lunedì 27 settembre 2021

Respect - la nostra recensione del film sulla vita di Aretha Franklin

 


Siamo a Detroit, negli anni '50, dove la piccola Ree (Skye Dakota Turner) incanta con la sua voce i cori della New Bethel Church. La passione per la musica gospel  è il grande legame speciale che la unisce con la madre Barbara (interpretata dalla star di Broadway Audra McDonald), che ora vive lontana, a Buffalo. Quando madre e figlia sono insieme e duettano, sembrano quasi perdersi in un piccolo mondo armonico tutto loro, dotato di una “straordinaria grazia” dove la luce è intensa e in cui Bree è felice. Un mondo ben diverso da Detroit e dai suoi chiaroscuri violenti. Quando Ree non ha ancora 10 anni, la madre purtroppo muore per via di un attacco cardiaco e lei viene affidata permanentemente alle cure di un padre, Clarence (il premio Oscar Forest Whitaker), severo, assente e forse un po’ egocentrico. Ree rimane incinta a 12 e poi a 14 anni e la pellicola ne parla giusto di sfuggita, anche perché è un tema spigoloso, di cui la cantante ha parlato poco e solo su alcuni scritti trovati postumi alla sua morte, nel 2019. Mamma ma ancora bambina, Ree con la sua voce continua negli anni a brillare per il padre, che vuole sia solo lei a cantare come prima voce nei gospel che arricchiscono le sue serate di predicazione come pastore battista. Sono gli anni di Martin Luther King (interpretato da Gilbert Glenn Brown che ne fa quasi una figura paterna alternativa) e Ree lo incontra più volte in quanto amico del padre, portando a un sodalizio che legherà la cantante e il politico per tutta la vita. A 18 anni Ree (ora interpretata dalla cantante Jennifer Hudson) firma per la Columbia Records, con cui produrrà 9 album, sempre con dietro il padre Clarence come manager e mentore. Ma la svolta della vita, la “chiamata” come si direbbe nei Blues Brothers, avverrà in concomitanza con il nuovo contratto con la Atlantic, nel 1966. La nostra Ree era famosa e corteggiata dalle radio, ma scontenta, non realizzata. Poi cambia qualcosa con l’incontro/scontro con la cantante Dinah Washington (interpretata da Mary J.Blige), che la mette davanti ai suoi limiti e a quello che vuole diventare “da grande”. Poi arriva la nuova relazione con Ted White (Marlon Wayans), accolto come una liberazione dal giogo paterno, ma che si dimostrerà da subito solo l’ennesimo “padre/padrone” della sua vita. Ma in tutto questo nel 1966 Ree, pur da “bravo soldato” continua a cantare come sempre, senza scontentare l’ambizione ora del nuovo compagno, ma con una nuova voce. Una voce che tra le note e le strofe si eleva e si fa “urlo”. Un ruggito autoritario quanto sensuale, caldo quanto potente, che muove dal gospel “materno” al soul. Un ruggito che sgomita nella metrica, richiedendo per essere accompagnato musicisti con forte esperienza jazz e blues. Ree per una volta richiede con questa sua nuova voce Rispetto per se stessa. “Ree-spect”, per il suo punto di vista, dolore e passione. La sua voce diventerà in breve così unica e popolare da unire le voci delle donne oppresse, la voce delle persone di colore verso la parità dei diritti sotto la guida non violenta di Martin Luther King, la voce di chi ama la musica e il suo potere di cambiare il mondo. Una voce che raggiungerà il suo apice quando re-incontrerà il gospel, vivendolo non più con gli occhi di una bambina ma di una donna. 


Liest Tommy è una giovane regista che conosce la storia della musica e riesce a raccontarla, come dimostrato nel suo ultimo lavoro su Dolly Parton. Il canovaccio di Respect, a opera di Tracey Scott Wilson e Callie Khouri, racconta una storia “tristemente” abbastanza classica, dove una artista di colore deve farsi strada nel mondo della musica per lo più ostacolata da figure maschili autoritarie quanto frustrate da un successo che godono solo “di riflesso”.  Ma la musica, la straordinaria musica di Aretha Franklin, riesce sempre a innestarsi meravigliosamente sulla trama e a guidarne magicamente l’intreccio, dialogando e duettando con la storia della vita della protagonista. Aretha sembra apparentemente un personaggio immobilizzato nel ruolo di una donna sottomessa, ma il personaggio riesce a esprimersi proprio attraverso le parole delle canzoni e la grinta con cui le interpreta. Attraverso l’arte, Aretha si esprime in un modo cosi sottile da non venir percepito dai suoi “aguzzini”, che di fatto non ascoltano la sua musica quanto vivono del “successo che genera”. Ma al contempo la musica di Aretha riesce a colpire il cuore per  davvero quanti la ascoltano sul serio e sa trasformarsi in una specie di voce interiore collettiva. Era difficile veicolare al cinema una visione così raffinata quanto spirituale della musica. 


Respect va oltre una cornice narrativa compassata quanto elegante, trascinando la musica direttamente nella narrazione, in un modo diretto, sincero, dirompente ed esponenziale. Aretha rivive al meglio dentro una bravissima Jennifer Hudson, attrice e cantante che avevamo già apprezzato nei panni di Effie White in Dreamgirls e Grizabella in Cats (anche se visivamente Cats è un po’ “Strong”, rimane un film con bellissime interpretazioni). Forrest Whitaker è sulla via regale di James Earl Jones, il suo Clarence è ricco di sfaccettature e nasconde sotto la scorza qualcosa di più, titanico e dolente nel dover scontare un confronto impossibile e spietato con un “padre spirituale” come Martin Luther King. Marlon Wayans, come Jamie Foxx in Dreamgirls e Laurence Fishburne in Tina, è “bloccato”, come era bloccato Danny Glover ne Il colore viola. Bloccato in un ruolo di “uomo dal potere negato” da una società che non riconosce parità di diritti alle persone di colore, generando in loro un senso di frustrazione che tracima, diventa irrazionale e spesso si sposta con violenza sui propri cari. Non è un personaggio semplice quello di Wayans, come non erano semplici i personaggi di Glover, Foxx e Fishburne, anche perché narrativamente non vengono “assolti” per le loro frustrazioni e crudeltà. Un bel passo in avanti nel campo drammatico per l’attore comico Wayans. 

In Respect troverete una straordinaria colonna sonora, da gustare rigorosamente nella migliore sala cinematografica per impianto sonoro. La durata supera le due ore ma non la avvertirete. Molto bravi gli interpreti. Una storia semplice ma scandita da meccaniche intriganti che mettono al primo posto e con molta originalità l’arte. Un buon tributo per scoprire o riscoprire Aretha Franklin. 

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