martedì 31 gennaio 2023

Profeti: la nostra recensione del film di Alessio Cremonini con Jasmine Trinca e Isabella Nefar

 


Siria, giorni nostri. Sara (Jasmine Trinca) è una donna sui quarant’anni, non sposata e non credente. Fa la giornalista e ogni giorno indossa un giubbetto antiproiettile e a bordo di un furgone, con un paio di guide e un cameraman al seguito, attraversa il deserto per raccontare la realtà delle zone di guerra. 

Una mattina, dopo aver visitato una chiesa distrutta, Sara è a Kobane insieme alle combattenti curde. Una donna soldato le racconta di come il conflitto con gli estremisti non finirà mai, a meno che non si arrivi a un cambiamento culturale importante, una rivoluzione che deve partire proprio dalle donne. Quella stessa notte Sara è di nuovo nel deserto quando due veicoli affiancano il furgone dei reporter e li catturano. Dopo averla imprigionata in un luogo segreto e averle coperto il volto, il capo degli estremisti si presenta a Sara. È sicuro che non sono giornalisti, sa che tra di loro ci sono delle spie e non li lascerà fino a che non arriveranno delle confessioni. È disposto a farli a pezzi. Sara cerca di convincerlo per molti giorni, ma senza esito. Viene tenuta in una specie di magazzino fatiscente pieno di sabbia e adibito a fortino, dove in una stanza isolata è costretta a dormire per terra e orinare contro i muri. Una mattina sente che gli estremisti vogliono farla fuori, ma la realtà è diversa: “Una donna non può dormire in un posto dove ci sono gli uomini”. Così Sara viene mandata a stare da Nur (Isabella Nefar), la moglie di un mujaheddin, in una casetta poco distante, che condividerà con altre donne. Può vivere per ora con loro, aiutarle con le faccende domestiche, dormire in un letto, mangiare la cioccolata e fare i propri bisogni in un vero bagno. Proprio mentre Sara è al bagno scopre un’apertura nella parete, dietro un mobile, dalla quale può vedere oltre il cortile. Lì si trova il suo cameraman, rinchiuso in una gabbia a cielo aperto, con una guardia che ogni tanto gli allunga del cibo. Lei è stata più fortunata. Nur è una ragazza giovane e gentile, ha vissuto anche a Londra e le parla correttamente in inglese, ma non si è mai sentita integrata in Occidente, l’hanno sempre squadrata come una persona “cattiva”. Ovunque andasse non era accettata. Da quando si è sposata e si trova in Siria, Nur si sente invece davvero felice. Passa il giorno tra le preghiere, la cura della casa e del suo uomo, sogna un futuro con dei figli e sostiene una battaglia che ritiene importante, qualcosa che porterà a un mondo migliore. Sara è per lei una persona strana. Nur non comprende il suo non essere credente o non avere una famiglia. Trova strano che la giornalista cerchi di “comprenderla senza giudicarla”, le faccia continue domande “sulla libertà”. Nur quelle domande non le capisce, perché è proprio seguendo la sua religione che si sente davvero libera. I giorni passano un po’ tutti uguali, scanditi dagli orari delle preghiere e il timer del forno, il bucato e le visite sporadiche del marito della ragazza. Oltre la soglia della casetta si avvertono sempre spari e scoppi e la sera la corrente si interrompe sempre fino alle prime luci e ai canti dei muezzin. Sara inizia a pensare che la stanno cercando di manipolarla in qualche modo, perché Nur parla spesso di lei con chi comanda, anche se non comprende quello che si dicono. Il suo futuro è sempre più incerto, ma dopo tanti giorni pensa che in fondo ci si può abituare a tutto. Fino a che gli estremisti non decidono la sorte del suo cameraman. 


Alessio Cremonini scrive e dirige la sua terza pellicola dopo il successo di Sulla mia pelle del 2018. Ancora una volta sceglie un film che affonda nella realtà odierna, spigolosa quanto complessa. Una realtà attuale anche se magari sfugge ai telegiornali, che viene però raccontata oggi da voci interessanti come quella del fumettista Zerocalcare (nelle opere di graphic journalism Kobane Calling e No sleep till Shengel), come dal regista Jafar Panahi (Gli orsi non esistono). Cremonini cerca di descrivere questa realtà con uno sguardo attento, disincantato quanto quasi documentaristico. Tenendo conto della voce e del punto di vista di ogni suo personaggio, sospendendo ogni forma di giudizio di parte e lasciando che la trama si srotoli lentamente, in modo quasi invisibile, scandendo i ritmi del quotidiano. Vengono mostrati e descritti i singoli momenti di preghiera della giornata di un musulmano ed è qualcosa di interessante e arricchente, che il cinema spesso non rappresenta. Non viene nascosta l’atrocità di una guerra che pone fine alla vita di persone giovanissime, su tutti i fronti. Si riesce soprattutto a parlare con estrema naturalezza e onestà della vita di due donne, culturalmente molto diverse quanto intimamente simili, che si trovano nella singolare circostanza di condividere la stessa casa in una situazione-limite. È una convivenza che giocoforza scava oltre le etichette di “nemico”, “infedele”, “persona libera”, portando a un confronto dialettico tutto al femminile che progressivamente spoglia le due protagoniste di ogni sovrastruttura. La scrittura di Cremonini con garbo arriva a toccare dei nodi nevralgici, sociali quanto emotivi, su cui effettivamente si può costruire un dibattito relazionale quanto multiculturale nuovo, proficuo. Rimane un film crudo, dove la guerra e la pressione psicologia legata al conflitto è sempre presente, anche se tenuta al di là “della bolla”: oltre il piccolo mondo di Sara e Nur. Non mancano scene forti e disturbanti, da puro thriller se non da horror psicologico, che in qualche modo sottolineano l’urgenza di un dialogo come come quello che va a instaurarsi, nel bene e nel male, tra Sara e Nur. 

Straordinarie, davvero bravissime, entrambe le interpreti principali. Jasmine Trinca e Isabella Nefar dimostrano di avere trovato una grande intesa sul set e questo le ha permesso di dare corpo a due donne che sanno essere forti quando fragili, piene di dubbi quanto determinate a “sopravvivere”. Nemiche che nonostante tutto possono sembrare amiche. Molto “ruvida” quanto realistica la fotografia. Ben strutturato il ritmo narrativo, che si mantiene sempre alto e interessante. Un film che sa intrattenere e riflettere, che conferma il talento di un regista che a ogni prova si dimostra sempre più bravo. 

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lunedì 30 gennaio 2023

Il primo giorno della mia vita: la nostra recensione del nuovo film di Paolo Genovese

Roma, in una notte piovosa e malinconica dei giorni nostri.  

La ginnasta Emilia (Sara Serraiocco), il giovane youtuber Daniele (Gabriele Cristini), la guardia giurata Arianna (Margherita Buy) e il motivatore/life coach Napoleone (Valerio Mastandrea) hanno qualcosa in comune: hanno tutti provato a togliersi la vita lo stesso giorno. Solo che nel momento stesso in cui hanno preso questa decisione gli è apparso uno strano signore anziano con il cappello (Tony Servillo), che gli ha chiesto di dargli sette giorni di tempo per cambiare idea. Sette giorni in cui saranno suoi ospiti all’Hotel Columbia e potrebbero girare sulla sua station - wagon, ad ammirare cosa faranno i loro cari dopo la loro morte e il modo come la vita continuerà senza di loro. L’uomo anziano con il cappello è forse un angelo vestito da passante, ma non è il solo. Per le strade di Roma si aggira anche una fascinosa donna dai capelli rossi (Vittoria Puccini) che gestisce un simile hotel con simili ospiti speciali. I due si conoscono, potrebbero essere amici o rivali. 

I quattro durante la settimana potrebbero vedere i loro amici, visitare i luoghi della loro scomparsa, ragionare sulla loro condizione e su cosa li abbia davvero convinti fino in fondo a compiere quel gesto o magari anche solo rilassarsi. Potrebbero pure andare al loro funerale, per vedere di nascosto l’effetto che fa. Di “nascosto” perché di fatto i quattro saranno in uno stato simile a quello dei fantasmi, nel quale nessuno li vede, non possono mangiare o bere un caffè, non possono nemmeno fumare e, forse, nemmeno farsi del male. Una condizione tragica ma che potrebbe apparire anche confortevole. Daniele dopo essere diventato famoso su YouTube è perennemente perseguitato dai bulli e vorrebbe ora solo “restare” invisibile. Arianna dopo la morte della figlia Olivia non ha più alcun interesse nelle relazioni con le altre persone e anzi teme che con il tempo potrebbe dimenticarsi di lei: la cosa che più la farebbe soffrire al mondo. Emilia dopo le mille volte che è arrivata seconda in una gara non accetta di guardarsi più allo specchio. Specie da quando dopo l’ultima caduta è costretta su una sedia a rotelle. Napoleone non sa di preciso perché ha voluto scomparire dal mondo gettandosi di notte da un ponte dopo aver guardato nell’acqua scura. Ha passato la vita a risolvere i problemi degli altri ma forse non ha mai capito i suoi. Riuscirà lo strano uomo con il cappello a convincere i quattro di quanto il mondo sia meraviglioso? In fondo, come potrebbero non accorgersi quelle persone di quanto il mondo è meraviglioso? Forse devono operare giusto un cambio di prospettiva. 

Se è vero il detto: “Abbiamo solo due vite e la seconda inizia quando capiamo di averne solo una”, qualcuno di loro adesso potrebbe cambiare idea. 


Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovesi ha una atmosfera rarefatta e malinconica simile a quella del quadro “The Nighthawks” (I nottambuli, del 1942) di Edward Hopper. Un quadro che ritrae persone misteriose in un bar notturno (ci sono anche un uomo con il cappello e una donna dai capelli rossi che parlano insieme, come Servillo e la Puccini nel film), al di là del quale non c’è luce, la città è spenta. È interessante come un’altra opera di Edward Hopper, Automat (tavola calda, del 1927), sembri invece descrivere un uomo solo al tavolo di un altro bar, simile a quello in cui “operava” Valerio Mastandrea in The place, il precedente film di Genovese. Edward Hopper dipingeva la solitudine e la disillusione del sogno americano. I suoi dipinti hanno ispirato migliaia di autori che si sono domandati più volte nel tempo: “Chi sono veramente le persone ritratte? Qual è la loro storia e quali i loro segreti? Quale ruolo giocano nella società?”. Domande che stimolano dei “giochi di ruolo” (usati nei fantasy ma pure nella psicoterpia) che se vogliamo sono alla base di molto cinema recente di Paolo Genovese, a partire da Una famiglia perfetta, del 2012, in cui un ricco signore che soffriva di solitudine pagava degli attori per recitare la parte della sua famiglia felice. Un gioco di ruolo era alla base del suo più grande successo, Perfetti sconosciuti del 2016, che indagava sui segreti più profondi che un gruppo di amici nascondeva nella “scatola nera” del proprio cellulare, con il gruppo di partecipanti al gioco che ricercava negli altri una “doppia faccia” o un “doppio ruolo”. The place era poi un vero e proprio thriller a incastro multiplo dove il ruolo di ogni personaggio si svelava e ridefiniva più volte, in base al percorso che veniva giostrato per loro da una sorta di “burattinaio”, che se usiamo il gergo dei giocatori del role-game Dungeons&Dragons potremmo definire “dungeon master”. Anche nel film Supereroi, del 2021, Genovese indagava sulla “identità segreta” di una giovane coppia, domandandosi quanto possa complicarsi il ruolo di coppia e poi di genitori, sulla base dello sviluppo di un “modello ideale” che non può in realtà esistere, se non sulla carta, sui fumetti. Con Il primo giorno della mia vita, il regista invece spariglia formalmente le carte, andando a raccontare di persone che di fatto hanno rinunciato a un qualsiasi ruolo nel mondo, facendola finita. O se vogliamo possiamo attribuire loro  “il ruolo di chi non può più avere un ruolo”. È un tema interessantissimo, che Genovese non banalizza specie nello sviluppo del personaggio di Napoleone, ma che non basta da solo a far risplendere nell’insieme la pellicola, che va incontro a un paio di problemi complicati. 

Il primo problema è il “magico”, l’elemento fantasy. Il film ha una componente magica strabordante, carica di personaggi secondari misteriosi, regole di comunicazione e contatto tra vivi e non vivi, regole di contatto con gli oggetti, regole che possono essere palesate e regole che devono rimanere segrete. Se da un lato Genovese solleva i personaggi dal logorio della vita terrena per fare in modo che possano riflettere sulla loro esistenza con calma e totale tranquillità, dall’altro apre il manuale delle creature di Dungeons&Dragons e sommerge i personaggi con tutte le regole dello status di “fantasma”. E visto che siamo in Italia tutte queste regole sono soggette a interpretazioni ed eccezioni infinite che giocoforza hanno un grosso peso a livello di minutaggio nella trama. Minutaggio che viene sottratto allo sviluppo dei quattro personaggi, di cui alla fine purtroppo non veniamo a sapere molto nonostante la prova convincente di tutto il cast. Sarebbe stato utile per lo meno sviluppare la metà dei personaggi o strutturare l’opera in un’ottica più lunga come serie tv. 

Il secondo problema è il confronto inevitabile che questa pellicola può avere con uno dei più grandi classici della storia del cinema: La vita è meravigliosa di Frank Capra, del 1946, con James Stewart. Rileggere Frank Capra nello stile ludico/psicanalitico di Genovese è una scelta coraggiosa, anche perché il regista non cede del tutto alle regole della favola e sa infondere nell’opera la giusta malinconia e cinismo proprie di molte sue opere precedenti. Solo che è una battaglia troppo scoperta e che Paolo Genovese avrebbe giocato meglio con un approccio più defilato, magari “enigmistico”, magari battendo una strada più vicina a Una pura formalità di Giuseppe Tornatore, del1994, con protagonisti Gerard Depardieu e Roman Polanski. Purtroppo la misura e la grazia del capolavoro di Capra sono irraggiungibili. Ma tanto di cappello per averci provato. 

Il primo giorno della mia vita è un film interessante e dal carattere internazionale  come sono tutti interessanti e dal carattere Internazionale i film di Genovese. Bravi gli attori e buona la fotografia e l’atmosfera generale, che fanno sembrare visivamente l’opera vicina a un quadro di Edward Hopper. Quando il regista riesce a dedicare il giusto tempo ai personaggi, questi riescono a  brillare di luce propria, come nel caso del ruolo di Mastandrea. Quando il tempo è più esiguo rimangono un po’ abbozzati. La gestione dell’elemento fantastico è da rivedere o contenere in uno sviluppo narrativo che non la comprima troppo. Tra pregi e difetti è un film comunque godibile, a tratti commovente e ricco di idee originali, confermando Paolo Genovese come un autore da tenere sempre d’occhio nel panorama del cinema italiano. 

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domenica 29 gennaio 2023

Decision to Leave: la nostra recensione del nuovo film dell’autore di Old Boy, Park-Chan Wook, con protagonisti Park Hae-Il e Tai Wei

 


Siamo in una grande città della Corea del Sud dei giorni nostri. Il più giovane Ispettore della prefettura centrale è l’investigatore Jang Hae-Joon (Park Har-Il), un uomo scrupoloso quanto accorto, coraggioso e ligio al dovere quanto sensibile, empatico. Un uomo che per tutti avrebbe fatto tanta strada. Le indagini hanno portato Jang Hae-Joon a occuparsi di una giovane ragazza di origine cinese sospettata di omicidio, che di professione è un’infermiera che assiste degli anziani, Song Seo-Rae (Tai Wai). L’ispettore la torchia sorvegliandola giorno e notte assiduamente, fino a dormire in macchina sotto casa sua. Ma senza mai apparire invadente, senza mai giudicarla e mostrandosi anzi carino in ogni circostanza. Anche quando deve interrogarla alla centrale, l’ispettore si ritaglia del tempo per pranzare con lei nell’ufficio delle indagini, ordina il migliore cibo da asporto e alla fine le porta pure uno spazzolino, monouso, per lavarsi i denti. Per Song Seo-Rae è un comportamento da uomo gentile e “di altri tempi”, simile agli eroi degli sceneggiati in costume della televisione che segue per imparare il coreano. Un uomo decisamente migliore di quello che era suo marito: un funzionario dell’immigrazione manesco e corrotto che parlava tutto il giorno solo della sua unica passione: la montagna. Gli aveva voluto bene quando lei era diventata l’oggetto principale del suo lavoro: quando aveva fatto accertamenti su di lei dopo che da immigrata clandestina era arrivata in Corea su una nave, rischiando la vita. Ma quell’amore si era presto spento. Da una montagna infine era caduto, forse spinto da qualcuno o forse “caduto da solo”, suicida, per il senso di colpa di essere stato colto con le mani nel sacco per delle somme di denaro illecite. 

La donna appare all’ispettore sollevata e attenta, mentre lui le racconta le dinamiche della morte. Vuole vedere le foto delle rilevazioni, ascoltare ogni dettaglio, fare domande e deduzioni. Song Seo-Rae per Jang Hae-Joon  possiede un modo di pensare simile al suo, in grado di seguirlo nei medesimi percorsi mentali. Forse lei può capirlo più della moglie e  magari aiutarlo nel suo lavoro. Un giorno l’ispettore arriva a mostrarle le foto di alcuni casi su cui sta indagando e la donna effettivamente gli fornisce lo spunto per trovare un assassino. Per Jang Hae-Joon di sicuro non può  essere lei la colpevole dell’omicidio del marito: è una donna intelligente, troppo onesta e gentile, che la sera si occupa di vecchietti e di giorno guarda in tv sceneggiati per imparare una lingua che mastica ancora poco. La comunicazione tra i due è stimolante anche per via di questa differenza linguistica. La donna quando deve esprimere dei concetti complessi parla in cinese, con un programma di traduzione del cellulare che successivamente traduce ogni frase in coreano con una voce meccanica. Spesso trovano utile e rapido scambiarsi dei messaggi scritti e vocali, che però riascoltano e conservano, cercando di capire “le parole più complicate” che nella rispettiva lingua non esistono. Diventa presto un rapporto modo simile a una relazione epistolare, con  la voce meccanica del traduttore vocale che ogni tanto si pone tra i due come “nuncio”, come un valletto che riferisce le comunicazioni negli sceneggiati in costume. Ogni tanto i due fantasticano immaginandosi vestiti con degli abiti tradizionali. Sembra amore. Poi l’indagine prende una piega strana e l’ispettore viene mandato in esilio nella provincia, dove l’incarico più eccitante  sembra occuparsi dei furti di testuggini marine compiute da degli estemporanei ladri in bici. 


L’ispettore sembra caduto in una profonda depressione e la moglie lo sente sempre più distante, così evanescente da essere poco interessante. Poi però un giorno, al mercato, quella sospettata di origine cinese torna nella sua vita. Cercando di ricucire una relazione dai contorni sempre più strani, inquietanti, quasi impossibili. Una relazione che per lei può  essere possibile e appagante solo se l’ispettore tornerà ad avere nei suoi confronti le stesse attenzioni che le dedicava quanto la riteneva colpevole di omicidio, quando era l’oggetto principale del suo lavoro. 

Il regista Park-Chan Wook, torna nelle sale con un thriller psicologico con protagonisti la magnifica Tang Wei (che ha esordito nel 2007 in Lussuria di Ang Lee) e il divo Park Hae-il (che abbiamo visto in Memorie di un assassino, di Bong Joon-ho). È una storia che all’inizio sembra portarci nei territori di Attrazione Fatale e Basic Instinct, ma che presto vira e prende la forma di un elegante e raffinato, ma anche parecchio surreale, gioco platonico sullo stile di In The mood of love di Wong Kar-Wai. Un In the mood of love quindi “fieramente targato” Park-Chan Wook, pervaso dalle sue tipiche invenzioni visive folli e dal suo animo narrativo metamorfico. È un film che nel raccontare questa strana relazione sentimentale passa con grazia e sprezzo del pericolo dal thriller all’action, dal dramma sentimentale al comico e infine arriva al melodramma “enorme e simbolico/pittorico”, senza perdere mia una sua identità e anzi rendendo i personaggi sempre più interessanti e sfaccettati. Sul campo delle invenzioni visivo/narrative accennavamo sopra al peculiare “linguaggio” misto cinese/coreano che la coppia cerca di incastrare in un continuo “lost in translation”, attraverso traduttori vocali e messaggi registrati (che è qualcosa di molto originale e affascinante), come abbiamo accennato alla passione dei due per gli sceneggiati in costume, ma il regista non si limita certo a questo. Veniamo lanciati in un caleidoscopio fatto di omicidi in free climbing (con indagini in free climbing tra il realistico e il surreale), testimoni/vecchietti reticenti amanti di una stessa canzoncina tradizionale (“La nebbia”, che sentiremo più volte), tartarughe di mare rapite che mordono, guanti in maglia di ferro per gli scontri all’arma bianca che sembrano in dotazione standard nella polizia coreana. Poi una marea di “passioni strane”. La passione strana per gli spazzolini monouso (che magari in Corea è una cosa normalissima portarsi in tasca pronti all’uso degli spazzolini monouso verdi), la passione strana per il burro cacao a uso erotico (da usare per metterlo sulle labbra del partner), la passione strana per gli strumenti di rilassamento per il sonno stile bombole di ossigeno (…) e poi il top: quella serie di feticismi correlati che potremmo far rientrare nella categoria “feticismo del detective/indiziato”. Che è tutto un “annusarsi e ispezionarsi a distanza”: con l’ispettore che guarda il cestino dei rifiuti e si immagina l’indiziata che fa il the, con l’indiziata che quando parla al telefono se lo immagina come davanti a sé ma con la voce del cellulare, con i due che si mettono le manette per tenersi la mano come fossero anelli nuziali. Sono tutte idee che basterebbe per cinque film ma che il regista di Old Boy elargisce tutte insieme, dando alla pellicola un sapore tutto particolare che i due ottimi interpreti riescono a cogliere e gestire con gusto e originalità. Il film ha una durata sulle due ore, ma le continue sorprese messe in campo rendono la visione molto fluida, sempre in attesa di qualcosa di nuovo. Bellissima la fotografia, che passa dalle luci fredde della metropoli ai colori caldi/ tenui di un villaggio di provincia per arrivare al gelo di un mare notturno, rappresentato in modo quasi magico ed epico con onde giganti come nei quadti di Hokusai. 


Decision to leave è il nuovo film di un regista che ha una visione gioiosamente olistica del cinema e non vuole farsi incasellare, capace di passare dalla sua celebre Trilogia della vendetta (Mr Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta) al sexy horror vampirico (Thrist), a una  fantascienza  gentile (I’m a cyborg but It’s ok), al racconto erotico in costume (Mademoiselle), al noir americano Hitchcockiano (Stoker). Un esploratore dei generi che in ogni sua opera infonde “contaminazioni di genere” di ogni tipo, ardite quanto originali. Decision to leave continua questa gioiosa tradizione, riuscendo a coinvolgerci e sorprenderci con idee sempre interessanti e con un’ottima coppia di interpreti. Qualcuno vorrebbe Park-Chan Wook solo relegato “ai thriller”, specialmente dopo aver visto Old Boy e non avendo capito che in Old Boy c’erano dentro almeno sessanta generi di film diversi, tra cui il thriller. Noi siamo contenti che esistano ancora registi così ricchi di immaginazione e stile e non possiamo che consigliarvi caldamente la visione di questa nuova opera di Park-Chan Wook. Non vedrete più allo stesso modo delle manette, le dolci tartarughe marine e le buche sulla spiaggia che fanno i bambini. Questo è il potere del cinema. 

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sabato 28 gennaio 2023

Asterix e Obelix - Il regno di mezzo: la nostra recensione del nuovo film sui celebri personaggi di Goscinny e Uderzo, per la regia di Guillaume Canet e con Zlatan Ibrahimovic special guest star

 


Nel villaggio dei Galli più inespugnabile per l’impero romano, c’è aria di burrasca tra il piccolo e lesto Asterix (Guillaume Canet) e corpulento e bonaccione Obelix (Gilles Lellouche, che interpreta sullo schermo il primo Obelix “di carne e ossa” a non essere Gerard DePardieu). I due inseparabili amici hanno infine trovato un argomento sul quale non possono andare d’accordo: l’alimentazione. Asterix sta rinunciando, in favore della verdura, alla consueta dieta gallica a base di cinghiali giganti. Lo fa perché non si sente più giovane come una volta, perché fa bene e perché dovrebbe farlo pure l’amico. Per Obelix è un vero schiaffo morale, che potrebbe compromettere persino la loro coabitazione: stanno diventando troppo diversi. 

Se Obelix piange, Roma non ride e non se la passa bene neanche Cesare (Vincent Cassel), il cui rapporto con Cleopatra (Marion Cotillard) sembra essere arrivato a un punto morto. I sospetti sempre più pressanti dei possibili tradimenti della regina d’Egitto, in favore di uomini più giovani e forti, feriscono il suo ego grandioso e lo rendono malinconico. Servono a tutti nuove avventure per “pensare ad altro” ed è qui che arriva in soccorso l’estremo oriente. Del resto la Storia recente ha documentato che tra Roma e la Cina ci sono stati dei contatti. Così al villaggio gallico arriva la bellissima principessa Fu Yi (Julie Chen), in fuga dagli usurpatori al trono di sua madre, l’imperatrice (Linh-Dan Pham). Al suo seguito ci sono la guardia del corpo Tat Han (Leanna Chea) e il buffo e scontroso mercante gallo/fenicio Maidiremaix (Jonathan Cohen), con cui Asterix e Obelix intraprenderanno un rocambolesco viaggio per sistemare le cose. Sembra poterci essere del tenero tra Obelix e Tat Han, come potrebbe esserci del tenero tra Asterix e Fu Yi, anche se il piccoletto dovrà fare i conti con il gallo/fenicio per conquistare il cuore della principessa. Contemporaneamente, arriva a Roma un perfido emissario degli usurpatori cinesi di nome Perfidus (Vincent Desagnant), pronto a convincere Cesare ad allearsi con loro per governare la Cina. Cesare è tutto contento di andare a fare battaglia da qualche parte e insieme alle sue legioni schiera in campo alcuni dei suoi pretoriani più temibili, Epidemias (Ramzy Bedia) e Antivirus (Zlatan Ibrahimovic). Ci sarà presto un mega scontro nelle terre d’oriente tra arti marziali, falangi romane e galli che grazie a una pozione miracolosa sono quasi invincibili. Torna Asterix al cinema con gli attori “in carne ed ossa”, seguendo una tradizione ormai consolidata nel cinema francese. 


Guillaume Canet, che abbiamo molto apprezzato nel 2010 alla  regia della divertente e malinconica commedia Piccole Bigie tra amici (come nel suo seguito del 2019 Grandi bugie tra amici, recensito anche su questo blog), approda alla regia e come interprete principale, nel ruolo di Asterix. Il ruolo di Obelix è assegnato a un altro celebre interprete di Piccole Bugie tra amici, il fascinoso Gilles Lellouche, che di recente abbiamo apprezzato anche in L’uomo dal cuore di ferro e C’est la vie. Non è mai facile confrontarsi con i personaggi di Goscinny e Ederzo , che in Francia sono una vera e propria istituzione, ma Canet e Lellouche riescono a trovare sul set una buona intesa, rappresentando al meglio il divertimento e la follia dei due personaggi insieme a un cast di attori adeguato. Perfettamente a suo agio nel ruolo di Cesare Vincent Cassel e molto divertente il gallo/fenicio di Jonathan Cohen, che spesso riesce a rubare la scena perfino ad Asterix. La pellicola non vuole in alcun modo stravolgere l’amatissimo modello di riferimento, proponendo un intrattenimento semplice e genuino, carico di umorismo, giochi di parole e zuffe forsennate, in cui i due galli asfaltano da soli centinaia di legionari romani lanciandoli a pugni nella stratosfera. L’idea di aggiungere all’azione un po’ di arti marziali stile La tigre e il dragone è graditissima e funziona bene nelle molte e divertenti scene di zuffa, anche  grazie a una interprete marziale molto brava come Leanna Chea. Ma a sorpresa nelle zuffe riesce a risultare molto interessante anche l’Antivirus di Ibrahimovic, che nelle sue poche ma gustosissime scene adotta uno stile di combattimento simile a quello di Brad Pitt in Troy, tra Il Gladiatore e Captain America. Dopo questo antipasto vorremo davvero rivedere con piacere in future pellicole l’Antivirus Ibrahimovic. Il film di Canet diverte e scorre veloce, con un accompagnamento sonoro e un mood generale che sembra strizzare l’occhio al periodo degli spaghetti western. Molto divertenti i battibecchi continui tra Asterix e Obelix sul loro status di “eterni adolescenti” e celebrano un'amicizia che è davvero senza tempo. Adeguati anche gli effetti speciali, che risultano sempre buffi siano roboanti nell’applicare ai personaggi in scena una fisica degna di un cartone animato.

 Il nuovo Asterix di Canet è un film che celebra con amore ed eleganza i personaggi creati da Goscinny e Uderzo offrendo uno spettacolo scoppiettante quanto garbato adatto a tutte le età. Molto simpatici i protagonisti e la messa in scena. Sicuramente consigliato ai più piccoli e agli estimatori delle pellicole dal vivo di Asterix. 

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venerdì 27 gennaio 2023

The plane: la nostra recensione dell’action movie con Gerard Butler diretto da Jean-Francois Richet

 


Siamo sulla pista di decollo di un aeroporto dei giorni nostri. Ray Torrace (Gerald Butler) è il pilota di linea del Trailblazer 119, un piccolo aereo che prima di partire già si trova con tanti problemi. Il primo problema è che si tratta di un aereo vecchissimo e cigolante. Il secondo è che per l’aumento del costo del carburante il pilota dovrà seguire una rotta che punta al risparmio, in pratica cercando di usare le correnti ascensionali come un aeroplanino di carta, abbassando il comfort generale di bordo e stimolando una allegra “vomitarella”. Il terzo problema è che per questioni di pubblica sicurezza sull’aereo dovrà viaggiare un detenuto pericolosissimo di nome Louis Gaspare (Mike Colter), un super terrorista con competenze militari che neanche Rambo, accompagnato da una guardia con i nervi non troppo saldi che si è portato una pistola nel posto passeggeri ed è sempre attaccato al cellulare. Il meteo prevede un temporale spaventoso, ma non è una grande sorpresa nel contesto generale. È capodanno e il fatto di dover fare un volo di sei ore mentre tutti stappano lo spumante abbassa l’umore generale a bordo, con tutti che tirano fuori le foto di figli e parenti lontani o defunti, piangono, ricordano e innalzando al massimo il fattore “sfiga”. Ray, che è di origine scozzese e di scorza dura, su tutto questo “clima” ci scherza sopra: prima della partenza, al microfono, aggiunge che non ha mai volato su quel tipo di aereo e userà il libretto di istruzioni in tempo reale, andando per tentativi. Poi l’aereo incredibilmente decolla, ma ecco che arriva la tempesta, che incasina la strumentazione e costringe a volare sotto una nebbia che si taglia con il coltello. Ray schiva le onde di pioggia come si fa con il windsurf, mentre a bordo qualcuno inizia a sentirsi poco bene. Poi il pilota scozzese incappa in una pioggia di fulmini che neanche Mazinga e c’è poco da fare: l’aereo subisce un blackout totale a 40.000 metri. Tutti iniziano a volare male a gravità zero, con la guardia che per prendere il cellulare si slaccia la cintura e inizia a sbattere contro le cose e le persone, provocando delle vere tragedie. Un’ottima pubblicità progresso per chi oggi non riesce a staccarsi dal proprio telefonino, del tipo: ”la guardia sarebbe viva e vegeta se non si fosse distratta con il cellulare durante un incidente aereo, perché alla guida ci poteva essere Gerald Butler”. E infatti “Ray c’è”. Ray è calmissimo, quasi annoiato. Dice a tutti di non fare casino, sistema i comandi e le spie e stabilizza l’aeroplano fino a che si attiva il generatore di emergenza. Bisognerà atterrare da qualche parte fuori rotta ma va bene, la fortuna ha voluto che si trovassero sopra un isolotto. Un motore perde benzina ma va bene, perché c’è l’altro motore che va ancora. L’isolotto è pieno di alberi su cui schiantarsi male ma va bene, perché una stradina per appoggiare un aereo Ray la trova sempre e se non la trova scende, disbosca una foresta con un coltellino svizzero, risale e poi atterra. Così Ray atterra senza problemi, ma atterra su un isolotto pieno di terroristi dai tratti asiatici con i capelli lunghi e gellati come nel musical Hair. I terroristi rapiscono tutti ma va bene così, perché Ray era in quel momento da un’altra parte e insieme al detenuto/terrorista che pare Rambo, che dopo aver parlato con lui diventa mite e collaborativo, parte al salvataggio. Nel frattempo alla sede della Trailblazer cercano di capire che fine ha fatto l’aereo e mandare eventualmente dei soccorsi. Riuscirà la compagnia a salvare i passeggeri o ci riuscirà prima da solo Ray?


Il regista francese Jean-Francois Richet esordiva alla regia nel 1995 vincendo un premio César come miglior opera prima. Nel 1997 con la sua opera seconda raccontava il disagio e la rabbia dei quartieri poveri e multietnici di Parigi, prendendo spunto dalla celebre rivolta delle banlieues, con uno stile che è stato paragonato dalla critica al capolavoro di Mathieu Kassovitz L’odio. Poi scopriva il cinema di genere, in una parabola simile a quella di Lee Tamahori che sarebbe passato dal film di denuncia sociale Once were warriors ai film di 007. Dirigeva così nel 2005 il remake di Distretto 13 - le brigate della morte di John Carpenter, mettendoci dentro delle suggestioni della sua seconda pellicola, suggestioni molto simili a quelle presenti in una celebre pellicola action-futuristica prodotta da Luc Besson nello stesso periodo: Banlieue 13. Poi Richet tornava a raccontare un pezzo di storia francese con il dittico di film biografici sulla vita del gangster Jacques Mesrine interpretato da Vincent Cassel. Con Nemico pubblico n.1, Richter incassava ai Cesar il premio per la miglior regia (e Cassel il premio a migliore attore) e subito dopo tornava a all’action, dirigendo Mel Gibson nel 2016 nel ruolo di un gangster fittizio in Blood Father. Dopo 7 anni da Blood Father, Richet dirige The plane. 

L’attore scozzese Gerald Butler iniziava la sua carriera come attore teatrale, ottenendo una parte nel Coriolano di Shakespeare e poi in una trasposizione di Trainspottig. Esordiva al cinema in un film in costume diretto da John Madden nel 1997 e dopo alcune pellicole in cui avrebbe alternato adattamenti di Checov  (Il giardino del ciliegi del 1999) a film di 007 (sarà il cattivo in Il domani non muore mai) e dato vita a un interessante ma sottovaluto Dracula (Dracula 2000), nel 2001 riceveva lo Spirit of Scotland Award per il cinema. Il successo internazionale sarebbe arrivato però dal 2002 con un action, al fianco di Angelina Jolie: Tomb Raider la culla della vita. Butler da allora alternava ruoli leggeri a interpretazioni “di stampo più teatrale” come il musical Il fantasma dell’opera e il suo Leonida in 300. Poi passò dalla commedia e all’action, genere in cui divenne presto un nome di riferimento. Ma nel 2011 tornava di nuovo interprete in una rappresentazione del Coriolano, questa volta cinematografia, al fianco e per la regia di Ralph Fiennes (Coriolanus). Allo stesso modo, di recente nel 2018  è passato dalla serie action di successo Attacco al potere a un film intimista, quasi alla Eggers con The Vanishing - il mistero del faro (che di fatto ha anticipato di un anno The Lighthouse di Eggers, pellicola con cui ha tantissimi punti in comune a partire dalla fonte, una storia di cronaca di inizio ‘900 che ha ispirato anche Il faro di Edgar Alan Poe). Oggi Butler e Richet sono entrambi a bordo di The Plane, fortemente voluti dal produttore specialista in pellicole action Lorenzo di Bonaventura. Lorenzo di Bonaventura che esordiva alla produzione con Four Brothers, un film action di John Singleton: un altro regista che dai film impegnati come Boyz n the hood (1991) e Poetic Justice (1993), film di denuncia sulla condizione delle persone di colore in America, nel 2000 passava all’action proponendo la sua versione del personaggio-icona della blackspoitation Shaft, che sarebbe stato incarnato da Samuel Jackson. 


The Plane è a tutti gli effetti il perfetto rappresentante di un cinema leggero, volto al puro intrattenimento e all’escapismo. Una pellicola confezionata con cura e amore da persone che maneggiano la materia, si divertono a hanno deciso di offrirci un’oretta e mezza di botti ed esplosioni, una storia semplice e dritta da cui possiamo aspettarci esattamente quello che immaginavamo dal trailer. È un cinema quasi rilassante, con al centro un Gerald Butler che quando vuole è l’action hero rilassante per antonomasia. In Wolf Call, Butler guidava sottomarini atomici scendendo nelle profondità artiche per affrontare un nemico implacabile, sereno e sicuro, tenendo le mani incrociate. La stessa sicurezza che Butler ci trasmette in questo The Plane, in cui sappiamo che la storia finirà bene dal primo minuto in cui ci sediamo in sala con i pop corn, con la stessa tranquillità come ci siederemmo su un aereo pilotato da lui anche sotto la tempesta, anche in balia dei terroristi, anche nella bocca di Godzilla. Butler saprebbe affrontare ogni evenienza, magari togliendosi a un certo punto la divisa da pilota e imbracciando un mitra: andrà tutto bene. In un mondo in cui dire “andrà tutto bene” non è per niente scontato, nei film di questo tipo con Butler lo è. Sia Richet che Butler se vogliono possono raccontarci del disagio dei quartieri di periferia, quanto rappresentare Checov e Shakespeare, ma qui vogliono solo farci divertire. In questa semplicità il film riesce: la storia è perfettamente quadrata, gli stunt-man fanno il loro lavoro, i personaggi sono simpatici, il comparto tecnico audio e video è ben realizzato, le scene d’azione sono tante e divertenti, il finale è gioiosamente esagerato. Molto simpatico nel ruolo di Gaspare Mike Colter, un attore che pure lui, guarda il caso, ha esordito con Clint Eastwood per poi diventare il supereroe  Luke Cage nella serie tv Marvel. Preparatevi a un’ora e mezza di aeroplani che volano nella tempesta, pistolettate e “amicizie virili”. Un po’ come succedeva nei vecchi film di Bud Spencer e Terence Hill.  

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giovedì 26 gennaio 2023

Babylon: la nostra recensione del nuovo film di Damien Chazelle con Brad Pitt e Margot Robbie

 


Los Angeles, anni 20 del novecento. C’era una volta la grande Hollywood, nata e crescita come la massima espressione del potere del cinema sull’immaginazione. La pellicola era in bianco e nero e muta, con le sale cinematografiche che offrivano un accompagnamento sonoro a parte, ruspante, spesso con musica dal vivo. La narrazione di un film avveniva mediante dei testi che intervallavano le immagini su schermo e “riassumevano” quanto veniva mostrato a video, sospendendo di qualche secondo l’azione. Senza la necessità di dover dire delle battute e padroneggiare la dizione, agli attori cinematografici era richiesta una capacità recitativa che non andava oltre il sembrare a proprio agio nel gestire le emozioni 
sul quel video senza sonoro: potremmo chiamarla “intensità scenica”. Con pochi gesti, accennando con la bocca qualche parola e con uno sguardo appropriato, potevano apparire magnifici o seducenti, arcigni o tragici: perfetti modelli plastici impressi su una tela in nitrato d’argento. Volti in grado di carpire il tormento e l’estasi, l’ebbrezza e malinconia di una “vita di celluloide" che veniva creata dalla macchina da presa, scattando ventiquattro fotogrammi al secondo. 


Catturare o costruire un’immagine, magari la più estrema, ricca e roboante possibile, facendo uso di centinaia di comparse, esplosivi, ricche scenografie, cavalli, inseguimenti in auto, nani e ballerine, spade e fucili, draghi, regine e danzatrici del ventre, vampiri e clown. Era diventato questo in breve il lavoro di Hollywood: essere una fabbrica dei sogni che realizzava e vendeva al pubblico emozioni, stupore e adrenalina, commozione e risate che non avrebbe mai vissuto così “in grande”, in modo tanto spettacolare quanto definito. Il pubblico apprezzava e ne voleva sempre di più. In breve il  “successo” del cinema divenne per chi ne fruiva, come per chi lo creava, una sorta di “dipendenza” da quelle immagini lucenti, ardite, cariche di contrasti, passione e bellezza e caos. Al punto che i soldi che iniziarono a girare furono enormi, facendo sentire i produttori al pari di autentici re ed elevando gli attori a “divi”. Vivere una vita di eccessi, dentro e fuori dalla pellicola, era diventato per chi faceva parte del cinema uno status symbol da celebrare, in feste pantagrueliche degne degli imperatori romani, cariche di ogni eccesso e sfoggio di grandezza. Una grandezza che il giovane, volenteroso e squattrinato Manuel “Manny” Torres (Diego Calva) era sicuro di raggiungere, un giorno non troppo lontano,  anche quando come galoppino di un importante produttore era intento a spingere su una strada di montagna un veicolo in panne che stava precipitando a valle, con all’interno un elefante spaventato. L’animale, terrorizzato al punto da coprire Manny di escrementi e vomito, era l’attrazione principale di una grande festa che si teneva in una villa sulle colline dove ci sarebbero stati balli, sesso, alcol, musicisti e ballerine, divi e ricchi produttori. Alla festa sarebbe arrivata in cerca di fortuna anche la determinata e sorridente Nellie LaRoy (Margot Robbie), bellissima ragazzaccia di umili origini in vestito attillatissimo rosso fuoco, pronta a conquistare il suo primo ruolo d’attrice facendo sapientemente uso delle sue grazie. Sul posto era invece già arrivato e aveva già infranto un cuore il grande Jack Conrad (Brad Pitt), l’attore e sex symbol del momento: un tipo capace con la sua “intensità scenica” di risultare aggraziato e romantico in video, anche quando completamente ubriaco e assonnato. Tra i molti musicisti chiamati ad intrattenere gli invitati c’era il trombettista di colore Sidney Palmer (Jovan Adepo), che per seguire questi eventi mondani aveva lasciato i club di musica jazz. Come performer canora d’eccezione era presente un’artista eclettica, poetessa e autrice dei testi cinematografici (quelli tra una scena e l’altra), dall’aria esotica quanto misteriosa: madame Fay Zhu (Li Jun Li). Quella festa avrebbe cambiato la vita di molti, dando loro la possibilità di accedere a un mondo in cui chi aveva un bel viso e buona volontà poteva emergere, con un po’ di sana spavalderia e improvvisazione. I set erano dei piccoli mondi brulicanti di ogni tipo di umanità, intenti a girare senza sosta più film lo stesso giorno, con le comparse a cavallo che prima erano cowboy e poi guerrieri medioevali che vorticavano in massa davanti alle macchine da presa, tra esplosioni, vertenze sindacali, materiale di scena che si rompeva e qualche sinistra morte accidentale. Anche Nellie LaRoy scopriva sul set di essere in grado di avere una “intensità scenica”: riusciva a piangere a comando, da qualsiasi occhi le fosse richiesto. Presto divenne famosa come Conrad, diventando una beniamina dei rotocalchi a cui affibbiavano continui flirt. Ma il successo di quella Hollywood non sarebbe durato molto. Il giro di affari avrebbe stuzzicato presto l’interessante di gangster sinistri come James McKay (Tobey Maguire). Cinici giornalisti come Elinor St.John (Jean Smart) avrebbero stroncato anzitempo la carriera di divi “non più di moda”, padri-manager improvvisati come Robert Roy (Eric Roberts) avrebbero mandato in bancarotta delle stelle nascenti con infauste operazioni bancarie. C’era aria di recessione, guerra e razzismo, ma il “danno più enorme” per il cinema lo fece il sonoro. Non era più possibile recitare con la sola “intensità scenica”, occorrevano lo studio, la giusta dizione e la pazienza infinita di rifare più volte la stessa scena, nel caso che i primi rudimentali sistemi di registrazione audio non funzionassero a dovere. I set si riempirono sempre più di professionalità, di stress, di nuove morti accidentali, di personale ultra qualificato. Questo portò un forte mutamento, anche nelle vite stesse degli attori, produttori  e registi. Nel caos la necessità di gestire sul set una più rigida prospettiva di lavoro, dove lo spazio di scena, i microfoni e le luci non potevano essere spostati, favorì lo sviluppo soprattutto di un genere in particolare: il musical. Oltre alla necessità di doversi adeguare a questa nuova onda, si aggiunse un fenomeno imprevisto, strano quanto inaspettato: i film in cui i divi del muto per la prima volta parlavano non vennero capiti e accettati e poteva non essere solo una questione di dizione o mestiere. Era strano sentirli parlare, forse perché la voce di un divo era all’epoca già stata “immaginata” dagli spettatori nella propria testa, risultando qualcosa di molto differente dalla realtà. Era successo qualcosa di simile alla vecchia Babilonia biblica, in cui per punirli della loro arroganza Dio condannò gli abitanti a parlare delle nuove lingue, che li avrebbero costretti a non capirsi più tra di loro. Chi sarebbe sopravvissuto a questo drammatico avvento del sonoro? 


Damien Chazelle, il geniale regista e sceneggiatore di Whiplash, La La Land e First Man, torna al cinema con un film sotto tutti i punti di vista “gigantesco”, per celebrare al meglio la grandiosità e gli eccessi della Hollywood dell’epoca d’oro del muto. Ne è uscita una pellicola dalla durata poderosa di 195 minuti, costruita su macro-sequenze dal montaggio incrociato cariche di scenografie sfarzose, movimenti di camera complessi, numeri musicali onirici e satirici, scene d’azione con un esercito di comparse, effetti visivi a non finire, momenti intimisti quanto epici, sequenze fortemente sensuali come drammatiche, persino qualche excursus nel genere horror e non solo. Un mare magnum barocco che punta a una visione così olistica del cinema da soffrire di un mal celato horror vacui, ma che nonostante lo “stordimento” riesce sempre a trovare una sua grazia espositiva, affascinando tanto per la sua messa in scena magniloquente quanto per i ritratti dei suoi personaggi, umani quanto dolentemente realistici. Nella mega-festa Hollywoodiana che apre il film riecheggiano suggestioni visive e sonore che sembrano prese in prestito dalle opere di Fellini come dall’Underground di Emir Kusturica. Nelle caotiche scene sul set si avverte lo humor nero dei Monty Python, la sequenza con Tobey Maguire disegna un dantesco viaggio all’inferno che rievoca il calderone infernale di Melies quanto il Nosferatu di Murnau e quasi ci porta nel “futuro del cinema” dello slasher movie. C’è del western, nel modo in cui Manny cerca di risolvere una vertenza sindacale “importante”, come c’è un po’ del cinema crepuscolare di Viale del tramonto e naturalmente, come in quasi tutta la filmografia di Chazelle, è presente il musical. Un musical che viene dipinto ancora una volta, come in La la land, in una chiave aspra quanto malinconica, solare quanto ingannevole, con il regista qui intenzionatissimo a farci cambiare per sempre la percezione di uno dei più grandi classici della storia del musical. Rimango dell’idea che Chazelle abbia dei “conti in sospeso” con il genere musical, che andranno magari a manifestarsi ulteriormente nelle sue future pellicole. Babylon nell’antologico groviglio in cui si inerpica si trasforma progressivamente in una lettera d’amore al cinema vera e propria, sentita quanto sofferta, rivolta a “tutto il cinema” del passato, presente e futuro. Ma al contempo riesce a inquadrarsi perfettamente nella poetica di Chazelle, raccontando storie di personaggi le cui passioni si trasformano in ossessioni, spingendoli oltre i limiti verso spirali grandiose quanto autodistruttive. Guardando gli attori del muto di Babylon ritornano in mente l’insegnante e l’allievo di Whiplash, con i muscoli tesi e la rabbia pulsante con cui si confrontano e scontrano nella creazione del brano jazz definitivo, giocando nel campo dell’arte il tutto per tutto, a discapito della propria carriera e salute. Ogni tanto viene facile trovare similitudini con le atmosfere di C’era una volta a Hollywood di Tarantino, ragionando sui personaggi in parte speculari interpretati da Pitt e la Robbie in entrambe le pellicole, ma Babylon parla di “attori particolari”, se vogliamo più vicini a quelli descritti da Boogie Nights di Paul Thomas Anderson. Sono persone che vivono lo “stato incerto del successo”, catapultate nello star system un po’ per caso, magari solo perché hanno un bel viso o un corpo atletico. Persone con passioni e sogni che vengono elogiate e poi masticate dal sistema con pari indifferenza, come fossero pezzi di carne intercambiabili, da gettare via preferendogli persone più giovani o “più fresche”. Una realtà tragica per gli attori del muto di ieri, ma che potrebbe non essere dissimile oggi a quello a cui potrebbero andare incontro quelli che possono essere considerati per similitudine i “nuovi divi”, ossia le nuove generazioni di influencer resi noti dai social. 


C’è davvero “tutto” in Babylon.

È un’opera poderosa e complessa, ben strutturata nella messa in scena, con una colonna sonora travolgente, non a caso premiata con lode dalla critica. Davvero eccellente la come sempre bellissima Margot Robbie, impegnata in una continua sfida di bravura che trova l’apice in una scena in cui il suo personaggio è tenuto a ripetere la stessa scena una decina di volte.  Ogni tanto la sua Nellie ci ricorda nei tratti Harley Queen o la sua Sharon Tate, ma per ora va benissimo così, finché l’interpretazione della Robbie è così vitale, complessa e coinvolgente. Brad Pitt crea un Jack Conrad che per movenze e modo di esprimersi (almeno in lingua originale) sembra un parente stretto del suo tenente Aldo Raine di Bastardi senza gloria. I tempi di Troy in cui appariva ancora come un “dio dorato” (Almost Famous cit.) appaiono lontani ma Pitt sa farne tesoro, lavora su malinconia, umiltà e autoironia e non ha paura nel rappresentare la frustrazione di un attore famoso che scopre di non saper recitare.  Molto affascinanti i personaggi interpretati da Jovan Adepo e da Li Jun Li: il trombettista e la “poetessa del muto”. Ci raccontano il mondo degli “addetti ai lavori” all’ombra di Hollywood, che negli anni '20 erano spesso appartenenti a minoranze etniche provenienti da un tessuto sociale povero e in cerca di fortuna. Sono personaggi pieni di sfaccettature, valorizzate da alcuni dei dialoghi più interessati, e Chazelle li mette spesso al centro di meravigliosi momenti musicali. 

Malinconica e “bonariamente crudele” la giornalista interpretata da Jean Smart, a cui si deve il monologo più caustico e sofferto della pellicola, quello sulle “regole del successo”.

Tobey Maguire si diverte un mondo a recitare la parte del malavitoso dall’aria diabolica e non vediamo l’ora di vederlo su un set con Nicolas Cage in un ipotetico remake di Nosferatu. Più convenzionale del resto del cast il personaggio del bravo Diego Calva, che in tutto il caos della pellicola deve per forza di cose essere l’unico “normale”, la nostra guida in questo allucinato paese dei balocchi. 

Babylon ci ha sorpreso, travolto e rapito per 195 minuti che sono sembrati un attimo. Ottimi gli interpreti, grandiosa la messa in scena, da godere sul più grande schermo e con il miglior comparto sonoro che trovate in zona. Babylon è grande cinema e l’ennesimo, affettuoso, manifesto alla settima arte che esce nelle sale in questo periodo, tra One Second di  Zhang Yimou e Fabelmans di Steven Spielberg. Ogni tanto il cinema ha bisogno anche di parlare di se stesso, specie quando è sopravvissuto a una crisi importante come quella degli ultimi anni e anche per questo dobbiamo volergli un po’ bene. Gustatevi Babylon in sala, con il cellulare spento per tre ore e 19. Ne varrà la pena. 

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martedì 24 gennaio 2023

Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin): la nostra recensione del nuovo film drammatico di Martin McDonagh con Colin Farrell e Brendan Gleeson

 


Irlanda, 1923. Mentre dal mare riecheggiano le cannonate della guerra civile irlandese che si combatte nell’entroterra, ci troviamo sulla costa, nella piccola e “ipoteticamente pacifica” isola di Inisherin. È in questo posto sperduto che vivono il musicista Colm Doherty (Brendan Gleeson) e il pastore Padraic Suilleabhain (Colin Farrell). I due sono amici da sempre, metodicamente inseparabili al punto che alle due di ogni pomeriggio scendono al pub locale, prendono due birre e tirano fino alle due di notte, a chiacchierare e farsi compagnia. Padraic è un tipo segaligno sui quaranta che vive con la sorella Siobhan (Kerry Condon, vista anche in Better call Saul), ha l’aria mite e corrucciata ed è molto legato alla sua asinella, che tratta quasi come una bimba. Colm è un omone sui sessanta che sembra amare solo il violino e il suo cane, vive da solo in una casa diventata troppo grande, parla pochissimo ed è molto riservato. Due amici quando tra le anime di Inisherin c’è poco da scegliere, al netto di quei quattro o cinque ubriaconi del bar che parlano pochissimo e un paio di musicisti folk di passaggio. C’è la irritabile proprietaria della drogheria, che guarda tutti con i suoi occhi pungenti, fa continue domande, toglie il saluto se non hai sempre nuovi pettegolezzi da raccontarle, va in estasi quando ascolta storie cruente. C’è il viscido poliziotto locale (Gary Lydon), che ama compiere abusi sui deboli e gestire personalmente le esecuzioni pubbliche, perché poi gli offrono sempre il pranzo. C’è una vecchina inquietante dal sorriso sinistro (Sheila Flitton), che pare una strega ma anche “la morte” de Il settimo sigillo di Bergman: appare sempre di sorpresa da una zona in penombra, si muove spettrale lungo la costa, quando parla profetizza sventure o ricorda a tutti da quanti anni hanno perso i loro congiunti, citando ogni data di decesso con precisone assoluta. C’é il prete locale che giunge sull’isola la domenica su una barca, mite e bonaccione, ma con cui non è mai troppo facile aprirsi per gli isolani: fa domande troppo complicate e spinge le persone di parlare tra loro, entrambe attività “difficili”. C’è poi Dominic (Barry Keoghan), il giovane e dimesso figlio del poliziotto, che è un po’ stralunato ma di cuore. Di cuore un po’ come Siobhan, amante dei libri e dello sherry, che dovrebbe pensare più a se stessa a farsi una famiglia sua, lontana da quel posto. Forse Dominic e Siobhan se ne andranno un giorno da quell’isolotto, magari quando la guerra sarà finita o forse un po’ prima. Perché ora ad Inisherin è iniziata un’altra guerra, su scala più piccola ma non meno sanguinolenta, tra Com e Padraic. Il conflitto scoppia all’improvviso il primo di aprile, quasi fosse uno scherzo. 

Padraic, puntuale alle due, si presenta da Colm per andare insieme al pub, ma non lo trova in casa. La porta è chiusa, dalla finestra la poltrona del soggiorno su cui Colm è solito sedersi è vuota. Il pastore decide così di andare solo al pub, con tutte le persone che incontra nel tragitto che gli domandano quasi ossessivamente: “Perché non sei con Colm oggi? Non avrete mica litigato?”. Padraic beve da solo la sua pinta e solo dopo incrocia per caso l’amico, che non sembra intenzionato a parlargli per nessun motivo. Non è chiaro cosa abbia portato a questo mutismo e a questa distanza, che sembra farsi sempre più forte, ma dopo un paio di giorni di ricerca di chiarimenti Padraic scopre da Colm che a lui, quella amicizia, “non gli va più a genio”. Quelle che per uno erano “bellissime chiacchiere”, per l’altro erano diventate “tediosissime chiacchiere”. Le avvincenti serate a raccontarsi storie per uno, erano diventate per l’altro “due interminabili ore a parlare dei problemi gastrici della tua capra”. Qualcosa aveva cambiato il loro rapporto negli anni, anche se Colm non sapeva identificare “cosa”. Di sicuro senza stare ad ascoltare Padraic h24 il musicista avrebbe potuto comporre nuove canzoni: aveva calcolato che gli bastavano tre giorni per realizzare un brano e in tutto il tempo “di anni” che aveva “perso” a parlare con il pastore avrebbe potuto comporre tante opere grandiose, qualcosa da tramandare ai posteri. Per questo Colm dal primo di aprile aveva deciso che non sarebbero stati più amici e non avrebbero passato più del tempo insieme, neanche al pub. Padraic cerca di accettare la situazione pur nella sua eccessiva durezza, capisce che l’amico ha bisogno di ritagliarsi un suo tempo “tutto personale” e si fa da parte, si richiude un po’ in casa con la sua asinella, cerca di portare le pecorelle al pascolo ogni giorno come se nulla fosse, cerca magari di farsi amico Dominic nonostante le mille differenze dovute all’età, ma non è per niente felice. Siobhan, vedendo così giù il fratello, appena può cerca di prendere a male parole Colm e in quel momento il musicista si rende conto che forse con Padraic è stato troppo duro, ma sente di non aver potuto fare altrimenti. Passano i giorni. Poi però Padraic si accorge che Colm non ha problemi a parlare con praticamente tutti gli altri abitanti dell’isola salvo lui, perdendo con loro il tempo che perdeva prima con lui, al punto da stare ora al pub a brindare insieme a quell’assurdo e violento poliziotto locale. Padraic vuole così dare fine a quella assurdità per tornare amici come prima e ogni volta che ha a tiro Colm vuole un confronto, fino a che il musicista gli intima con forza di smettere di cercarlo o parlare con lui: se non lo lascerà stare, lui si taglierà ogni volta un dito delle sue mani. Così lui non potrà più suonare il violino e sarà colpa sua.  Molto presto Colm passa ai fatti. 


McDonagh torna a raccontare una storia su due persone che hanno eretto tra di loro dei muri di comunicazione invalicabili dopo il suo straordinario Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Il regista è anche qui sceneggiatore e sceglie come interpreti principali la coppia di attori che aveva già diretto nel suo divertente film d’esordio del 2008, In Bruges - la coscienza dell’assassino, collocando la storia in un luogo della “provincia irlandese” ancora più isolato, in un contesto dalle tinte “forti e ruspanti”, non troppo dissimile dai romanzi sulla gente di montagna del nostro Mauro Corona. In una cornice naturalistica quasi da favola bucolica, ma pervasa da un’aria gelida quasi da far battere i denti, viene descritta la vita dura, ciclica e ingrata, di uomini che si sentono così dolorosamente ancorati al loro territorio che i loro lineamenti e animo si sono induriti, incidendo sui loro volti rughe che appaiono come intagliate nel legno, scolpite nei sassi della stessa natura che li circonda.  Le relazioni umane diventano sempre più aspre, sporadiche e turbolente “senza un vero perché”, forse per colpa degli “spiriti cattivi irlandesi” richiamati dal titolo originale. Si avverte il malessere di abitare un mondo immobile di confine sul punto di scomparire, davanti a un futuro che si trova “altrove“, oltre la costa, “nelle città” dove le giovani generazioni andranno inevitabilmente a vivere. Un luogo dove in quel momento si sta combattendo una guerra per l’indipendenza le cui cannonate arrivano fino all’isola, trasformando la noia degli abitanti in paranoia. Di rimbalzo questo piccolo mondo antico si incattivisce ancora di più, con la comunicazione tra le persone che diventa simile a un caotico scontro con i propri demoni interiori, dove “sull’altro” si finisce solo per proiettare la propria frustrazione, cercando di incolparlo di stati d’animo (propri di una voglia di ribellione) che si faticano a riconoscere. Una condizione che è difficile riconoscere anche per il personaggio del prete, con cui gli isolani non riescono mai ad aprirsi del tutto, rendendo la sua istruzione non dissimile allo scenario solo estetico raccontato da Nanni Moretti ne La messa è finita


Giocando sul dramma che è alla base di questo magmatico territorio emotivo, McDonagh innesta nel racconto la componente più gustosamente mistica e grottesca della narrazione: il folk. Gli spiriti dell’isola arriva così a evocare le streghe Banshee delle storie e canzoni irlandesi, sia pure nel corpo di una stramba vecchietta. Quasi fossimo in un body horror di Cronenberg parliamo di auto-mutilazione sull’onda di una sanguigna metafora/favola-nera sulla difficoltà ad amare, non dissimile idealmente a quanto cantava Fabrizio De Andrè nella sua La ballata dell’amore cieco. Di colpo, per queste suggestioni, possiamo accostare una pellicola che nasce quasi come una commedia di costume ai lavori di Robert Eggers, alle atmosfere di Lamb di Vladimir Johannsson, al Sacrificio del cervo sacro di Lanthimos. La distanza emotiva tra i personaggi di Farrell e Gleeson e  i “fuochi” che ne deriveranno “per superarla” potranno qui assumere tinte horror, quanto trovare un senso, nella forma di un liberatorio moto eversivo.

Il film di Martin McDonagh si prende tutto il tempo necessario per arrivare al suo punto di rottura e svolta, divertendo e un po’ torturando lo spettatore nell’attesa di assistere a un meccanismo narrativo che appare metodico quanto crudele, che può essere percepito come inevitabile quanto intimamente, si spera, mutabile. È un film che non lascia indifferenti e “ci macina dentro” anche dopo la visione, come solo le opere migliori sanno fare.

Molto bravi tutti gli interpreti, con una menzione speciale per i due protagonisti. Colin Farrell è  in grado di toccare con il suo personaggio tenero e scontroso corde emotive molto forti, riuscendo a giocare anche con la sua fisicità attraverso una preparazione al ruolo che deve essere stata non banale, che ne ha mutato profondamente postura ed espressività. Gleeson al contempo riesce a riempire di sfumature, con piccole ma incisive note emotive, un personaggio che ha il difficilissimo e ingrato compito di esprimere l’immobilismo e la meccanicità di una persona pervasa da un fortissimo malessere emotivo, sul punto di implodere. Molto bella e fredda la fotografia scelta, quasi “berganiana” nella resa della distanza tra i personaggi (piccoli) e l’ambiente circostante (sterminato). La colonna sonora trova invece una dimensione sognante e onirica nei toni aspri e squillanti della ballata folk.

Il nuovo film di Martin McDonagh è una pellicola dall’andamento lento ma coinvolgente, con il sapore della ballata tragica, che racconta la difficoltà e la necessità di porre delle barriere tra noi stessi e gli altri. Come nel caso di Tre Manifesti, McDonagh è un autore che ama suscitare interrogativi più che dare risposte, in grado di sconfinare dalla commedia alla tragedia con una tale eleganza e continuità da non farcene accorgere, da lasciare nel pubblico una sana inquietudine che lo accompagnerà oltre i titoli di coda. Caratteristiche che confermano Martin McDonagh come uno degli autori più interessanti di questo periodo. 

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lunedì 23 gennaio 2023

La ligne - la linea invisibile: la nostra recensione di un film sui “confini emotivi” diretto da Ursula Meier con protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Stephanie Blanchoud


Ci troviamo in Svizzera nei mesi più freddi, in un piccolo paesino di pendolari attraversato da canali e binari ferroviari. Tra le pareti di una piccola casetta in mezzo alla neve tra la 35enne Margaret (Stephanie Blanchoud) e la madre (Valeria Bruni Tedesci) è ormai guerra aperta. Margaret non approva più le sue nuove frequentazioni, spesso uomini o troppo autoritari o troppo giovani. La madre non ne può più di vedere la figlia tornare a casa piena di lividi dopo un incontro di boxe o una rissa da bar. Spesso le due finiscono alle mani davanti all’inerme e spaventata sorellina piccola di Margaret, Marion (Elli Spagnolo), che cerca invano di mediare tra le parti. Margaret ormai vive fuori dall'abitazione e si è costruita nel garage il suo piccolo regno, svolgendo per sostenersi dei piccoli lavori come la pulizia del pesce presso il vicino pescivendolo. La madre ha la sua vita sentimentale e il suo lavoro come insegnante di pianoforte che le assorbono tutto il tempo, insieme ai ricordi di quando era giovane e faceva la pianista a tempo pieno. Ma la distanza tra Margaret e la madre è destinata ad aumentare e assumere pure una distanza precisa: 100 metri. 100 metri da mantenere rispettosamente tra le due per 100 giorni, secondo la disposizione di un giudice a seguito dell’ultima rissa, nella quale la madre ha subito pure la lesione di un timpano dopo una caduta. Margaret cerca più volte di varcare questo confine fisico quanto emotivo, alla ricerca di un dialogo impossibile che sfocia sempre in scontro, fino a che la piccola Marion prende una decisone estrema: con una vernice azzurra traccia circolarmente lungo le strade della cittadina la linea di confine tra la casa dove vive con la madre e il limite fino a cui la sorella può avvicinarsi. Marion chiede poi a Margaret di giurare di non varcare mai quel confine fino allo scadere del provvedimento, ponendosi da custode e guardiana di quella linea. Comincia così una strana convivenza a distanza, con le sorelle che comunicano tramite dei binocoli sedendosi sugli alberi e sui tetti, con Margaret che aiuta Marion a preparare la canzone per il saggio di musica portando sul confine due sedie, la sua chitarra elettrica e una lunghissima prolunga di cento metri per l’amplificatore, che si collega alla spina di corrente dall’appartamento dove la ospita momentaneamente il suo ex fidanzato. Se le sorelle riescono in qualche modo a vivere questa distanza trovando punti di contatto, tra Margaret e la madre sembrano erigersi muri comunicativi ormai invalicabili e impossibili da quantificare. Riusciranno alla fine del periodo del provvedimento a tornare a vivere insieme?


Il mese cinematografico di gennaio si caratterizza per due film sulla magia e passione del cinema, Babylon di Chazelle e The Fabelsman di Spielberg e su due film sulla difficoltà di comunicazione tra le persone, Gli spiriti dell’isola di McDonagh e questo La ligne di Ursula Meier, che pure arrivano in sala nello stesso giorno.

Ursula Meier è una assidua esploratrice dei confini emotivi che si instaurano tra le persone e il loro mondo. Nel suo film di esordio, Home, una famiglia viveva in una casetta tranquilla e isolata fino a che veniva “travolta dal mondo”, con la costruzione di una autostrada a pochi metri dalla loro abitazione. La famiglia si barricava dentro cercando di trovare una sua tranquillità e armonia perduta, sfuggendo agli odori e rumori del traffico tappando ogni finestra fino quasi ad arrivare al soffocamento: era una casa da preservare. In La Ligne la casa, quello che si può intendere come il confine minino di tutte le relazioni umane, rappresenta forse l’opposto. Diviene una zona invalicabile tra due persone, quasi una frontiera da Far West da scrutare per scorgere l’arrivo “dell’altro”, che siano gli indiani o i “Tartari” di Dino Buzzati, pronti a suonare la bandiera per la carica o difendere il fortino. Il confine del campo di battaglia viene delimitato da una gentile e surreale linea di color blu acqua, tracciata diligentemente da una bambina dipingendo strade, canali fluviali e ponti, superando lo stupore e ironia di chi la osserva in questa strana impresa, in una sequenza tragicomica quanto dolce che ci rimanda al cinema di Michel Gondry o Wes Anderson. La dimensione del gioco su questo confine azzurro acqua tra le due sorelle, attraverso espedienti “per stare vicine” sempre più strampalati ed elaborati, dona al film un animo dolce e rincuorante, ci rassicura e ci coccola nella fiducia che anche le relazioni umane più complicate possono ricucirsi “pur mantenendo i confini”. Ma al contempo quella linea è un monito dalle molte valenze interpretative. Per qualcuno può essere inteso come il simbolo plastico della distanza sociale che abbiamo un po’ tutti sperimentato durante gli anni del Covid-19 o delle distanze che alcune coppie separate vivono ogni giorno. Una distanza che oggigiorno “fa più male”. Per qualcuno tra i più “appassionati ai temi psicologici”, quella linea azzurro acqua può pure rappresentare, associata al personaggio di Margaret, un aspetto tipico del disturbo di personalità borderline: la necessità/ossessione di entrare in contatto, pur con il rischio di scontrarsi, con i confini emotivi dell’altro. La Meier, supportata da un cast di ottimo livello e da una messa in scena cristallina, quasi favolistica nell’estetica ma realistica nei toni, riesce bene a raccontarci i molteplici volti di questa linea e a tirarci un po’ dentro nel ragionare su quanti confini, ogni giorno, poniamo o sopportiamo dagli altri. Soprattutto, la Meier ci stimola anche a ragionare su quali e quanti confini possono pure aiutarci a prendere strade diverse, aiutandoci a scegliere vie diverse senza la necessità di “incaponirci nell’abbattere i muri”. È un film che sa stimolare lo spettatore, una dote che il miglior cinema ancora possiede. Davvero molto brave Valeria Bruni Tedeschi e Stephanie Blanchoud, come è incantevole la piccola Elli Spagnolo nel ruolo di tenero “deus ex machina” della vicenda. La Blanchoud dà vita a una Margaret piena di cicatrici e demoni, un personaggio che sa prendere la vita solo a pugni per poi cercare qualcuno “tra le sue vittime” che la aiuti a leccarsi le ferite. La Bruni Tedeschi interpreta una madre che dopo lo scontro con la figlia risulta “etereamente” e crudelmente distaccata da tutto, con la paura terribile di riassumere il ruolo di madre per evitarsi nuove sofferenze. Sono entrambi personaggi “bloccati”, ma dotati di tante piccole delicatezze che li rendono umani, che riescono bene a raccontarci la loro storia anche attraverso la loro sofferenza e difficoltà ad amare, grazie al talento di due meravigliose interpreti. 

La fotografia ci trasmette tutto il freddo dell’inverno svizzero e la colonna sonora gioca un ruolo importante ai fini della trama, perché tutte le protagoniste hanno un legame molto particolare con una musica che a volte le accomuna e a volte le divide. 

Molto interessante a livello simbolico e molto bene interpretato, La Ligne è un film sulle relazioni umane davvero ben riuscito, la dimostrazione del talento di una regista giovane ma già affermata per le sue opere. 

Dopo La Guerra dei Roses, una linea di confine tra i legami di coppia torna protagonista di una pellicola, ma è una linea di un gioioso azzurro acqua a cui sentiamo di poter volere anche un po’ bene. 

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