatto per loro positivo, una nuova sfida da affrontare a costo di trasformare lo scenario in un hellzapoppin colorato e caotico alla Mars Attack! Gli adulti sono invece “vittime dell’attesa”, timorosi oltre misura, per lo più simulacri di se stessi, chiusi a riccio “nel ruolo da adulti” quanto nelle proprie paranoie da un modo di vedere le cose più crudo quanto “oggettivo”. Gli adulti sono condannati e si auto-condannano (dopo un plot twist davvero inaspettato) allo stallo, all’immobilismo “vigile”, al rimpianto.

Tutto nell’attesa di un “nuovo” deus ex machina. Figure “salvifiche” che nel film di Anderson certo “non mancano”, assumendo la forma ora di un alieno, un regista o un critico, ma che potrebbero non avere le risposte agognate che si cercano, di fatto condannando all’attesa del deus ex machina “successivo”. 


Questo nuovo piccolo mondo colorato di Wes Anderson, la città costruita nel deserto come un castello nella sabbia piena di suggestioni della fantascienza anni ‘50 e personaggi buffi, in realtà nasconde un profondo senso tragico, una irrisolta voglia di trascendenza. Una irrisolutezza dell’animo adulto cui si contrappone, forte e chiassosa, la speranza di preservare anche da adulti il modo di vedere, di giocare e di vivere dei bambini. Alimentando quel “fanciullino interiore” di cui parlava Pascoli. Una fanciullezza che Wes Anderson sa ancora coltivare e cullare attraverso i colori accesi, i mondi stralunati simili a playset di giocattoli vintage e l’umorismo surreale e gentile di cui riesce ancora ad  irradiare ogni sua opera. 

Questa volta l’autore è forse più malinconico del solito, ma il suo stile inconfondibile come l’eleganza nella direzione dell’opera rimangono inconfondibili. Il numero degli attori coinvolti nella pellicola è questa volta davvero esorbitante. Pur segnalandosi sempre interpretazioni di pregio, forse non tutti i personaggi riescono a essere messi debitamente a fuoco, almeno a una prima visione. Con una seconda visione, saltano all’occhio mille nuovi dettagli che rendono il quadro più completo e lo spettacolo meno complesso da seguire, anche se Asteroid City rimane comunque in parte sfuggente, quasi lunare, una delle opere più melanconiche dell’autore ma al contempo una delle opere più rappresentative dello stato d’animo di molti artisti durante la pandemia. Dal punto di vista tecnico e recitativo la pellicola risulta nella “sovrabbondanza di temi” sempre molto accurato e puntale. Qualche volta i passaggi dal racconto al “making of” risultano macchinosi, ma spesso regalano momenti che sprigionano al meglio il vero genio visionario dell’autore. Consigliassimo ai numerosi fan di Wes Anderson. Da affrontare con un po’ di “preparazione” nel caso ci si aspetti un film di intrattenimento convenzionale.  Asteroid City è una piccolo perla che pur nella eccentrica filmografia di Wes Anderson risulterà ai più forse troppo misteriosa, ma che saprà offrire un viaggio emotivo davvero speciale per chi deciderà di affrontarla con la giusta malinconia e voglia di tornare bambino. 

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venerdì 22 settembre 2023

Assassinio a Venezia: la nostra recensione del nuovo film Fox/Disney diretto da Kenneth Branagh sui casi dell’ispettore Hercule Poirot

Ci troviamo nel 1949, in una Venezia gelida e spettrale. È su un terrazzo con una vista da sogno sulla laguna che il momentaneamente “ex” ispettore Hercule Poirot (Kenneth Branagh), uno dei detective più conosciuti e stimati del suo tempo, trascorre un periodo di riposto dalle indagini e dal resto del mondo. Alla sua abitazione può accedere tramite i canali solo chi gli porta i suoi amati e irrinunciabili dolcetti, per un massimo di due volte al giorno. La porta di ingresso è  presidiata da una colonna infinita di clienti e curiosi che ora il grande detective non vuole più ricevere, motivo per cui è ben piantonata dalla sua guardia personale (Riccardo Scamarcio), che si impegna anima e corpo a evitare all’ispettore ogni tipo di incontro indesiderato, anche con il zelo necessario per lanciare ogni tanto in acqua qualche questuante troppo invadente. Poirot in questo suo esilio auto imposto sembra comunque  felice. Nel giardino ha anche trovato un piccolo orto da coltivare con attenzione al pari delle sue ossessioni per l’ordine, le uova e la geometria. La lettura, il paesaggio e i dolcetti fanno il resto. La vita ritirata e monotona è un toccasana dai fantasmi di un passato ancora molto presente e doloroso, ma qualcosa “freme ancora dentro”: inconsciamente, attende che si presenti per lui una nuova sfida, una “vera” sfida. A portargliela personalmente è la scrittrice di gialli Ariadne Oliver (Tina Fey, che interpreta qui un altro personaggio ricorrente dei romanzi di Agatha Christie), un'autrice che si è ispirata proprio a lui per la creazione di un celebre detective, contribuendo così attivamente ad aumentare a dismisura la fama e l'attuale mancanza di privacy dell’ispettore. Ariadne ama intrighi e puzzle e ha una particolare passione per lo smascherare i trucchi di prestigiatori, medium e spiritisti. Di recente si è imbattuta nella sedicente madame Joyce Reinolds (Michelle Yeoh), così abile e scenografica da riuscire a nascondere ogni trucco, fino quasi a far credere che esista davvero un mondo magico, “paranormale”. Una degna sfida di logica per Poirot, per Ariadne l’unico che “a tutti i costi” può scoprire gli inganni della Reynolds in una occasione propizia quanto imminente: una seduta spiritica nella notte prima di Ognissanti, che si terrà allo scoccare delle 24:00, in una della ville più tetre, strane e maledette di Venezia. L’abitazione di recente è divenuta di proprietà della cantante lirica Rowena Drake (Kelly Reilly) e il fantasma che sarà evocato durante il rito è quello di Alicia (Rowan Robinson), la sfortunata figlia della cantante, morta dopo essere caduta nel canale dalla sua finestra, situata al terzo piano, in circostanze ancora misteriose: forse per un incidente, forse per ben altro. C’è chi dice per via della depressione e dei troppi psicofarmaci che sono conseguiti alla rottura con il suo ragazzo Maxime (Lyle Allen), noto cacciatore di doti passato a una donna più ricca. C’è chi dice per colpa degli spiriti dei bambini che da sempre infestano la villa, un tempo adibita a orfanotrofio chiuso in seguito alla peste, dopo che medici senza scrupoli avevano abbandonato i piccoli al loro destino. Alla seduta parteciperanno oltre che la padrona di casa anche il medico curante di Alicia, il dott.Ferrier (Jamie Dorman), accompagnato per l’occasione dal suo strano ed eccentrico figlio Leopold (Jude Hill), che a otto anni è già appassionato di Edgar Alan Poe e si dichiara capace di parlare con i morti. Saranno presenti anche la governante della casa nonché ex suora Olga (Camille Cottin), la giovane e taciturna assistente della medium Desdemona (Edda Laird) e a sorpresa, convocato quella stessa  notte da una lettera misteriosa, interverrà il “presunto farfallone” Maxime. Poirot viene facilmente convinto a partecipare alla festa anche se non sembra troppo entusiasta e così, insieme alla scrittrice e alla sua guardia personale, decide di trovare posto al tavolo alla seduta. 


La casa è piena di scricchiolii, è notte e da poco si è svolta una piccola festicciola piena di dolcetti, maschere e storie di spiriti sul modello del tradizionale Halloween, con ospiti speciali della cantante i bambini dell’orfanotrofio cittadino. Un forte temporale riempie l’aria di tuoni e lampi, con le luci elettriche che illuminano la casa che per via di cavi non bene coperti con l’acqua iniziano a scoppiare in modo sempre più ritmato e sinistro, rendendo il luogo più spettale di quanto già sia, tra saloni immensi di colpo immersi nel buio e nel silenzio ed eccentriche opere d’arte, tra i cui disegni e forme pare nascondersi sempre qualcosa di malevolo, diabolico. In questa atmosfera qualcuno inizia a sentire voci di bambini nei corridoi o a scorgere piccole figure oscure che corrono e giocano tra le ombre. La seduta si terrà proprio nella stanza di Alicia, vicino al balcone nel quale la ragazza ha vissuto gli ultimi attimi della sua vita. La medium fin dall’arrivo inizia a individuare presenze ultraterrene in ogni anfratto, illustra le regole del rito e il modo in cui userà per comunicare con la defunta una macchina da scrivere, i cui tasti si premeranno “da soli” per rispondere alle domande dei partecipanti. Lei nel mentre sarà posseduta, in stato di trans, come un ponte umano tra i vivi e i morti. In questa atmosfera “strana”, in questa grande casa dall’arredamento “singolare” e un tempo scenario di fatti orribili, tra bambini inquietanti e storie dell’orrore autentiche, forse anche il grande Hercule Poirot potrebbe infine credere ai limiti della sua amata comprensione logica, di cui tanto si è fatto vanto negli anni. Magari potrebbe pure iniziare anche lui a scorgere personalmente dei fantasmi, provare allucinazioni, sentirsi minacciato da forze invisibili. Presto in quel luogo accadrà un delitto per molti versi inspiegabile e l’ispettore dovrà dare fondo a tutta la sua calma e razionalità, per scoprire i molti intrighi a cui verranno incontro in quella lunga notte i partecipanti al rito. Riuscirà il razionale Hercule Poirot a non impazzire o verrà a capo di una delle più strane situazioni in cui si è mai imbattuto?

Dopo Assassinio sull’Orient Express del 2017 e Assassinio sul Nilo del 2022, Kenneth Branagh torna a vestire i panni del più celebre detective di Agatha Christie. La sceneggiatura vede ancora la firma di Michael Green, autore acclamato per Logan - Wolverine e Blade Runner 2049 e di recente attivo in casa Disney, per i riusciti Il richiamo della foresta e Jungle Cruise. Green ha in questo caso adattato molto liberamente il romanzo Poirot e la strage degli innocenti, fornendo un'ambientazione e intreccio molto differenti dall’originale, inserendo addirittura per esigenze di conteso una sfiziosa festa di Halloween, per le calle veneziane degli anni '50 decisamente ante litteram. La fotografia è ancora del bravo Haris Zambarloukos, mentre a dare voce a una colonna sonora sinfonica quanto sfiziosamente “inquietante” arriva, sostituendo Patrick Doyle e le sue sonorità “alla Indiana Jones”, la bravissima Hildur Guonadottirn (Joker, Tar). Le scenografie sono di Celia Bobak, una collaboratrice di lungo corso di Branagh, che spesso lo ha accompagnato nelle sue trasposizioni cinematografiche di opere teatrali. Nel cast figurano nel ruolo di padre e figlio Jamie Dorman e Jude Hill, già per Branagh protagonisti in una simile dinamica nel suo precedente Belfast. 

Niente più treni super lussuosi o scenari da sogno per super ricchi tra le piramidi:  la terza avventura di Poirot è quantomai cupa e notturna per quasi tutta la sua durata e si svolge tra i labirintici e claustrofobici locali di una bellissima quanto inquietante magione ricostruita tra una abitazione italiana e i Pinewood Studios di Londra. 

Oltre al classico della Christie, per le atmosfere generali un modello di ispirazione ideale dell’opera sembra essere stato ricercato nei classici horror della casa di produzione Hammer, nei confronti dei quali tutto il cast e la troupe si esprimono in più momenti in ricercati, divertiti e affettuosi omaggi. La diva Michelle Yeoh in questo è una “medium perfetta”, carica di charme quanto teatralità in ogni movenza e battuta, con un trucco sempre sinistro ed esotico, avvolta da magnifiche maschere e mantelli lunghi e neri con strascico confezionati dall'ottima Sammy Sheldon. Kelly Reilly, che alterna costantemente per la sua soprano momenti di malinconia a cupezza, è una perfetta e algida “madame macabra”, Branagh sempre ineccepibile e composto nei suoi completi, occhi di ghiaccio e baffoni, fa indugiare a tratti il suo personaggio nella follia, offrendoci un Poirot ancora più complesso, sfaccettato e cupo. La Ariadne di Tina Fey è al contrario giocosa e ironica come solo l'attrice di 30th Rock riesce a essere, arrivando spesso a contro-bilanciare la cupezza sulla scena, mentre il piccolo quanto bravo Jude Hill fa ottimamente ”l’opposto”, dimostrandosi uno dei giovani attori più inquietanti del momento. Il resto del cast risulta un po’ fuori fuoco, con un Dorman e uno Scamarcio eleganti ma un po’ meccanici nel seguire “funzionalmente” le evoluzioni della trama, con dei ruoli molto “fisici”. Come nelle produzioni Hammer, gli effetti sonori sono sempre protagonisti, presenti e pressanti: in grado di alzare costantemente lo stress e il senso di pericolo, sottolineando battute e colpi di scena, facendo esplodere lampadine e sbattere porte all’improvviso, producendo rumori sinistri quasi subliminali, costanti e pressanti. Gli effetti speciali sono in genere di tipo meccanico, artigianale quanto suggestivo, “semplici” come un gioco di specchi quanto impattanti, efficaci. Branagh sembra tornare con molto gusto e autoironia alle atmosfere horror, che ripercorre idealmente dopo il suo celebre e sottovalutato Mary Shelley Frankenstein del 1994, creando sulla scena un ricco e sempre dinamico gioco di atmosfere anguste o psichedeliche, spazi che sanno dilatarsi e subito dopo restringersi e interpretazioni sopra le righe stile Hammer volte a trascinarci su un insolito, gioioso e forse, in questo caso, per parte del pubblico, “inaspettato”, tunnel degli orrori. 


Questo è forse il nodo centrale di una produzione dal sapore molto diverso dai primi due capitoli, che fin dal primo trailer sembra presentarsi agli spettatori come un horror di stampo ultra-classico dove persino la presenza di Branagh/Poirot avviene nelle ultime scene. Un sapore diverso che si accompagna alle indagini amate e canoniche, un “gusto di paranormale” che non è estraneo alla opere della Christie quanto non lo era a quelle di Arthur Conan Doyle, ma per qualcuno forse troppo forte: come spesso non si desidera una notte in una casa stregata con la stessa voglia di avere un posto sull’Orient Express o su una nave di lusso in crociera sul Nilo (omicidio inevitabile permettendo). Venezia c’è ed è bellissima, ma per lo più è raccontata in fugaci squarci notturni pieni di temporali e nebbie. La villa è straordinaria e frutto di un reparto artistico incredibile nella ricercatezza degli  arredi e dipinti, ma non abbiamo dubbi fin dal primo minuto che contenga soprattutto mostri e misteri. Anzi, in qualche caso la magione risulta pure in grado di “mutarsi e ingabbiare” tra trappole e passaggi segreti i suoi ospiti, come avviene in molto horror classici ma anche moderni, come il Cube di Vincenzo Natali. 

Non esattamente una suite su Canal Grande in compagnia di Gal Gadot.

Il meccanismo narrativo e visivo con cui prende vita l’indagine poi funziona ed è avvincente, solido, tra mille trucchi, false piste, cambi di ruolo e di “possibile assassino”, ma il fatto di trovare Poirot circondato da fantasmi in ogni momento può essere tanto per qualcuno attrattivo quanto fonte di “distrazione dalle indagini” per altri. Personalmente questo nuovo gusto delle avventure dell’ispettore mi è piaciuto, l’ho trovato un coraggioso quanto originale cambio di rotta per esplorare maggiormente i lavori della Christie “cavalcando i generi”, affiancandogli alla imprescindibile nomenclatura di giallo/crime prima i colori dell’avventura e ora il bianco e nero, o almeno i “toni di grigio”, dell’horror Hammer. Magari il prossimo film potrà essere ibridato con il musical, magari con la fantascienza anni ‘50. Di sicuro la grande capacità tecnica e artistica, unita all’eleganza e stile con cui questi lavori di Branagh sono confezionati, rendono interessanti anche queste variazioni sul genere. Assassino a Venezia diverte ed è avvincente, non è esente da difetti nella gestione di alcuni personaggi che rimangono un po’ in penombra, gode di un cast artistico e tecnico di alto livello e soprattutto nonostante la “nuova salsa Horror” trattiene e non tradisce tutta l’atmosfera dei personaggi originali. Il Poirot di Branagh sta sempre più diventando un'icona del cinema moderno e non vediamo l’ora di seguirlo in nuove avventure. 

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mercoledì 20 settembre 2023

Il più bel secolo della mia vita: la nostra recensione della commedia agrodolce scritta e diretta da Alessandro Bardani con protagonisti Sergio Castellitto e Valerio Ludini


Esiste una bizzarra legge in Italia, caso unico in tutta la comunità europea, in ragione della quale tutti i figli non riconosciuti, i cosiddetti “figli di N.N.”, possono avere accesso ai dati sull’identità dei propri genitori biologici solo una volta compiuti i 100 anni di età. C’è in atto una leeeeeeeeenta manovra di modifica i cui ultimi afflati inascoltati risalgono almeno al 2015, ma a tutt’oggi la situazione non è cambiata. Per sollecitare la politica si è formata un'associazione che ha deciso di mettere in atto un'azione di protesta e dignità: il giovane figlio di N.N. Giovanni (Valerio Ludini) accompagnerà a Roma il novantanovenne figlio di N.N., Gustavo (Sergio Castellitto), perché dopo il suo compleanno possa rivendicare presso un giudice, primo nella storia italiana, la conoscenza dei dati relativi ai suoi genitori biologici. Tutto spesato a carico dell'associazione, vitto e alloggio. Solo che Gustavo non fa parte di quella associazione e forse non gli interessa nemmeno conoscere il nome dei suoi genitori, che comunque ora ritiene di poter riabbracciare solo sotto forma di lapide. Di fatto ha passato gran parte della sua vita da solo o presso abitazioni per orfani gestite da suore e ora si trova almeno da 10 anni di nuovo in un ricovero gestito da suore. Da piccolo era così solo che per giocare a calcio arrivava a trafugare dalla canonica il crocefisso di legno per posizionarlo al centro della porta e giocare così nel campetto dietro l’istituto. In genere seguivano poi punizioni da parte delle onnipresenti suore, che anche ora che ha 100 anni gli impediscono “per il suo bene” di mangiare dolci, carboidrati, alcol e decine di altre cose, oltre a riempirlo di medicine e iniezioni da ripetere più volte al giorno. Gustavo ne ha viste tante e forse troppe e ora combatte la quotidianità con ironia e sprezzo delle regole appena è possibile, per cui arriva ben contento a questa grande occasione di sottrarsi a tanto affetto per uno strano viaggio burocratico on the road a fianco di questo timido e introverso ragazzo di nome Giovanni. Se l’anziano ha voglia di distrarsi e cerca ogni secondo per trasgredire alle bibliche tavole sulla alimentazione e salute imposte dalle suore, Giovanni è ben preoccupato che l’anziano compagno di viaggio arrivi a destinazione per lo meno intero. Gustavo è per lui come una specie di bottiglia di nitroglicerina perennemente sul punto di esplodere e di conseguenza cerca di non agitarlo mai troppo, assecondandolo e venendo incontro a tutti i suoi bisogni, come se stesse effettivamente trasportando una bomba più che con una persona con dei sentimenti. Rigido fino alla morte, Giovanni subisce come un'onta alla sua missione ogni minimo contrattempo, mentre Gustavo non fa altro che dilatare i tempi, cambiare l’itinerario e richiedere fermate fuori programma, procacciare incidenti, mangiare cibi che non può mangiare, perdere le medicine. Giovanni combatte per una questione per lui diventata esistenziale, in un momento in cui è sicuro di non assomigliare a nessuno ed è per questo in cerca di radici, di risposte sul suo destino. Gustavo, radicato da cento anni in una vita in cui gli hanno ricordato per ogni instante di essere orfano o comandato da delle suore, guarda in modo benevolo ma a volte “cattivello” questo giovane rigidamente confuso e troppo arrabbiato, simile quasi a una bottiglia di nitroglicerina perennemente sul punto di esplodere.


Alessandro Bardani portava a teatro qualche anno fa una piece teatrale dal titolo Il più bel secolo della mia vita, una commedia agrodolce in cui il ruolo di Giovanni era interpretato da Francesco Montanari e quello dell’anziano Gustavo da Giorgio Colangeli. Era uno spettacolo in cui un giovane dal carattere “da vecchio” e un vecchio dal carattere “da giovane” si confrontavano sul mondo e sulla quotidianità, spesso parlando in un parco, fino a che l’anziano decideva di voler conoscere i suoi genitori e iniziare il viaggio. Era una piece molto divertente e spiritosa, in cui i due protagonisti scoprivano presto, al di là delle proprie divergenze, di essere come le due facce della stessa medaglia, quasi fratelli, parlando di Spice Girls, malattie veneree, di appuntamenti organizzati tramite social come di temi esistenziali. Parlavano e finivano con il passare la notte a guardare le stelle, da amici. Si possono trovare molte sequenze di questa versione teatrale su internet, verrebbe voglia di rivedere questa coppia e questo testo a teatro. 

Bardani cambia la sua opera e la trasforma in questo viaggio on the road dal ritmo più sincopato, girato in poco meno di un mese, dove i due protagonisti, a dire il vero più gli interpreti che i rispettivi personaggi, paiono perennemente incazzati e sul punto di volersi uccidere a vicenda. Forse anche perché insieme agli interpreti lo stesso ritmo narrativo è cambiato e non c’è più il tempo che si strutturi una amicizia in questo caso. Laddove Colangeli non portava alcuna maschera a teatro per dimostrare la sua età, Castellitto è chiamato a quattro ore di trucco giornaliero che metterebbero di cattivo umore pure il Gary Oldman di Dracula e forse per questo quando arriva sul set, come dichiarato in seguito nelle interviste, per alleggerire lo stress si divertiva a fare degli scherzi a Ludini, improvvisando continuamente le battute e le situazioni. Valerio Ludini di suo, alla prima prova cinematografia nel ruolo di co-protagonista, un po’ spaesato (anche legittimamente!) in quanto in un’opera non scritta e diretta da lui personalmente, nelle interviste ha dichiarato parimenti di aver fatto fatica a comprendere i tempi delle riprese e delle interazioni con Castellitto, rimarcando (pur con  ironia) che se avesse saputo da un testo scritto alcune delle cose che avrebbe poi fatto con l’improvvisazione il suo compagno sulla scena, il suo agente non avrebbe acconsentito al Ciak. Ci sono diverse interviste in rete che raccontato tra le righe quello che assomiglia parecchio a un clima “un po’ complicato” durante le riprese. Nelle intenzioni del povero Bardani, sentendo quelle stesse interviste, il film avrebbe dovuto rievocare atmosfere generazionali di “bromance” come Profumo di Donna o Quasi amici. Più volte i colori e le situazioni sono stati diretti anche dalle parti di Bianco, Rosso e Verdone, con Castellitto idealmente nel ruolo della Sora Lella e Ludini in quello del Mimmo di Verdone. C’è poi per forza fisiologicamente, a un certo punto un momento di avvicinamento tra i due personaggi, ma in questo on the road risulta qualcosa di estremamente davvero difficile e macchinoso. I personaggi sono totalmente arroccati sulle loro rispettive idee di “missione” o “vacanza”, distanti al punto di annichilire ogni forma di empatia verso il loro “opposto”, a favore del solo irrigidimento dei rispettivi ruoli. Sempre più alimentati da rabbia e malinconia, Giovanni e Gustavo diventano davvero dei personaggi antitetici rispetto alle controparti teatrali: creature complicate e tormentate che vivono quasi solo di reciproco autosabotaggio. Bardani deve aver valutato la “magmaticità“ di questo rapporto anche come un'occasione per esplorare lati nuovi della sua opera, in questo effettivamente trovando una dinamica originale tra i due protagonisti. Il personaggio di Ludini, che avrebbe dovuto forse nelle intenzioni della pellicola rivestire il ruolo del cosiddetto “comico bianco”, ossia il personaggio che reagisce con compostezza e garbo alle follie di un personaggio troppo esuberante, sembra sempre più irritato, musone e acido. Il tormento interiore del suo personaggio non esce mai allo scoperto e quando accade “accidentalmente” una rivelazione sul suo conto, lo iniziamo a percepire con ancora meno chiarezza. Il personaggio di Castellitto, dopo la parentesi tragica sul suo passato, da macchietta esuberate passa prima a essere luciferino e poi troppo sentimentale, come se tutto il film dovesse sostenerlo da solo senza aiuto, ricercando in Ludini un appoggio che non arriva mai. 


Il più bel secolo della mia vita ci presenza un Valerio Ludini tragico, in un’opera che per la prima volta non è sua al 100%, e anzi si pone in forte dissonanza rispetto al suo repertorio televisivo, al suo modo di creare arte comica surreale e spiazzante. Si può giustamente valutare come questa per Ludini sia stata anche una prima prova di avvicinamento, non banale, a un mondo del cinema che ha solo iniziato a masticare e che magari presto potrebbe leggere meglio da solo, magari come autore completo, spingendo al meglio così il suo potenziale dopo aver imparato qualche trucco del mestiere. Si può ragionare sull’utilità effettiva di infliggere 4 ore di trucco giornaliero per il povero Castellitto, a cui è conseguito fisiologicamente un forte stress. Ma il risultato finale di questa pellicola è sicuramente inaspettato, tragicomico se non tragico, spiazzante, perennemente belligerante anche nelle situazioni che sulla carta apparivano più semplici per via della conflittualità a senso unico dei due personaggi. Una pellicola dai toni forti e spesso eccessivi, non accomodante ma per questo anche interessante e originale. 

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giovedì 14 settembre 2023

Tartarughe Ninja - Caos Mutante: la nostra recensione del nuovo film prodotto da Paramount, Nickelodeon e Seth Rogen per la regia di Jeff Rowe, con protagonisti i celebri personaggi creati da Kevin Eastman e Peter Laird

New York City. Tra i liquami verde fosforescente di un lurido laboratorio segreto situato nelle fogne cittadine, lo scienziato pazzo Baxter Stockman sta dando vita a delle creature mutanti, in parte animali e in parte umane. Il suo primo nato, una mosca umanoide dagli occhi enormi e al contempo teneri, guarda con un misto di affetto e apprensione l'imminente nascita dei suoi nuovi fratellini, quando un gruppo di soldati armati fino ai denti fa irruzione nel laboratorio crivellando di colpi ogni superficie e ponendo fine alla vita dello scienziato. Ma solo poco dopo che lui, in un atto di estremo eroismo, è riuscito a liberare tra i canali di scolo delle piccole tartarughe. Queste, ancora avvolte dal fluido fosforescente verde che sarebbe in seguito stato conosciuto come Ooze, finiscono presto davanti a un topo che subito, vedendole piccole e intimorite, decide di occuparsene. Un topo di nome Splinter che si avvicina a quattro tartarughe fosforescenti incurante del fluido verde che presto arriva a contaminare anche lui. Tartarughe e topo in breve tempo subiscono una mutazione e diventano umanoidi, né animali né uomini, qualcosa di “nuovo”. Splinter decide di accudirle come figli costruendo un piccolo loft nelle fogne, dotato di letti, soggiorno, tv e tutti i confort. Le quattro tartarughe crescono guardando il mondo degli umani che vivono in superficie dalla tv, sognando un giorno di poter frequentare la scuola come gli altri bambini. In un momento di forte entusiasmo e “positività” un giorno Splinter le accontenta e porta le piccole tartarughe fuori dal tombino, dove tutti in un attimo scoprono la dura realtà: gli esseri umani temono moltissimo i mutanti. Rischiando di finire più volte travolte o schiacciate, le quattro sono terrorizzate sempre di più ogni secondo che passa, mentre Splinter cerca in ogni modo di salvarle e tornare a casa, tra le botte e le urla. Da allora il topo decide di imparare su dei manuali e poi insegnare loro le arti marziali e le tecniche ninja. Tecniche di difesa e Attacco per fare sì che possano difendersi dal mondo della superficie e riuscire al contempo a recuperare da esso le cose indispensabili per sopravvivere: come la carta igienica due veli, i cereali, detersivi, i manga e soprattutto… la pizza. Gli insegnamenti si protraggono per anni, le quattro tartarughe da piccoli batuffolini tenerosi crescono e sviluppano una propria personalità. Raffaello è il più grosso e irruento dei quattro, quello che ama lanciarsi prima di tutti nelle zuffe e urlare più forte. Come arma ninja studia dei coltelli, i “sai”, per gli scontri ravvicinati. Donatello è mingherlino e riflessivo, passa il tempo al computer a elaborare dati, ama leggere manga e creare strani oggetti con la tecnologia, sceglie di appendere come arma ninja un bastone lungo per il combattimento a distanza, il “bo”. Leonardo ha un fisico asciutto ed eccelle nel combattimento con 2 Katane, vorrebbe prendersi più cura possibile dei suoi fratelli ma non ha ancora la stoffa del leader per farsi ascoltare. La sua voce “alla Batman” è abbastanza patetica e derisa dal gruppo e lui ne soffre un po’. Michelangelo è il più piccolo e mingherlino, ama fare gli scherzi, la pizza e sa usare ancora male i nunchaku, spesso tirandoseli in testa. Diventati comunque dei teenager mutanti ninja tartarughe, dopo anni di apprendistato e innumerevoli missioni in superficie per acquisire scorte alimentari di nascosto con tecniche ninja, le quattro decidono che è il momento giusto per “riprovare” a essere accettate dagli umani. L’idea viene dai film d’azione: proprio grazie ai loro nuovi muscoli e tecniche potranno diventare una specie di supereroi, che contrastando il crimine dilagante di NY e salvando la gente verranno così accettati e amati. All’insaputa di Splinter, che non approva per niente il “piano”, i quattro partono per una prima “missione” che risulta molto difficile e dolorosa. Ma questo fatto innesca una serie di eventi per cui le tartarughe prima incontreranno una inaspettata alleata come la buffa ma combattiva giornalista liceale April, una umana che non ha paura di loro, e poi una loro “vecchia conoscenza”. Si tratta dell’uomo-mosca, il primo figlio del Dottor Baxter che ora si fa chiamare “Superfly” e sta guidando un gruppo di mutanti che, come loro, sono sopravvissuti nelle fogne. Un gruppo che ora vuole dominare il mondo, eliminando gli umani che da sempre li odiano e li cacciano. Da quale parte staranno le quattro piccole ma ora muscolose tartarughe?

Nate negli anni ottanta su un fumetto underground che ancora oggi riscuote molto successo (come con la recente mini-saga The Last Ronin), le tartarughe ninja grazie ai giocattoli e alle varie serie tv sono in breve diventate alcuni dei personaggi più famosi e amati da grandi e piccini. Protagoniste negli ultimi anni anche di imponenti pellicole live action prodotte da Michael Bay, ben riuscite sul lato tecnico  ma che non hanno forse incontrato i risultati economici sperati (altissimi), le tartarughe non hanno perso tempo e, dopo una nuova e apprezzata serie tv animata, ripartono con questo film cinematografico dal budget di 70 milioni di dollari a cui seguirà una serie animata e un secondo capitolo sul grande schermo. I nomi coinvolti in questa operazione sono molto interessanti, a partire dal comico, produttore e sceneggiatore Seth Rogen, un “guru nerd” che parallelamente alle varie scorribande filmiche con l’amico James Franco, in film amabilmente politicamente scorretti, ha deciso di portare in sala il fumetto Green Hornet e un cartone animato decisamente per adulti con protagonisti i prodotti di un supermercato che scoprono l’amore cosmico. Rogen, che qui anche produce con la sua Point Grey Pictures, dà vita insieme al gruppo di sceneggiatori a un film sulla adolescenza, ma anche con tante arti marziali, che riempie di citazioni a gradi classici dei teen movie americani come Crazy Friday, ma non disdegna citare i film di Hong Kong, quanto i fenomeni culturali più interessanti per i giovani di oggi come una cultura anime tra cui svetta, a sorpresa e pure in alcuni momenti-chiave della pellicola, l’osannato Attack on Titan. Le tartarughe sono tanto descritte nei più piccoli aspetti che divengono a tutti gli effetti dei “ragazzotti” di oggi del liceo, con pure uno stile grafico scelto per rappresentarli insieme al loro mondo che richiama in qualche modo una realtà giovanile metropolitana comune e alle zone di periferia. Una realtà piena di palazzi ed edifici pubblici fatiscenti, graffiti colorati dai colori fluo e scarabocchi sarcastici, come quelli che si possono trovare sui muri di fabbriche diroccate quanto sugli armadietti della scalcinata scuola di April. Uno stile underground che guarda negli occhi proprio il contesto grafico originario del fumetto di Kevin Eastman e Peter Laird, che era stato edulcorato nell'animazione, aggiornandolo al 2000 e impreziosendolo per l’occasione delle musiche pressanti quanto sublimi e trascinanti di Trent Reznor e Atticus Ross, in quest’opera davvero giganteschi. Come incredibili sono anche le animazioni grazie alle quali tutto questo mondo “Underworld 2.0” si muove, prodotte dalla Nickelodeon Animation e realizzate dalla Mikros Animation e Cinesite, sotto la guida di un regista giovane e davvero bravo come Jeff Rowe, già dietro la macchina da presa del successo The Mitchells vs The Machines, nonché autore della serie tv Gravity Falls e Disincanto. È uno stile visivo unico, che mixa animazione tradizionale a computer grafica sotto un effetto shading trasformando tutto in un unico graffito in movimento, così “intenso e calcato” nel colore e sfumature da dare alle immagini quasi una connotazione “pastosa”, in grado in certi frangenti di farci percepire i personaggi come fossero realizzati con plastilina a “passo a uno”, iper-reali ma al contempo un secondo dopo iper-dinamici, simili a “macchie di colore” in movimento dalla forte componente pittorica. È un modo nuovo di concepire l’animazione, che si affianca per certi versi all’ottimo lavoro di Sony per il suo Spider-man animato ma prende una via diversa, originale quanto distintiva e appagante. Uno stile in grado di conferire, anche solo con dei piccoli giochi di luce, forza e vulnerabilità a personaggi che presto vengono percepiti tridimensionali quando umani, romanticamente “imperfetti”, amorevolmente scarabocchiati ma “vividi”, come dei disegnini a penna realizzati calcando, con un po’ di rabbia e un po’ di noia, sul banco di scuola. Visivamente Tartarughe Ninja è un vero spettacolo e siamo curiosi di come questa tecnica andrà ad affinarsi ed evolversi nelle opere successive. Storie dove, se verrà seguito il corso delle avventure delle tartarughe, immaginiamo che dalla componente visiva estetica legata alla periferia di NY e ai bassifondi del porto passeremo ai colori sfumati dei fortini dei ninja: tra tessuti, kanji, lame, zolfo e legno. Per poi magari andare “nello spazio” tra gli alieni, con un Technodromo in technicolor e tentacoli organici. Ma questo film è appunto NY e oltre a delle meravigliose tartarughe teenager (che da piccole sono davvero adorabili) e a uno Splinter giovane pettinato con il “mullet”, che in originale è doppiato dal mitico Jackie Chan, troviamo qui anche tanti mutanti enormi e muscolosamente, tragicamente sproporzionati. Mutanti che vivono tra la sottocultura punk e quella dei biker, tra oro e pistoni con pure qualche accenno alle idee rivoluzionarie delle pantere nere.  Il cinghiale-umano Bebop, in originale con la voce di Seth Rogen stesso, e il rinoceronte-umano Rocksteady, in originale doppiato da John Cena, già storici antagonisti delle tartarughe ninja, rivivono qui nella loro versione più massiccia e “gangsta” di sempre. Sono sempre abbastanza dei “fresconi”, ma qui hanno un loro obiettivo di vita, una loro famiglia da proteggere. Ma il mattatore assoluto dei cattivi è un personaggio nuovo, la super mosca umana super muscolosa Superfly, in originale con la voce di un Ice Cube che gli conferisce con la sua voce cristallina e potente tratti da leader carismatico intriganti, dai risvolti sociali e politici non banali, che apportano sfumature nuove alla narrazione di un’opera legata alle Tartarughe non legata al fumetto. Superfly è a capo dei mutanti ed è diventato così duro verso gli umani per ragioni umanamente comprensibili, per una storia personale tragica di cui lui porta cicatrici e per una storia futura per i mutanti che vuole personalmente cambiare. Che le tartarughe possano scegliere di diventare da adulte più simili a Superfly o a Splinter è una questione a volte di sole sfumature, che il film riesce con raffinatezza spesso a rendere molto comprensibili. 


Poi c’è naturalmente l’azione, concitata e deflagrante come ai migliori film di arti marziali compete. È interessante che ogni tartaruga non sia la sua controparte “definitiva” e ben delineata del fumetto e della prima serie animata, dove tutte e quattro risultano “identiche d’aspetto”. Ogni personaggio ha un diverso stile e irruenza dovuti a muscoli e preparazione tecnica unici, che qui appaiono gioiosamente squilibrati. Oltre allo stile di combattimento personale, ha così un fascino tutto unico il modo in cui le quattro non sanno ancora tenere in mano le armi, come la circostanza che siano spesso in grado di colpirsi tra di loro mancando il nemico. Puro caos che aumenta con l’aumentare della forza dei nemici, fino a che il gruppo scopre, dopo l’esperienza dovuta a vari fallimenti, un modo sempre più corretto per coordinarsi. Un modo che fa leva proprio sul sentirsi tutti “parti attive” del gruppo, quando ognuno riesce ad apportare una sua qualità unica alla strategia. È un percorso di “ricerca del gruppo” visivamente molto appagante, dove le arti marziali si trasformano progressivamente da pugni e calci a caso a una specie di balletto bene orchestrato e frutto di una passione non banale nel rappresentare visivamente le scene d’azione. 


Tartarughe Ninja Caos Mutante è un film davvero ben realizzato sotto quasi tutti gli aspetti (nel pre-finale il film perde un paio di colpi nel suo ritmo). Un film visivamente bellissimo, avvolto da musiche straordinarie, cinetico quanto inaspettatamente anche “spirituale”, vicino alla realtà dei giovani e a tratti anche genuinamente drammatico. Un “Coming-of-age” con molto rispetto del materiale originale, che riesce a tracciare anche possibili evoluzioni inedite interessanti per i personaggi. Personaggi che, tra un siparietto comico e una scena a base di arti marziali, riuscendo a parlare a loro modo anche dei problemi legati alla scuola, alla integrazione e degrado urbano. Lo fanno con disincanto, con positività ma anche esponendo criticità effettive, offrendo per questo all’opera una connotazione più adulta e intrigante del solito, in attesa di uno scontro finale dal sapore di Kaiju movie. Tartarughe Ninja Caos Mutante è un film che inizia con entusiasmo una nuova storia per le tartarughe mutanti, che non vediamo l’ora di seguire anche nelle future evoluzioni. Per tutti i fan di ieri e di oggi decisamente un’opera imperdibile. Talk0

mercoledì 13 settembre 2023

La casa dei fantasmi (Haunted Mansion): la nostra recensione del nuovo film Disney, per la regia di Justin Simien, dedicato a una delle più amate attrazioni dei parchi di divertimento

New Orleans, la città più magica d’America. È lì che capita un po’ per caso il razionalissimo Ben (Lakeith Stanfield), un giovane scienziato di belle speranze che in meno di un secondo viene coinvolto, un po’ controvoglia, in un tour delle case stregate da una bellissima guida, la sorridente Alyssa (Chariry Jordan). Stregato dalla città come da Alyssa, che presto diventa sua moglie, Ben inizia a credere fortemente al paranormale, specialmente una volta che la sua compagna scompare dopo un tragico incidente. Da astrofisico esperto nello studio della “materia oscura”, con tutta l’intenzione di squarciare il velo che separa il mondo dei vivi da quello dei fantasmi, Ben riesce a creare una macchina fotografica secondo lui in grado di fotografare fantasmi. Il suo scopo è ritrovare Alyssa, magari per le strade di New Orleans, ma tutto per anni tace. Ben diventa il massimo esperto di fantasmi visitando più volte ogni singolo luogo della città e diventando lui stesso una guida turistica, ma non ne trova nessuno. L’uomo inizia a bere e a non credere più a niente, quando uno strano prete (Owen Wilson) gli propone di indagare su una casa che è per lui “sicuramente infestata”: Gracey Manor. Si tratta di una vecchia magione strapiena di fantasmi nella quale ora pure il prete è intrappolato, insieme alla giovane dottoressa Gabbie (Rosario Dawson) e a suo figlio Travis (Chase W.Dillon). Il prete era stato chiamato per indagare su questo strano luogo enorme quanto ombroso nel quale la famiglia si era da poco trasferita spinta dal basissimo costo dell’immobile, magari per chiedere un esorcismo. Il luogo era decisamente infestato da ogni tipo di fantasmi possibile, ma come se questo non fosse abbastanza ogni volta che tentava di uscire da quella dimora veniva seguito per tutta New Orleans dai fantasmi della magione. Alla fine la villa era l’unico luogo sicuro in cui vivere, dove per lo meno i fantasmi sembravano “sotto controllo”, per lo meno prevedibili e mediamente abitudinari, quasi cordiali. Il prete dormiva sul divano. Stessa sorte che sarebbe presto toccata anche a Ben, che nella sua prima visita non rilevava tracce di soprannaturale ma che presto si sarebbe trovato inseguito per la città dallo spettro di un marinaio che aveva visto dipinto proprio  in un quadro di Gracey Manor. Ma l’astrofisico, pur frastornato da tutto questo pasticcio metafisico, inizia a sperare ancora nel soprannaturale dopo tanti anni. Di nuovo convinto della possibilità concreta di poter davvero rincontrare la moglie, armato della sua macchina fotografa-fantasmi, Ben decide di indagare e risolvere la strana maledizione della casa stregata insieme al prete, alla famiglia e all’esperto di storia locale Bruce Davis (Danny De Vito). Questo sarà l’inizio di un'avventura che li porterà per le stanze bizzarre e “mutevoli” dell’enorme caseggiato, tra centinaia di fantasmi eccentrici e presenze inquietanti come la strega decapitata Madame Leota (Jamie Lee Curtis) e il diabolico e crudele fantasma della cappelliera, Alistair Crump (Jared Leto).

La casa dei fantasmi è da sempre una delle attrazioni più amate dei parchi di divertimento Disney. Un'attrazione piena di specchi deformanti, stanze che girano su se stesse grazie a complessi sistemi idraulici, statue e armature animatroniche che si muovono, immagini spettrali proiettate sulle pareti con telecamere modificate e tanta voglia di far ridere e spaventare, giocando senza risparmiarsi con tutti i trucchi del folklore quanto della narrativa e cinematografia horror. Negli anni 2000, dopo aver dato vita al cinema con successo a un’altra celebre attrazione del parco, con la amatissima saga di Gore Verbinski ispirata alla giostra acquatica dei Pirati del Caraibi, Disney nel 2003 provò a fare lo stesso con la sua casa stregata, con una commedia carica di black humor con protagonista principale Eddie Murphy diretta dal regista di Stuart Little, Rob Minkoff. Una scelta curiosa, forse dovuta al fatto che pure Gore Verbinski aveva iniziato la carriera da regista con un film chiamato Un topolino sotto sfratto. Entrambi erano forse registi predestinati a dirigere film per l’unico vero Topolino Disney. Le case stregate poi al cinema erano sempre andate benissimo, a differenza dei film sui pirati, con proprio una recente pellicola di successo del 1999, di Jan de Bont, The Haunting - Presenze, che a tutti gli effetti sembrava ambientata in una magione che assomigliava più a una attrazione da parco dei divertimenti piuttosto che a una casa stregata “tradizionale”, alla “Raimi”. Del resto, nella Storia, case eccentriche che sembravano attrazioni da parco non sono mancate, come la celebre villa Winchester, che sarebbe stata un giorno pure lei trasposta in film. Quindi: “Perché no?”. Solo che il film di Eddie Murphy con i suoi toni troppo da commedia non graffiava, con la sua location da casa vittoriana laccata non spaventava, trovava un interprete un po’ imbambolato ed era troppo, troppo pieno di fantasmi canterini buffi. Non si sentiva la tensione, il “brivido”. Il film era carino e ben confezionato ma non faceva minimamente paura e in qualche modo apriva la “maledizione dei film ispirati ad attrazioni dei parchi Disney”, culminata con il disastro economico di Tomorrowland del 2015, che quasi pose fine alla carriera del regista Pixar, al tempo in ascesa nel live action, Brad Bird. 20 anni dopo la casa stregata di Eddie Murphy la Disney ci riprova ed è decisamente più agguerrita e focalizzata sulla “paura”, pur non disdegnando un po’ di sana ironia. La sceneggiatura è affidata a Katie Dippold, che ha lavorato al remake al femminile di Ghostbusters, uno dei film più agghiaccianti della storia del cinema (ma a sua discolpa il film di Paul Feig è stato in amplissima parte improvvisato sul set e anzi molte idee di base della Dippold, come il background “horror” del personaggio della Wiig erano valide). La regia è di Justin Simien, esperto in pellicole satiriche come Dear White People ma soprattutto autore di una autentica mina horror coma Bad Hair, un filmetto con protagoniste assolute delle “extension maledette”: dei capelli demoniaci ultra lisci che rovineranno la vita di una incauta stagista di colore con esiti alla The ring. Di fatto Simien ha iniziato la sua carriera proprio con un corto chiamato Rings… come Gore Verbinski che nel 2002 girava il suo remake americano di The Ring di Hideo Nakata. Ora, il corto di Simien non c’entra nulla con l’opera di Hideo Nakata se non per assonanza, ma Bad Hair sì: che sia questa sottile passione per l’horror asiatico la chiave per trasporre al meglio film tratti da parchi tematici Disney? Indagheremo. Di sicuro uno dei protagonisti di questa nuova casa stregata Disney è proprio una macchina fotografica in grado di catturare fantasmi, un oggetto molto presente e amato negli horror orientali che nelle mani del personaggio del bravo Lakeith Stanfield assume un significato narrativo interessante quanto profondo, ma le fonti di ispirazioni della pellicola di Simien non si fermano a questo. Tra porte che si aprono in luoghi improbabili come il polo nord o in fondo al mare c’è un po’ dell’atmosfera buffo/tragica di Stephen King e della sua Stanza 1408, racconto “leggero” della raccolta Tutto è fatidico, già arrivato in sala nel 2007 con il riuscito film interpretato da John Cusack. Ci sono gli oggi quasi imprescindibili squarci delle dimensioni parallele di Insidious di James Wan, che creano sempre interessanti piani di lettura sulla “vita dei fantasmi”. C’è un tocco di High Spirits di Neil Jordan nella caratterizzazione “disincantata” di personaggi sempre in bilico tra commedia e tragedia, tra cui spicca il buffo quanto disperato personaggio del sempre bravo De Vito. C’è un po’ di Babadook nel rapporto tra i personaggi ben amalgamati di Rosario Dawson e Chase W.Dillon: madre e figlio costretti dalle circostanze sociali ed economiche a dover vivere in un luogo spaventoso fino a che non diventa per loro quasi un'abitudine, fantasmi da affiancare ai propri “fantasmi interiori”. C’è, soprattutto e per fortuna, molto più che nel 2003, la presenza effettiva della casa stregata del parco Disney, al di là di quei maledetti fantasmi canterini. Ci sono le stanze e i corridoi che con gli effetti speciali si allungano, ci sono i fantasmi che si animano dietro i quadri e a volte vi saltano fuori facendo davvero (quasi) paura grazie anche a una caratterizzazione ben riuscita, squisitamente disturbante è quasi mai zuccherina. C’è l’iconica testa della strega dentro la sfera di cristallo, interpretata benissimo da una sempre strepitosa e ironica Jamie Lee Curtis (ci aspettiamo che sostituiscano l’animatronico dell'attrazione con il volto della Curtis, come fecero con il Jack Sparrow di Depp), come c’è l’ombra lunga e la luce inquietante emanata dalla torcia del fantasma terribile e “a caccia di intrusi” interpretato “vocalmente” da un particolarmente grottesco e divertito Jared Leto.


Come in The Haunting di Jan de Bont, forse anche grazie alla presenza di un attore simpatico e comune a entrambe le opere come Owen Wilson, proviamo di nuovo la sensazione di muoverci attraverso l’attrazione di un parco, seguendo una trama semplice ma sfiziosa, carica di “spaventarelli” dietro a ogni angolo. Una trama che regge bene fino alla seconda parte, tra la presentazione dei vari personaggi e le prime rivelazioni sulla natura della magione maledetta, per poi arrivare a una fase in cui si accartoccia forse un po’ su se stessa, fino a ritrovare un buon ritmo nel finale. È un peccato, perché con un secondo tempo “più corto e più a fuoco”, e soprattutto meno macchinoso nel suo volersi cocciutamente perdere in dinamiche da videogame forse per strizzare l’occhio al pubblico più piccolo (come capitato al finale del recente Transformers), il film poteva risultare più godibile anche a una fascia di pubblico più adulta. Al termine della visione però il pubblico dei più giovani sembra comunque aver gradito molto questa digressione “videoludica”.

La casa dei fantasmi è un film che riesce bene a trasmettere la sensazione di aggirarsi timorosi tra le stanze di una casa stregata di un parco dei divertimenti. Gli effetti speciali puntano a creare situazioni terrorizzanti anche mettendo in scena fantasmi riusciti, dal carattere più “horror” rispetto a una classica produzione Disney. Il cast è molto affiatato e i personaggi risultano simpatici pur nei pochi tratti con cui vengono delineati. Verso il secondo tempo il pubblico, soprattutto dei più grandicelli, potrebbe desiderare una trama più horror e meno “d’azione”, ma ai più piccoli in sala questo passaggio piace. 

La Disney riporta al cinema la sua casa stregata in un film divertente da vedere con i più piccoli al cinema, con piccoli spaventarelli e un'ambientazione suggestiva. Nell’attesa magari di fare una gita al più vicino parco dei divertimenti. 

Talk0

sabato 2 settembre 2023

Oppenheimer: la nostra recensione del nuovo colossal cinematografico di Christopher Nolan, sulla vita dell’uomo che ha portato alla creazione della bomba atomica

 


I nazisti avevano 18 mesi di vantaggio, ma forse erano solo 15. La guerra si era protratta oltre il dovuto e serviva qualcosa di estremo per porle finalmente termine con una svolta: qualcosa di eclatante, un castigo spietato, un’immagine biblica dell’apocalisse tipo una enorme colonna di fuoco e di zolfo, in grado di separare cielo e terra. Dopo la creazione dei più moderni carri armati, i sottomarini, i gas nervini e le fortezze volanti b-52 era di nuovo compito degli scienziati e degli ingegneri combattere la guerra con le loro menti, confezionando un’arma finale. L’arma così definitiva che avrebbe posto fine a tutte le guerre presenti e future, perché nessuno abbastanza sano di mente avrebbe osato o potuto utilizzarla con il pericolo di distruggere il mondo. Almeno, questo era quanto pensava in positivo uno scienziato negli anni '40 del novecento, e quanto invece fatica ancora oggi a comprendere un politico nel 2023. 

Il giovane Oppenheimer (Chillian Murphy) non eccelleva in nessun campo specifico della scienza, ma ne padroneggiava il linguaggio in ognuna delle sue mille sfumature. Era il perfetto organizzatore di eventi e summit tra cervelloni, l’uomo che sapeva dialogare con le eccentricità dei veri geni e uno che aveva la spavalderia e l’incoscienza di “metterci la faccia” quando un progetto andava male, arrivavano i ritardi, i fallimenti e piovevano le critiche da chi della scienza non capiva nulla ma ci metteva i soldi. Sguardo assonnato ma di ghiaccio, un corpo segaligno e curvo quanto imponente, dai modi gentilmente supponenti. Non bello ma sicuro di sè, elegante e altero, un po’ libertino quanto assolutamente incurante/indifferente della pericolosità di esserlo come di avere amici comunisti, pur in un periodo in cui Stati Uniti e Russia erano alleati contro l’Asse. Oppenheimer era il Mozart della scienza e avrebbe compiuto il miracolo biblico. Avrebbe costruito nel deserto una città della scienza con il sinistro nome di Nuova Alamo. Avrebbe portato lì le migliori menti al mondo non ancora sotto l’influenza dei tedeschi, costruendo per loro case, bar ed edifici che potessero accogliere anche le loro famiglie. Il tutto per cullare i suoi colleghi e permettergli di dialogare tra loro solo con numeri ed equazioni.  Avrebbe parlato lui direttamente con i militari (un composto e istituzionale Matt Damon)  senza turbare nessun altro e consegnando la scoperta nei tempi previsti, in elegante pacchetto sigillato, giusto dopo uno spettacolare test nel deserto in cui il potere dell’atomo avrebbe per sempre sconvolto il corso della storia portando un piccolo nuovo sole a splendere per pochi minuti. Festa, pacche sulle spalle, alcol e la sottile sensazione che dare quella roba ai miliari forse non avrebbe portato la pace del mondo. Poi solo la fama. Ma come ogni Mozart (almeno come la pellicola omonima insegna, che è pur diversa dalla realtà storica) anche lui aveva un personale “Salieri”. Un politico, chiamiamolo il “politico xy” (Robert Downey Jr). Xy ci teneva tantissimo che il suo nome e il suo contributo logistico/economico/teorico allo sviluppo della bomba atomica comparisse dappertutto, specie sulle riviste che mettevano in copertina Oppenheimer. Solo che a Xy, come a molti politici del resto, mancava una chiara visione del futuro e della scienza diversa da un mondo diviso solo tra vincitori e vinti, potenti e gregari. Oppenheimer era un gregario e doveva essere dimenticato dalla storia, anche perché a XY aveva fatto lo sgarro di non considerarsi un suo subordinato, gli aveva rubato la giusta fama. Un uomo di scienza piuttosto ombroso, che quasi fa fatica a relazionarsi con gli altri se non in termini matematici, che ingenuamente aspira a un futuro dove la scienza possa diventare un linguaggio universale, in grado di porre fine a tutte le guerre. Uno scienziato contro un affabile e ridente Xy qualunque, in grado di usare senza rimorso e contro chiunque anche l’arma più letale e subdola, pur di prevalere sugli altri per ogni piccola o grande guerra. Xy lo teme e, soppesando ogni silenzio e parola pronunciata a mezza bocca, lo spia con le registrazioni, cercando di scoprire nevroticamente “se parla male di lui”. Nel dubbio insoddisfacente, lo accusa in tribunale di umane miserie insignificanti per lo scienziato (ma terribili sotto la legge McCarthy), come l’aver conosciuto una comunista e avergli forse parlato, per lo più all’interno delle pratiche ginniche di una relazione quasi del tutto sessuale, spesso fedifraghe, di segreti militari. L’uomo che ha cambiato il mondo con una esplosione che si sarebbe sentita e vista dallo spazio, poteva forse essere distrutto da un uomo ossessionato dai sussurri e dal proprio, implacabile, senso di inferiorità? Sarà gusto e buono per l’umanità che l’arma creata dagli scienziati per porre fine a tutte le guerre possa finire un giorno nelle mani di piccoli uomini, tanto insicuri da poter ragionare seriamente di utilizzarla di nuovo?


“Dateci la bomba (cinematografica)”. È un po’ questo il mantra che da tempo sollecita le attese di un pubblico sempre più avvizzito a film prevedibili, preconfezionati e in genere al palato poco gustosi, appiccicaticci e tutti uguali. Nolan invece sa tirare fuori da ogni sua opera sempre qualcosa di nuovo, originale, unico e per questo agognato. Un uso grandioso quanto feticistico di formati video così avanzati che tuttora possono rendere al meglio in poche sale al mondo. La scelta di temi universali da affrontare sempre in modo non convenzionale attraverso montagne di dati, consulenze, idee innovative. Una forma di cinema fatto di attese, esplosioni visive e sonore e grandi capovolgenti di trama che impatta sui sensi dello spettatore, lo confonde e sorprende. Ormai è passato un anno da quando Christopher Nolan annunciava con un primo trailer l’arrivo di questo film, una nuova pellicola che sarebbe stata girata interamente nel sontuoso formato IMax 70mm e con il top di gamma del surround, con un cast stellare e scenografie accuratamente quanto maniacalmente ricostruite marrone per mattone, con il massimo di fedeltà possibile. Non sappiamo se Nolan abbia fatto ricreare una vera piccola bomba atomica sul set per girarne l’esplosione dal vivo ma l’intenzione c’era tutta, insieme al fascino di ricreare con il potere del cinema il più sinistro e seducente spettacolo di distruzione della storia, da servirci in prima fila con i popcorn. Assistiamo alla creazione di una città nel deserto, guardiamo i primi pezzi del “mostro” prendere vita nei laboratori dei vari scienziati alla Frankenstein con occhiali scuri e camice bianco, vediamo costruire una “torre di Babele” e dargli così energia. Poi la creatura si sveglia. Un rombo cupo quanto inesorabile nel diventare sempre più ampio, in grado di far tremare gli spettatori sotto le sedie. Una luce intensa, “maligna” e affascinante, sospesa come una eclissi. Dura un attimo che è infinito, è il culmine di tutto un film fatto di attese, dibattiti forbiti, grafici ed esperimenti, giochi di potere e uomini costretti a vivere in circostanze più grandi di loro al punto da immaginarsi, da anziani e con terrore, come distruttori di mondi. L’arma prende vita dai tanti novelli Prometeo capitanati dal cupo Oppenheimer, animato da un Cillian Murphy con uno sguardo alla Boris Karloff, mai visto in un ruolo così complicato, respingente, umanamente ambiguo e alieno. C’è il rombo, la luce e poi, nell’estasi che avvolge l’ambiente e i personaggi, arriva quello che sembra un sabba, le baccanti o quasi la festa per l’arrivo di una divinità Lovecraftiana alla Chtulhu. Un rito pagano in cui tra gli effluvi e l’eccitazione i sogni diventano incubi e viceversa. Nolan ci ha preparato, ci ha detto che è stato tutto storicamente e scientificamente “vero” e poi ce lo ha sparato nelle retine e nei timpani, insieme al caos che ne consegue. Qui essere nella sala giusta fa tutto, se volete davvero “avere la bomba”. Se riuscite, cercate per una visione adeguata lo schermo cinematografico più impressionante che potete trovare, come la sala Energia del cinema Arcadia di Melzo. Lo spettacolo è nel suo climax lì, in quell’IMax, racchiuso in quei minuti che trasformano la sala in un tempio alla Stonehenge da cui assistere a questo strano fenomeno cosmico/scientifico, plasmato da storia, scienza ed effetti speciali. È un momento intenso, lungo e appagante che racchiude tutta la cinematografia e poetica del regista, ma è anche lo spartiacque tra le altre due anime della pellicola di Nolan. La prima, fatta solo del rumore di gessetti che stridono su lavagne piene di calcoli, sulle quali in un linguaggio tutto loro, ai più alieno ma visivamente “coerente”, dialogano gli scienziati di tutto il mondo, superando le lingue e le ideologie: per la pace. La seconda anima del film, caratterizzata dal rumore di porte che si aprono e si richiudono nelle stanze dove si tiene un processo gestito dai burocrati. Troppo riservato per essere comprensibile, troppo delicato per essere anche “umano”, dove ogni forma di chiarezza nella comunicazione è bandita, troncata e ostacolata.  


Una struttura narrativa, sonora e visiva se vogliamo rigida, distinta in tre atti, che conferma ancora una volta la passione e ossessione del regista per gli schemi precisi, le procedure, i calcoli e i simboli. Quasi tre film a se stanti. Un film sulla scienza e gli scienziati con echi anche stilistici, nella rappresentazione dei processi logico-scientifici, vicini a opere come A Beautiful Mind e Hidden Figures. Una lunga, grande “esplosione Nolaniana”, potente e psichedelica come il buco nero di Interstellar o la guerra a tempo invertito di Tenet. Un film di stampo quasi giudiziario, kafkiano, zeppo di labirinti morali ma soprattutto giuridici e procedurali, liturgicamente alla Grisham ma con echi anche al bellissimo e semi sconosciuto film con Jim Carrey The Majestic. In ogni campo, dallo storico allo scientifico al giuridico,  il grado di documentazione risulta imponente, certosino e appassionato, ma dove come sempre “aspettiamo” Nolan nelle sue opere con più curiosità, è nel frangente nell’insieme più interessante quanto controverso del suo cinema: la descrizione del mondo interiore dei suoi personaggi. Nolan è spesso in grado, anche grazie ai meravigliosi interpreti di cui dispone, di tratteggiare personaggi bellissimi, a volte indimenticabili come il Joker di Heath Ledger. Molte volte accade invece, anche per peculiarità della scrittura narrativa, di trovare nei suoi film personaggio “più teorici che pratici”. Figure volutamente tenute fuori fuoco, a volte “esecutori anonimi di un percorso narrativo”, presenti ma utili ingranaggi e poco più. Spesso ci vengono detti i loro nomi, ascoltiamo da loro un paio di battute e poi il vediamo “scomparire sullo sfondo”, quando ancora non sappiamo molto altro di loro nella storia al di là dell’aspetto fisico. Questo accade anche in Oppenheimer e non ci permette di cogliere a pieno molte delle relazioni umane che legano i moltissimi “personaggi nell’ombra” sullo schermo, ma effettivamente per raccontare nel dettaglio gli eventi e personaggi che hanno portato alla creazione della bomba atomica sarebbe servito più tempo della prima “oretta e mezzo” del film. Serviva magari una mini-serie, magari un libro come Bomba Atomica di Roberto Mercadini, molto bello e che consiglio senza remore a chiunque fosse interessato all’argomento. Di fatto, affinando lo sguardo, scopriamo che in Oppenheimer è quasi una prerogativa propria del protagonista mettere fuori fuoco gli altri personaggi. Oppenheimer è un personaggio che vive di schemi e visioni matematiche, per lo più alieno nella gestione delle relazioni sociali: parla con i numeri e i calcoli e si emoziona solo a raccontare ciò che conosce professionalmente. Ne fanno le spese i personaggi che cercano di essergli amici al di là del “ruolo”, ma soprattutto i personaggi femminili interpretati da Emily Blunt e Florence Pugh, verso le quali, nonostante momenti carichi di passione e tensione, si assiste a una distanza emotiva quasi siderale. Una distanza che si tramuta per le donne in frustrazione, rabbia e malinconia che le interpreti dovranno scontare ai margini della scena, tra gli altri “personaggi nell’ombra”. Funzionano molto meglio, anche se può sembrare un eufemismo, i rapporti su schermo con quello che in qualche modo diviene l’antagonista, il personaggio di Robert Downey Jr. È un personaggio presente fin dai primi minuti della pellicola ma che dall’ombra reclama sempre più spazio, fino a che lo ottiene con la forza e si impone, quasi da protagonista. In The Prestige e Tenet, Nolan ha dimostrato di essere particolarmente attento e originale nel raccontare il “punto di vista” di due personaggi che diventano nel corso dell’opera “principali” quanto paritari. Scopriamo quindi che c’è un film ulteriore “dentro il film”, tutto basato sui “rapporti umani” tra lo scienziato e il politico che scorre all’inizio “quasi di nascosto” tra i tre grandi momenti che edificano la pellicola. Un film che si caratterizza anche per l’uso estetico del bianco e nero. Alla prima visione lo spettatore potrebbe quasi non farci caso (se non verso la fine), relegando questa scelta artistica all’uso comune del bianco e nero, che in molte pellicole storiche è volto a sottolineare una particolare accuratezza rispetto alle fonti originali, in scene che magari integrano autentici filmati di repertorio. In realtà la logica del bianco e nero in Oppenheimer riguarda il punto di vista “emotivo” del personaggio di Robert Downey Jr e i momenti in cui la pellicola lo riconosce “protagonista”. Il mondo del personaggio di Cillian Murphy è dominato dal colore e dai colori “nuovi” della bomba: esplosioni di colore quasi psichedelico. Il mondo di Robert Downey Jr è solo bianco o nero, con le stesse scene che Murphy vive in prima persona in modo coloratissimo che sono per lui (perché Nolan ce le mostra in certi casi direttamente “due volte”) con una gamma cromatica ed “emotiva” più spenta, più a tinte nette, come se contassero solo luce e buio, vittoria o sconfitta, potere e assenza di potere. È un bianco e nero che nella parte giudiziaria spesso fagocita il colore, quasi a raccontare un film con un fuoco davvero diverso, come se la creazione dell’ordigno di fatto nella storia ha cambiato i giochi e i protagonisti. È un film giudiziario dove si respira il clima storico del “maccartismo”, il momento in cui l’America temeva più di ogni cosa la possibilità di infiltrazioni comuniste nella sua società, al punto da scatenare un'autentica e costante caccia alla spia e alle streghe. Il sempre simpatico 


Robert Downey Jr porta in scena un personaggio esplicitamente “doppio” e livoroso, condannato a indossare un perenne sorriso che sembra sostenere con un enorme sforzo muscolare, mentre con gli occhi profondi e cattivi vorrebbe incenerire chiunque. Un uomo carico di pesanti sovrastrutture sociali, per lui indispensabili per sopravvivere, che naturalmente non può che provare invidia per il personaggio/alieno di Cillian Murphy, una creatura che procede in pieno sfregio delle maschere sociali quanto delle relazioni in genere, inseguendo linguaggi matematici universali e visioni psichedeliche. Un nemico ideale da coinvolgere nella “caccia alla spia”, con la consapevolezza di avere tantissime possibilità di metterlo con le spalle al muro per via dell’indole stravagante e il carattere non accomodante. Certo non siamo in Amadeus di Milos Forman, Murphy non è il personaggio di Tom Hulce e Downey Jr non è il personaggio di F.Murray Abraham, ma la dinamica è simile, come simile è l’incomunicabile livore che li lega. Murphy e Downey Jr si osservano, anche con note a tratti umoristiche (la scena della conferenza), come appartenenti a due specie diverse, creature inconciliabili per natura per le quali provare reciprocamente un sano disinteresse, salvo che i casi della vita li hanno messi uno contro l’altro, come “ostacoli all’ego”. Quella che va a disegnarti progressivamente è una lotta con dei risvolti emotivi sorprendenti per entrambi i personaggi, dove gli attori dimostrano di aver compiuto un enorme lavoro per far emergere un lato umano spesso combattivamente nascosto o cinicamente represso. 


Abbiamo così film sulla scienza che assurge quasi a linguaggio del futuro, un film sulla costruzione ed esplosione della bomba in nome della pace, un film sulla politica e sul suo costante bisogno di trovare e gestire nuovi nemici che un tempo erano vecchi amici. Tre film che convergono in un film ulteriore, più intimo ma in fondo centrale a tutti e tre: sull’ego. L’ego anche di Nolan, che ha spinto il regista alla costruzione di questa autentica bomba atomica cinematografica, dai molti colori e le molte anime. Un'ambizione creativa che da sempre ci attira a vedere con interesse le opere successive del regista britannico, anche dopo aver assistito a questo imponente e colossale ottimo film.  

Oppenheimer non è un film perfetto nel modo in cui spesso porta nell’ombra molti personaggi, ma è un film potente, un film che se vissuto nella sala adeguata può immergerci in uno spettacolo narrativo e pirotecnico senza eguali. È un film per il quale è ancora bello andare al cinema. 

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