sabato 24 ottobre 2020

Banksy - l’arte della ribellione: la nostra recensione in anteprima del documentario al cinema solo il 26,27,28 ottobre

 

È nato nel 1974 a Bristol, secondo Wikipedia. La sua vera identità è sconosciuta, ma è uno dei massimi esponenti della Street Art dei nostri tempi. Muove i primi passi nella sua città, seguendo la “seconda ondata” di una florida e acclamata corrente di writers tra le cui file militava il celebre Robert “3D” De Naja, futuro leader del gruppo musicale Massive Attack. Arte e sociale si fondono creando una sinergia che il piccolo Banksy apprende seguendo nelle incursioni gli artisti più grandi. Passa presto dai graffiti agli “Stancil”, disegni a bomboletta realizzati con l’uso di mascherini in cartone che ne delineano già le forme. È una tecnica che permette di lavorare senza essere scoperti troppo in fretta, in quanto sembra all’esterno l’attività di chi affigge dei manifesti, ma al contempo richiede una grande preparazione in studio per la creazione dei materiali. Banksy fonde gli stili, diventa il massimo esperto di questa tecnica. Apprende quanto più possibile dai massimi maestri internazionali come Blek le Rat, coniuga presto la rapidità e clandestinità dei writers con una forma d’arte in grado di fare critica e satira del territorio e della politica. Un modo per regalare una risata ai passanti nella grande cornice urbana, arte gratis per tutti. Dona vita ai muri di Bristol attraverso una serie di murales popolati da scimmie pensose, topolini intenti a segnalare qualcosa di rotto, poliziotti alle prese con piccoli monelli, bambine con palloncini. Arriva a portare al British Museum le sue opere, appendendole abusivamente. Poi scoppia come fenomeno e diventa “virale”. Decide di vendere la sua arte a tutti, in tutte le forme, utilizzando in modo sapiente i media. Lo spirito è quello di avere per clienti chi non avrebbe i soldi per comprare abitualmente dei quadri, creando litografie per degli eventi nel periodo natalizio. Poi inizia a creare dei veri percorsi artistici, spazi in cui dipinge anche su animali vivi (rigorosamente con prodotti non pericolosi per gli animali), decide di valorizzare il museo locale e si getta in imprese sempre più grandi, trattando temi sempre di più vasta scala: le guerre, le disuguaglianze e i molti “muri” che circondano le persone. Ma che in fondo sono ottime tele per la sua arte. In breve diventa uno dei principali comunicatori artistici del nuovo millennio, crea esposizioni internazionali di grande successo, porta nel mondo la sua arte in molte forme e tecniche diverse, come un albergo trasformato in opera d’arte a Betlemme, arriva a interessare i collezionisti di Hollywood come i “Brangelina”, Jude Law. Fino a che, momento scelto dal documentario per iniziare la narrazione, un suo quadro viene battuto all’asta di Sotheby per una somma folle. È una riproduzione di uno dei suoi murales più noti, La bambina con il palloncino, opera le cui copie anni prima vendeva come “arte per tutti” realizzate nei sottotetti di Bristol, realizzandone una decina di copie in pochi minuti, proprio grazie alla tecnica degli stencil. Ora, 6 ottobre 2018, la vende con una particolare è strana cornice, viene battuta per un milione di sterline. Ma appena il martelletto assegna la vendita parte un meccanismo a distanza. La cornice si trasforma in un distruggi-documenti e La bambina con palloncino inizia a uscire tritata in linee verticali verso il basso, fino a che qualcuno non ferma la distruzione a metà. È una vendetta sul prezzo dell’arte, sul fatto che anche se periodicamente vende ancora le sue litografie a due lire in un evento “per tutti”, c’è qualcuno che il giorno dopo le rivende su ebay al triplo del prezzo. Senza parlare di chi decide di vendere i muri cittadini stessi dei suoi lavori. Risultato? L’opera è stata rivenduta a due milioni di dollari e oggi Banksy sta utilizzando i suoi soldi per intraprendere azioni su più vasta scala, come comprare una nave e l’equipaggio necessario per aiutare i migranti nel mediterraneo. 



Chi è quindi Banksy? 

Un artista di strada che “fa il palo” per i writer più grandi di Bristol, mentre riempiono di colori un edificio abbandonato, che diventa capofila di un movimento artistico e politico, per poi diffondere la sua arte nel mondo e sovvertire ogni regola precostituita sul commercio dell’arte, diventando icona e fonte di ispirazione per molti. Il soggetto ideale per un film, in quando la storia artistica di Banksy è così sorprendente e multiforme che sembra incredibile, è eccitante, trasgressiva. Elio Espana, che produce, scrive e dirige questo Banksy - l’arte della ribellione è un documentarista esperto, che ha narrato la vita di Prince, Bob Dylan, The Grateful Dead, Robert Plant, Stevie Nicks, gli Smiths e tanti altri musicisti, si è dedicato a musical come Hamilton e alla storia criminale. Il suo film sull’arte di Banksy ha un montaggio veloce, molta ironia, offre una lunga e accurata descrizione delle sue imprese più celebri. Si avvale delle interviste di molti artisti ed esperti d’arte e soprattutto ritrae al meglio le opere, davvero bellissime sul grande schermo, grazie alla fotografia di Peter Lowden e David Sampedro e all’accompagnamento dalla colonna sonora di Pete Weitz. 

Banksy - l’arte della ribellione è un documentario da seguire dal primo all’ultimo minuto, un compendio indispensabile per approcciare il vasto mondo dell’artista di Bristol e uno degli appuntamenti immancabili in questa asfittica, traballante ma in qualche modo eroica stagione cinematografia di convivenza con il Covid. 

Talk0

giovedì 22 ottobre 2020

Dragonero il ribelle n. 11: La spada verso il cielo - la nostra recensione

 


 La spada verso il cielo è il simbolo della ribellione, Trademark registrato, e in questo numero 11 di Dragonero il curatore della testata, Luca Barbieri, vi insegnerà a disegnarlo con un simpatico Art Attack a pagina 4! Avete preso penna, foglio e colla vinilica? Forza, è il momento di realizzare tanti bei disegnini in giro per le smemorande! 

Riposti nell’astuccio matita e pastelli colorati, ci aspetta invece un numero antologico di cento pagine, diviso in tre racconti, che ci aggiorna sullo stato di alcuni dei nostri amatissimi eroi in giro per l’Erondar a fare baruffa. 

Il primo racconto, da pagina 5 a 35 è quanto di più atteso da tempo da grandi e piccini: la felice reunion tra Gmor e Sera. In un momento di pausa dallo squartamento degli imperiali, la giovane elfa oscura, sempre in piena adolescenza ribelle, scende per un attimo dai mille uccelli volanti sui quali si trastulla per riabbracciare il petto peloso di mamma Gmor. Tutto il mondo è paese, pure quello Fantasy. Gli elfi non sono più quelli di una volta, trovano le peggio scuse per troncare una relazione, prima tra tutte: “Non piaceresti a mamma”. Anche i valiedarti che si dichiarano “moderni“ ti piantano dopo una vita insieme, a pulire notte e giorno il villino di Solian,  per la prima donna dell’est Erondar, bionda, più giovane e guarda caso già incinta dopo un mese. Un attimo di consolazione reciproca, un po’ di schermaglie nei confronti della nuova e antipatica colf elfica stile A spasso con Daisy e poi via verso nuove avventure, nello specifico quella che va da pagina 36 a 68. 



Rehka il rasta e Yannah la barbara, che nell’universo dragoneriano stanno per notorietà dalle parti della Skrull Kill Crew per l’universo Marvel, hanno finalmente una loro fantastica avventura! Andando in cerca di una pinta in una vecchia birreria chiusa dopo il Cov... chiusa dopo i tumulti imperiali, i nostri eroi incontrano una specie di Bart Simpson elfico che si dichiara amicissimissimo di Ian, anche se non sembra noto a nessuno, esattamente come loro. I tre faranno zuffa con delle guardie imperiali per tante belle pagine con botte da orbi, in attesa di trovare almeno una birretta nel posto più vicino, mentre da pagina 66 a 98 ci aspetta la terza avventura. Più emozionante di Linea Verde, più “estremo” di Rai Nettuno “speciale Mesopotamia”, Alben lo stregone esplora con la vampira Aura, che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte insieme ai lettori, la sede segreta dei luresindi. Tra muri di parole infinite ed edifici illustri di un passato glorioso carichi di capitelli, guglie e preziose librerie amanuensi, il dinamico duo prima incontrerà altri noiosissimi luresindi, poi finalmente si imbatte in qualcuno con cui menarsi, dei fichissimi supercattivi che faranno furore nei prossimi numeri. Qualcosa di nuovo (i nuovi maghi), un gioco (la scazzottata per la birretta) e del cioccolato (le coccole tra Gmor e Sera). Questa la ricetta kinder vincente di questo nuovo numero di Dragonero. Un numero che il buon Vietti usa per pianificare meglio e ingrossare la trama in vista di eventi futuri, divertente e vario, anche se debitrice del classico, e già sperimentato più volte nella testata e speciali, complesso del “tris di primi”. Come capita in tutte le trattorie fantasy e non, il temibile “tris di primi“ permette di godere della varietà della cucina, con lo scotto di una porzione bonsai delle specialità più ambite e magari la presenza, una su tre, di un piatto che non fa impazzire. Vorremmo in sintesi e per opinabilissimi gusti personali, stare più tempo con Gmor e Sera, conoscere un po’ di più il Simpson elfico e lasciare che Aura si sorbisca Alben  e la sua puntata di Rai Storia “off-screen”. Ma effettivamente c’è chi potrebbe volere più Alben, meno Simpson e più Sera. Il tris di primi contenta e un po’ scontenta tutti, seguendo la formula gastronomico/alchemica dei 2/3 di gradimento garantito, ed è un po’ quello che capita felicemente con questo numero. Ai disegni un bel manipolo di autori, Cristiano Cucina, Giuseppe De Luca, Fabrizio Galliccia e Vincenzo Riccardi. Nella prima storia tra le molte e dettagliate scene di combattimento aereo, vince per me il bel momento dopo la battaglia, nella calma della natura, di pagg. 18-20. Così come le pagg. 32-33 riescono a trasmettere una perfetta sintesi emotiva, che rende speciale e autentico il rapporto tra Sera e Gmor. Il secondo racconto si apre a pagina 38 tra la pioggia scrosciante che avvolge spettralmente un borgo notturno e carica il lettore con la spettacolare sequenza action di pagg. 50-57. Il terzo racconto da pagina 68 ci porta in un luogo pieno di architetture spettacolari e infiniti dettagli da scoprire uno per uno, fino a che irrompe la splash page di pagina 76, che anticipa lo scontro mistico (“in salsa copertina psichedelica dei Supertramp” come direbbero i 7 lettori delle mie recensioni) che arriva da pagina 86 a 92. Molto fico.

Un altro bel numero della testata, avanti così! 

Talk0

mercoledì 14 ottobre 2020

Lockdown all’italiana - la nostra recensione!

 


Secondo il Corano “merita il paradiso chi fa ridere i suoi compagni”. Per un proverbio ebraico: “come il sapone per il corpo, così fa la risata per l’anima”. Ridere deve far bene, come direbbe Lord Byron, che oggi sarebbe un po’ sconcertato per il film di Cats: “Ridi sempre quanto vuoi, è una medicina gratuita”. Edgar Watson Howe, pensando al rimpianto di non ridere abbastanza diceva: “Se non impari a ridere dei problemi, non avrai nulla da ridere quando sarai vecchio”. 

Ridere allarga il nostro mondo. Per il Dottor Seuss, padre della narrativa di infanzia: “Da lì a qui, da qui a lì, le cose divertenti sono ovunque”. Per la psicologa Jean Houston “al culmine di una risata l’universo viene gettato in un caleidoscopio di nuove possibilità”.  

Andiamo sui filosofi. Lao Tsu diceva: “Non appena hai fatto un pensiero, ridi di esso”. 

Friedrich Nietzsche, fosse poco incline alle risate per molti, diceva: “Dovremmo considerare ogni giorno un giorno perso, se non abbiamo ballato almeno una volta. Dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non l’abbiamo accompagnata almeno da una risata”.  

“Anche gli dei amano le barzellette”, sosteneva Platone, seppellendo in un colpo tutti i musi-lunghi di ieri e di oggi. Qualcuno dovrebbe farci una t-shirt, scriverlo su tutte le pagine di internet.

Ridere non è de-ridere, minimizzare, sfottere, negare. Ridere è vivere nella misura in cui permette di soprav-vivere, di guardare al di sopra i problemi, da un punto di vista diverso, ragionandoci, facendo autocritica. I problemi si superano con le risate, e se queste non hanno abbastanza “spinta” per rivoluzionare il nostro mondo, permettono comunque ai nostri meccanismi interni di agire. Il solo ridere produce endorfina e questo ci fa stare meglio. Per Carolyn Birmingham “un sorriso inizia sulle labbra, un sorriso si allarga sugli occhi, una risatina proviene dal ventre. Una bella risata scaturisce dall’anima, trabocca e bolle dappertutto“. 

Se ridere fa bene, dovrebbe essere un diritto. Il diritto alla felicità, che credo che riguardi anche la libertà di ridere, è arrivato ad essere quasi un Diritto Costituzione, nel 2019, come proposta di revisione dell’articolo 3. Ma dal 2019 ad oggi cosa è successo? La pandemia, la peste del nuovo secolo. Qualcosa di poco divertente. 



Si può ridere di una malattia, specie se grave, magari senza uscita? L’attrice comica Gilda Radner non aveva dubbi: “Il cancro è probabilmente la cosa più spietata del mondo. Ma io sono una comica. Persino il cancro non potrà impedirmi di ridere di quello che ho passato.” Il dottor Madan Kataria constatava: “Non ho visto nessuno morire di risate, ma conosco milioni di persone che stanno morendo, perché non stanno ridendo”. Vi consiglio l’ottimo sito di Lara Lucaccioni, dove troverete queste e altre citazioni, nell’articolo del 2018 “frasi e aforismi sulla risata”. 

Ma visto che il Covid 19 è una malattia così contagiosa, ancora senza cura, che ha necessitato per contenerla delle leggi che hanno ristretto per il bene comune le libertà individuali, si può riderci sopra? Il rischio, dicono gli esperti e molti giornalisti, non è che “sminuendola troppo“ venga avvertita come meno pericolosa di quello che è? Il rischio di riderne “adesso”, dicono i politici, non è vanificare i sacrifici del Lockdown (una reclusione volontaria, ma sanzionata in caso di violazione) del distanziamento sociale (un rimedio terribile, inumano, aberrante), dell’indebitamento del paese (che ricadrà già su due generazioni) per sostenere l’economia? Ridere “di questo momento storico”, pur delle piccole ipocrisie e senza giustamente evocare i drammi veri, mentre lo stiamo ancora drammaticamente vivendo, non può essere comunque nocivo “per la salute e ordine pubblico”? 

Domande non semplici, ma che sembrano per molti spegnere sul nascere ogni possibilità di far ridere, almeno per ora, anche di cose come i monopattini. Come reagiscono a ciò gli artisti grafici, i registi, i cantanti? Per molti (forse per troppi) non si può ridere delle leggi sull’uso o no delle mascherine, non si può ridere sugli assembramenti, del rincaro dei prezzi, non si può ridere sulle opinioni divergenti dei virologi, non si può ridere sulla solidarietà europea, non si può ridere sulla mancanza di tamponi o mascherine, non si può ridere sui politici, sull’informazione, sull’immigrazione, sui runner, sui monopattini... Non si può ridere, dell’attualità. Ci rimangono gli “audaci”, chi lotta per la satira e ha la forza di parlare di tutto, sempre con il massimo rispetto di chi ha sofferto, come il disegnatore satirico Hurricane Ivan. Di cui sta per uscire il divertentissimo Cronache dal Virus per Eris Edizioni. Ma non è da tutti, per motivi personali quanto esterni, immagino. Per i più rimane la possibilità malinconica, fino ad ora non contestata, di ridere “del passato”, riguardare vecchi film, come quei ragazzi di Boccaccio che per dieci giorni, in un medioevo afflitto dalla peste, si trovarono in un casale isolato a raccontarsi storielle “fuori dalla quotidianità”, ma che racchiudevano ciò che l'umanità non avrebbe dovuto perdere, i valori e lo “spirito” che si sperava la peste non sarebbe riuscita a cancellare. Come fece nel 2001 Hardball di Brian Robbins, uscito all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Un film sul baseball e l’inclusione sociale, temi storici e cari all’America, che riempì le sale in un momento in cui tutti i film erano stati rimandati per la paura del terrorismo. La gente aveva bisogno di normalità ed Hardball era la giusta elegia americana per riproporgliela, in un momento in cui la società (e la socialità) sembravamo in frantumi. Se un film sul baseball poteva riportare nelle sale gli americani, forse un cinepanettone poteva ripetere il miracolo per gli italiani. Riuscire a ridere di un difficile presente o cercare una risata consolatoria nei classici del passato o nella fantasia. Questo è il problema. 




Come si pone quindi Enrico Vanzina, figlio di “Steno” e fratello dello scomparso Carlo, che pure in questo Lockdown all’italiana non dimentica di ricordare, tra gli schermi delle televisioni accese nelle case in cui si ambienta la pellicola, i grandi film della commedia all’italiana del passato? Tra spezzoni di Ecceziunale veramente, Sapore di Mare, I nuovi mostri, passando anche per il remake americano di Profumo di Donna, seppur nel piccolo schermo, fanno così capolino Alberto Sordi, Abatantuono, Calà, Gassman, mentre Vanzina sembra, almeno a livello più superficiale, una farsetta che per le restrizioni logistiche delle riprese sotto la pandemia ha il sapore di un atto unico teatrale. Ma Enrico Vanzina cova qualcosa, vuole offrire qualcosa di diverso, vuole rompere degli schemi. Purtroppo si ha la triste sensazione che non gli riesca. 

Quattro-cinque attori in tutto, in scena massimo 3 per volta per distanziamento sociale. Ambientazione limitata a due appartamenti mentre all’esterno una Roma deserta causa lockdown è fotografata dal cielo dai droni. Quasi impossibilità di creare scene di azione o gag fisiche. Una bella sfida. La storia che mette a confronto una coppia altolocata, composta da Ezio Greggio e Paola Minaccioni, con una coppia che vive in periferia, formata da Ricky Memphis e Martina Stella. Il pretesto che innesca la vicenda è che le coppie stanno per scoppiare per una questione di corna, mentre lo Stato Italiano dichiara il lockdown per Covid, costringendole ad una convivenza forzata fino a nuovo ordine. Avranno a che fare con lo smart working, le code ai supermercati, le multe per gli spostamenti, gli incontri virtuali, la difficoltà a sopportarsi a vicenda.  

Il personaggio di Ezio Greggio dovrebbe richiamare i “commendatori erotomani” di Guido Nicheli e Renzo Montagnani. Paola Minaccioni è sulle orme dei personaggi aristocratici e arcigni di Luciana Calandra e Franca Valeri. Martina Stella sarebbe il perfetto sogno erotico che nella commedia sexy anni '70 starebbe insaponata sotto la doccia, spiata da Bombolo o Vitali da un buco della serratura. Ricky Memphis potrebbe essere il classico ragazzotto romano un po’ ingenuo dei primi Verdone. 




Tutto però è ipotetico, i caratteri dei personaggi non graffiano, l’azione non ingrana anche per il “distanziamento sociale”. Martina Stella viene disinnescata da un modo di fare cinema che oggi non prevede docce, salvo incorrere in sessismo e la natura “birichina” del personaggio è ulteriormente castigata dalle regole Covid che rendono impossibili agli attori tutti i tipi di contatti fisici. Ricky Memphis e la Minaccioli, che pure aggiornano quelle maschere comiche citate all’epoca dei siti per appuntamenti e alle chat del cellulare, non riescono a dialogare in sinergia, forse anche perché gli attori devono recitare sempre a distanza sociale e gli spazi di improvvisazione sono minimi. Ezio Greggio si smarca dai “commendatori anni 70/80”, gioca con poca convinzione il ruolo del mattatore e soprattutto diviene voce dell’anima fragile, inaspettatamente e catastroficamente meta -drammatica, della pellicola. Greggio si carica della frustrazione di Vanzina nel voler fare un film in cui si ride e riflette di questo periodo, senza avere le convinzioni/autorizzazioni giuste per farlo. 

Eccolo il nocciolo della questione, la scena che fa di Lockdown all’italiana un film per certi versi unico e forse interessante a un'analisi futura.

Ci troviamo sulla terrazza panoramica della casa dell’avvocato che interpreta Greggio. C’è una ragazza avvenente e la Minaccioni che hanno appena scoperto che Greggio è un “cazzaro”. Greggio parte con un monologo in cui dice che è contento di essere un cazzaro, perché questo è il suo ruolo positivo per immaginare il mondo, mentre ci sono in questo momento delle persone che soffrono e si sentono senza speranza. È un urlo di dolore che scappa dal personaggio senza che fino ad allora ce ne fossero le premesse. Un monologo in cui parla la necessità di essere un comico in un momento come questo, insieme alla frustrazione di non poterlo fare fino in fondo. Greggio peraltro non riesce quasi mai a far ridere durante tutta la pellicola, ci prova ma è agitato da questo tormento, i panni del suo commendatore/avvocato che può solo parlare del fatto che è un cazzaro, quando ogni possibilità di fare satira è di fatto uccisa sul nascere, gli stanno stretti. Dove Greggio risulta naturale e a suo agio è in una scena in cui suona il piano, mentre gli altri interpreti sono tutti in silenzio, con la Minaccioni che sul terrazzo cerca di accarezzare una bandiera italiana. Poi si gira pagina, si torna a far finta che siamo in una farsetta di fine anni ‘70 ma senza docce, quando al campanello di casa di Ricky Memphis suona Riccardo Rossi, che interpreta il vicino di casa. Forse il ruolo più bello. Rossi invita Memphis a “sfogarsi”, a liberarsi con lui delle sue frustrazioni. Poi è lui ad aprirsi e nel modo più dolce e diretto dice di avere paura di questo periodo. Ha paura di rimanere solo, ora che la persona che amava non è più con lui. E’ allora il film riesce anche a commuovere. Poi la farsetta continua, sempre più sfilacciata e stanca. Con gli attori che sono costretti a tenere tra loro le distanze e indossando sempre più con difficoltà i loro ruoli. 

Lockdown all’Italiana è un tentativo maldestro, ma sentito, di fare cinema in Italia adesso, con le regole e la paura del Covid che aleggia ancora nell’aria. La trama gira su se stessa più volte, si avverte il disagio generale della situazione, la comicità trattiene in modo solo posticcio l’anima ingarbugliata e tormentata dell’intero progetto. Non avere più in futuro film girati con il distanziamento sociale come questo potrebbe per me essere già un ottimo deterrente, sprona davvero a mettersi la mascherina per limitare il contagio. Magari anche due. 

Ma comunque apprezzo l’incoscienza e fragilità con cui questo piccolo film dell’epoca Covid ha provato, pur fallendo, a farci ridere. 

Talk0

sabato 10 ottobre 2020

Drive Angry - la nostra mini recensione!


Cercavate una recensione di Drive Angry, il pluripremiato film con il più grande attore di tutti i tempi? Cercavate qualcosa di diverso e non troppo lungo? Eccovi accontentati!

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Talk0 e Gianluca

venerdì 9 ottobre 2020

Il caso Pantani, l’omicidio di un campione - film evento speciale al cinema solo il 12, 13 e 14 ottobre. La nostra recensione!

 


Ricordo Pantani che volava in bici davanti al Santuario di Saronno, durante il Giro d’Italia. Stava a tre metri da me ed era come vedere Superman dal vivo. Ho ancora nel cuore quell’immagine tra i ricordi più cari. Tornava in bici dopo un grosso infortunio, che aveva affrontato con grande senso dell’umorismo cantando la sigla di un programma sportivo di Italia 1. Era al massimo, erculeo e sorridente come un eroe greco, come Alberto Tomba, la gente era travolta dalla sua carica. 

Marco Pantani, “il pirata”, è entrato nel cuore di milioni di persone, sapeva essere indimenticabile. 

Poi Pantani è stato “ucciso”, più volte. Prima a Madonna di Campiglio nel 1999, per uno scandalo dai contorni ancora confusi, che gli troncava la carriera al suo apice con già in tasca a un paio di tappe la vittoria del Giro, con una giustizia sportiva che ha giudicato a senso unico, alla ricerca del “caso esemplare per combattere il doping”, senza ascoltare repliche, come ai tempi delle inquisizioni. Poi c’è stato lo scandalo mediatico, con tutti i giornali contro di lui con tale violenza a senso unico, un tale livore, che da allora la Gazzetta dello Sport non è più entrata in casa mia. Non sono mai stati cattivi quanto con Pantani con nessuno, nemmeno con Armstrong. Dopo di che il pirata è morto ancora, cadendo in una depressione che ne ha corroso l’animo, incrinando gli affetti, portandolo a negare se stesso e ad avvicinarlo alle brutte frequentazioni. Un giorno è morto del tutto, a Rimini nel 2004, a San Valentino,
in una vicenda ancora non chiara, e già un minuto dopo la stampa lo uccideva di nuovo, interpretando gli eventi come il “normale decorso di una vita sbandata già nota dal 1999”. I fan hanno sempre continuato ad amarlo e difenderlo, anche perché il pirata ha sempre combattuto, si è sempre rialzato nonostante tutto, proprio come fanno i veri eroi. Ma anche perché c’erano troppi conti che non tornavano, sia a Madonna di Campiglio che a Cortina, “conti“ documentati da una lunga serie di atti ufficiali misteriosamente dimenticati in qualche cassetto.


Il film, scritto e diretto da Domenico Ciolfi, è costruito sulla base di un lungo lavoro di ricerca che ha coinvolto persone che conoscevano Pantani, quanto esperti in materia giuridica e medici. Non c’è solo la ricostruzione storica dei momenti più difficili della vita dell’atleta, non c’e solo un’analisi sul lato umano e degli affetti, ma anche la possibile interpretazione degli stessi alla  luce della enorme documentazione raccolta e spesso ignorata negli anni, che oggi proprio grazie al film può portare a una nuova visione d’insieme che possa portare a una riabilitazione dell’uomo. Ciolfi costruisce quindi un film unico con tre “anime”.  È documentario, per la presenza di spezzoni di telegiornale. È un film drammatico-biografico per la scelta di raccontare Pantani attraverso l’utilizzo di attori che mettono in scena momenti raccontati da chi lo ha conosciuto, prima di tutti la mamma Tonina. È infine una ricostruzione innovativa dei fatti di Madonna di Campiglio e Rimini, ad uso della magistratura, per poter riaprire i fascicoli archiviati. 

Come in Io non sono qui di Todd Haynes, il protagonista è narrato attraverso l’uso di più attori. C’è un Pantani giovane interpretato da Marco Palvetti, un Pantani del periodo di Madonna di Campiglio interpretato da Brenno Placido, un Pantani del periodo di Rimini interpretato da Fabrizio Rognone. In un gioco di specchi continuo, favorito da una narrazione che sceglie il montaggio alternato sovrapponendo più piani temporali, ognuno degli attori riflette una sfumatura diversa dell’immagine del campione, fisica quanto emotiva. Come contrappunto a questi tre Pantani, che diventano 4 considerando il vero attore presente nei filmati d’epoca, Monica Camporesi interpreta sia Christine, la donna a lungo amata, quanto Helena, la donna che lo ha accompagnato negli ultimi anni. Pantani nel film confonde Helena con Christine, rivivendo un momento della sua vita più felice, e lo spettatore cade nello stesso abbaglio, si perde in nuovi specchi e riesce a empatizzare ulteriormente. È una scelta di casting affascinante, supportata dalla presenza di attori come Giobbe Covatta e Francesco Pannofino che sanno rendere ulteriormente frizzante la narrazione, anche se il piatto forte del film risiede nella maniacale ricostruzione storica che arriva a riportare le frasi degli inquirenti, fino a sviluppare, specificando che si tratta di una ricostruzione possibile, una versione diversa dei fatti. 

Un lavoro di ricostruzione encomiabile per coerenza, plausibilità e impegno. Un docu-film imperdibile per tutti i fan di Pantani, anche se si basa principalmente per scelta sugli “omicidi”, sui momenti più dolorosi della vita dell’atleta, al posto che soffermarsi sui molti momenti sportivi e umani più felici. Sogno un film sul tour de France, sul confronto tra Armstrong e il pirata, tappa dopo tappa, dove si senta fatica e velocità. Ma è giusto raccontare anche questi duri momenti della vita di Pantani, perché si faccia luce su quei fatti e stimolare chi di dovere a intervenire. Anche se alla fine si esce di sala un po’ con il magone. 

Talk0