mercoledì 29 settembre 2021

AltaLuceTeatro- programmazione 2021-2022


Anche quest’anno abbiamo la gioia e il privilegio di parlare di teatro sul nostro piccolo blog e speriamo nel nostro piccolo di essere all’altezza di un così nobile compito. 

Ringraziamo di cuore la direttrice Elizabeth Annable, tutto lo staff e gli attori, per averci permesso di conoscere AltaLuceTeatro

C’è un piccolo e storico teatro lungo i Navigli di Milano, al 190 di Alzaia Naviglio Grande. Ospita sui 100 spettatori, anche se con la normativa anti covid i posti si sono dimezzati. È una realtà culturale importante, radicata sul territorio della zona 6 da molti anni, con la direzione passata di padre in figlio e ancora oggi viva, sgargiante, dopo gli ultimi tragici due anni. Anni difficili “a porte chiuse”, in cui la struttura, gli spettacoli e gli attori hanno trovato nuova linfa e pubblico sulla rete. Con i suoi corsi di recitazione, trasmissioni live aperte al pubblico, spettacoli in streaming, AltaLuceTeatro non si è mai fermato e ora, con l’inizio di ottobre, riapre i cancelli per la nuova stagione, questa volta con il pubblico in presenza. Un pubblico con il quale gli attori potranno tornare a brindare insieme, alla fine degli spettacoli, seguendo una lunga tradizione di convivialità e amicizia in nome dell’arte. Quest’anno la direzione sceglie di mettere da parte i temi dell’attualità, per poterla leggere “meglio” tornando alle radici del teatro, alla magia senza tempo del racconto. Sono state scelte storie intime, storie di coppia in crisi, storie di uomini lontani da casa, ma soprattutto storie declinate al femminile. Storie di donne celebri, donne shakespeariane, donne comuni vissute in contesti difficili. Donne forti che hanno saputo reagire alla vita con la loro passione, fragilità, paura, estro. Spesso donne rimaste sole, che si trovano sole anche sulla scena, a raccontarci la loro vita in prima persona, come intima confessione e dialogo interiore. 

 

Dall’1 al 3 ottobre 2021

ARRIVEDERCI

liberamente tratto da "All’ultimo Minuto - Vita Di Una Donna Così” di Rita d’Agnese con: Cecilia Vecchio

drammaturgia e regia: Livia Castiglioni e Cecilia Vecchio

 

Un viaggio umano che viene ripercorso ricomponendo una serie di frammenti sparsi tra le righe di fogli traboccanti di ricordi. Una vita qualunque che, come tutte le vite qualunque, porta con sé un fascino speciale e inimitabile, plasmato da ogni esperienza attraversata. La vita di una donna. Una donna, Rita, una donna così. Così come? Così come si è raccontata, scrivendo tutto a mano su quaderni dalle copertine colorate. I ricordi di una vita. E Rita è tante cose: una bambina durante la seconda guerra mondiale, una bellissima adolescente nel dopoguerra, una donna innamorata, una madre. Con quella chioma rossa che le ha procurato il soprannome di "Rita Hayworth". Tra ferite, lotte, quotidiane ingiustizie, passioni, Rita ci conduce, sullo sfondo dell’Italia del dopoguerra, dalla campagna romagnola alle grandi città (Bologna, Milano e infine Salerno sua città d’adozione), in un cammino dove la vediamo affermare la propria personalità di donna, anticonformista, fedele a sé stessa, ironica, sorprendente. Questa vita, trascritta a mano su fogli di quaderno, è il suo regalo di verità.


Livia Castiglioni porta in scena uno spettacolo tratto dall’autobiografia scritta in tarda età da una donna reale, trovata dal figlio in una serie di quaderni colorati e raccolta in un libro. È una storia che ripercorre sullo sfondo molte tappe della nostra Storia nazionale, ma sotto l’occhio speciale di una donna come Rita, che ha saputo superare molte difficoltà anche connaturate al modo di intendere la giustizia in quei tempi passati. 

Cecilia Vecchio, che interpreta Rita, è rimasta molto colpita tanto dalla spontaneità che dal coraggio di una donna che a solo 17 anni, in un momento storico in cui “certe cose non si potevano dire”, è riuscita a denunciare davanti alla legge un atto di violenza da lei subito. 

 

Dal 12 al 13 novembre 2021

L’AMANTE

di: Harold Pinter

con: Elizabeth Annable e Gerardo Marinelli regia: Elizabeth Annable

produzione: AltaLuceTeatro

Una coppia normale, un normale ritorno a casa dopo una serata normale accompagnato da un dialogo normale. Sullo sfondo delle normali incrinature, dentro, che si mostrano senza imbarazzo, d'altronde anche i sorrisi sono crepe sui volti. D'altronde le crepe a volte sorreggono, a volte tengono insieme, a modo loro, aiutano a resistere, a non crollare. Sono segno di cedimento, ma anche di sopravvivenza. Sempre che non si allarghino troppo, che non diventino baratri, che i sorrisi non diventino smorfie. In tutta questa normalità, un gioco di ruolo, erotico quasi per caso, una scappatoia dalla quotidianità, un diversivo. Un amante. Un bisogno. Il bisogno di avere qualcun altro, o di essere qualcun altro. Due persone, forse tre, che sanno bene le regole - o forse no. Due persone, forse quattro, che sanno qual è il limite - o forse no. Un gioco che forse non è un gioco, forse è un gioco al massacro, un massacro che forse è autoinflitto. Pinter è come una rete, vi si può vedere attraverso in molti modi differenti, ogni personaggio ha una sua verità. Non c’è un’unicità, ma una varietà di interpretazioni dei sentimenti e delle relazioni, proprio come nella vita umana. Ognuno vede ciò che i propri occhi gli fanno vedere, un filtro che mette un velo, una patina sul vissuto.

 


Elizabeth Annable porta in scena l’adattamento di un’opera del Nobel alla Letteratura Harold Pinter. Un testo carico di sfaccettature, sempre “nuovo” a una successiva lettura, difficile da ingabbiare. Per questo una sfida che potrebbe smuovere note e colori differenti a ogni rappresentazione. 

 

Dal 19 al 28 novembre 2021

MACBETH SONATA DA CAMERA

da: William Shakespeare adattamento: Antonio Rosti

con: Chiara Salvucci e Giuseppe Sartori regia: Omar Nedjari

Il fascino delle opere di William Shakespeare è travolgente e inesauribile perché indaga e racconta con inimitabile lucidità la natura umana, ne restituisce la forza e le debolezze attraverso avvincenti intrecci di vicende e parole, intrecci tenacemente contemporanei nonostante i secoli. In questa particolare ripresa della sanguinosa ascesa al trono di Scozia raccontata nella tragedia del drammaturgo inglese, l’attenzione sembra diventare più circoscritta, più intima. Macbeth e la sua Lady sono soli a confronto con se stessi e il loro proposito, intrappolati nel loro destino e costretti a rivivere le proprie scelte. L’azione si svolge attraverso la loro voce, il testo è svuotato dei suoi personaggi, il dialogo, rigorosamente con le parole di Shakespeare, diventa così un gioco al massacro, la distruzione di un amore logorato dall'ambizione di entrambi, un'ossessiva ricerca di uscita dal labirinto creato dal proprio desiderio morboso, uno specchio delle contraddizioni e delle nevrosi dell'uomo contemporaneo.

 


Con Macbeth Sonata da Camera e La leggenda di Redenta Tiria AltaLuceTeatro porta in scena le opere della Compagnia Corrado d’Elia, dando seguito a una collaborazione nata proprio sotto il Covid, con dei workshop e dialoghi svolti a distanza tramite la piattaforma Zoom. Un segno di come l’arte possa trovare facilmente nuova casa, quando è possibile trovare comunque nuovi luoghi di incontro. Magari nuovi stimoli proprio in virtù di un contesto più intimo. È in qualche modo sulla scorta di questo punto di vista che la Lady Macbeth della compagnia Corrado d’Elia può diventare su una  scena “diversa”, in un contesto nuovo e lontano dalle rappresentazioni classiche shakespeariane, una persona diversa, umana quanto ironica. E il Macbeth può diventare il dialogo di un uomo e una donna sideralmente lontani, ma il cui “tutto il mondo” si riduce a una camera da letto, impedendogli di scappare l’uno dall’altro. 

 

Dall’11 al 12 dicembre 2021

EVA (1912-1945)

da: Innamorate dello spavento di Massimo Sgorbani

regia: Renzo Martinelli

con: Federica Fracassi

drammaturgia: Francesca Garolla

luci Mattia De Pace audio e video: Fabio Cinicola

produzione: Teatro i

con il sostegno di NEXT - Laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo

La fine della guerra, la fine di Hitler. Eva, sola in scena, aspetta questa fine. Eva è una donna che sta per morire ed è una donna innamorata. Innamorata di Hitler, fedele al suo amore fino all’ultimo istante. Eppure, da questo infinito amore, al di là del bene e del male, affiora la paura. Paura dell’abbandono, paura dello strapotere dell’amato, paura dell’amore stesso e di quello che l’amore può chiedere. Innamorate dello spavento è un progetto di Teatro i in cui l’autore Massimo Sgorbani cattura le voci di alcune donne legate al Führer che precipitano inarrestabili verso la fine del Reich. Tra il 29 aprile e il 1° maggio del 1945, nel bunker sotterraneo del Palazzo della Cancelleria di Berlino, alcuni dei principali rappresentanti del partito nazionalsocialista si suicidano. Poche ore prima Hitler sposa Eva Braun. Poche ore dopo Hitler e signora si uccidono con le fiale testate sul pastore tedesco del Führer, Blondi, il primo a morire. Poche ore dopo Magda Goebbels somministra le fiale ai sei figli addormentati. Ancora poche ore, e anche Magda e il marito si avvelenano con le stesse fiale.

 


Eva Brown chiusa nel bunker, aspettando la fine, può diventare un personaggio teatrale. Una donna che spinta della solitudine si può spogliare delle sue armature ed “etichette”, frantumarsi o rimanere ancorato al mondo solo attraverso i sentimenti più profondi, “umani”, fatti di piccole dolcezze e speranze. Una donna rinchiusa al di fuori del mondo, un po’ come lo siamo stati tutti nell’epoca del Covid.

 

Dal 14 al 23 gennaio 2021

LA LEGGENDA DI REDENTA TIRIA

favola poetica dal fascino oscuro

tratto da: La Leggenda di Redenta Tiria di Salvatore Niffoi riduzione drammaturgica, regia e interpretazione: Corrado d’Elia scene: Chiara Salvucci

produzione: Compagnia Corrado d'Elia

“L'arte nasce da un'esigenza profonda e strabordante di esprimere un mondo. Questo progetto parte da una storia di incontri...”. Una storia affascinante dal sapore antico, un omaggio alla Sardegna, alla musica di Marisa Sannia e alla scrittura di Salvatore Niffoi. Corrado d'Elia interpreta una grande storia dal sapore mistico e universale, radicata nella terra di Sardegna, di cui racconta le asperità, la forza e la magia. Abacrasta non si trova in nessuna enciclopedia o carta geografica, è un paese – immaginario, ma verosimile - situato nella terra avara e rocciosa nel cuore della Barbagia. Abacrasta è meglio noto tra i paesi del circondario come “il paese delle cinghie”: molti fra coloro che vi abitano a un certo punto della loro esistenza sentono il richiamo della Voce e corrono a impiccarsi. Legano al collo la cinghia e dicono addio alla vita: «nelle tanche di Abacrasta non c’è albero che non sia diventato una croce». Finché un giorno non arriva Redenta Tiria, “una femmina cieca, con i capelli lucidi come ali di corvo e i piedi scalzi”, e i suicidi cessano. “Sono la figlia del Sole, e sono venuta per portare la luce nel paese delle ombre”. Corrado d'Elia in questo spettacolo si serve di una lingua “ibridata”, che si fonda sulla commistione di italiano e limba. Accompagna il racconto la voce magica e incantata di Marisa Sannia, una musica che sa di terra, di magia e di meraviglia, il cui suono penetra nel profondo mistero della vita e della morte. È difficile non scorgere un senso quasi religioso nella figura di Redenta Tiria. Redenta, redenzione: ma non in senso ultraterreno, giacché insegna che l’unico riscatto possibile è nella vita stessa, nella “vita ritrovata”, nella speranza, nel “tagliare la lingua alla Voce”. È una “religione” della vita, quella che emerge in filigrana di questa favola cruda e bellissima.

 


Di nuovo una collaborazione con la Compagnai Corrado d’Elia. Anche questo uno spettacolo nato “a distanza”, dall’interazione tramite la rete. E si parla di reti, vele, mare e personaggi senza tempo. Uomini e non, raccontati da una lingua antica che ne rende ancora più affascinate e complessa la natura. L’opera vuole essere un grande omaggio alla Sardegna.

(continua domani...)

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lunedì 27 settembre 2021

Respect - la nostra recensione del film sulla vita di Aretha Franklin

 


Siamo a Detroit, negli anni '50, dove la piccola Ree (Skye Dakota Turner) incanta con la sua voce i cori della New Bethel Church. La passione per la musica gospel  è il grande legame speciale che la unisce con la madre Barbara (interpretata dalla star di Broadway Audra McDonald), che ora vive lontana, a Buffalo. Quando madre e figlia sono insieme e duettano, sembrano quasi perdersi in un piccolo mondo armonico tutto loro, dotato di una “straordinaria grazia” dove la luce è intensa e in cui Bree è felice. Un mondo ben diverso da Detroit e dai suoi chiaroscuri violenti. Quando Ree non ha ancora 10 anni, la madre purtroppo muore per via di un attacco cardiaco e lei viene affidata permanentemente alle cure di un padre, Clarence (il premio Oscar Forest Whitaker), severo, assente e forse un po’ egocentrico. Ree rimane incinta a 12 e poi a 14 anni e la pellicola ne parla giusto di sfuggita, anche perché è un tema spigoloso, di cui la cantante ha parlato poco e solo su alcuni scritti trovati postumi alla sua morte, nel 2019. Mamma ma ancora bambina, Ree con la sua voce continua negli anni a brillare per il padre, che vuole sia solo lei a cantare come prima voce nei gospel che arricchiscono le sue serate di predicazione come pastore battista. Sono gli anni di Martin Luther King (interpretato da Gilbert Glenn Brown che ne fa quasi una figura paterna alternativa) e Ree lo incontra più volte in quanto amico del padre, portando a un sodalizio che legherà la cantante e il politico per tutta la vita. A 18 anni Ree (ora interpretata dalla cantante Jennifer Hudson) firma per la Columbia Records, con cui produrrà 9 album, sempre con dietro il padre Clarence come manager e mentore. Ma la svolta della vita, la “chiamata” come si direbbe nei Blues Brothers, avverrà in concomitanza con il nuovo contratto con la Atlantic, nel 1966. La nostra Ree era famosa e corteggiata dalle radio, ma scontenta, non realizzata. Poi cambia qualcosa con l’incontro/scontro con la cantante Dinah Washington (interpretata da Mary J.Blige), che la mette davanti ai suoi limiti e a quello che vuole diventare “da grande”. Poi arriva la nuova relazione con Ted White (Marlon Wayans), accolto come una liberazione dal giogo paterno, ma che si dimostrerà da subito solo l’ennesimo “padre/padrone” della sua vita. Ma in tutto questo nel 1966 Ree, pur da “bravo soldato” continua a cantare come sempre, senza scontentare l’ambizione ora del nuovo compagno, ma con una nuova voce. Una voce che tra le note e le strofe si eleva e si fa “urlo”. Un ruggito autoritario quanto sensuale, caldo quanto potente, che muove dal gospel “materno” al soul. Un ruggito che sgomita nella metrica, richiedendo per essere accompagnato musicisti con forte esperienza jazz e blues. Ree per una volta richiede con questa sua nuova voce Rispetto per se stessa. “Ree-spect”, per il suo punto di vista, dolore e passione. La sua voce diventerà in breve così unica e popolare da unire le voci delle donne oppresse, la voce delle persone di colore verso la parità dei diritti sotto la guida non violenta di Martin Luther King, la voce di chi ama la musica e il suo potere di cambiare il mondo. Una voce che raggiungerà il suo apice quando re-incontrerà il gospel, vivendolo non più con gli occhi di una bambina ma di una donna. 


Liest Tommy è una giovane regista che conosce la storia della musica e riesce a raccontarla, come dimostrato nel suo ultimo lavoro su Dolly Parton. Il canovaccio di Respect, a opera di Tracey Scott Wilson e Callie Khouri, racconta una storia “tristemente” abbastanza classica, dove una artista di colore deve farsi strada nel mondo della musica per lo più ostacolata da figure maschili autoritarie quanto frustrate da un successo che godono solo “di riflesso”.  Ma la musica, la straordinaria musica di Aretha Franklin, riesce sempre a innestarsi meravigliosamente sulla trama e a guidarne magicamente l’intreccio, dialogando e duettando con la storia della vita della protagonista. Aretha sembra apparentemente un personaggio immobilizzato nel ruolo di una donna sottomessa, ma il personaggio riesce a esprimersi proprio attraverso le parole delle canzoni e la grinta con cui le interpreta. Attraverso l’arte, Aretha si esprime in un modo cosi sottile da non venir percepito dai suoi “aguzzini”, che di fatto non ascoltano la sua musica quanto vivono del “successo che genera”. Ma al contempo la musica di Aretha riesce a colpire il cuore per  davvero quanti la ascoltano sul serio e sa trasformarsi in una specie di voce interiore collettiva. Era difficile veicolare al cinema una visione così raffinata quanto spirituale della musica. 


Respect va oltre una cornice narrativa compassata quanto elegante, trascinando la musica direttamente nella narrazione, in un modo diretto, sincero, dirompente ed esponenziale. Aretha rivive al meglio dentro una bravissima Jennifer Hudson, attrice e cantante che avevamo già apprezzato nei panni di Effie White in Dreamgirls e Grizabella in Cats (anche se visivamente Cats è un po’ “Strong”, rimane un film con bellissime interpretazioni). Forrest Whitaker è sulla via regale di James Earl Jones, il suo Clarence è ricco di sfaccettature e nasconde sotto la scorza qualcosa di più, titanico e dolente nel dover scontare un confronto impossibile e spietato con un “padre spirituale” come Martin Luther King. Marlon Wayans, come Jamie Foxx in Dreamgirls e Laurence Fishburne in Tina, è “bloccato”, come era bloccato Danny Glover ne Il colore viola. Bloccato in un ruolo di “uomo dal potere negato” da una società che non riconosce parità di diritti alle persone di colore, generando in loro un senso di frustrazione che tracima, diventa irrazionale e spesso si sposta con violenza sui propri cari. Non è un personaggio semplice quello di Wayans, come non erano semplici i personaggi di Glover, Foxx e Fishburne, anche perché narrativamente non vengono “assolti” per le loro frustrazioni e crudeltà. Un bel passo in avanti nel campo drammatico per l’attore comico Wayans. 

In Respect troverete una straordinaria colonna sonora, da gustare rigorosamente nella migliore sala cinematografica per impianto sonoro. La durata supera le due ore ma non la avvertirete. Molto bravi gli interpreti. Una storia semplice ma scandita da meccaniche intriganti che mettono al primo posto e con molta originalità l’arte. Un buon tributo per scoprire o riscoprire Aretha Franklin. 

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mercoledì 22 settembre 2021

Joe - uno dei migliori film di Nicolas Cage, per la regia di David Gordon Green

 


In uno sperduto e depresso paesino tra i boschi della provincia americana, il grosso e minaccioso Joe (Nicolas Cage) “avvelena gli alberi” a martellate. Lo fa con una specie di zainetto dei ghostbusters, con un martello attaccato a un tubo collegato con una mistura venefica i grado a pieno regime di avvelenare 1000 alberi. Certo l’attività non è pensata come una strana “pazzia anti-ecologista”. Joe e la sua squadra scelgono gli alberi più deboli, li marchiano, li avvelenano e così questi potranno essere “abbattuti a norma di legge” dai boscaioli in quanto “malati”. Nuovi alberi più forti potranno essere piantati e tutti sono contenti. È un business un po’ ai limiti del legale, ma permette di magiare a tanta gente e garantisce al bosco di crescere più forte. Stimato quanto temuto da tutta la cittadina, Joe si sposta triste e infelice da un luogo all’altro, tra il bordello e la prigione locale, in uno stato emotivo sempre più esplosivo e desolante. Si sente un po’ come il suo bulldog, un cane da combattimento coperto di ferite che non può fare a meno di finire ogni giorno su un campo di battaglia, volente o nolente. Un giorno arriva a chiedere di far parte della allegra ciurma di Joe il giovane Gary (Tye Sheridan), figlio del manesco Wade (Gary Poulter). Joe vede in Gary uno “scopo”, forse la possibilità di essere per lui un vero padre. Ma Wade, perso nell’alcol e nella autodistruzione, farà di tutto per distruggere questa aspettativa.

Uscito in sala nel  2013, basato sul libro omonimo di Larry Brown del 1991, per la regia di un allora lanciatissimo David Gordon Green, Joe rappresenta una delle migliori prove attoriali di Nicolas Cage, nonché uno dei film più interessanti sulla depressa e bifolca provincia americana contemporanea. Una elegia redneck o in senso poi lato un western crepuscolare. Un film carico di atmosfere grigie, uomini ruvidi, vestiti sporchi di fango, afa, fumosi e appiccicaticci rapporti umani. 


L’hanno paragonato a quello che è stato Copland per Stallone e Joe è stato a ragione un film vincitore di tanti riconoscimenti ufficiali. Io vedo nel personaggio di Joe una sorta di “predestinazione” che segue Cage dai tempi di Arizona Junior (Raising Arizona, del 1987) dei Cohen. In quel film Cage impersonava un divertente, innamorato e squinternato ladruncolo/mezza tacca, così innamorato della poliziotta interpretata da Holly Hunter da convincersi a rapire il bambino di un grosso imprenditore locale, pur di farla “diventare madre”. Dopo il rapimento, i veri genitori mettevano sulle traccia di Cage un cacciatore di taglie a cavallo di una grossa moto e pesantemente armato, interpretato da Randall Cobb. Se avete visto Arizona Junior di sicuro non ve lo siete dimenticato e perseguiterà magari ancora gli incubi di qualcuno. Il personaggio di Cage “lo sente arrivare” in sogno, dice che sente di aver scatenato una “forza primordiale”. Il cacciatore viene da lui descritto come un vero e proprio cavaliere dell’apocalisse. Lo sguardo di ghiaccio coperto da enormi occhialoni, la pelle coperta da fuliggine e sporco, la stazza di un orco. La moto che inquadrata in soggettiva sembra volare sull’asfalto simile alla creatura demoniaca della Casa di Raimi, che lascia sulla strada una scia infuocata e con i fiori che appassiscono al suo passaggio. Fa paura, è grosso e inesorabile, primitivo e primordiale ed è “destinato a Cage”, ha un “legame con Cage”. Al punto che negli anni Cage, come attore, si è più volte avvicinato a questo “orco”, cercando di trasformarsi in lui. Come lui ha guidato una moto che lascia fiamme sull’asfalto, nei suoi due film di Ghost Rider. Come lui è stato una creatura ancestrale in Drive Angry. Come lui è diventato un moloch primordiale, in questo Joe, nel successivo Mandy e nel recente Pig. Creature metafisiche che vivono in strani mondi di confine ai margini della civiltà, legate a stretto contatto con una natura che spesso “depredano per vivere”, uccidendo o tagliando alberi, facendo affidamento su funghi allucinogeni per sballare, utilizzando animali come combattenti. Sono film sui redneck americani, certo, ma chi vuole scorgerlo può vedere in Cage questa creatura stanca e millenaria, simile al One Eye di Valhalla Rising di Refn, che cerca di continuo di combattere per non regredire a “bestia”, aggrappandosi con ostinazione ai pochi scampoli di umanità che gli rimangono. Joe si sente un orco e vive da orco, non permettendo a nessuno di avvicinarsi a lui per delle oscure colpe legate al suo passato. La cosa affascinante, merito dell’ottima caratterizzazione di questo piccolo mondo, è che Joe è assolutamente ben voluto nella comunità, alla stregua di un orco protettore”, risultando pericoloso solo per chi ne teme il potere e quasi ne scorge “l’aura minacciosa”. Quando incontra Gary, il personaggio di Tye Sheridan, Joe “sboccia”, anche se si considerava come una pianta avvizzita, velenosa e sterile. Sheridan interpreta un ragazzo nato in una famiglia difficile, abituato anche lui a prendere la vita a pugni, un po’ come Joe. Gary deve averne “passate tante” e spesso ha dovuto “guardare dall’altra parte” specie a causa di suo padre. L’animo di Gary si è così inquinato che ora si sta trasformando in uomo violento e impulsivo, esattamene come Joe.  Joe che “riconoscendosi in lui” potrebbe essere la prima e unica figura paterna della sua vita.


Il vero padre di Gary, Wade, è una specie di diavolo fuori controllo dominato dall’alcol. Si aggira cattivo tra i boschi, qualche volta ballando per strada senza alcuna musica nell’aria. Continua a ripetere a chi lo incontra “sei mio amico?”, appare spesso vulnerabile, quasi contrito, un vecchietto canuto e sbattuto. Ma possiede una certa luce matta negli occhi ed è pronto a uccidere pur di rubare una bottiglia di whisky a uno sconosciuto. Uccide per poi abbracciare la vittima come a scusarsi. Anche Wade è una belva pericolosa, mette paura. Il grande e purtroppo recentemente scomparso Gary Poulter ci ha infuso dentro un intero mondo di disperazione, rabbia e impotenza. Tutti i personaggi che si muovono su schermo sono complicati e contorti, cercano di vivere il presente nel modo più “felice/fugace possibile”, ma il dramma è dietro ogni angolo e li lascia completamente inermi davanti ai demoni del passato e del futuro. Sono la perfetta metafora di una provincia americana simile a una macchina incastrata con le ruote nel fango, sospesa in una quotidianità che sembra invariata da cento anni. Joe piacerebbe a Stephen King, si respira la stessa pesante aria rarefatta della sua provincia. Un ottimo ritmo, la giusta colonna sonora country, incredibili interpretazioni e personaggi che sembrano fatti per starti in testa e rimanerci.

E quindi dovete vedervelo questo Joe

Voi lo sapete, noi sul blog siamo fan assoluti di Nicolas Cage “il più grande attore vivente a livello statistico”. Lo amavamo quando recitava nei Blockbuster di Turtletaub, Bay, Vaughn, Scott, quando era conteso tra Scorsese, i Cohen, Jonze, Verbinski, Jewison. Lo amavamo quando “esportava” John Woo e lo amiamo oggi quando esporta Cosmatos, “ripesca dal passato” Stanley. Lo amavamo quando ha quasi fatto Superman per Burton e lo amiamo ora quando fa quello che vuole, tutte le parti che vuole, ficcandosi dentro a film tremendi quanto in quelli più sperimentali e interessanti, da vero “uomo libero”. C’è chi si spegne, come Bruce Willis. Chi si blocca nelle espressioni come Travolta. Chi non sembra più in grado di uscire da una maschera come Liam Neeson. Cage sa rinnovarsi, cambiare, sbagliare, riemergere e soprattutto, cosa rara, si diverte ancora a recitare. La vena di pazzia che percorre tutti i suoi personaggi, anche quelli oggettivamente più brutti, lo tiene vivo e ce lo fa amare e temere. Come  quell’assurdo cavaliere dell’apocalisse motorizzato di Cobb, pronto a rifiondarsi in sella e a sorprenderci di nuovo con una interpretazione da maestro. 

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lunedì 20 settembre 2021

Malignant - il nuovo gioiellino horror di James Wan


Siamo negli anni ‘90, in una clinica situata in un lugubre maniero sulla collina. Ha i calzini con sopra un orso disegnato, lo chiamano Gabriel, ha il superpotere di incasinare le linee elettriche e riesce a parlare attraverso le frequenze radio. Sembra un bambino ma è pericolosissimo. La dottoressa Weaver (Florence McKenzie) lo chiama “tumore” e insieme al suo staff ha deciso di porre fine alle sue cure in una notte di urla e sangue. Sono passati alcuni anni e incontriamo Madison (Annabelle Wallis), una ragazza che non è molto fortunata in amore. È incinta per la terza volta, finora non è riuscita a ultimare la gravidanza e in qualche misura è sicuramente colpa del suo manesco compagno Derek (Jack Abel). Dopo l’ennesimo alterco casalingo un’ombra misteriosa decide di intervenire e mentre Madison è a letto uccide Derek. La ragazza vede come in sogno l’accaduto e sempre in sogno sarà testimone di altri delitti compiuti dalla misteriosa ombra (ha le movenze della controfigura- star Zoe Bell, ben nota a chi segue il cinema di Tarantino). Tra i due sembra esserci un misterioso legame che ha radici nel passato, in un periodo precedente all'adozione di Madison di cui la ragazza non ha quasi memoria. Di sicuro sentendo la voce dell’ombra la ragazza ricorda un nome: Gabriel. 


C’era una volta James Wan, geniale sceneggiatore e director di opere horror a bassissimo budget con il pallino dei polizieschi e dei mostri classici. Ha creato non solo film brillanti e ben girati, ma ha da questi tratto autentici “franchise” come Saw, Insidious, The Conjuring. Una autentica gallina dalle uova d’oro per gli studios che se lo contendono, da Blumhouse a Warner a Lions Gate, o fanno affidamento sulla sua Label, Atomic Monster. Si è anche dimostrato un autentico pigmalione, facendo splendere o affidando lavori di punta ad autori giovani come Leigh Whannell, Corin Hardy, David S.Sandberg, Michael Chaves. Poi le major hanno iniziato a proporgli imprese enormi come il Fast and Furious più difficile di tutti (quello che ha dovuto far fronte alla morte improvvisa di Paul Walker), come il lancio della serie di Aquaman (che nonostante il bravo Momoa non è esattamente il supereroe più facile da gestire). Per Fast and Furious ha dovuto fare miracoli e si è dimostrato un comandante forte e affidabile. Per Aquaman è riuscito a donare alla pellicola un fascino camp alla Flash Gordon che permette di ritenere colorato e leggero un balenottero paiettato di tre ore. E poi gli hanno inflitto pure il prossimo Aquaman 2, con tutti i fan duri e puri di Wan che hanno commentato in coro: “Ma che due palle!!!”. Perché Wan è uno bravissimo negli horror e thriller, uno che ha una passione per il cinema di genere alla Tarantino, e gli tocca sempre delegare e delegare la conduzione dei “suoi film” per sopraggiunti impegni da blockbuster. La supervisione e la sceneggiatura, come la produzione in genere, le gestisce sempre Wan, ma il tempo per schierarsi lui come regista è tiranno. Così la saga di Insidious dal capitolo tre l’ha passata al suo co-autore del cuore Whannell, The Conjuring 3 è toccato a Chaves. Se Whannell se l'è cavata bene, non ho ancora sperimentato il lavoro di Chaves fino ad ora, un po’ per “paura” di come sta diventando l’universo cinematografico di Conjuring ad essere franco. Gary Dauberman non è riuscito benissimo a passare dalla scrittura alla regia con Annabelle 3, confezionando un prodotto simpatico ma lungi da Annabelle 2. Le recensioni di Conjuring 3 che finora ho letto sono semplicemente devastanti e anche se sono tra quelli che avevano apprezzato La LLorona non è che l’abbia trovata un film riuscitissimo. Avrei voluto tanto che la serie “principale” di The Conjuring rimanesse con la regia di Wan, ma ci stavano gli Aquaman!! Così, un po’ di straforo tra una giga produzione e l’altra, ecco che Wan fa il miracolo e trova il tempo di mettere insieme questo film con micro budget, girato in mezz’ora, super camp e super citazionista per gli amanti duri e puri dello slasher anni ‘80 quanto (bellissima sorpresa) dei gloriosi horror Italici di Dario Argento e Mario Bava. E io sono così, ancora a scatola chiusa, mi commuovo. Mi ero commosso a vedere dietro a The Nun l’amore per i classici Hammer, mi commuovo oggi a vedere in questo Malignant influenze da Nightmare on Elm Street quanto da Profondo Rosso e Demoni. Citazioni che vanno dalle inquadrature ravvicinate delle armi del villain alla dimensione onirica. Dalla musica onnipotente e pompata ai bagni di sangue splatter. Wan aggiunge alla salsa un po’ di J-horror ma la ricetta tiene, non diventa incoerente. C’è anche un pizzico di Light Out e funziona. 


Malignant parte lento, assomiglia a molte altre pellicole e non sorprende come colpi di scena. Ma l’adrenalina sale, sale veloce e tutto diventa una giostra. Bellissimo il mostro per trucco prosterico, costume quasi vittoriano, morfologia e capacità di attacco. Zoe Bell si è superata nella performance action e ci riporta ai suoi fasti ginnici in Kill Bill. Bellissimo il mondo sotterraneo, riuscite le fasi oniriche, semplice ma chiara la messa in scena. Malignant sembra davvero un film del 1987 uscito oggi, sarebbe stato benissimo nella rassegna dei film dello zio Tibia per la sua leggerezza, genuina eccessività nella messa in scena, voglia di spaventare quando divertire il pubblico offrendo “tutto ciò che piaceva a quel pubblico”. Voglio metterlo idealmente in una Double vision vicino al film di Wan dedicato ai pupazzi, Dead Silence. Molto brava l’attrice principale, “volutamente da slasher” l’interpretazione stereotipata dei poliziotti interpretati da George Young e Michole Briana White. Jaqueline McKenzie ha una parte breve ma intensa, da vera Scream queen. Molto carina Maddie Hasson, che irrompe sulla scena, in un grigio ospedale dove è ricoverata la protagonista, vestita come una principessa delle favole perché “lavoro in un ristorante per bambini”. Dona molto leggerezza alla narrazione, quasi immolandosi a “linea comica”. Alla fine le si vuole bene. 

Mi è piaciuto, parecchio. È un filmetto solido, divertente, con un bel mostro e una buona atmosfera. È anche un film che “non fa l’arrogante”, non si risparmia per dare il via ad un franchise diluendo le idee e lanciando ponti a sviluppi futuri. È un film semplice “fatto per divertire”, circostanza che ne dà quasi una mosca bianca in sala. Non so quanto sia corretta l’affermazione di Wan sul fatto che Malignant sia “la sua risposta a Frozen della Disney”, ma il rapporto tra i personaggi della Wallis e della Hasson in effetti ha un po’ della complicità tra Elsa e Anna. Tranquilli però, il film vira presto in zona sbudellamenti e sinistre inquadrature splatter argentiane.

Speriamo che in futuro James Wan possa fare a tempo pieno questo tipo di film. Qui sembra davvero essere tornato a divertirsi come un tempo e i fan ringraziano. 

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sabato 18 settembre 2021

Ancora più bello - il seguito del divertente e romantico “Sul più bello” arriva nelle sale

 


E se “Sul più bello” tutto dovesse finire? È questo il pensiero intrusivo ricorrente che perseguita Marta (Ludovica Francesconi), ventenne torinese ammalata di una malattia dal nome apparentemente buffo ma piuttosto grave: la mucoviscidosi. Una aspettativa di non oltre i 50 anni, una vita piena di medicine, trattamenti, regole ferree, un fisico che diventa sempre più fragile. Basta davvero un soffio per aggravare le cose e servono mille attenzioni, ma Marta guarda comunque con il sorriso e tanta autoironia il suo incerto avvenire. È rimasta orfana in tenera età, ma si è costruita una nuova famiglia con gli amici Federica (Gaja Masciale) e Iacopo (Jozef Gjura). Non è sbocciata con l’adolescenza rimanendo un po’ un brutto anatroccolo, ma con la sua voce sexy riesce a stregare i clienti di un supermercato quando annuncia le nuove promozioni. C’è sempre un “ma” a migliorare le cose e metterle nella giusta prospettiva, nella vita di Marta. Ma quando arriva inaspettato l’amore per il bell’Arturo (Giuseppe Maggio) la corazza di positività inizia a incrinarsi e torna a tormentarsi con quell’intrusivo dubbio che “sul più bello” tutto possa finire, di colpo e con un epilogo già previsto, “normale”. Tuttavia Arturo le viene incontro e la tranquillizza, decide che vivrà con lei nel presente del “qui ed ora” e non nella paura costante del domani. Questo era il bellissimo messaggio di Sul più bello, che per citare un grand’uomo di Youtube recentemente scomparso può declinarsi in: “Non rattristarsi perché è finito, gioiosi perché è successo”. Il film di Alice Filippi, accompagnato dalla allegra colonna sonora di Alfa, risultava supercolorato e tenero quasi quanto Il favoloso mondo di Amelie di Jeunet. I suoi personaggi erano amabilmente semplici quando ben caratterizzanti, divertenti e cartooneschi alla maniera di Scott Pilgrim vs The world di Edgar Wright. Ludovica Francesconi dava corpo a un personaggio vitale, divertente quanto fragile, Giuseppe Maggio diventava un principe azzurro “etico” in grado di trovare principesse oltre l’apparenza, Gaja Mascale e Jozef Gjura formavano una coppia buffa quanto anticonformista di “opposti che si attraggono”. Uscito fugacemente al festival del cinema di Roma del 2020, poi dirottato con la chiusura dei cinema causa covid nel servizio on-demand di Amazon a inizio 2021, Sul più bello, un po’ sentimentale, un po’ commedia, molto Cartoon e dall’animo di “slice of life”, era il film ideale per contrastare con l’arte quel tremendo periodo, grazie alla sua “spinta positiva”. Un film carico di speranza pur nella consapevolezza che la vita era in quei giorni dura. Visto il successo e personaggi così ben riusciti, c’era un po’ da aspettarselo prima o poi un sequel o una serie televisiva, anche se la prima pellicola era davvero perfetta così come era, autosufficiente e diretta nella sua semplicità espositiva. Uno di quei film dove vai in sala sapendo di dover finire col piangere a dirotto, pensando all’inevitabile sorte della protagonista malata di un grave male, ma che poi ti fa riflettere su quanto sia bello vivere il presente, cogliendolo nelle pur piccole cose positive che sa offrire. 


Ed eccoci al secondo capitolo, che il effetti cambia la prospettiva di base e declina quel “Sul più bello” oltre la mucoviscidosi, sul significato più pieno di “vivere il presente” che si allarga a tutti i personaggi che abbiamo già conosciuto nel primo film, sviluppandoli e rendendoli protagonisti. Ci sono quindi tanti personaggi e momenti della loro vita che la cambiano “sul più bello”. Così vediamo Federica sfruttare il suo genio matematico per giocare a poker, fino a che sul più bello questa capacità le permette di entrare in una grande società come suo primo impegno lavorativo, scontrandosi però con colleghe e capi un po’ eccentrici. Iacopo è invece alla spasmodica ricerca dell’anima gemella e diventa dipendente di un social per incontri di nome “Sbavo” fino a che sul più bello non si innamora del bel Tommaso (Giuseppe Futia), il fattorino del negozio di zuppe “Inzuppami”. Marta ha rotto con il principe azzurro Arturo, ma poco dopo, sul più bello, si trova a frequentare il sanguigno artista Gabriele (Giancarlo Commare), che però sul più bello è costretto ad andare in Francia a lavorare e quindi vive con lei una relazione a distanza via Skype che lo rende gelosissimo. Non c’è Arturo ma sono entrati nella compagnia anche i suoi vecchi amici, il cinico Vittorio (Elia Tedesco) e l’impacciato Giacomo (Riccardo Niceforo), con quest’ultimo che si innamora sul più bello a una festa della cugina di Federica, Rebecca (Jenny de Nucci), web star apparentemente irraggiungibile con il nome di Webekka. Marta ha cambiato medico e il giovane e distante Mauro (Giorgio Lupano), subito soprannominato “il merda”, prende sul più bello il posto della figura paterna che un po’ rappresentava il precedente (Gianni Bissaca). Tornano anche e sono sempre carinissimi, le versioni “da piccoli” di Marta, Fede e Iacopo, ossia Franca Pellecchina, Viola Demo e Christian Nerone, con i loro adorabili siparietti da “amici per sempre e da sempre”. Sul più bello è cambiata anche la regia, affidata ora a Claudio Norza, mentre la sceneggiatura è sempre nelle sapienti mani di Michela Straniero e Roberto Proia, già confermati per il terzo film, che uscirà l’anno prossimo e si chiamerà “Sempre più bello”.


Ma la domanda/gioco di parole che si impone è quindi: questo film è davvero Ancora più bello di Sul più bello? E sarà comunque meno bello di Sempre più bello? La risposta alla seconda domanda potrà arrivare solo dopo l’uscita del terzo film, alla prima risposta ci possiamo invece “lavorare”. Ancora più bello ha un po’ la forma di una miniserie televisiva di sei puntate che può sembrare di prima battuta compressa in novanta minuti di film. È un film meno “quadrato” del primo capitolo e forse più dispersivo, che mette la povera Marta (che è diventata ancora più sexy, alla faccia del suo sentirsi “bruttina”) forse troppo ai margini. Ma i personaggi sono tutti davvero graziosi e divertenti, le ambientazioni sempre ultra-colorate e anche l’approccio alla storia è leggero, veloce e gradevole come leggere le strisce di un fumetto o guardare una puntata di un cartone animato per adolescenti. Sono proprio queste scelte narrative e visive, unite a un ottimo casting, a fare sì che anche se uscisse tra tre anni un film “ancora, ma ancora e ancora più bello”, la formula potrebbe tenere bene, come alla fine tiene per questo secondo capitolo di una saga che ha sempre più il gusto di “andare a incontrare dei vecchi amici a una festa”. Decisamente un buon intrattenimento, consigliato soprattutto al pubblico più giovane ma molto gradevole anche per chi ama le commedie sentimentali e apprezza quello stile alla Scott Pilgrim che pervade felicemente la visione. 

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domenica 12 settembre 2021

Isolation - uno struggente film a episodi su come il COVID-19 ha cambiato e “confuso” il mondo

 


È complicato parlare del periodo del COVID-19 mentre questo fenomeno è ancora in corso, spaventa, disorienta e detterà l’agenda internazionale almeno ancora per un anno. Per il blog abbiamo visto il curioso, strampalato, involuto, sofferto ma “onesto” Lockdown all’Italiana con Greggio. Un film realizzato sotto il distanziamento sociale degli attori sul set, in una Roma blindata e deserta, dove la massima trasgressione per una commedia era immaginare di tradire la moglie a distanza su Skype. Dove Greggio a un certo punto si sentiva impotente come comico e suonava al pianoforte una melodia struggente, catartica. Forse in futuro ci rideremo su, per davvero. Racconteremo di un nuovo baby boom, di come le coppie in crisi non potendo scappare di casa si siano consolidate, di come il lavoro a distanza e la transizione ecologica siano maturati positivamente, della solidarietà umana che spontaneamente ci ha reso persone migliori, della ripresa economica che ne è seguita. Un po’ come quei film sul maestro di arti marziali Ip man, che terminano con “e dopo la guerra, dopo la depressione, arrivò Bruce Lee”. Ma il futuro al momento è un concetto ancora lontano e nebuloso, le grandi promesse sono ancora “in corso d’opera” e aleggiano ancora sinistre nella memoria, per chi non ha vissuto direttamente o indirettamente i drammi del COVID-19, le bare ammassate di Bergamo, la disperazione di chi ha perso il lavoro, il papa da solo sotto la pioggia in San Pietro. Sosteniamo ancora a fatica il troppo felice slogan “andrà tutto bene”, che sinistramente è anche la frase più abusata nei film horror prima che arrivi il peggio. Ci viene un brivido quando nelle sale cinematografiche di nuovo aperte lo spettacolo si apre con quel messaggio a inizio proiezione che dice, ancora oggi, “tieni la distanza, indossa la mascherina e rilassati, ora sei al sicuro”. 


Oggi siamo di nuovo a quel punto, come in Lockdown all’italiana, con l’arte che cerca di trovare un senso al periodo della “nuova peste” che abbiamo vissuto e in parte stiamo ancora vivendo (ancora per poco, incrociando le dita). Isolation è un’opera che vuole guardare nel magma emozionale di cinque artisti diversi, di età, nazione e sentimenti diversi, parlando per lo più la lingua del documentario. Arriva quindi ad aprirsi le danze con Death Close by un Michele Placido crepuscolare, stropicciato e  senza trucco. Affronta le vie deserte della Roma del primo Lockdown  da solo, ripreso nell’incedere tra le vie dal suo telefono cellulare. Erano i momenti in cui le vittime giornaliere arrivavano a 1000, gli anziani erano i più esposti, le mascherine erano introvabili e si facevano le code ai supermercati. Ci dice che la moglie  non è contenta che lui esca di casa, perché ha paura che se dovesse morire all’improvviso lei vorrebbe essere al suo fianco. Ma lui non riesce a restare in casa, deve documentare e deve con le sue parole e la sua arte provare a ispirare, trasmettere vicinanza a chi soffre e speranza per il domani. Perché per Placido l’isolamento forzato per questioni sanitarie non può corrispondere a un isolamento interiore, a un “arrendersi”. Nel suo segmento Placido incontra Bocelli e parla con lui di filosofia e letteratura. Poi si muove tra le guglie del Duomo di Milano con Bolle, nell’unico luogo abbastanza isolato da non necessitare la mascherina. Fa capolino nei teatri che registrano per lo streaming, dove le artiste confessano di mettersi ancora il rossetto sotto la mascherina, nonostante nessuno lo possa vedere. Placido fotografa nei dettagli una normalità che cerca di sbocciare nel momento più nero e segue lo stesso percorso della tedesca Julia Von Heinz nel corto successivo, Two fathers. Attraverso immagini in presa diretta, una segreteria vocale e alcuni filmati d’archivio, la Von Heinz racconta la scomparsa e al contempo la “scoperta” di un padre ai tempi del COVID-19. Un padre percepito lontano da anni e che ora deve seppellire in uno di quei tristi funerali contingentati con massimo di due persone. Un padre che attraverso i diari e le lettere che la donna ritrova per casa racconta una vita segreta e un rapporto omosessuale di lunghissimo corso. Al punto da far sorgere spontanea la convinzione di aver potuto conoscere due padri, che sarebbero magari vissuti alla luce del sole se gli omosessuali fossero stati ai tempi accettati come oggi, dopo che molte battaglie sulla libertà di genere sono state riconosciute. L’autrice compie un parallelismo diretto tra l’isolamento sociale, vissuto da chi si è negli anni ritenuto diverso in quanto omosessuale e l’isolamento sanitario imposto oggi dal COVID-19. Il corto assume presto la forma di un dialogo a distanza tra l’autrice e una figura di spicco del movimento omosessuale. Si muove invece in ambito mediatico il segmento Liberty, Equality, Immunity del francese trapiantato in Svezia Olivier Guerpillon, con una satirica critica al cosiddetto “modello Tegnell”. Del resto non si può parlare oggi di COVID-19 senza parlare dell’enorme sovraesposizione mediatica dei virologi. Il virologo di stato Andreas Tegnell ha negato a lungo la necessità di mettere in pratica i lockdown, mettendosi in diretto contrasto con le opinioni dell’OMS e diventando in certi contesti una bandiera dei movimenti no-vax. Olivier Guerpillon con pungente ironia e utilizzando stralci di telegiornali racconta il paradosso di vivere in uno dei paesi al mondo più ossessionati dalla sicurezza e dalla prevenzione delle malattie, ma che in questo caso ha eletto Tegnell come una specie di salvatore. Al punto che il suo ritratto è arrivato a essere rappresentato su delle bandiere e addirittura sui tatuaggi. La fermezza, il curriculum impeccabile (era in Zaire con Medici senza frontiere durante l’Ebola) e il carisma di Tegnell hanno saputo per Guerpillon spingere la Svezia verso una china pericolosa, di sostanziale negazione della pericolosità del virus, almeno fino a quando hanno iniziato ad arrivare dall’estero immagini forti come le bare di Bergamo. Da lì il percorso di negazione è stato più difficoltoso ma è riuscito pervicacemente a durare ancora a lungo, rallentando il periodo necessario a un’azione di contrasto che ha comportato infine un picco dei contagi fuori misura. Le continue rassicurazioni del virologo “che la pandemia sarebbe andata a spegnersi da lì a un mese” continuavano nei fatti a essere rimandate e lo sono tutt’ora. Certo è difficile prendere decisioni e divulgare informazioni su un fenomeno epidemiologico ancora in corso, non codificato da studi clinici longitudinali e per il quale siamo ancora a una fase di risposta sperimentale. Un virologo non ha la sfera di cristallo, ma può invitare all’uso corretto della profilassi, può rassicurare circa la bontà di una cura rispetto a un’altra mostrando i dati di una ricerca, può fare comparazioni con altre epidemie. Certo, che alla fine utilizzino quella “sfera di cristallo che non hanno” glielo chiediamo sempre alla fine. Facciamo le classifiche tra chi è più pessimista oppure ottimista, tra chi è più simpatico e chi più musone. Faccio qui outing e dichiaro il mio amore incondizionato per la dottoressa Barbara Gallavotti. Amo perdermi nel suo modo calmo e rassicurante di parlare, nel suo sorriso e nei suoi occhi dolci. Mi sento come un bimbo cullato nel passeggino da una mamma affettuosa che si avvicina a me col volto. mi allunga sul viso i suoi riccioli e mi dice “forse non andrà tutto bene oggi, ma ci proveremo lo stesso”. E credo che un virologo in tv dovrebbe fare un po’ questo senza che noi pretendiamo o speriamo che faccia altro. La ricerca scientifica non si muove in linea retta. Certo il caso dell’isolamento nella politica sanitaria della Svezia è abbastanza emblematico di come i media spesso ci abbiamo confuso le idee e sullo stesso piano arriva il quarto segmento, del belga Jaco Van Dormael, dal titolo Mourning in the time of coronavirus. Girato in bianco e nero, il corto è composto da frammenti di telegiornale intervallati da una vicenda umana molto intima che inizia come un girato convenzionale e via via rallenta e si scompone, fino a diventare una serie di fotografie sempre più fuori fuoco, con il solo accompagnato di una musica drammatica. Scorrono le notizie del telegiornale e sembra che raccontino un mondo distante, asettico e indifferente, mentre ci viene raccontata la storia di una coppia suo malgrado isolata, padre malato e figlia, che possono comunicare solo attraverso il monitor di un computer. L’immagine dell’uomo è sgranata dalla bassa risoluzione dell’immagine, il riverbero luminoso del monitor è l’unica luce nella stanza della figlia. Il tempo si allunga, l’immagine si blocca e tutto appare sempre più fuori fuoco. Di primo impatto un po’ “freddo” come forma artistica, nel suo ancorarsi a uno stile visivo più che nella narrazione, il quarto corto possiede l’innegabile qualità di fissarsi nella mente dello spettatore con forza. Le sue immagini fisse e sfuocate assumono inconsciamente forme liquide di fantasmi, il frame rate che scatta fino ad annullarsi insinua una profonda malinconia e senso di solitudine. Non è invece da sola e nel silenzio la protagonista del quinto e ultimo corto, dell’inglese Michael Winterbotton, che dà anche il titolo alla pellicola. In una Londra blindata, in un piccolo appartamento di periferia, vivono una giovane madre con un bambino sui dieci anni. È immigrata in attesa di lavoro, ha un passato disastroso e un marito in carcere, la previdenza sociale inglese la aiuta con 80 euro alla settimana. Il suo isolamento forzato assume subito i connotati della sopravvivenza. Il bambino è incontenibile e fonte costante di rumori, dal prorompere in risate allo schiacciare con foga i tasti del videogioco al martellare sul tavolo con i pastelli da disegno. Una sorta di performance acustica che perpetra con impegno, come si fosse dato il compito di “tenere sveglia la madre”, “allontanarla dalle preoccupazioni”. La madre cerca di stargli vicino come a volte cerca di ritagliarsi dei piccoli spazi dove stare da sola, conscia che si trovano entrambi ingabbiati a tempo indeterminato mentre in tv il premier Johnson continua ad apparire con inviti al sacrificio e al tirare la cinghia. Sono pochi minuti ma da spettatori sentiamo la voglia di scappare e non immaginiamo davvero cosa potrebbe essere vivere per mesi in quella situazione. 



L’isolamento dalla bellezza dell’arte in attesa fremente di un ritorno alla normalità. L’isolamento  dalla fruizione dei propri diritti e libertà ma anche l’isolamento dagli altri per “paura”. L’isolamento sanitario e come si combina con l’informazione, la politica e l’opinione dei virologhi. L’isolamento dai propri cari che diventano sempre più un’immagine lontana e sfuocata, un’immagine da guardare su schermo come un telegiornale. L’isolamento dal resto del mondo quando tutti siamo spremuti senza nostra colpa in un piccolo spazio, a rubarci quasi l’aria. Isolation è un documentario dai sapori forti, che lancia problematiche concrete e riesce a trovare nonostante tutto una energia vitale importante, una bellezza umana che si fa  strada nonostante tutto. Lo stile è sobrio, la visione non trova particolari intoppi nel passaggio di regia ed episodio, ogni autore trova una strada personale e interessante di esprimersi. Sarebbe bello riguardarlo a distanza di qualche anno. 

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lunedì 6 settembre 2021

Fast and Furious 9 : la nostra recensione!


Nel “Toretto-verso”, quel mondo abitato da soli truzzi con automobili sgargianti, c’è una nuova super arma distruggi-tutto in circolazione e sembra che la voglia sfruttare Jacob (John Cena), il fratello segreto cattivo di Toretto fino ad ora mai apparso nella serie. Il signor Nessuno (Kurt Russell) è disperso, The Rock e Jason Statham sono altrove a fare un altro spin-off della saga, Dominic chiama allora il resto della ciurma e inizia un’indagine “su tutto il pianeta” per arrivare per primo ai due pezzi più il “pezzo bonus” in cui è stata divisa la super-arma. I personaggi di Ludacris, Shad Moss, Nathalie Emanuelle, Bow Wow, Ozuna, Jason Tobin e Lucas Black faranno le “cose scienziate”. I personaggi di Tyrese, Jordana Brewster, Michelle Rodriguez e Vin Diesel faranno le “acrobazie motorose”. Torneranno le super-spie di Charlize Theron ed Helen Mirren, Cardi B e Anna Sawai faranno (per troppo poco tempo) le “patate”. Michael Rooker avrà il personaggio più bello ai fini della trama e tornerà in scena, con un effetto sorpresa che sappiamo già da due anni esserci, Sung Kang. C’è anche un nazi-cattivo che si chiama Otto (Thue Ersted Rasnussen)! Novità tecnologica di Fast and Furious 9: le auto-calamite!!!! Si attaccano ovunque, corrono ovunque, sono fantastiche ovunque!!! Trova il jet calamita da collezione e la super macchina segreta spaziale nei migliori rivenditori autorizzati!! Collezionale tutte!!!



Riuscirà Toretto a salvare di nuovo il mondo?

Nuovo film di Fast and Furious, di nuovo regista di Justin Lin ossia l’uomo che ha fatto rinascere il franchise con Tokyo Drift, una durata di oltre le tre ore che manco il Signore degli anelli. Un cast che è lungo quanto le pagine gialle si accompagna sempre più all’idea che ci troviamo in una specie di realtà aziendale, dove se Tyrese non compare per tot minuti su schermo ti chiama gli avvocati. Ma che ci fai fare a tutta questa gente a cottimo, pur avendo già spostato nelle “filiali esterne“ mezzo cast (con lo spin off Hobbs e Shaw), in un film come Fast and Furious che è roba di inseguimenti che va bene per massimo 90 minuti? Ci fai fare il polpettone ovviamente, il solito polpettone. Un polpettone che te lo aspetti, visto che siamo al film numero “9” e non si può più accampare scuse del tipo “sono entrato in sala pensando che fosse roba di Martin Scorsese”. Ma comunque un polpettone che sembra sempre più deperito e stopposo per sopraggiunti limiti di età. Prima  c’era la velocità, l’eccesso, la parte sensuale, il mondo criminale da periferia, le pistolettate, il quasi-noir e tutto quello che in genere rende interessante a certi livelli la “truzzeria” che anima questo franchise. Oggi, nove capitoli e uno spinoff dopo, quei truzzi in canotta “ribbbelli e bbboni” sono finiti come tutti i truzzi sulla cinquantina. Con la panza per lui e il culone per lei, “ibbbambini da portare asscoola”, quella voglia di vedere lontano che non si spinge oltre il Campari al baretto per l’aperitivo. Nessuno che prova più a fare qualche scena di combattimento seria (Tony Jaa, Statham, Idris Elba... dove siete??), basta sfilate di fregne in bikini (quanto ci manca Gal Gadot, quanto ci deprime Charlize Theron vestita e truccata come dovesse andare a comprare i peperoni all’Esselunga?), basta crime-vita loca (il top è usare ora i radiocomandi come quei vecchi che mettono i modellini delle barchette in una piscina per fare le “battaglie navali”). Rimangono su schermo le macchinine in computer grafica, pur colorate e veloci, ma per lo più  da lanciare una contro l’altra con le loro nuove calamite. Che tanto “non si fa male nessuno”, in una roba indegna di un cartone animato. Nel prossimo film mi aspetto solo le piste stile luna park alla turbo-duello o squalo-parco e credo che ci arriveremo. La pazzia, la voglia di “fare brutto” in modo eccessivo e senza rimorso di tanti eterni-tamarri cinematografi, alla Michael Bay o alla Nicholas Cage (tamarri “immortali per davvero” loro, non tu Tyrese...) , qui non c’è più.  È tutto plasticosamente spento, asettico, innocuo. Perfino i flash-back e la storia dei fratelli, Toretto e John Cena, che è di sicuro la parte migliore dello spettacolo, non riesce a incidere abbastanza. Si è spenta la fiamma “dell’alcol e del nos” e nel grande carrello del supermercato dei “film action della vita” sono rimasti i giocattoli. Nessun costume da bagno attillato, nessuna canotta griffata, nessun cerchione in lega, attrezzi ginnici, beveroni da palestrati, gioielli da bigiotteria con teschi, profumo Axe Africa. Giusto una cassa di Birra Corona, che comunque paga ancora gran parte del carrozzone e permette a Tyrese di coprire il mutuo. 



Non è quindi questione di “numero”, ma di testa. Sembra oggi che Vin Diesel diriga per lo più un'azienda che cerca di essere un film, mentre nella sala cinematografica accanto James Gunn fa tutto quello che dovrebbe essere un film action alla Fast’n’Furious. Con tutta la cattiveria e scorrettezza che Diesel non si sogna più di avere, perché metti che per Fast 10 la Mattel poi non ti tira più fuori quella super pista di macchinine ispirata al franchise...

Moscio. 

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(Il commento finale del commento finale, elaborato alcuni giorni dopo la visione e la stesura della recensione): ragionando da un punto di vista del tutto diverso da quello usato finora, Fast9 è il film che più di tutti ricongiunge un uomo adulto alla passione per le macchinine, permettendogli di tornare a condividerla con un bambino. A posteriori penso che sia questo davvero il punto a favore della nuova impresa di Toretto e soci. Forse la sovrastruttura da “gangsta” del franchise diventa qui, dopo 8 pellicole, una serie a cartoni animati, i videogame e le macchinine solo un orpello non più essenziale. E alla fine mi vengono in mente quei ragazzoni quarantenni che giocano online agli sparatutto competitivi per un atavico bisogno di rivivere il “gioco del nascondino” o “della bandiera”, che da bambini erano il must dei giochi al parchetto con gli amici. E allora eccoci a considerare Fast9 più propriamente come il fratellino giusto un po’ più tamarro di Cars della Disney, ideale per essere replicato negli inseguimenti con una pista di biglie sulla spiaggia. Oppure come la versione umanizzata di una puntata del cartone animato dei G.I.Joe, dove più che le pistolettate il Focus sta nel parlare di famiglia, amicizia, coraggio. Visto così, tornando bambini e inserendolo in questo dialogo generazionale, Fast9 può inserire davvero la marcia giusta, forse anche perché alleggerito da tutte quelle cose fracassone e vistose che piacciono agli adulti e che qui un po’ mancano a chi “se le aspetta” al di là delle macchinine colorate. E a questo punto mi parte un po’ a sorpresa pure una conclusione diversa al commento: e se la maturità di un franchise come questo risieda proprio nel suo accettarsi come un giocattolo, spogliandosi di tutte le “suggestioni da DMax” che sempre più ci ossessionano?

Per sentirci un agente segreto in fondo non è necessario essere calati nella ricostruzione realistica della vita di un agente segreto, ma ci basta fischiettare il tema di Bond. Quindi vi lascio a questa riflessione strana ma sentita, sul nostro bisogno interiore di tornare a giocare come bambini e su come questo meccanismo  forse lo abbiamo nascosto nei nostri film action preferiti. E vi lascio così, perché devo andare a giocare con le mie macchinine…

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