sabato 29 maggio 2021

Lol Australia “Last one laughing “ - la prima stagione su Amazon Prime.

 


L’attrice comica divertente Rebel Wilson, al posto dei non divertenti Fedez e Mara Maionchi, conduce la versione australiana di Lol, che arriva da noi sottotitolata su Amazon Prime. È uno show dai tempi più serrati, con regole più chiare, decisamente più divertente. Il montaggio è più veloce, premia le migliori battute e non si perde nei momenti con quel senso di “morte e sconforto”, in cui ti sentì davvero male per i concorrenti quanto per te che li guardi, tipici del Lol italiano. Le regole sono poche ma precise. Rimane una gara di 6 ore tra comici, a eliminazione, ambientata in un locale pieno di stimoli creativi per far ridere. Chi ride si prende prima una ammonizione e poi esce, ma allo stesso modo vengono puniti i concorrenti che rimangono passivi. Si può usare una volta un jolly, che obbliga tutti i concorrenti a fermarsi e a guardare l’esibizione di uno di loro. E poi basta! Niente “pulsantiere buffe”, niente “momento supereroi” o altro. Circa i comici coinvolti si avverte una direzione artistica dello show molto differente, in ragione dei gusti degli spettatori australiani. Nel Lol australiano vanno fortissimo le gag fisiche, che comportano lo spogliarsi e usare tette finte, coprirsi di peni in lattice, cospargersi di bibite gasate e nuotarci dentro, espletare cose buffe da ogni orifizio, compresa la cacca. Ma c’è anche una parte di Black humor a tema disturbi mentali, (dis)parità di genere ed età, sessualità in tutte le forme, prese in giro crudeli (c’è un momento che viene sfottuto uno di loro a cui è stato cancellato un programma radiofonico). Poi naturalmente c’è “tutto il resto” che si può vedere anche nel Lol italiano, ma quello che mi ha affascinato è che questi comici australiani sanno ridere “di più cose”, travalicano quello che noi percepiamo come politicamente corretto e non hanno paura nell’affrontare la satira. Noi italiani siamo a confronto dei dannati cacasotto, timorosi di poter ridere al massimo delle code al supermercato, di uno vestito da batman o di Frank Matano che gioca con un tubo sonoro. Se la comicità e la satira servono per esorcizzare i dolori del mondo, da cui la parola “simpatico” che etimologicamente significa “soffrire insieme”, noi italiani ci sottraiamo a questo ormai continuamente. Gli australiani riescono a ridere delle cose che il senso comune giudica “imbarazzanti” e questo serve di fatto a combattere e far evolvere il senso comune. Noi italiani evitiamo sul nascere di parlare di cose imbarazzati per evitare querele da parte degli attentissimi custodi della nostra moralità,  di fatto non affrontando le paure che si annidano nel sociale, ingigantendo i problemi e sviando un qualsiasi dibattito costruttivo su di essi.  Mettendo da parte questa nota amara (avevo scritto 10 cartelle di attacchi alla elite politica e culturale del nostro paese che vi risparmio) è stata una vera sorpresa conoscere con questo Lol Australia attori comici come Anne Edmonds, Frank Woodley e Sam Simmons. È stato liberatori vederli posseduti da personalità multiple borderline alcolizzate e animali vari, vederli intenti in giochi erotici e una quantità così alta di falli di gomma allungabili da far arrossire un sito erotico. Certo non tutto è divertente al cento per cento, ma il gioco funziona. Vi consiglio caldamente la visione. 

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mercoledì 26 maggio 2021

Quintessential Quintuples di Negi Haruba, un manga per puri di cuore un po’ arrapati


La vita è grama e per tirare avanti nel Giappone Moderno un ragazzo del liceo di nome Futaro, di umili origini, deve studiare, lavorare e dare le ripetizioni ogni santo giorno. Ma come vede Futaro il futuro? Poco male, quando un riccone decide di commissionargli ripetizioni limitless non di una, non di due, non di tre, ma addirittura di tutte le sue cinque figlie, tutte gemelle e tutte gnocche. Differenziate dalla pettinatura, le cinque sono tutte pronte a capitolare prima o poi ai piedi di Futaro, al punto che fin dalle prime tavole del fumetto noi già sappiamo che lui di lì a poco se ne sposerà una. Il gioco è però capire con chi delle cinque sarà scelta, posto che pure se ce la fanno vedere con l’abito da sposa non è così evidente chi sia. Sarà quella con i capelli a caschetto che perché nata due minuti prima delle altre si sente sorella maggiore, ama il teatro e frequenta ragazzacci? Sarà la patatona maldestra coi ciuffi a coniglietto, che ama lo sport ed è troppo altruista? Sarà la menosa precisetti con i codini, un po’ brusca ma in fondo tenerona? Sarà quella che un po’ remissiva con la pettinatura che le copre gli occhi, che vive nel suo mondo portando perennemente le cuffie, amando i racconti storici? Sarà quella con le stelline per ferma-capelli, che non si capisce esattamente cosa pensi, è complicata e forse sogna di fare l’insegnante? Io non lo so e l’autore cerca continuamente di confondere le carte in modo stimolante, architettando quasi un intreccio mistery. 

Le gemelle si scambiano le pettinature, compiono azioni personali di rilievo sentimentale senza palesare la loro identità, ce le fanno vedere da piccole quando tutte sono pettinate uguali. La sposa futura di Futaro è indefiniti ma inesorabile, con “lei” che racconta a ritroso, dal giorno del matrimonio fino giù a quel periodo in cui si sono incontrati, un’infinità serie di “ti ricordi quella volta che io...?” che inquadra ogni singolo capitolo del manga. Un po’ alla How I meet your Mother, se vogliamo. Il gioco funziona così bene e la scrittura è così stimolante che gli appassionati si sono scatenati in Giappone in veri e propri fan club dell’una o dell’altra gemella. Alla fine Futaro è il classico ragazzo super-medio, super-noioso, super-senza-carisma di moltissima della produzione manga odierna, per lo più un avatar moscio buono per tutte le stagioni in cui il lettore può immedesimarsi. Ma le gemelle sono sempre peperine e i disegni ci permettono lungamente di fantasticare tra le loro curve, seppure in una cornice grafica molto elegante, per nulla volgare ma abbastanza “interessante” da immaginarsi che qualche real-doll, con le fattezze di una delle cinque, venga fabbricata nelle più sordide cantine di Osaka per finire poi nelle mani di qualche oscuro omino con una forte solitudine, ad allietare la sua stanzetta umidiccia. E con questa nota soave agli indubbi meriti grafici dell’opera di Negi Haruba, diventata nel 2019 anche anime di successo a firma della Tezuka Productios, devo dire che mi sono decisamente divertito nel leggere i 14 volumi editi da J-Pop, in una bella edizione realizzata con la classica cura che la casa Milanese riserva ai suoi prodotti. Ogni tanto ho “accusato il colpo“, soprattutto quando la vena sentimentalosa dell’opera andava su canali per me troppo diabetici e autoreferenziali, ma alla fine l’ho trovata frizzantina al punto giusto, scacciapensieri e ben curata. Chi sarà la sposa futura di Futaro lo lascio a voi, nella magra constatazione che io fino alla fine comunque “non l’ho beccata”. Talk0

lunedì 24 maggio 2021

Dragonero il ribelle n. 18 - Attacco a Vahlendart - e Dragonero n.19 - Il demone fuggiasco - doppia recensione!!

(Un’offerta promozionale imperdibile: Gli 80 anni di Sergio Bonelli Editore!!) Messaggio a tutti i fan Bonelli che ci seguono qui sul blog, disertando le pagine ufficiali (siete troppo buoni e un po’ folli, vi vogliamo bene)! Nei mesi di aprile e maggio si celebrano gli 80 anni della nostra amatissima casa editrice, la Sergio Bonelli Editore, e per festeggiare degnamente l’evento sono già piovute e pioveranno, in tutte le edicole e store online, da inizio aprile fino alle uscite previste entro per il 29 maggio, allegate ai principali fumetti, tante belle medagliette con incisi sopra  i volti dei principali eroi, comprimari e avversari di quasi tutte le più celebri testate bonelliane. Yeeah!!  Ad aprile con il numero 18 di Dragonero è allegata la medaglietta di Ian, nel numero di maggio c’è quella di Gmor. Collezionatele tutte nel magnifico raccoglitore con in regalo la medaglietta del primo mitologico eroe della casa: il grande “tizio del west”, primo di una serie sconfinata di “tizi del west” Bonelli, di nome Furio!! Le medagliette, mi dicono dalla regia,  non costituiscono una valuta parallela. Tenetele lontano dalla portata dei bambini. Vi preghiamo di non perderle, perché la Bonelli (forse?) non dispone di una zecca interna permanente.  Fine del messaggio promozionale. Allora, da cosa partiamo oggi? Trovato!

 

Partiamo dal numero 18.




(Sinossi fatta male). Riassunto delle puntate precedenti in una singola e comoda domanda: “Ma quando parte questa benedetta rivolta contro Leario, la Signora delle Lacrime, i maghi imperiali, il male assoluto, la cellulite e i dischi di Povia?“ La risposta è più inaspettata che mai, quanto pragmatica, e rientra nelle risposte politiche più classiche. È tipo: “Eeeh, ma questa cosa della rivolta si è già fatta in passato! Ma non ve lo ricordate?!!! È andata malissimo. Non ci abbiamo più i maghi da allora, una carneficina, una disorganizzazione tutta erondariana che non vi dico! E ora per ripartire dovremo chiedere i finanziamenti in prestito con i fondi del Next Generation Erondar ai nostri confinanti amici. Ma il piano Draghinero sarà un successo!! Più viverne ecologiche per tutti, nuove opportunità di lavoro agile con i banchi a rotelle tecnocrati, supporto psicologico e resilienza per i guerrieri barbari depressi di cui al numero 17 della testata. C’è di tutto, arriva presto e c’è giusto da tirare la cinghia un po’, pensare positivo, prima o poi arriverà la ripresa...”. Quella roba lì, insomma. Intanto però vediamo nei disegni che Gmor è diventato vecchissimo di colpo, da un albo all’altro, e iniziamo a pensare che la rivoluzione arriverà... all’anno del mai... ma teniamo duro!!! Con fiducia, cavolo!!! E con tanti punti esclamativi di ottimismo, tutti scritti in serie !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

(Questo numero mi ha depresso a livelli che non vi dico...non so se si capiva...). Questo nostro pezzo esce a maggio inoltrato, nonostante l’uscita in edicola del numero 18 sia di aprile. Ogni tanto capita per problemi di lavoro, difficoltà tecniche a reperire il fumetto, tuoni e fulmini, le cavallette, l’apocalisse, cani e gatti che vivono insieme, masse isteriche ecc. ecc. A questo giro devo però dire che sono riuscito a leggere il fumetto all’uscita o quasi, ma cercavo la giusta predisposizione psicologica per affrontarlo e “scardinarlo” con la chiave di lettura ironica che spesso piace ai lettori di questo blog. I temi trattati dal caro Vietti, l’autore del numero, mi hanno un po’ “buttato giù”, se vogliamo usare un eufemismo. Oppure mi hanno “demolito la voglia di vivere a botte di negatività”, se non vogliamo l’eufemismo. Non è che la negatività di un’opera mi spaventi a prescindere, anzi. Spesso tra me e un’opera nasce sempre una relazione chimica, frutto delle mie esperienze e del mio stato d’animo del momento della lettura. Io e questo numero 18 di Dragonero da subito “non giravamo bene”.  Roba di piatti rotti, abbandono di tetto familiare, lui che vuole tornare da sua madre... Sono così arrivato, di rimando in rimando, a recensirlo oggi, con il numero di maggio già presente in edicola da un po’, per guardare le cose in una prospettiva diversa e soprattutto “positiva”. Nel senso dell’incontro con il numero 19, più sbarazzino e divertente, che mi ha permesso di accettare di più il numero 18, “comprendere il suo dolore“ e...ok, sto andando troppo sulla psicanalisi e mi fermo. (mi viene pure in mente una gag del Drive In in cui Sergio Vastano, che interpretava uno studente fuoricorso della Bocconi “rifiutava il 18”, ma questa è un’altra storia).

Mi dispiace giusto non averlo recensito prima, questo 18, per la storia delle medagliette imperdibili raccontata qui sopra. Certo se avessi pubblicizzato la storia delle medagliette prima, magari qualcuno le andava a recuperare. Ma sullo store online di Bonelli, in fumetteria e pure in qualche edicola, il numero è ancora disponibile. Se occorresse faremmo per voi pure un assalto pacifico alla zecca Bonelli (se esiste davvero una zecca Bonelli). 

(Ma cosa è successo all’eroe del domani dell’Erodar? Per dirla alla Alan Moore...) È un po’ di tempi che Ian e gli eroi nostri beniamini stanno stringendo alleanze, creano fortini e passaggi sicuri, si inventano un uso creativo della tecnologia e della natura a scopo strategico, addestrano animali volanti, motivano le truppe. Poi prendono pure le cantonate sugli alleati, vanno in giro per i laghi lombardi in cerca di animali volanti, litigano, chiamano i nani a riparare la caldaia, cose così. In sintesi, lo scopo di questi 18 numeri finora usciti è  pianificare strategie di lungo termine cercando di sopravvivere nel medio. Sì ok, ma “quanto dura il lungo termine?“ Si potrà contrastare l’Impero “a un certo punto“? In tutto questo, quanto può essere inquietante il fatto che a narrare le storie della ribellione sia un orco Gmor super vecchissimo? Non è che la rivolta è durata un numero spropositato di anni e sembra che anche ora debba durare altri anni, parecchi anni, per giungere davvero a compimento (o ad una “riflessione in corso” d’opera stile dibattito sulla crisi di certi partiti nazionali)? Arriveremo a un punto in cui a narrare gli eventi sarà un Gmor diventato super super super stra-vecchio, che incespica nella barba e inizierà a essere sedotto dall’elfa/colf fino a che lei lo sposa, gli dilapida il patrimonio, i due finiscono per litigare sugli alimenti, gli vende di nascosto le spade da collezione su ebay e alla fine finiscono a Forum, condotto dalla Barbara Palombelli erondariana? Ecco, questi dubbi nel numero 18 un po’ si dissolvono. In negativo. Un po’ come la speranza di pensare che quel Gmor non fosse davvero vecchissimo, ma solo un po’ con la barba incolta per via di una recente fase hipster o magari invecchiato per gioco da una maledizione goliardica di Aura, di pochi mesi prima. 

Perché la rivoluzione non è ancora finita dopo pareeeeeeecchi anni, cacchio!!!!! E ci metto pure qui dei punti esclamativi extra !!!!!!!!

Magari però mi sto sbagliando, proprio in ragione del fatto che quello che sto leggendo, per via della medaglietta in “omaggio”, dovrebbe propriamente essere inteso come un numero celebrativo e possibile starting point per i nuovi lettori. Ce lo dice anche la copertina, del sempre bravissimo Gianluca Pagliarani, che ritrae il nostro eroe in posa plastica e sfondo neutro, come facesse la pubblicità della Nespresso, decontestualizzandolo dalla classica scena action presente come “tema” negli altri numeri. Quindi prendiamola anche così, nonostante quel Gmor stra-vecchio come narratore inizi un po’ a spaventarci, come quasi la constatazione che questo impero del male sia un po’ come la metafora del coronavirus. Come se “la ribellione“ fossimo noi in casa a leggere i fumetti con l’igienizzante mentre fuori c’è l’impero pandemico che circola libero. Non si può accelerare con un “liberi tutti”, andando in assembramento senza mascherina a occupare la capitale prima del tempo, prima che siamo abbastanza “pronti” per affrontarlo? Potrà Ian andare all’attacco, e noi godremo di storie “un po’ più positive”, quando la popolazione sarà vaccinata almeno al 60 per cento? Certo le similitudini tra questa narrazione e la particolare fase storica che stiamo vivendo abbondano e sono stimolanti (perché le storie migliori devono stimolarci), come di fatto il numero 18 è un numero comunque interessante per mille altri motivi.

(Quattro storie per quattro disegnatori) Come nei numeri precedenti la formula è quella di dividere l’albo in più sotto-trame, tutte scritte da Vietti ma affidandone i disegni ad autori diversi. 



Nella storia che è un po’ “il piatto forte”, disegnata da Vincenzo Riccardi, si parla di questa prima fantomatica “prova tecnica” di scontro totale nella capitale. Il racconto avviene prevalentemente a ritroso, dopo che il “fattaccio si è consumato“ per un mix di errori tattici, alleati troppo prudenti e alleati troppo frettolosi, nessuna conoscenza delle truppe nemiche sul campo. Questa analisi a posteriori, di stampo squisitamente fantasy-investigativo è avvincente, con tavole pullulanti di scene di massa (spesso disperate) e una spiccata ricchezza di dettagli negli scenari. 




Intrigante, action e misteriosa la storia della missione di Ausofer insieme all’elfa oscura, disegnata da una Ludovica Ceregatti che la immerge in ombre profonde e sinistre (alla Mignola) e in  magnifiche sequenza di combattimento con mostri tentacolari.

 


Più riflessiva e crepuscolare la storia di cornice, che riguarda l’incontro tra Gmor e Moldav, raccontata con tavole aggraziate e avvolte da un suggestivo paesaggio innevato ad opera di Cristiano Cucina (che già si è cimentato con successo su questo “scenario”). I toni tenui e pacati, “quotidiani”, della narrazione della vita del vecchio Gmor, vengono tradotti da Cucina in disegni rarefatti, sospesi, quasi “natalizi” (e che ricordano nella composizione i lavori di Will Eisner), che fanno di questo segmento quasi un “Grande freddo” (nel senso del film del 1983) fantasy. 




Un po’ più sconfortante (più per la rivelazione finale che per la sua struttura) la storia del viaggio di Yamara, stile “caccia al tesoro esotica” (alla Indiana Jones), ma tradotta in modo molto suggestivo dalle tavole di Fabio Babich, immerse in una atmosfera orientaleggiante davvero suggestiva, con scorci architettonici di civiltà passate davvero affascinanti e un pizzico di Max Max Oltre la sfera del tuono.

 

E ora, a grande richiesta, eccovi pure la recensione del numero 19! 



(Sinossi fatta male) C’è un nuovo giustiziere nell’Erondar. 



Ian e amici arrivano in un villaggio potenzialmente pericoloso, dove stazionerebbero dei mercenari al soldo dell’impero. Ma non c’è nessuno, tutto è deserto. Troppo misterioso. L’ideale sarebbe andare a chiedere consiglio ad Alben, replicando quei primi numeri di Dragonero in cui in sostanza si faceva un viaggio di 80 pagine in cerca del mago, girando per mezzo mondo di giorno e raccontandosi aneddoti intorno al fuoco di notte. Ian però taglia corto, prende una boccetta magica e la scaglia contro un muro. Dal liquame che rimane appiccicato e colante quanto il peggiore Rum di Caracas, si apre un passaggio dimensionale da cui esce Alben tutto incazzato. Il nostro eroe chiede al mago di fare una magia che faccia vedere cosa è successo prima della scomparsa generale di tutti. Un po’ come fa Starlord all’inizio del primo film dei Guardiani della galassia o fa Newt Scamander in Animali fantastici 2 o facciamo noi e Vasco Rossi con il tasto del rewind delle cassettine e delle vhs (cosa si perdono le nuove generazioni nate senza le cassette e vhs!!!). Alben fa partire il filmino e... sorpresa! La mattanza l’ha compiuta un abominio di tipo demone, che sembra aver però risparmiato la popolazione locale per concentrare la carneficina sui “cattivi”. Ma dove sarà finito adesso? Sarà un nemico pericoloso o un possibile alleato contro l’Impero? Ian si mette subito sulle sue tracce, decidendo di affidarsi al fiuto mistico della celebre poiana Ivy (che tutti amiamo quanto Edvige di Harry Potter).

 


Ma tutti lo indirizzano piuttosto verso una via investigativa più “diretta”. Cioè andare per una settimana da un monaco eremita amante di canzoni popolari e leggende orali, per uno studio e ricerca comparata di racconti su demoni “buoni” su base enciclopedica, seguendo il criterio delle “fonti più recenti”. Dopo aver conseguito un dottorato in lettere medievali, Ian trova la prossima tappa per la sua ricerca, ma potrebbero esserci delle sorprese lungo il cammino. 



(Una bella scazzottata, finalmente) Dopo il numero 18, ecco la bella “sferzata di ottimismo” che aspettavo. Un numero fatto di sana azione adrenalinica a base di asce volanti, di mostri, superpoteri e antieroi. Stefano Viertti ci mette al centro di una “caccia al mostro” dalle tinte horror, ben ritmata e imprevedibile. Ma la cosa più interessante sta a latere di questa decisamente divertente apoteosi action/horror, un po’ dalle parti di Go Nagai e un po’ in salsa Alien (non faccio spoiler, lo fa già Barbieri in terza di copertina...). 



La sorpresa improvvisa e gradita avviene quando Vietti, per bocca di Ian, arriva a dare voce alla domanda che più di tutte attanaglia i fan di Dragonero: “Ma Alben, nella vita, che cacchio fa? Ma perché quando c’è da menare non c’è mai? Ma perché se ne vaga per tutti gli agriturismo, i pub e bed and breakfast dell’Erondar in continuazione?”. È un bel dilemma in effetti, che richiederà prima o poi un approfondimento extra. Ma da una “piccola scossa”, il fatto che Ian se lo ponga parlandone a muso duro con il mago, con in mano, immaginiamo, una infinita nota spese che la “Ribellione SPA” sgancia periodicamente per le trasferte di Alben. I disegni di Giuseppe Matteoni trasmettono tutta la forza e la tensione che abbisognano alla storia. L’azione spesso prende il possesso di tutta la tavola, escludendo i balloons e lasciando il posto alla danza delle spade. 



A un certo punto il combattimento si scompone dalla sequenzialità temporale, per poi farsi una lotta verticale, dalla terra verso l’inferno. Tutto funziona a meraviglia e forse ci siamo guadagnati alla fine della lettura un nuovo comprimario, dall’animo oscuro, quasi una specie di imprevedibile “Venom“. Serie spin-off in arrivo?

Un numero incorniciato come sempre da una spettacolare copertina di Gianluca Pagliarani, che mi ha ricordato non so perché il classico Wrath of the demon per Amiga. 



(Finale) Quindi per scusarmi del ritardo nella recensione del numero 18, eccovi insieme le recensioni dei numeri 18 e 19. Il nostro eroe sta reclutando nuovi alleati e la ribellione all’impero sembra sulla giusta strada. Forse ci sarà il rimbalzo economico sperato e arriveranno i finanziamenti ad Ausofer per la sua impresa di ristrutturazione di fortini di montagna. Forse avremo nuove generazioni di maghi, forse saremo più “green” con le nuove viverne, forse la crisi dell’Erondar è destinata a risolversi e presto torneranno aperti a pieno regime i ristoranti di pesce di Solian. 

Noi come sempre, vi invitiamo con gioia a leggere anche il prossimo numero. 

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domenica 23 maggio 2021

Ci ha lasciato Kentaro Miura, a 54 anni, per una dissezione aortica

 


L’autore di Berserk, cresciuto nella bottega di Tetsuo Hara e venerato da milioni di fan e critici non c’è più. Si è spento il 6 maggio e la notizia è stata diffusa solo il 20, nel rispetto del periodo di lutto familiare in uso in Giappone. Dal tratto possente quanto gentile, amante delle saghe fantasy ma non indifferente alla psicologia umana, nella sua carriera Miura è stato di grande ispirazione per molti autori di fumetti ma anche celebrato da illustri autori di videogame come Hidetaka Miyazaki, che ha dedicato la saga di Dark Soul proprio a lui. La sua saga principale, Berserk, viene serializzate dal 1989 e c’era da pensare che sarebbe stata continuata da Miura per tutta la vita, rispettando la cadenza delle sue due uscite in volume annuali. Anche su questo blog scherzavamo ogni tanto sui biblici ritardi di Berserk, sulla sua trama che andava ad espandersi verso l’infinito, su quanto il talento dell’autore fosse nel tempo cresciuto, si fosse evoluto e fosse diventato immenso, iconico, unico. La sua arte era potente, sensuale, barocca e carica di epica. 

Mancherà molto, ma è stato un gigante e le sue opere sono lì a dimostrarlo. Per sempre. 

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sabato 22 maggio 2021

Un altro giro - la nostra recensione del sorprendente e ironico film di Thomas Vinderberg, vincitore dell’oscar come miglior film straniero

 


Danimarca, ai giorni nostri. Martin (Mads Mikkelsen), Nikolaj (Magnus Millang), Tommy (Thomas Bo Larsen) e Peter (Lars Ranthe) sono amici di vecchia data e insegnano insieme nello stesso liceo di Copenhagen. Martin insegna storia e sta vivendo una grave crisi professionale e familiare. Non riesce a far appassionare i suoi studenti al punto che si minaccia il suo licenziamento. Il lavoro serale che impegna la moglie consente a Martin  di frequentarla per un paio di ore al giorno, per lo più quando è mezza addormentata e non gira molto meglio nel rapporto con i figli. Quando il gruppo di amici decide di festeggiare in una serata ad alto tasso etilico i 40 anni di Nikolaj, Martin scopre che in fondo anche i tutti i suoi amici non se la passano benissimo. L’insegnante di lettere e musica Peter è sovrastato da un coro musicale stonatissimo e vorrebbe essere di maggiore aiuto agli studenti. Tommy non riesce a coordinare la squadra di calcio che allena e ormai passa il tempo a guardare il giornale e non il gioco di squadra. Nicolaj non regge i tre figli piccoli che infestano il suo letto matrimoniale, riempiendolo quotidianamente di pipì, e non gli importa più molto di insegnare psicologia. “In vino veritas”, come dicevano i latini. Così in quella sera i quattro amici si ubriacano, piangono, si confidano e ricordano i tempi andati mentre sbronzi cercano di rincasare all’alba. Non si divertivano così dai tempi del liceo. Da quando Martin aveva messo da parte il suo sogno di diventare ballerino di danza moderna, insieme alla passione per gli alcolici, quando la sua ragazza era rimasta incinta. Tante lacrime e passi di danza moderna sbilenchi in una notte a Copenhagen. Poi il giorno dopo l’illuminazione: fare insieme una ricerca per convalidare le teorie dello psichiatra Finn Skarderud sul B.A.C. (Blood Alcohol Content). Secondo Skarderud gli esseri umani vivrebbero di un “deficit alcolico” del tasso alcolemico del 0,05, che li separerebbe dalla “migliore forma di se stessi”. Un tasso che se integrato, tenendolo stabile per dato periodo giornaliero, permetterebbe alle persone di vivere meglio, in modo più rilassato, coraggioso e creativo. Con quel “frizzantino nel sangue” si potrebbero accantonare le paure di vivere come le timidezze, avvalorando uno stile di vita che per gli storici sarebbe quello di Hernest Hemingway, Wiston Churchill e molti recenti politici noti (ritratti goliardicamente nella pellicola in momenti storici in cui apparivano piuttosto “brilli”). Ponendo che tutto questo sia sensato, il piano folle dei quattro amici è bere costantemente e “scientificamente” dall’inizio delle lezioni fino alle 20 di sera, non eccedendo però di un tasso alcolemico di 0,05, tenuto sotto controllo da un etilometro portatile. Bere e annotare gli effetti in incontri serali. Da subito emergono problemi a esprimere delle parole complesse, ma tutto il resto compensa alla grande. I quattro “brilli controllati” si sentono insegnanti migliori e gli studenti li seguono con entusiasmano. Sono di colpo mariti più “presenti” e sensibili, che riscoprono pure le gioie del sesso. Ma i quattro sono soprattutto, anche se non riescono a confessarlo, un gruppo di amici affiatati come non succedeva da tempo. Perché smessi i panni del corpo docenti sono tornati a parlarsi come quando erano ragazzi. Va così bene che decidono di passare alla seconda fase del progetto: implementare il tasso alcolemico sulla base della tolleranza individuale all’alcol. Come andrà a finire?



Irriverente, intelligente, divertente, satirico e con una punta di genialità, il film di Vinderberg sorprende e travolge, tenendo incollati dal primo all’ultimo minuto. Merito di una trama perfettamente bilanciata e originale, di un buon ritmo e di interpretazioni davvero convincenti, complici e affiatate. È un vero piacere vedere Mads Mikkelsen in un ruolo diverso dal “bel tenebroso“ per cui lo conosciamo dai tempi di 007 Casino Royale, Valhalla Rising, Rogue One e Hannibal. Si rivela un attore generoso, empatico, spiritoso. Molto bravo anche Thomas Bo Larsen, che mette davvero a nudo l’animo del suo disastrato Tommy, ma è davvero difficile stillare una classifica, perché tutti e quattro i nostri eroi sono davvero riusciti, sopportati da un cast di comprimari davvero valido. Se non fossimo in Danimarca, potremmo pensare di essere davanti a una sofisticata commedia british e c’è da scommetterci che Un altro giro saprà generare più di un remake internazionale, magari anche un musical. Il tema dell’alcol è forte. Divisivo ma non scontato, adeguato a una lettura su più livelli. Anche se la pellicola spara più di una cartuccia in direzione della satira e della leggerezza, il bere non è raccontato solo per i suoi meriti positivi in capo di “espressività” e non tarda a mostrare i vari demoni “fisiologici e psicologici“ che l’alcol riserva. Le immagini della pellicola mostrano spesso una forte critica sociale indirizzata all’abuso ricreativo del “bere”. Si parte dai giochi a base di binge drinking dei giovanissimi (come la “corsa intorno al lago”) fino alle celebrazioni locali più note, come la festa di diploma in cui i ragazzi girano su dei pulmini con un berretto da marinaretto in testa e litri di birra nel sangue (rimando alla serie Equinox di Netflix, dove questa tradizione è centrale nello sviluppo della storia). L’abuso di alcol è raccontato come un problema sociale serio, che si declina come un'autentica “paura del bere”. Se l’abuso viene “accettato anche se stigmatizzato“ quando si parla di giovani danesi, fin dalla scena che apre la pellicola, il film racconta di come gli adulti, rifuggano il bere con insistenza e fermezza. Al punto che il tornare a bere di questi quattro professori, seguendo questa bizzarra ricerca, diviene quasi un distorto ritorno alla giovinezza e alla spensieratezza. Una sorta di “riconciliazione etilica“ che autorizza ad accedere ad una spensieratezza colpevolmente messa in soffitta da qualche parte della mente.  Un “mollare la prese” che però funziona, svela i problemi di una vita accettata in modo troppo rigido e permette di fare dei cambiamenti in corsa. In vino veritas, anche se con moderazione a 0,05 e controlli costanti quasi ai limiti di chi, oggi, non passa due ore senza sbirciare sul contapassi se sono stati ultimati i 10.000 passi consigliati giornalieri. Certo poi quando si passa da 0,05 a 0,5 fino ai numeri da ritiro patente “il gioco cade”, così come i suoi influssi positivi. E allora la pellicola riesce a ingranare una marcia diversa, anche più malinconica. Funzionale ma anche onesta sui reali problemi dell’essere dipendenti dall’alcol. 

Un altro giro è un film un po’ folle, ma soprattutto per questo esilarante, molto più profondo di quanto sulla superficie appaia. Un film che ci interroga davvero sui reali motivi “positivi” per cui può nascere una dipendenza, in grado di stimolare dei dibattiti interessanti sul tema. È inoltre un delizioso film sull’amicizia e sulla difficoltà di diventare grandi, un po’ dalle parti di Quattro Matrimoni e un funerale o Full Monty. 

Un altro giro è uno dei motivi migliori per tornare al cinema dopo tanto tempo, non fatevelo scappare. 

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domenica 16 maggio 2021

Fate/Stay Night - Heaven’s Feel III: Spring Song - la nostra recensione!

 


(Premessa generale) Torniamo a parlare dopo un po’ di Fate/Stay Night su questo blog, in occasione della terza e ultima parte della “saga” in tre film del ciclo Heaven’s Feel, ora in chiaro su Netflix grazie anche all’adattamento in italiano di Dynit. Vi invitiamo a leggere il vecchio articolo per comprendere al meglio cosa sia il fenomeno multimediale noto come Fate/Stay Night, ma abbiamo deciso di richiamare qui almeno un paio di concetti-base orientativi. Perché i giapponesi hanno i cartoni animati che per seguirli bisogna usare il libretto delle istruzioni. Se le “istruzioni” vi sono già note e volete andare dritti alla recensione del film, saltate senza problemi tutte le premesse. Grazie e buona lettura. 

(Premessa sul contesto narrativo) Siamo in un mondo di maghi e babbani, scuole di magia e grandi artefatti mistici. In tempi remoti gli Einzbern, i Tohsaka a e i Matou, ossia le tre più grandi famiglie di maghi al mondo, hanno convogliato il loro potere per dare vita a un oggetto mistico, chiamato “Santo Graal”, in grado di realizzare qualsiasi desiderio. Accomunati dall’uso massivo di energie mistiche, ricavate dal mana quanto da sacrifici di sangue e artefatti, ci sono maghi differenti con ambizioni differenti. Gli “harrypotteriani” Tohsaka, esperti nella creazione di gemme di potere e immanicati con una variante di Hogwards (con più Serpeverde che Grifondoro). Nelle loro lussuose ville con piscina e porche, perseguono il sogno di perfezionare le loro arti mistiche, per permettere ai maghi di guidare e aiutare gli esseri umani come una specie di supereroi/casta di illuminati. I “Ringhiani” Matou (nel senso che fanno cose creepy come nei film di The Ring, ma pure Ju-oh e Uzumaki), esperti in negromanzia, maledizioni e sfighe a base di vermi, cercano la vita eterna, il dominio del mondo e in genere disprezzano (salvo meritorie eccezioni) i comuni mortali. In genere i Matou sono pazzi, vivono in scantinati bui e ridono in modo diabolico. Gli alchimisti “fullmetal” Einzbern vedono una realtà fisica e mistica interconnesse e studiano per creare anime e corpi artificiali, i cosiddetti omuncoli, per preservare la vita in ogni sua forma, confermandosi quasi dei cyber-futuristi. Tra la filosofia eraclitea (un po’ alla Avatar, per intenderci) e cyberpunk (nella definizione dell’essere umano alla Matrix o alla Ghost in The shell), con un innato amore per i castelli medioevali e i vestiti da cosacco, gli Einzbern sognano di poter “sintetizzare” l’animo umano, riuscendo a trovare una “radice” che funga da chiavetta usb definitiva/universale/mistico/filosofica. Ma l’incredibile artefatto superiore che potrebbe dare vita a tutti questi desideri, questo fantomatico Santo Graal da loro creato, non può accontentare tutti. Dotatosi di una volontà propria, un po’ come il Drago Shenron, decide di poter scegliere come destinatario del suo immenso potere anche persone diverse dai membri delle succitate tre super-famiglie, in base a dei criteri di “potenziale del candidato” non meglio definiti, spesso totalmente ambigui, che abbracciano anche previsioni arcane sul “destino del mondo”. Inoltre il Graal pone un secco limite: si può  realizzare solo un desiderio per ogni tot anni, tipo 60. Così non va in sbattimento come il drago Shenron, che viene evocato in continuazione e non gode neanche di straordinari pagati. Per “attivare la giostra” utilizzando il mana, vuole che siano presenti sette sfer... cioè, sette maghi, per ogni cerimonia di attivazione. Così sette maghi, scelti in base “all’intensità della loro volontà di cambiare (in bene o in male, seguendo il concetto di Yin e Yang) il mondo”, periodicamente si affrontano in un luogo specifico del Giappone di nome Fukua, scelto sulla base del "perché sì", per decidere chi riceverà questa enorme possibilità irrinunciabile a tempo limitato. Per i duelli che seguiranno, da tenere rigorosamente segreti alle persone comuni “che non capirebbero” i maghi hanno deciso che saranno impiegate le evocazioni di potenti “eroi del passato”, ai babbani invisibili in quanto a tutti gli effetti dei “fantasmi”, definiti in gergo “Servant”. Questi eroi, spesso famosi a livello storico e mitologico, sono tizi come Beowulf, Achille, Garibaldi, Elvis e Maradona (nomi detti a caso, giusto per dare l’idea). I “servant” si assoggettano a questi maghi, che per l’occasione assumono il titolo di “master”, attraverso particolari artefatti e ad un rito di unione. Di fatto il servant agisce in autonomia secondo sua logica, codice d’onore, esperienza e “come si sveglia la mattina”, decidendo quando vuole di andare a fare shopping, al karaoke e similia. Ma il Master può almeno 3 volte, attraverso dei “tatuaggi mistici a scomparsa” (tipo i trasferelli dei mini-pony sul braccio), dare dei comandi diretti al Servant, che lui deve eseguire “zitto e muto”. Sì, so cosa state pensando: è come i Pokemon con Annibale il cartaginese al posto di Bulbasaur. Ma in una cornice più adulta e splatter!!



Torniamo a noi. Per rendere ulteriormente sfiziosi gli scontri a livello strategico, le identità degli eroi, che potrebbero far luce sulla loro forza e poteri segreti, rimangono celate agli avversari, come le carte coperte di Yugi-oh, anche attraverso incantesimi che ne occultano le armi leggendarie uniche di cui dispongono. Per rendere ancora più sfiziosi gli scontri, i duettanti possono scegliere gli eroi sono in base a sette uniche e non duplicabili “classi di appartenenza”, in qualche modo legate ai passati “percorsi professionali eroici” ossia: saber (se erano in vita spadaccini), lancer (lanceri), archer (arcieri), caster (lett. “lanciatori di incantesimi“ o se volete “maghi”), assassin (combattenti silenziosi), rider (combattenti “veloci”), berserker (combattenti posseduti da un cannarsiano stato di furia). Quindi i maghetti con possono rompere poi le balle perché vogliono tutti lo spadaccino o il mago, a chi tocca tocca. Tanto alla fine possono combattere insieme ai Servant anche i master, facendo uso della propria magia, combinando le tattiche. Per evitare inciuci in questi duelli dove di fatto “vale tutto” o quasi, si è deciso di sovrintendere agli scontri con un particolare arbitro. A rivestire questo ruolo viene scelto un imparziale e “neutrale” rappresentante della Chiesa Cattolica, che come in Highlander può offrire anche un riparo d’emergenza ai duellanti durante gli scontri, occasione utile per riprendere le forze come per contrattare, permettendo l’accesso a una chiesa che funge da zona franca. Poi ci sono tutta una serie di regole, come in tutti gli anime sui giochi di carte e Death Note. Tipo: se viene sconfitto il servant, il master può ritrarsi o trovarne un altro, se un precedente concorrente abbandona. Se muore il master, il suo contratto con il servant si spezza ed esce dalla gara (non è come il palio di Siena che vince anche il cavallo da solo), un master a certe condizioni può passare il servant e i comandi di potere a un altro master/parente, due o più master si possono alleare, ecc. ecc. Chi vince? L’ultimo mago che rimane, ma sulla forma del premio potrebbe aleggiare pure “il pacco”. Chi vincerà? 


(Premessa sulle varie “forme narrative” di Fate/Stay Night). Dalla premessa precedente è chiaro che la formula del duello con eroi si presti a essere adattata in dieci milioni di anime con personaggi ed eroi sempre nuovi, ma Fate/Stay Night nasce come una visual Novel singola, curata da Type- Moon. Il protagonista è di fatto un tizio che sa qualcosa sulla magia “per riparare oggetti” e potrebbe essere per questo in qualche misura legato alla famiglia Einzbern. Il nostro è chiamato in ragione di particolari circostanze a partecipare a una delle famose guerre del Santo Graal di cui sopra. Al lettore della visual Novel viene in più data la scelta di seguire tre linee narrative differenti (per i tecnici le famose “route”di Fate) a seconda di quale “love interest” sviluppi il nostro eroe nel corso della vicenda. Questo dice molto delle scelte sentimentali più discutibili del giapponese medio. La prima linea narrativa, chiamata semplicemente Fate/Stay Night, comporta che l’eroe si innamori del proprio Servant, una ragazza forte e decisa, apparentemente distaccata ma dall’animo puro, praticamene una santa inavvicinabile con cui condividere una relazione così platonica che ci si limita a guardare insieme l’orizzonte (tipo Rei di Evangelion). La seconda, chiamata Unlimited Blade Works, comporta che l’eroe si innamori di una discendente della famiglia “Harrypotteriana” dei Tohsaka, la classica “cagacazzo umorale” che i giapponesi definisco “Tsundere”, con cui il massimo del coinvolgimento è portarle le buste dello shopping a sette metri di distanza (tipo Asuka di Evangelion). La terza linea narrativa pretende (dove la logica imporrebbe di non percorrere nemmeno lontanamente una simile strada) che l’eroe perda la testa (e poi tutto il resto) per una discendente dei “ringhiani” Matou, che come potete già intuire è una pazza, stalker e pluri-traumatizzata, con cui sperimentare i peggiori martiri fisici e psicologici, mutilazioni eventuali comprese (stile Sadako/Samara di The Ring). Dato l’incredibile e pazzeschissimo successo della Visual Novel, sono arrivati nel tempo gli adattamenti in cartone animato dei tre percorsi narrativi e poi, senza “percorsi tripli” tutta una serie di prequel/sequel/spinoff ambientati in diverse guerre del Santo Graal. Sono nati mille anime, manga e fumetti, spesso curati da autori e studi diversi, pure con stili visivi diversi. Il problema enorme, per chi vuole immergersi nell’Universo di Fate Stay/Night per la prima volta, è che alcune opere, soprattutto le principali, porcapaletta, sono legate tra loro a tal punto che in alcune di esse si danno per scontati, se non “si saltano proprio”, degli eventi narrativi fondamentali, ma già narrati in precedenza altrove. Con tutta l’irritazione possibile legata all’amore del “non-detto/non-chiaro” che culla così tanto l’animo dei giapponesi da spingerli a narrare nel modo più caotico e ambiguo moltissimo loro opere. La solita sfilza di frasi interrotte tipo: “Ma tu hai detto quindi che...?” o “Ma allora in realtà tu sei...?” o “Ma questo tiramisù ha come elemento segreto questo...?” . Frasi criptiche e roba frammentata che rendono il tutto un casino ancora più infame se non si è giapponesi e per questo non è possibile avere in italiano tutto il materiale della saga, perché gli editori nostrani magari non hanno pensato di portare da noi quel tal romanzo spin-off uscito in sei fumetterie di Shinjiuku ma che tutti conoscono e danno per scontato. Oppure ci si rifà a quell’avventura sonora o a quel gioco per cellulare solo testuale mai uscito dalla localizzazione giapponese (alcuni di questi esempi potrebbero non essere reali, ma altri lo sono). Certo, la rete aiuta e Fate ha una bella schiera di favolosi fan che si possono trovare sui forum, pure in grado di tradurre dal giapponese. Ma il “gioco” dietro a Fate e molte saghe nate sulle visual Novel è spesso proprio connaturato con la ricerca di fonti disparate da collezionare qua e là, aspetto che chi vuole avvicinarsi al brand deve sapere. Grazie al cielo, per guardare la saga cinematografica di Heaven’s Feel, opera di Ufotable, “basta” aver guardato la (bellissima) serie animata Unlimited Blade Works, sempre di Ufotable poi seguita o anticipata dalla serie prequel Fate/Zero, sempre curate da Ufotable. Quindi in questo caso c‘è una invidiabile coerenza visiva e narrativa, all’interno di una saga “espansa” curata da parecchi autori diversi. 


L’ideale logico sarebbe partire da Fate/Zero, prequel che racconta gli eventi legati alla guerra del Santo Graal subito precedente a quella narrata nella visual Fate/Stay Night, con mille connessioni narrative con ciò che accadrà dopo (con il bonus di essere una storia unica, più adulta e per me uno dei cartoni giapponesi più belli degli ultimi dieci anni). Ma facendo così vi perdete un po’ “i colpi di scena“ della serie Unlimited Blade Works, quindi il mio consiglio è partire da quest’ultima, tutta doppiata da Dynit e presente in home video come su Netflix, per poi guardare il prequel. Di sicuro Fate/Zero risulta ancora più utile per capire gli eventi di Heaven’s Feel, perché ha almeno centomila connessioni narrative con quest’ultima saga e racconta di retroscena e personaggi che sono del tutto assenti in Unlimited Blade Works!! È abbastanza criminale che Fate/Zero non abbia finora avuto un adattamento in Italiano, magari a opera di Dynit, per dirne una, che potrebbe già avere i doppiatori e adattatori giusti, che ha guarda caso già usato per portare in italiano Unlimited blade Works e tutti i film di Heaven’s Feel con gli stessi personaggi e le stesse storie. Ma sono alla fine questioni contrattuali, il futuro potrebbe offrire belle sorprese e comunque su Netflix, dove oggi il terzo film di Heaven’s Feel è arrivato in italiano, è possibile trovare sottotitolata tutta la saga di Fate/Zero. Che quindi vi consiglio fortemente di guardare. Se poi vi piace l’andazzo, su Netflix sono presenti anche le saghe, doppiate in italiano,  Fate/Apocrypha, Fate Extra - Lost Encore e la saga sottotitolata Fate - Grand Order. Tutte opere che confrontate con i lavori Ufotable escono un po’ con le ossa rotte, ma comunque carine. Ovviamente manca all’appello proprio la saga anime originale Fate/Stay Night sulla prima linea narrativa e il seguente primissimo adattamento di Unlimited blade Works curate dallo studio Deen. Queste ultime sono opere un po’ amate e un po’ odiate, quindi per molti destinate all’oblio (che tanto i giapponesi sanno già cosa accade nella trama e va bene così), ma da un po’ si vocifera in rete (specie nei siti di appassionati occidentali) che della storica prima saga prima o poi arriverà un ri-adattamento a opera dei mitici Ufotable, magari proprio ora che i lavori su Heaven’s Feel sono ultimati. Tutto a posto per godere di questo Heaven’s Feel, dunque? Ma ovviamente no, perché il sadismo dei giapponesi non conosce confini e per comprendere quello che accade negli ultimissimi minuti della pellicola, giusto per dare senso a un interrogativo enorme come un grattacielo su “che fine ha fatto un certo personaggio abbastanza centrale”, dovreste avere pure dei rudimenti della serie spin-off Kara no Kyoukai (Garden of sinners), il cui anime trovate in esclusiva su Cruncyroll o, solo all’estero, su Amazon Prime. Ma visto che vi voglio bene vi spiego in area spoiler pure questa questione.



(La strabenedetta recensione) Eccoci al dunque. Benvenuti se siete vecchi fan di Fate/Stay Night e avete saltato le varie premesse e “grazie di essere ancora svegli”, o voi nuovi fan di Fate/Stay Night, che siete sopravvissuti a quell’infinito muro di parole, vi siete recuperati Unlimited Blade Works, Fate/Zero e i precedenti due film di Heaven’s Feel prima di tornare qui (certo vi vedo un po’ più invecchiat...ehi! Ma c’è anche chi è stato su Cruncyroll a spararsi Garden of sinners!! Sei il nostro eroe, massima stima!!). Quindi siamo pronti a tornare nell’inferno della relazione tossica tra il nostro eroe dai capelli rossi e la stalker ultraterrena e vendicativa della famiglia Matou. L’aria che si respira è così pesante, la sofferenza inflitta a tutti i personaggi principali cosi alta, che la storia ci grazia e inizia a parlare di “altro”. Dal mega-flashback sull’origine del Graal a opera delle tre famiglie, al mega-flashback sul prete-arbitro (che dal precedente film ricordiamo eccitarsi mentre mangia cibo cinese... cose belle). Gli scontri tra Servant e Master si susseguono sempre più concitati ed estremi, dopo che alla fine del precedentemente film alcuni eroi sono clamorosamente stati battuti in pazzeschi colpi di scena. Chi rimane si butta a testa bassa contro il mega/super/iper/mostrodefinitivo in continue “tattiche suicide”. Il nostro protagonista non bastava venisse mutilato e deve patire anche un progressivo decadimento fisico a base di maledizione, che si accentua con lame mistiche che lo trafiggono quando prova almeno a dare uno schiaffo all’avversario di turno. Quindi di base perde sangue, si avvicina a una morte sempre più inevitabile e quando prova a difendersi la maledizione gli autoinfligge di default dei danni, a prescindere che il colpo vada o meno a segno. Un certo personaggio con cui si confronta a un certo tipo dice: “Non ha senso combatterti, perché ti stai ammazzando da solo” e ha tutte le ragioni del mondo in questa affermazione. Se fisicamente “non ci siamo”, emotivamente il nostro eroe è conciato pure peggio, vedendo crollare costantemente le sue relazioni fino all’annichilimento. Sakura, il “love interest maledetto”, diventa progressivamente la protagonista assoluta della vicenda, decidendo di percorrere un cammino di disperazione e pazzia omicida che colpisce random tutto quello che la circonda. In alcune fasi, dopo aver compiuto l’ennesima strage, Sakura ci ripensa e soffre. Poi riparte imperterrita fino al nuovo giro. Gli altri personaggi e noi spettatori con loro, fatta “una certa ora” vorremmo almeno capire come andrà a finire la storia. Ma siamo degli illusi. Sul finale, grazie a una sadica coltre di depistaggi, frasi mozzate, buchi logici e narrativi sapientemente ricercati dagli autori, non si capisce più che cavolo sia il Graal (o meglio “quel Graal”), che cavolo vogliano alcuni personaggi, come cavolo siano arrivati certi personaggi in certi luoghi, che cavolo di senso abbia il finale. Si esce dalle sale (è ormai una “licenza poetica”, solo che “si termina il download” mi rattristava) con un bel senso di malinconia... e la voglia comune di comprare il blu Ray per rivedere mille volte i più spettacolari combattimenti adult-pokemon-wannabe che siano mai stati creati!!! Perché se narrativamente è terribile, visivamente e per il lato action questo film è abbastanza imperdibile. 



(Non un bel modo di raccontare) Fin dal primo film di Heaven’s Feel è chiaro che è stata attivata per il “pubblico pagante di riferimento” la funzione “avanti veloce”. Ricordiamo che la Novel aveva un percorso unico che diventava trino a secondo delle scelte del protagonista, ma pure con alcune delle sequenze successive che rimanevano di fatto uguali per tutte le strade. Quindi la produzione sceglie in sintesi, in ragione del desiderio espresso immagino dal pubblico giapponese, che: “Non essendo importante tutto il resto che hanno già visto da altre parti, che sia prima o dopo la scelta, saltiamo via tutto e arriviamo al nocciolo delle novità”. E si intende “nel tutto” pure ciò che discendeva da Fate/Zero. La pellicola va così e solo al sodo degli snodi narrativi nuovi che adotta una struttura narrativa davvero INDECENTE, priva cocciutamente di offrire anche solo dei dialoghi di rimando. Il termine di paragone è andare una sera a casa di un amico a guardare Il Signore degli anelli saltando nella prima e seconda ora a caso il 70% delle scene. Quindi ecco che arrivano personaggi che appaiono a caso e solo per pochi secondi, colpi di scena preparati per ore che si risolvono (quasi letteralmente) come schiacciare una zanzara con il giornale, motivazioni e cambi di opinione che semplicemente non stanno in piedi. Questo non inficia la comprensibilità del tutto se uno si è studiato per bene e di recente tutta la storia, le serie e spin-off sopra esposte nelle premesse. Questo non accade allo spettatore occasionale, che magari sperava dai tempi del primo Heaven’s Feel “che le spiegazioni sarebbero arrivate nei film successivi”. A tutti rimarrà in mente la assoluta spettacolarità visiva della pellicola, senza dubbio una delle cose animate più clamorose ed esaltanti dell’animazione giappa action degli ultimi tempi. Ma è un modo INDECENTE di raccontare una qualsiasi storia, proprio dal punto di vista del legame empatico che si dovrebbe instaurare tra uno spettatore e un’opera che sta vedendo. Si perdono di vista i personaggi, il contesto si annebbia, i sacrifici più estremi perdono senso e i cattivi più mefitici vengono abbattuti in modo anticlimatico. Ma, se dopo la visione parte un re-watch spontaneo di Unlimited Blade Works, Fate/Zero e i primi due film, poi tutto si aggiusta. Si riscopre la bellezza di osservare personaggi che come in sliding doors diventano periferici o centrali, alleati i nemici, a seconda del “destino”. Ci si immerge nella brutalità ma anche nel fascino che al contempo possono irradiare le anime eroiche, si riscopre l’amore infinito con cui è curato il sistema delle relazioni tra i personaggi. Ma questo accade solo se si ha davanti il “pacchetto completo”. La mia critica è quindi fondamentalmente sul modo di narrare scelto per questo prodotto, non sugli enormi meriti e fascino del mondo e dei personaggi che animano Fate/Stay Night. O forse sono solo troppo vecchio per questi prodotti e il mondo è già multimedialmente preparato per la fruizione di prodotti di questo tipo. Ricordo che solo “ieri” Ridley Scott toglieva da Alien Covenant due scene-chiave centrali alla comprensione della saga, creando due corti per il web, dicendo “questo è il futuro”. Forse è un futuro che non ho ancora capito. Se davvero il pubblico desiderasse un approccio di questo tipo, a “spezzatino criptico”, per il futuro, la narrativa sequenziale cambierebbe di paradigma in un modo che forse io non riuscirei mai a capire fino in fondo. È in gioco il potere di una pellicola di emozionare. Non credo che siamo sempre in un videogame, non trovo giusto guardare un film solo scegliendo con il dvd quelle tre sequenze chiave spettacolari decontestualizzando tutto il resto. Ma forse sono solo vecchio.



(Un maledetto spettacolo visivo). La versione del franchise di Fate/Stay Night offerta da Ufotable a livello tecnico costituisce l’apice della migliore animazione sognabile dai fan della serie. Anzi, “di ogni serie”. Lo studio è così bravo che la versione animata di Demon Slayer (in Italia grazie a Dynit, una vera bomba per la cura della realizzazione generale della casa bolognese, recuperatela) da loro prodotta ha lanciato a mille un manga abbastanza insulso nell’Olimpo delle opere più lette in Giappone. Parliamo di animazione di stampo bidimensionale con ottimi inserti in computer grafica, un eccelso uso delle musiche, un character design inspirato, fondali da urlo, un’ottima regia. Un livello qualitativo alto, che “tiene”, nelle serie Ufotable, dalla prima all’ultima puntata. Intendiamoci: è un apice, non una rivoluzione visiva. Non è La principessa splendente, Howl o Ghost in the Shell o i recenti film ad alto budget di Hosoda e Shinkai. L’approccio è quello degli OAV vecchia maniera, da Lodoss War a Devilman - la genesi, quelli “fatti a mano”. Ufotable prende quel modello e lo affina a livello funzionale e artistico, rispettando la tecnica nota del passato e infondendoci la tecnologia di nuova generazione. Presa sul lato action, Heaven’s Feel presenta combattimenti tra eroi da urlo, super dinamici e mozzafiato, imprevedibili nell’esito, strabordanti di ogni tipo di effetto speciale. Presa sul lato romantico, i personaggi sono in grado di essere sempre molto espressivi, vitali, carichi di una profonda vena malinconica. Il top del godimento lo provo però quando mi trovo a fissare uno sfondo pressoché statico, come un bosco di ciliegi o l’interno di un albero cavo illuminato da delle torce. Tutto è così ordinato e accurato che mi sento trascinato dentro. Il chara design mantiene la sensualità e possanza che caratterizza da sempre i personaggi dell’opera, anche se in questo capitolo (a differenza del secondi) si fanno meno concessioni all’aspetto erotico dei personaggi. Viene affermata invece con forza la linea da “body-horror” che già allungava ombre oscure dal finale del precedente film. Sul menù, corpi mutilati, sbudellati, esplosi, smaterializzati, pieni di vermi e se capita pure trafitti interiormente da da lame aguzze. Ma il tutto è reso da Ufotable sempre in modo non disturbante, più tragico che grandguignolesco, alla ricerca di uno stile visivo elegante. Un’altra cosa che ammiro è il modo in cui certe battaglie siano giocate sul singolo istante di un colpo decisivo, velocissime ma davvero appaganti, imprevedibili, sempre originali nell’uso degli spazi e delle armi. Non voglio farvi spoiler, voglio lasciare la scoperta a voi. Un piccolo spoiler pero me lo permetto.



(Il colpo di scena finale). Il finale del film non è il massimo per come è gestito. Anzi, è per me l’equivalente di un piccolo calcetto nel culo. Anche se il messaggio di fondo della pellicola, il suo estremo senso di malinconia, la ricerca di felicità nonostante la fragilità della vita umana, si avverte e colpisce, il tutto poteva e doveva essere gestito meglio. Per non rovinare il finale a chi ancora deve vedere il film, metto sotto 

SPOILER  

c’è questo scontro finale molto criptico e alla fine il nostro eroe in sostanza muore in una giga-esplosione. Non prima però che la sua sorellina Illya, comparsa all’improvviso all’ultimo minuto faccia “delle cose” che in pratica agiscono sulla “radice” e aprono una specie di colonna di luce verso il cielo. Stacco infame di qualche mese. Sakura e Rin di nuovo sorelle ricongiunte e felici, dicono che il corpo di Shiro non è stato più trovato. Poi girando nei vicoletti come Rin bambina faceva con la bussola magica in un episodio di Fate/Zero, fino a quando incrociano di spalle la protagonista di Garden of sinner. Così, come fosse un passante. Girano l’angolo e trovano in una cassa di legno una bambola-omuncolo “su misura per Shiro”. Gli omuncoli invecchiano e all’apparenza sono a tutti gli effetti umani, salvo che quando vengono creati iniziano a svilupparsi come questi bambolotti in posizione fetale, come viene spiegato proprio di Garden of Sinner. Al che le due ragazze avvicinano quella che potrebbe essere intesa come l’anima di Shiro, tenuta in una gabbietta per uccelli che non abbiamo mai visto prima, alla suddetta bambola. Nella scena dopo c’è Shiro nella casetta che cucina. L’interpretazione è che Illya sia riuscita nella fusione di un’anima umana con un corpo artificiale, la tecnica “Fullmetal-alchemica” che ricercavano gli Einzbern, di fatto avendo raggiunto il loro desiderio con il Graal. Ma la cosa poteva essere esplicitata nel flashback sulla creazione del Graal stesso, dove l’antenata degli Einzbern si fonde con il rituale stesso in qualche modo imprimendogli il suo spirito) e nei mille momenti in cui si accenna. Sembra poi facciano particolarmente schifo agli sceneggiatori le spiegazioni, preferendo trincerarsi dietro termini in inglese dal significato oscuro. Puro compiacimento nel restare criptici e allusivi, ma  che qui sfocia in pessima scrittura. Certo Shiro alla fine non se la passa benissimo. Non spiccica parola, sembra davvero “imbambolato” (...scusate, non ho resistito alla battuta). Questa ultima nota di ambiguità però è resa bene a mio parere, si riesce a far percepire che la nuova situazione di Sakura ha contorni indefiniti, forse illusori, forse che devono essere accettati o “sperati” con un atto di fede che si chiede tanto alla protagonista che agli spettatori. Certo che un paio di parole in più sarebbero state utili e la storia della bambola poteva essere raccontata meglio. Tipo alludendo al discorso dell’anima nella gabbietta di uccelli, che non sembra ben collegato al raggio di luce che scaturisce alla fine del rito di Illya. Tipo facendo vedere Rim che utilizza la sua bussola per ricercare un corpo compatibile con  Shiro, magari usando il medaglione di Archer. E invece dobbiamo solo intuire il tutto, compresa l’ipotesi che la “resurrezione” di Shiro sia fallita e che quello che vediamo accanto a Sakura sia solo una specie di allucinazione che solo lei vede. Con la sequenza del bambolotto che possono voler dire tutto e niente o possono far intendere che ci sia in giro un bambolotto artificiale che ha solo la forma di Shiro. 

FINE SPOILER

(Finale) Heaven’s Feel III si porta dietro la struttura a salti e buchi di trama iniziata nella prima pellicola, soffrendo per me ulteriormente della mancanza di alcune doverose rifiniture narrative che erano possibili e auspicabili. Nonostante questa nota amara che in parte lede il gusto dell’esperienza, meno avvertibile (ma comunque evidente) da chi ha fatto un bel recente “ripasso totale” delle opere collegate alla saga, i personaggi e le immagini sono bellissimi, le animazioni spettacolari, le scene di combattimento davvero ben costruite. Il film riesce a commuovere, diverte con la sua azione a rotta di collo, affascina per la tecnica che mette in campo. Questo può in parte  far perdonare i suoi limiti. 

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venerdì 14 maggio 2021

Luca - il primo trailer del nuovo film Disney Pixar in uscita questa estate

 


Luca è un sirenetto che decide di andare a vivere nel posto più bello del mondo: in Liguria, nelle Cinque Terre. Lì incontrerà, sotto le note del Gatto e la volpe di Bennato, tanti amici e simpaticissimi italiani medi che si chiamano tutti “Bruno”, amano la Vespa, stanno a piedi nudi, vivono in allegri palazzi fatiscenti. Il regista è Italiano, si chiama Enrico Casarosa e si è già distinto nel 2012 per il cortometraggio premiato con l’oscar La Luna, già realizzato presso gli studi Pixar. Luca è la consacrazione di quel percorso e ha fin dalle prime immagini tutto il sole e la gioia del nostro bel paese, che tanto ci invidiano all’estero. In effetti sembra la classica cartolina cinematografica idilliaca a uso turisti, come la Sicilia immaginata in Aquaman, come la Verona di Letters to Juliet, la Venezia di Spiderman Far from home, la Roma di To Rome with love. Ma anche un po’ dalle parti della serie animata Holly e Benji, nella saga “Sfida al mondo” del 1995, dove il nostro bel paese ha le case con i balconi pieni di panni stesi e i nostri concittadini vestiti come ai tempi del Collodi. Insomma, un’Italia che a me fa irritare come non mai, perché queste cose non mi pare di viverle, ma che all’estero forse piace. E perché questa cosa del “Silenzio, Bruno”??? Da dove nasce questa cosa del “Silenzio, Bruno”?????? 

C’è da dire però che i disegni sono spettacolari, i personaggi molto teneri e non vedo davvero l’ora di vedere questo nuovo cartone animato Disney Pixar. Non vedo l’ora di aggiornarvi. E chissà che al cinema a un certo punto esca dal nulla Stefano Accorsi con un Maxibon in mano che dice “Tu gust is megl’che uan”. 

Talk0

giovedì 6 maggio 2021

La sposa di Chucky di Ronny Yu - ora su Amazon Prime - la nostra retro-recensione!

 


(Le retro-recensioni) In tempi di lockdown si recuperano cose dai listini dei canali streaming e questa nostra rubrica vi invita ad andare a caccia di film curiosi, folli, qualche volta strepitosi. Oggi parliamo di un grande classico dello slasher, uscito nell’anno del Signore 1998, quasi una commedia nera, un cult per gli appassionati del genere e una famosa pellicola in tutto il mondo quanto distribuita malissimo in Italia. Ma oggi potete recuperare, tramite Amazon Prime.

(Sinossi) Tiffany (Jennifer Tilly)  è una biondona super sexy e un tantinello psicopatica, legata sentimentalmente un serial killer amante dell’occulto (Brad Dourif). Poi l’uomo, ferito a seguito di uno scontro a fuoco in un negozio di giocattoli, prima di morire trasferisce la sua anima in un classico bambolotto degli anni ‘80, un “Bimbo bello”. Nasce così Chucky, la bambola assassina. Una minuscola macchina di morte semi-immortale che, a dispetto dei mille limiti fisici legati all’essere un pupazzo di forse neanche 40 centimetri, riesce a rivaleggiare con alcuni dei più temibili babau del mondo degli horror (c’è molto meta-cinema in questo film).  Anni dopo, Tiffany riesce a riavere indietro i pezzi del bambolotto Chucky, depositato come “prova” in un fantasmagorico deposito della polizia che è tipo la versione per amanti degli slasher  del magazzino di Indiana Jones, con all’interno reperti come le maschere di Jason e Michael Mayers, il guanto di Freddy Kruger, la motosega di Leatherface. Chucky stava in un sacchetto, sembrava un puzzle in 3d. Era stato ridotto a brandelli dopo essere stato “detonato” a seguito dell’ultimo scontro con la sua nemesi di sempre, il giovane Andy (L’attore Alex Vincent, che ha rivestito il ruolo da quando era bambino a un paio di anni fa, alla faccia e prima di Boyhood). In un incredibile momento alla Art Attack, con forbice e filo per ricomporre la “salma” e poi un manuale di “Voodoo for dummies”, unendo il tutto con la colla vinilica, Tiffany riesce a ricomporre, ricucire e infine riportare in vita per l’ennesima volta il suo amato compagno. Tiffany è tutta contenta del suo ritorno perché si ricordava che prima del fattaccio lui “era cambiato”, la “voleva sposare“, di recente si impegnava di più con il suo lavoro di serial killer e in generale se lo era idealizzato per anni, nonostante tutto, come “uomo/bambolotto forte” con cui iniziare un serio progetto di vita. Era pure diventato famoso, al punto che le avventure della bambola assassina erano state celebrate sulla carta stampata. Inoltre amava il suo stile di vita omicida, perché pure Tiffany era una, pur amabilissima, assassina psicopatica attiva. Ma le cose non girano come dovrebbero, Chucky è ora un adorabile bambolotto infernale in salopette e scarpine ma non la persona giusta per lei. La coppia non funziona e lei è quasi sul punto di evocare Pinocchio. Tiffany finisce comunque per relegare momentaneamente l’ex boy-friend in un baule, regalandogli giusto una bambolotta vestita da sposina con cui condividere il piccolo spazio. Chucky non ci sta, fugge dalla gabbia, uccide Tiffany e riesce con un rito voodoo a trasferire il suo corpo dentro la bambolotta. E l’amore tra la coppia si accende di nuovo! Prossima tappa delle loro avventure, una visita alla salma del serial killer, casualmente di prossima riesumazione. Lo scopo è  impossessarsi di un mistico amuleto con cui l’uomo era stato sepolto, in grado di dare ai due la possibilità di ri-trasferirsi dentro dei corpi umani. Corpi che potrebbero essere quelli di una coppietta di provincia tormentata stile Romeo e Giulietta, ossia Jade e Jesse. Jade, (una giovanissima Catherine Heigl) è una liceale nipote di uno sceriffo ultra-possessivo che arriva a farla pedinare notte e giorno dalla polizia locale pur di mantenerla pura. Jesse (Nick Stabile) è un ragazzotto palestrato di umile famiglia che vive riparando cose in un un camper, nel campo di roulotte vicino a Tiffany. I bambolotti si nascondono su di un furgone insieme alla coppietta in fuga d’amore e così partono tutti e quattro per un viaggio on the Road, con destinazione proprio il luogo della riesumazione del serial killer. Un viaggio accompagnato da una infinita scia di cadaveri, frutto delle incontenibili pulsioni omicide di Chucky e Tiffany, che la polizia non fa troppa fatica a imputare a Jade e Jesse, mettendoli subito al centro di una caccia all’uomo in diretta televisiva. Giunti quasi a destinazione però qualcosa cambia. I bambolotti diventano più “umani” e Tiffany forse scopre di avere un cuore di plastica più grande di quello che aveva di carne.  



(Du gust il megl che uan - Stefano Accorsi. Cit. ). 

La sposa di Chucky, del 1998, è uno dei film più riusciti e divertenti della serie “Bambola Assassina” di Don Mancini. Adorato dai fan, ha dato il via a una serie infinita di nuovi gadget legati al franchise, soprattutto dedicati all’ingresso in famiglia dell’amabile pupazzo di Tiffany. All’epoca erano celebri le figures di McFarlane Studios della serie “Movie Maniacs” e le miniature di Chucky e Tiffany troneggiavano nello stesso “case” da collezione, onnipresenti alle fiere del fumetto di tutta Italia per anni. La nuova coppia ha inoltre rilanciato la saga dopo il non riuscitissimo terzo capitolo, diventando di fatto il “Tokyo Drift“ della saga. Anche in questo caso il regista, Ronny Yu, ha origini asiatiche, come Justin Li, per amore di analogia. Dopo La sposa di Chucky il franchise di Bambola Assassina, guidato per lo più da un Don Mancini che oltre a scrivere e produrre decide di mettersi anche dietro la macchina da presa, si è espanso ulteriormente di bambolotti e  ha goduto di quattro nuovi seguiti, un reboot (di cui vi abbiamo offerto già la recensione QUI)e ora una serie Tv tutta sua nel 2021. Ronny Yu, poliedrico regista di Hong Kong, dopo La Sposa di Chucky dirige nel 2003 il folle Freddy vs Jason, crossover delle saghe di Nightmare e Venerdì 13, che anticipa di un anno Alien vs Predator diretto da Paul W.S. Anderson e tutta una serie di amatissimi/odiatissimi crossover che arrivano fino ad oggi. In ragione dei risultati “divisivi” di quel primo versus a tema horror, nonostante sui forum da anni e anni si chieda un re-match o una royal Rumble che coinvolga tutti i babau cinematografici (di fatto un’idea spesso accarezzata dai Netherrealm per un videogame, in parte soddisfatta con alcuni personaggi di questo genere inseriti nella loro serie Mortal Kombat... il molto hanno chiesto ai tempi di Mortal Kombat X una skin di Ferra-Tor a tema Chucky), Ronny Yu è tornato in oriente a girare il wuxia storico. Prima Fearless, con protagonista Jet Li, poi il più recente Saving General Yang. Ma i due bambolotti hanno portato fortuna anche ad altri, come Chaterine Heigl, che dopo l’esperienza con Chucky è entrata nel cast fisso del telefilm Grey’s Anathomy e per qualche anno è stata uno dei “nomi caldi” di Hollywood, specie nelle commedie romantiche. La bella Catherine ha fatto un percorso se vogliamo simile (ma non altrettanto fortunato) a quello di Renee Zellweger, che aveva cominciato a farsi notare con Non aprite quella porta IV, che di fatto è la versione “Sposa di Frankenstein” del franchise, stesso film ispiratore della Sposa di Chucky. Brad Dourif, la storica voce del bambolotto Chucky, grazie all’evoluzione del personaggio di questa pellicola continua tuttora a imperversare nel 2021 nella nuova saga tv, con tutto il sarcasmo e spietatezza con cui ha dato vita all’amato bambolotto. Nel reboot del 2019 il nuovo Chucky “di natura tecnologica” aveva la voce di Mark Hamill, amato interprete di Luke Skywalker nel franchise di Star Wars, ma anche voce storica della versione a cartoni animati di Joker, il celebre cattivo di Barman. Un confronto tra due voci così legate a “villain mattacchioni” e i due rispettivi Chucky, entrambi di plastica ma uno frutto del voodoo e uno tecnoimpazzito, sarebbe qualcosa di interessante e potrebbe dare vita a un nuovo film Versus. Qualcuno dovrebbe richiamare Ronny Yu. Ma la vera sorpresa della pellicola è la sorprendente, ironica e generosa Jennifer Tilly, che da allora apparirà tanto come voce che fisicamente in ogni capitolo di Bambola Assassina, confermandosi come un delle più amate Scream Queen di sempre. Conosciuta al grande pubblico per Bound - torbido inganno delle sorelle Wachowski, dove sfoggiava uno dei corpi più atomici mai espresso dalla storia del cinema, ne La Sposa di Chucky e seguiti (ma anche in Bugiardo Bugiardo affiancando in una particina Jim Carrey) dimostra di essere anche una interprete super divertente e autoironica. 



(Il femminile nell’horror) La sposa di Frankenstein del 1935, sempre figlio dell’immortale e seminale Frankenstein di Mary Shelley, è un classico senza tempo, amatissimo, copiatissimo, capace di rivivere anche in diverse saghe horror e sci-fi in forme nuove. Il Focus narrativo di quel celebre sequel Horror era far riflettere il pubblico su un punto di vista diverso, nuovo e imprevedibile, da proporre una volta che la figura del “mostro/uomo” era già nota, delineata. Il punto di vista non è solo “sul femminile”, ma ha anche connotazioni “di scopo”. Una volta che il successo venne consolidato, appariva evidente il numero infinito di variabili narrative che questo schema poteva declinare. Quando il mad-Doctor dà vita alla sua prima creatura fa in un certo senso una “prova generale”, seleziona “pezzi più facili da reperire” da materiali che considera robusti e fa uso di una tecnologie sperimentale. Quando crea “la donna”, il mad Doctor ha in genere già capito cosa funzionava e cosa no nel primo tentativo, sceglie pezzi pregiati, punta a far rivivere una persona a lui vicina e amata e non “un tizio qualsiasi”, cercando di salvarne la personalità. In questo atto creativo del mad-doctor secondo qualche psicologo c’è la pulsione maschile repressa di poter procreare al posto della donna, mentre secondo qualche filosofo c’è l’aspirazione della scienza a prendere il posto della religione. Quando la creatura/donna prende vita, accade un vero big bang nella psicologia di questo ulteriore personaggio. La donna può ri-svegliarsi al meglio come in una resurrezione biblica, ma può pure distruggersi in poco tempo rigettando i nuovi organi, con la trama che può andare su classici temi del cyberpunk (Come in The Bride of re-animatorn e Alita). Differentemente, la donna può diventare pazza/indemoniata o voler uccidere il suo creatore per il peccato “a Dio e al suo corpo” da lui realizzato, con trame che si muovono sul campo mistico o psicologico (come in Cimitero Vivente). Ulteriormente, in certi casi, può svilupparsi un triangolo amoroso con al centro il rapporto che si crea tra la creatura/donne e la creatura/uomo. La donna può voler “scappare con la creatura/uomo” o viene trascinata a farlo o pensa di doverlo fare (e andiamo sul sociologico, sul concetto di famiglia e di diverso). Gli sceneggiatori ne hanno fatto un autentico filone e la “sposa di Frankenstein” è diventata un personaggio anche più interessante; qualche volta la creatura nasce con la tecnologia, qualche volta con la magia, qualche volta la trasformazione è magari di matrice “psicologica“, ma il succo è quello. Ne La sposa di Chucky di Ronny Yu abbiamo due personaggi che sono al contempo mad-doctor e creature, ed è qualcosa di abbastanza unico. Sono entrambi mad Doctor da due soldi, che riescono a creare la vita usando un manuale di istruzioni “For dummies”,  ma comunque è un manuale che funziona!! Dovrebbero fare un film in cui questo manuale esiste per davvero e tutti sanno usarlo, sarebbe fantastico. 



(Un amore di plastica) Una volta diventati “bambole”, i nostri eroi non si deprimono e continuano a fare quello che facevano prima, forse perché sono entrambi per natura degli assassini efferati e quindi già di base “dis-umani”. Ma il bello arriva quando la coppia, proprio per il fatto di stare insieme “nella stessa forma” e condividere una pur malatissima e disfunzionale relazione sentimentale, inizia a sviluppare una propria compatibilissima sessualità. Con tanto di organi nuovi, originariamente, come le pile, non presenti nella confezione del bambolotto. Assistiamo così a scene di “sesso tra bambolotti“ che in seguito vedremo in modo similare (nel senso di “buffo“, senza andarci ad infilare in tane del bianconiglio di cui non vogliamo conoscere la profondità...) in Team America di Tray Park, del 2004. Allo sputare della sessualità consegue anche una sensibilità inaspettata, compresa la possibilità prima preclusa di poter piangere. È una bella trasformazione, che “colpisce” maggiormente la nostra Tiffany, quasi al punto di farne una anti-eroina. Ma questo accade, anche se con effetti iniziali  deboli, ma  molto interessanti sul lungo corso e nelle successive pellicole, pure a  Chucky. Anche Chucky evolve. Diventerà prima un “love interest” per Tiffany più passabile, in quanto almeno “complice”, per poi quasi sembrare idoneo a essere un... ma sto già facendovi spoiler su Seed of Chucky, che tratteremo in seguito ed esplorerà ulteriormente  l’(a)sessualità  dei bambolotti. 

(Bimbo Bello e Bimba Bella). Sono ancora di moda oggi, questi pupazzi? Non è che i giovani preferiscono Annabelle o Brahms? Il personaggio di Chucky è “granitico”, si auto definisce anche nel film un “classico intramontabile”. Appare esteticamente come un “modello di bambolotto” vintage, da grande distribuzione, anni ‘80, con le batterie che gli permettono qualche parolina, i capelli pettinabili, il vestitino con la salopette di jeans, la maglietta rossa e le scarpette da ginnastica. Più “Baby mia” che “Cicciobello”, per gli addetti ai lavori. Tiffany è invece esteticamente all’inizio una bambola da collezione vestita da sposina. Una bambola “virginale”, elegante ma non appariscente, un “oggetto limitato“ fatto per i matrimoni. Ha i capelli pettinabili, un vestito curato da sartoria e confrontata a Chucky è giusto della stessa scala e con un similare design. Il bello è che quando Tiffany si impossessa di quel corpicino di plastica ci aggiunge il giubbetto in pelle, fa la tinta ai capelli, mette smalto e rossetto neri. Tiffany diventa una bambola “esclusiva” che sembra uscita dal merchandising del musical Greese. Sembra Rizzo. Poteva essere una bambolina goth come quelle che vanno di moda oggi, mezza Zombie, un po’ cucita male, un po’ maledetta. Ma Tiffany sceglie un look da musical di fine anni ‘70, di fatto reinterpretato da Madonna negli ‘80 per Like a Virgin. È una interessante prospettiva di stile vintage. Come è interessante che durante il film il bambolotto di Chucky venga descritto continuamene come una “cosa vecchia” e per bambini. Nonostante Chucky abbia le graffette in testa, lo sguardo da pazzo e il vestito pieno di cuciture a vista, non viene mai guardato dai personaggi in scena come un giocattolo “horror”, cioè una Ultra-limited  per nerd. Tiffany e Chucky strizzano l’occhio agli anni ‘80 come esponenti originali di quel periodo e io lo leggo un po’ come un modo affettuoso di Don Mancini, lo sceneggiatore storico, per definire i veri fan di Bambola Assassina, il pubblico cui è rivolto. Autentici amanti delle chincaglierie del passato, nostalgici dell’horror slasher semplice e diretto “che fu” e che forse era già a fine dei novanta oltre il tempo massimo. Tra vecchio e vintage c’è un che di affettuosamente malinconico in tutto questo film, a partire dal fatto che Tiffany non sia una ragazzina ma una milfona. È un film per adolescenti post-datati. 



(Commento finale) La sposa di Chucky è un film veloce, super-canonico nella forma ma pieno di guizzi interessanti. È una Black Commedy più che un horror, ma non mancano azione, inseguimenti, colpi di scena e tante scene splatter, seppur sempre tanto esagerate da sembrare fumettistiche. Si arriva alla fine e si vorrebbe ricominciare. Jennifer Tilly è un amore in ogni folle manifestazione di Tiffany, che faccia la bomba sexy o la donna gelosa o la killer spietata. Si vede che si diverte un mondo e ha una dose infinita di autoironia a cui attingere. Ma la cosa più sorprendente sono i pupazzi di Tiffany e Chucky insieme, per il fatto che spesso non ci ricordiamo che siano in effetti dei pupazzi “anche se sono palesemente dei pupazzi”. La tecnica artigianale con cui sono realizzati è sorprendente e regge benissimo il tempo. Il cast vocale italiano non fa rimpiangere quello originale, ma vi invito alla doppia visione. Catherine Heigl sfoggia tutta la collezione di faccette imbronciate che manda in sollucchero i fan, anche se qui è ancora un po’ acerba. Il resto del cast è abbastanza funzionale al ruolo, ma una menzione la merita John Ritter, il simpatico protagonista della sit-com Tre cuori in affitto, in un ruolo un po’ diverso dal solito.

La sposa di Chucky è un piccolo e divertente film di una piccola e divertente saga per appassionati. È l’occasione più ghiotta per diventare fan di Chucky in attesa di seguire le sue nuove gesta e recuperare tutti i film. Aspetto un po’ incasinato, il recupero, specie per le pellicole intermedie precedenti a Seed of Chucky, che speriamo qualche editore di buona volontà vorrà considera seriamente in una raccolta in alta definizione. 

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