lunedì 31 agosto 2020

Dragonero il ribelle n. 10 - Il dormiente - la nostra recensione


Premessa: Siccome è agosto, in un periodo per tutti un po’ pieno di stress e ammennicoli,  anche noi siamo questo mese un po’ dormienti, come da titolo di questo numero di Dragonero. Speriamo di far uscire la recensione almeno entro marzo, salvo imprevisti. Buona notte... cioè, buona lettura!


Quest’estate non andremo al mare, come cantava Giuni Russo, ma dalle parti dell’Enclave della montagna, tra “i figli di Olhim” che cavalcano fieri stambecchi, a strafogarci di cioccolata con miele e radici di gengiovo. In più i figli di Olhim grazie all’energia spiritale del loro grande frassino sono riusciti ad abbattere l’esercito imperiale e la loro signora delle lacrime. Come radio Deejay, che una volta arrivati in montagna scompare dall’autoradio, sovrascritta da Radio Zeta e la sua compilation di balli lisci tirolesi, anche la super arma del gran sacerdote non ce la fa in questi luoghi, manca di appeal sul popolo. Con il tour della Signora delle Lacrime che va a monte, nella capitale c’è malumore tra chi davvero comanda, le donne, mentre l’isteria continua imperterrita tra i maschietti. Il sacerdote è depresso duro e vuole conforto e qualcuno che gli stiri le tuniche bene. Uno come Roney, già ingestibile quando tutto va bene, alza la crestina così in alto che sembra sempre di più il cattivo bullo di uno spettacolo di wrestling alla Randy Orton. Per evitare che si inalberi pure il terzo fesso, Leario, questo viene tenuto lontano dal problema del giorno, irretendolo e instupidendolo con la solita geisha compiacente che lo sballa tra tette, strani fumi psicotropi e canzoncine autoprodotte neomelodiche. Insomma, la ribellione sta in vantaggio 3 a zero e può permettersi pure di fare un po’ di melina. Ian decide così, per rilassarsi, di voler farsi coccolare un po’ da Briana. Ma sta così troppo rilassato che mentre si rilassa con lei pensa alla sua vecchia fiamma, la “lupa”, che nomina ad alta voce mentre si aggroviglia con Briana nel momento di massimo piacere. Non l’avesse mai fatto, Ian rischia la vita di più adesso che contro le regine nere!!! Gmor preoccupato dalle grida che vengono dalla camera da pomiciamento deve intervenire per evitare che Briana ammazzi l’amico, corre e fa in tempo ad evitargli un affondo mortale di una Golden Axe (non succede davvero, ma se accadesse non mi impressionerebbe). Tra la vita e la morte, mentre Briana lo ricuce con la grazia di un macellaio ubriaco, Ian trova il tempo di elaborare per lei una supercazzola senza senso tipo: “No vedi, amore, Briana, luce dei miei occhi... non pensavo davvero a quella mia vecchia amica, che so non devo nominare davanti a te o mi sguinzagli contro i meta-lupi. Vedi, è diverso! È un po’ come avviene a Sera nel numero di Dragonero il ribelle di qualche mese fa! C’ho un marchio magico invisibile sul braccio dal numero 6 della collana, che mi mette pure a me in contatto con la magia degli alberi e altre robe hippie. Così mi è venuta in mente l’amica lupa, che pure lei è una strega di riti silvani vari, che mi ha chiamato attraverso il marchio magico, tre minuti fa, ma per una cosa serissima, giuro!! Vedi? Magia, non tradimento psicologico!!! La lupa ha un problema e  devo aiutarla a risolverlo, me lo ha detto mentalmente. Quindi ora che sei calma vado da lei, dalle parti degli Olhim, dove fanno quella cioccolata che tu sai... devo partire subito, anzi parto proprio adesso!! Ci vado da solo così non impegno la truppa in una missione pericolosa. Userò il pollo volante e atterrerò direttamente nella tenda della lupa a fare ciò che devo.  Quindi non stare a pensare che sono il classico burino che pensa a una donna mentre sta con un’altra! Siamo in un fantasy moderno, diamoci un po’ di modernità intellettuale.” Briana, da persona moderna di un fantasy moderno, gli crede. Così Ian vola a farsi una cioccolata e a farsi assegnare dalla lupa una quest corroborante a base di draghi drogati da certe piantine hippie. 

Il nuovo numero di Dragonero, scritto da Enoch per i disegni di Antonella Platano, entrambi davvero in forma, è un trionfo di epica e scene d’azione di massa raccontate attraverso sontuose splash page ultradettagliate. Lo scontro tra i figli di Olhim e le truppe imperiali (pagg. 5-25) è roboante, con gli eserciti che si squadrano prima della battaglia con tavole panoramiche a doppia pagina, all’ombra di montagne imponenti. L’esercito del nord attacca dall’alto, gli imperiali muovono dalla pianura. La narrazione visiva si fa vertiginosa, verticale. Gli imperiali vengono travolti da una valanga umana di guerrieri cornuti con le onomatopee che tramutano gli stambecchi alla carica in un rombo simile a un terremoto. La fuga degli imperiali è disperata, splatter, la paura è chiara nei loro occhi e pari a quella che suscita la figura imponente e spettrale della Signora delle Lacrime mentre si muove sovrastando gli avamposti Olhim. Se all’inizio della battaglia tornano alla mente scene del terzo film de Lo Hobbit, piano piano si arriva alla vivida brutalità di Bravehart, in un crescendo. Dopo un po’ di tavole di dialogo per riprenderci da questo travolgente overture visivo, l’azione torna in scena massiccia e potente (pagg. 64-94), quando Ian incontra il drago dormiente, in un modo di nuovo differente, questa volta vicino alla favola illustrata. Lo spettacolare confronto tra Ian e il drago, in uno spettacolare luogo tra fiamme e ghiaccio,  trova il climax quando i movimenti dei dei due diventano “sospesi, rarefatti fino quasi a cristallizzarsi“ (pagg. 88-89) in pochi movimenti-chiave, attraverso tavole dove la raffinata e chirurgica descrizione del codice del valiedarto sul combattimento ci ruba lo sguardo, ci fa soffermare sui testi. Il drago, una delle creature in assolute più belle in Dragonero, è anche qui enorme e regale, con una storia complessa di rapporti con gli uomini alle spalle, una voce tonante. A questa “aura”, a mia impressione, contribuisce benissimo il modo in cui “graficamente parla”: dei giganteschi baloon dallo sfondo nero irregolare e contornato di una linea bianca, con il lettering più grande degli altri personaggi, quasi doppio, dalla grafia più irregolare, che non cela aggressività e timore dietro ad ogni parola. Il dormiente ha un suo tesoro da difendere ed è qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che ce lo rende umano, scostante, irragionevole. Come sempre, quando arrivano le scene sulla scalcinata corte imperiale Dragonero dà sfoggio al meglio della sua linea comica. Ringraziamo Roney per le sue pose e dialoghi da fessacchiotto, attendiamo il suo pupazzetto da collezione. Zhabele la “lupa” (la chiamo di solito “la lupa” perché mi dimentico sempre dove sta la “h” e se ci sta la “e” finale) rimane un personaggio ricco di fascino, che dopo gli eventi delle Regine Nere ha ora un ruolo ancora più importante nello scacchiere geopolitico della serie. La Platano la dipinge dalle forme giunoniche e dallo sguardo malizioso, ma dagli occhi decisi di una regina. Enoch non contiene in lei la sua sconfinata passione per Ian (sadicamente contratta per questioni di gossip che saranno in seguito sviluppate), allude romanticamente al passato che hanno avuto insieme, ma comunque riesce a dare la risolutezza e distacco che sempre più il suo personaggio, per ruolo, richiede. Gli Olhim c’hanno gli elmi con le corna, sembrano usciti da Skykim e va benissimo così. Nelle scene di massa sono meravigliosi e carichi di dettagli. Visivamente funzionano, così come sono davvero bellissimi i paesaggi di montagna in cui la Platano li disegna. 
Enoch con la sua consueta classe confezione un nuovo bel numero, la Platano lo rende visivamente da urlo. La testata Bonelli rimane a livelli altissimi ed è sempre un piacere leggerla. Davvero un buon lavoro. 
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sabato 22 agosto 2020

Harmony - il secondo tassello dell’ Project Itoh, on-demand e presto home video, grazie ad Anime Factory

 

Per molta fantascienza moderna uni dei temi centrali è l’intelligenza artificiale, il modo in cui le macchine si adatteranno al mondo. Per Itoh l’intelligenza umana rischia di diventare “artificiale“, annichilendo la coscienza del singolo, attraverso un procedimento scientifico nato al fine di eradicare dall’uomo la paura di vivere. 
Futuro. A seguito di una catastrofe globale è stata edificata una società nuova. Non ci sono più malattie, conflitti e tutto sembra colorato di rosa. L’Organizzazione Mondiale di Sanità è diventato un organismo apicale rispetto a ogni stato, al fine della preservazione della vita sopra ogni altro valore. Agli esseri umani vengono impiantate fin dalla giovane età delle nanomacchine in grado di vigilare sulla salute in tempo reale e attraverso un'applicazione legata alla retina vengono inviati continui messaggi su come vivere e comportarsi nel modo migliore. Tutte queste migliorie eu-genetiche, unite a un cocktail di neuro-scienza applicata, hanno però un effetto collaterale inquietante: tutti sembrano essersi omologati su modelli comportamentali comuni, esprimendo preferenze e stili di vita similari. Tutti sono “felicemente” controllati, curati e supportati psicologicamente al punto di essere svuotati, al punto di far avanzare il lecito dubbio di “vivere realmente”. Nelle zone più povere del mondo al contrario si avverte un maggiore senso di individualità, accompagnata da una capacità di scelta di vita che per certi versi si accompagna a un grado maggiore di libertà, nonostante in quei luoghi i conflitti e miseria siano all’ordine del giorno. È qui che una giovane ispettrice dell’OMS di origine giapponese, appartenente al prestigioso gruppo dell’Elica, vive in un mondo a metà strada, tra tuareg e scontri tra droni militari, ma al contempo libera dai vincoli dall’avanzata società “Sanitaria”. Tuttavia un imprevisto la porta a tornare in Giappone a confrontarsi con il suo passato, rievocando delle amicizie socialmente pericolose e in grado di scatenare sorprendenti conseguenze per il destino stesso dell’umanità. Qualcuno potrebbe arrivare il programma “Armonia”, in grado di spegnere una volta per tutte tutti i problemi sociali del mondo. Anche a discapito dell’annichilimento di ogni coscienza. 


Tra citazioni dei Dolori del giovane Werther di Goethe e del Pendolo di Foucault, con una acuta quanto spietata e inquietante analisi “messianica”, datata anno 2008, della “società sanitaria”, che oggi nel 2020 sembra davvero vicinissima e poco futuribile, Itoh sgancia la seconda bomba da fantascienza sociale della sua sua breve quanto straordinaria carriera. Se in Genocidal Organ il tema era l’impossibilità dell’uomo di far fronte alla sua autodistruzione “geneticamente garantita” da un fantomatico “organo genocida” interno alla sua corteccia celebrale, giocando con l’applicazione bellica di tale struttura, in Harmony Itoh si concentra sul mito della libertà “ai tempi del futuro“. Un uomo socialmente arrivo nel volontariato, controllato a livello medico e psicologico, gentile, produttivo, amabile. Il tutto tramite dei comodi messaggi neurali tempestati nella sua testa a ogni istante, nanomacchinine che ne curano ogni parametro vitale, un’opprimente e onnipresente colore rosa che abbraccia vestiti ed edifici perfettamente ecosostenibili, ibridi, para-biologici. Un uomo così tutto fuso in un “tutto indistinto” al punto da dubitare se sia in grado di desiderare qualcosa di diverso, di socialmente alternativo. Se non addirittura un uomo in cui vi è il dubbio esista un pensiero autonomo al di là del soddisfacimento delle pulsioni più comuni, come via via la trama sembra suggerire. Itoh sceglie il punto di vista di tre donne, raccontate dall’adolescenza all’età adulta. La perdita dell’adolescenza diviene una sorta di lutto doppio, perché in questo mondo fantascientifico comporta oltre all’inizio di un lavoro “omologato/ingrato“ (l’incubo ricorrente in tutta la narrativa giapponese: lo spegnimento di ogni sogno, di sport o successo, dopo l’età del liceo, con davanti solo un grigio ufficio da salaryman) anche l’implementazione sottocutanea di un qualche marchingegno elettronico di controllo sociale. Un lutto che viene affrontato con una fuga dalla realtà, con una “morte”, e con un’omologazione forzata. La vicenda si muove tra presente e passato evidenziando una storia dalle tinte sempre più fosche quanto “universali”. Come in Genocida Organ ci sono moltissime scene d’azione e si passa attraverso ricostruzioni animate di scenari internazionali, con molto “oriente” arabo, ma sempre con un occhio di riguardo ai tormentati paesi dell’Est Europa (qui si esplora la Cecenia). Lo studio animato scelto per questa pellicola del 2015 è il blasonato Studio 4 C di Spriggan, SteamBoy, Childer of The Sea. I registi sono Michael Arias, che con Studio 4 C aveva già diretto l’ottima adattamento di Tekkonkinkreet, e Takashi Nakamura, storico direttore dell’animazione in Akira.
Come per Genocida Organ voliamo quindi altissimo a livello tecnico. Harmony è un film visivamente sorprendente, pieno di intuizioni visive e dalla trama davvero affascinante. Ci sono molti inserti in computer grafica, ma questa è usata in un modo molto originale, quasi a creare degli “avatar di pietra” all’interno di un cyber-spazio, con effetti che rimandano alle ugualmente misteriose “statue dei saggi” di Ergo Proxy. Il Character design risulta molto particolare, a tratti risulta quasi umoristico, a tratti rileggendo soprattutto negli abiti e volti delle protagoniste una atmosfera da “maiocco” tra divise alla marinaretta, fiocchetti e treccine, alternati a improbabili divise militari sgambate. L’intero mondo di Harmony è carico di colori sparati e strutture complesse ad alveare. Ovunque ci sono robot e veicoli con componenti pseudo-animali. Dai droni-asinello agli aerei con ali d’uccello e code avviluppate a piovra. Un bel trip.
La seconda pellicola dedicata ad Itoh è sorprendente e attuale per noi quanto la prima. Un viaggio irrinunciabile per gli amanti della fantascienza, in specie di quella sociale. 
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giovedì 20 agosto 2020

Cats - la nostra recensione del controverso adattamento cinematografico del musical di Broadway

 

In una magica notte londinese, in un misterioso quartiere, dei misteriosi gatti si radunano per un ballo ancestrale quanto... ovviamente misterioso. Uno di loro sarà scelto dal “gatto anziano“ (Judi Dench) vincendo una esibizione stile X-factor, per ricevere una nuova vita. C’è tra loro una gattina dal pelo bianco come il latte, Victoria (Francesca Hayward), che si trova suo malgrado in quelle strade dopo essere stata gettata in un sacco da un’automobile in corsa. Conoscerà alcuni di questi misteriosi gatti, le loro storie e naturalmente il pezzo musicale e balletto collegato che porteranno a questa specie di X-Factor. Victoria parteciperà alla scelta del gatto anziano esercitando un particolare televoto e troverà forse il suo posto nel mondo. A rendere fosco il risultato del rito interverrà un malvagio gattaccio dal pelo scuro, Macavity, (Idris Elba). Insieme al suo gruppo di gattacci cattivi, guidati da Bombalurina (Taylor Swift), cercherà di sabotare lo spettacolo. Ma i felini avranno molte magiche frecce al loro arco. Ovviamente rese attraverso balletti magici. 


Cats parla di gatti, dà voce ai gatti. Gatti giocherelloni che vivono in strada, gatti cacciatori di topi a guardia delle case degli umani, gatti che sono la mascotte di una stazione ferroviaria, gatti che bazzicano il vicolo dove i ristoranti gourmet mettono gli “avanzi”. Gatti coccolosi come quelli delle foto che le ragazzine scaricano da internet per poi inondare whatsapp di tenerezza molesta. “Gattacci”, che vivono per fare dispetti e rompere cose. Gatti magici che diventano invisibili e fanno scomparire gli altri, volano e fanno roba da Cirque du Soleil. Gatti  che conoscono ogni rappresentazione del teatro in cui hanno casa. Gatti gangster, gatti imprendibili come Flash, gatti schiacciati e distrutti dalla vita come il “gatto rognoso”. Tutti gatti a prescindere nobili, con glorioso passato di divinità presso gli egizi, che in una notte si raccontano fornendoci testamento di cosa significhi davvero essere un gatto. Essere liberi, indipendenti, generosi, affettuosi, scaltri quanto irresistibili, a volte stronzi. Perché “un gatto non è un cane”, chiosa lo spettacolo.
Credo di aver visto il musical teatrale Cats con musiche di Andrew Lloyd Webber e produzione a cura Cameron Mackintosh , ispirato alle poesie di S.T.Elliot della raccolta Il libro dei gatti tuttofare, almeno quattro o cinque volte. Ho visto per la prima volta in VHS la rappresentazione teatrale di Broadway, ho visto la compagnia londinese di Cats a Milano agli Arcimboldi, ho visto una versione curata dalla Compagnia della Rancia al Teatro della Luna, ho visto un pario di rappresentazioni scolastiche in cui si adattavano delle parti di Cats. Un po’ me ne intendo. 


Cats è uno dei più noti spettacoli musicali di sempre e questa pellicola di Tom Hooper, da poco uscita in home video senza essere passata dalle sale causa Covid-19, a fronte di un “paio” di anteprime stampa di gennaio devastanti, porta Il musical in una forma nuova, più organica, grazie all’inserimento del personaggio della  gattina bianca Victoria. Una gattina poco ciarliera ma dalle magnifiche movenze di danza classica, interpretata non a caso dalla bellissima e bravissima Francesca Hayward, prima ballerina del Royal Ballet, che letteralmente riesce a “cucire narrativamente”, attraverso il suo punto di vista, le canzoni e balletti dei molti gatti che si susseguono fino al finale.  Succede un po’ come è successo con la riduzione cinematografica di Hair: anche in quel caso il musical alla base era “anarchica follia escapista ”che per tradursi al meglio al cinema ha dovuto “vestirsi” di un po’ di “trama“.  Al di là di Victoria e del suo costante “lavoro di collegamento narrativo”, del Cats originale c’è tutto, passi di danza compresi. Il cast è di pregio assoluto, annovera giganti come Judi Dench e Ian McKellen; cantanti del calibro di Taylor Swift, Jason Derulo, Jennifer Hudson. Sono delle magnifiche sorprese le performance di attori come Rebel Wilson e Idris Elba.  Bravissimo il mitico anchorman televisivo James Corden (già in Into the woods) di cui vi consiglio di guardate su YouTube degli spezzoni tratti dal suo Late Late Show, in cui improvvisa dei musical classici per strada, durante il tempo del semaforo rosso, sono geniali e spassosi. Molto bravo e che farà sicuramente strada l’attore inglese Laurie Davidson, interprete del gatto magico Mister Mistoffelees. Il regista Tom Hooper viene dal successo di un’altra trasposizione da un musical, I miserabili, prodotto come Cats per il teatro sempre da Cameron Mackintosh (che invece è estraneo alla versione cinematografica Dreamworks) con cui condivide la stessa estrema cura per il comparto sonoro, scelta degli attori e scenografie. 


Ma allora perché Cats è il musical più controverso degli ultimi anni? 
La follia totale e castrante di questo Cats si trova “a monte” delle musiche, scenografie e interpreti. Si trova allo stato progettuale se vogliamo, nella devastante scelta della raffigurazione “digitale” dei gatti.
I musical sono ricchi di ballerini che impersonano animali. 
Come trasformi a teatro degli uomini in gatto? Gli metti in genere addosso una calzamaglia pelosa, un paio di orecchie e coda finta. Per caratterizzarli di più scegli alcuni elementi di un costume/vestito “per umani”, così che con indosso “una blusa da marinaio” descrivi visivamente in “gatto marinaio”. Un paio di baffi tracciati con il fondotinta, leggero trucco sulla faccia e hai una “faccia da gatto”. In una recente trasposizione di Cats hanno cercato una linea visiva steam-punk. Oltre a dare ai ballerini la calzamaglia pelosa, i baffi finti  ecc. hanno dato a tutti degli occhialoni da saldatore (che in effetti richiamano gli occhioni dei gatti), cappelli a cilindro, vestiti in pelle, orologi a cipolla. Li hanno inseriti in una scenografia industriale vittoriana (sempre Londra rimane lo scenario, in fondo), tra tubi, vapori, ingranaggi, ciminiere. Molto fico, splendida idea di cosplay per il Lucca Comics. Il succo è che sappiamo che sono attori umano vestiti da gatti, ma ci va benissimo così, questa è la magia della danza e del teatro. Anche quando andiamo a vedere Il lago dei cigni troviamo in scena dei ballerini con un paio di piume in testa e una specie di pannolone piumoso che rappresenta la coda. Ma non c’è “solo questo”e non ha mai scandalizzato, ne’ ha disturbato i sogni a nessuno, questo trucco minimal. Nessuno ha mai detto che Il lago dei cigni non è “anatomicamente corretto” perché i ballerini con il pannolone piumoso non sembrano dei veri cigni. Assumiamo che parliamo di cigni come di gatti, mettiamo gli attori truccati dentro una scenografia in scala che “li contenga credibilmente” (nel caso dei cigni è un lago e nel caso di Cats è un ambiente urbano londinese “ingigantito”) per cercare di riprodurre scenicamente le proporzioni degli animali nel mondo reale. 
Poi il gesto, la mimica, sono importanti. 
A seconda di come gli attori si muoveranno, noi intuiremo ulteriormente il loro “essere gatti o cigni” e in questo sta il gioco, la bravura e magia del musical.
A scanso di dubbio, lo ribadisco, gli attori di questa versione cinematografica di Cats sono bravi, bravissimi. Sia dal punto di vista canoro che dei passi di danza, che sono quasi al cento per cento i medesimi del musical. 
Il guaio lo ha fatto una messa in scena in post-produzione. a base di motion capture troppo invadente, assecondata dall’idea visiva devastante quanto suicida di trasformare in “gatti più realistici” gli attori. 
Ci sono due “step” di questa trasformazione. 
Il primo riguarda il volto. Quando con il digitale si elabora il viso degli attori per renderli “umani più felini”, la post-produzione di Cats usa un trucco prostetico “tradizionale”, alla Rick Baker per intenderci, cui applica avanzati programmi di morphing facciale per muovere dinamicamente i peli, orecchie e baffi. È un effetto simile al trucco usato nel film Il Gatto con il cappello di Mike Meyers e “funziona”. I peli sul viso che reagiscono dinamicamente ai cambiamenti d’umore. Di fatto gli attori che hanno subito questo trattamento di morphing in modo solo “facciale”, in quanto i gatti che interpretano utilizzano di fatto “degli indumenti umani o quasi“ come caratterizzazione (abbiamo parlato sopra della blusa per il gatto marinaio) hanno una resa piacevole. Parlo di Mr. Mistoffelees o dei gatti interpretati da Ian McKellen, Judi Dench, Idris Elba, James Corden e Rebel Wilson. Il problema è che la maggior parte dei gatti sono “nudi e pelosi”, compresi molti di quelli sopra citati quando si “tolgono i vestiti”. 
Arriviamo allo step due, il morphing del corpo. E che Dio abbia pietà di questi addetti agli effetti speciali. Se penso che all’inizio del 2000 con L’uomo senza ombra di Verhoeven si è riprodotto un corpo umano digitale muovendo dinamicamente ogni osso e muscolo interno...qui siamo agli antipodi del realismo. In piena aerea di “compromesso folle”. Bastava “non farlo”, limitarsi al trucco facciale e poco altro, ma invece... 
Il primo compromesso irredimibile era il fatto che nel musical ballano degli esseri umani, così che non era eticamente possibile dotare i “gatti più realistici” di zampe, oppure tutte le coreografie classiche sarebbero state da buttare e non si sarebbe parlato più del musical di Cats al cinema. 
Salvi dal trucco le mani e i piedi, che rimangono a tutti gli effetti mani e piedi umani, insieme alla testa che rimane ergonomicamente “umana” anche se truccata, come si poteva rendere il corpo più “Gattoso”?  Se nel musical gli attori-gatti avevano in genere una coda di stoffa inanimata, nel film digitalmente viene applicata una coda in computer grafica. Dotata di ha un’anima propria. In certi casi sa eccitarsi, poi irrigidirsi, ogni tanto svolazza placida descrivendo degli ovali. Le code, al plurale per il fatto che ci sono spesso in scena molti gatti, distraggono l’occhio tra i loro mille mulinelli, scatti, moti ondulati, quando nel musical a teatro cadevano placide al massimo girando quando si girava l’attore.  Ma è in fondo il meno,quando la post-produzione di Cats  sceglie di riscrivere l’anatomia del torso degli attori per renderli più “Gattosi”.  Più longilinei, dalla vita più stretto dell’umano. Dalla fisicità più scolpita o strabordante a seconda del peso del personaggio, riscrivendo o annullando le costole con il digitale. 


So che state già tremando. Prendete uno scheletro, riducetegli o allungategli le ossa e gabbia toracica e poi, per pura perversione di realismo, conferire ai muscoli e pancia la consistenza di quelli dei gatti. Quella sensazione che sotto il pelo oltre allo scheletro non ci siamo organi, che sia tutto un “molliccio”. Parliamo di  rivestire uno scheletro umano di un costume digitale da gatto molle e peloso come slime , allo stato pratico. L’effetto ricercato inizialmente era così estremo che è stato bocciato agli screen-test. Immagino il pubblico che scappava urlando dalla sala dopo che qualche gatto-umano si strappava e allungava la pelle azzuffandosi con un altro gatto. L’effetto “ammorbidito” che sarebbe arrivato in sala e oggi abbiamo in home video è ancora semplicemente inquietante. Immaginate una ventina di ballerini con questi spaventosi corpi mutanti “in cerca di realismo impossibile” perennemente in scena, con l’aggiunta di code digitati che sembrano avere anima propria, con le loro manine, piedini e testoline a dimensione umana. Regole  che valgono anche per i topi e blatte, gli altri divertenti animaletti sulla scena. Ringraziate tutti i santi che alcuni attori come la sempre bella “nonostante tutto”Taylor Swift si muovano pochissimo e “poco da gatti”, spesso rispettando delle scenografie da video di MTV, perché credetemi, alla prima visione avrete gli incubi psichedelici, come ai tempi degli psicotropi elefanti rosa dell’originale Dumbo della Disney o dei diavoletti rosa (rosa, il colore del demonio) che si scomponevano e bruciavano in un “buffissimo” numero musicale di Labyrinth di Jim Henson. La scena da “disturbo visivo estremo”, quella da annotare nella galleria dell’orrore, è lo scenario domestico della gatta sovrappeso (ma con corpo “gelatinoso”) interpretata da Rebel Wilson. In una scenografia degna di Delicatessen di Jeunet, sfilano oltre ai soliti gatti anche questi attori geneticamente con il torso modificato in topi e blatte. E non c’è davvero nulla di buffo e simpatico in loro. 
Ma vogliamo rendere gli attori ulteriormente “gattosi”? Che ne dite di velocizzare alcuni loro movimenti per renderli scattanti come i gatti veri? È il film lo fa, scegliendo di velocizzare e rendere isterici alcune movenze e passi di danza di Derulo. Con detrimento della sua performance da ballerino esperto, alla ricerca di movenze ancora più “scattose” lo si rende una creatura luciferina, con scatti degli della Sadako di The ring
Questi sono i tentativi, diciamo un po’ impacciati, di rendere gli attori di Cats dei gatti più realistici in post produzione. Visti gli esiti spero per il futuro che gli artisti degli effetti speciali si rassegnino: i gatti non hanno le movenze degli esseri umani né lo stesso scheletro. Si può “intuire” che gli uomini diventino animali e questo fa parte della magia del balletto, che è la stessa “magia” per cui alcuni colpi nelle arti marziali che mimano gli animali (come la gru di Karate Kid), per cui certe costellazioni sembrano avere la forma di Cigni, Draghi o Catene di Andromeda. Parliamo di sintesi del gesto, una rappresentazione idealmente un animale o di una sua movenza che in due tratti rende di più che non nel riprodurlo fedelmente a livello anatomico e muscolare partendo da un super computer usato male. Il futuro ci scampi da un Lago dei cigni con ballerini resi digitalmente obesi, piumati e con gambe umane strizzate a stecchino come le zampette di un uccello. Sempre che non vogliano aggiungerci pure volti con mascelle spaventosamente allungate a becco. 



Come tutti gli incubi e gli spaventi improvvisi dei film dell’orrore, la disturbante potenza visiva digitale di Cats è comunque destinata a soccombere ad una seconda e poi terza visione. Si riescono a vedere le cose in maggiore prospettiva, valorizzando il talento degli scenografi nel dirigere i balletti/. La bellezza dei brani  non soffre la brutta resa visiva della computer grafica e per altro, cosa che molti appassionati di musical sono felici di ritrovare, i brani sono  tradotti nei sottotitoli. È bella l’innovazione apportata alla rappresentazione sul piano narrativo e Cats riluce di tutta la malinconia e mistero di un viaggio onirico che parte dal tramonto davanti alla Cattedrale di Londra, attraversa le luci artificiali dei vicoli e del porto nella notte, si chiude nei colori oro dell’alba, in un volo metafisico verso la  “ionosfera”. C’è magia in quest’opera e sicuramente chi conosce già la rappresentazione teatrale saprà essere più benevolo verso questa pellicola “disastrata“ dalla computer grafica. L’invito è quindi quello di andare a teatro a vedere Cats, quando sarà possibile, come a recuperare i dvd degli spettacoli teatrali. Leggete Elliot, magari ascoltate la colonna sonora del musical originale di questo stesso film. Una volta “pronti”, passate al film, facendo magari il gigantesco ma necessario sforzo mentale di guadare oltre la computer grafica, alla ricerca dell’umano che batte sotto il pixel più anatomicamente disturbante. Anche il mostro di Frankenstein sotto sotto ha un cuore. 
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venerdì 14 agosto 2020

L’organo genocida (Genocidal Organ) - il primo tassello dell’ambizioso Project Itoh giunge da noi, on-demand e presto home video, grazie ad Anime Factory


In un presente distopico segnato da terribili conflitti bellici e terrorismo, negli Stati Uniti e in gran parte del mondo civilizzato le persone hanno rinunciato a ogni forma di libertà in ragione alla sicurezza. Non esistono più banconote e i pagamenti avvengono attraverso impronte digitali, tutti dispongono di gps sottocutanei, le nuove tecnologie bio-comportamentali riescono attraverso le nanomacchine a calibrare l’umore delle persone. Proprio attraverso questa scoperta, unita all’avanzamento bellico in fatto di tecnologia mimetica e veicoli d’assalto eterodiretti, si possono creare dei super-soldati insensibili a paura e tensione, ma sembra che qualcuno giochi con le stesse carte per far impazzire la gente comune, scatenando sommosse popolari nei paesi più poveri del mondo. I servizi segreti americani sono sulle tracce di un pericoloso terrorista esperto di linguaggio e scienza comportamentale, un genio che ha scoperto che all’interno dell’animo umano risiede un “organo genocida” in grado di portare l’umanità all’estinzione se non “sfamato” con la violenza.


Shuko Murase, regista e direttore delle animazioni per molte opere legate a Gundam, regista dei sontuosi Argento Soma e Gasaraki, nonché con Manglobe (costola Sunrise con molti talenti uscito da quell’opera seminale di Cowboy Bepop) regista in Samurai Champloo ed Ergo Proxy, dirige il primo tassello di quello che viene definito “Project Itoh”.  Satoshi Itoh, morto all’età di 38 anni nel 2009,  era un geniale romanziere giapponese a cui era molto cara la fantascienza. Di cagionevole salute, con una visione del mondo complessa e articolata, Itoh era molto amico del famoso Game director Hideo Kojima, per il quale realizzò nel 2008 una famosa Novel legata a Metal Gear: Peace Walker, condividendone la passione e ossessione per le innovazioni futuribili in ambito bellico, tanto sul lato militare che dell’utilizzo della “propaganda”. Il Project Itoh dal 2017, con Genocidal Organ, si è occupato di trasporre in animazione, in tre film per il grande schermo, assegnati a studi di animazione diversi (e blasonati), l’opera omnia di Itoh. Tre pellicole, tre visioni diverse ma collegate di fantascienza, dal “futuro prossimo” (L’organo genocida) all’intelligenza artificiale (Harmony), fino a tornare al mito di Frankenstein (L’impero dei cadaveri). Genocidal Organ è la sua prima opera, del 2007, forse quella che più somiglia a Metal Gear. Super- soldati con armature invisibili, terroristi in grado di manipolare la mente, grandi complotti su scala mondiale, riflessioni sul senso della “sopravvivenza umana” in un ambiente ultra-controllato che ingabbia quanto protegge. Tutto questo all’interno di una rilettura originale quanto inquietante di come il terrorismo post-11 settembre ha cambiato la percezione del mondo, unitamente allo scenario tecno- geopolitico di cui si sono sempre fatte più protagoniste le Corporations. Incredibile come oggi, nel 2020, Genocidal Organ sia attuale, “urgente” quanto spietato. Un’opera per dal sapore internazionale, in cui sono rappresentate con dovizia di particolari città come Praga, Sarajevo, Washington. Un’opera che sa bene catalizzare l’attenzione degli appassionati di War Movie, proponendo numerose e concitate azioni militari. Un’opera che sa citare bene e nel dettaglio Kafka, Goethe, Beckett. 
Dove Genocidal Organ non si impone è forse nella caratterizzazione dei personaggi, ma anche questa appare come una scelta precisa: i personaggi sono per lo più dei soldatini intercambiabili nei lineamenti e carattere, pur differenziandosi molto a livello emotivo. Questo aspetto pone molto vicino in più punti Genocidal Organ al capolavoro Jin-roh di Okiura/Oshii. 
Genocidal Organ è un’opera adulta, molto elaborata tanto sul piano filosofico quanto geopolitico, esteticamente curata e dalla forte carica malinconica. Un piccolo gioiello dell’animazione contemporanea con tutte le carte in regola per attirare il pubblico degli appassionati di sci-fi . 
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P.S. Essendo un film dalle tematiche adulte, con una messa in scena della violenza molto vivida e alcune componenti erotiche, si consiglia la visione a un pubblico adulto.

mercoledì 12 agosto 2020

È per il tuo bene - la nostra recensione della pellicola con Battiston, Salemme e Giallini ora disponibile su Amazon Prime

Non è un lavoro facile fare il genitore. I figli ti scappano via appena ti giri, prendono direzioni che consideri sbagliate, dal giorno alla notte non riesci più a capirli, non ti parlano più. Sbagliare è facilissimo, soprattutto quando si è padri e non si dispone della sensibilità femminile che serve per comprendere una figlia. Così il poliziotto Antonio (Salemme), il barista Sergio (Battiston) e l’avvocato Arturo (Giallini), mariti di tre sorelle (Isabella Ferrari, Claudia Pandolfi, Valentina Lodovini), ognuno con una figlia, decidono di collaborare, di “fare quadrato” rispetto alle minacce che contemporaneamente stanno attaccando il loro ruolo di genitore. La figlia di Antonio si è innamorata di un rapper (Biondo, noto per essere stato tra gli amici di Maria De Filippi) le cui canzoni parlano di spaccio, degrado e sesso. La figlia di Sergio si è innamorata di un fotografo che la fa posare nuda ed era compagno di classe del padre. La figlia di Antonio si è innamorata di una ragazza straniera. Come nel classico di Hichcock Delitto per delitto i tre padri cercheranno di coprirsi a vicenda e scambiarsi i compiti per far fallire queste relazioni potenzialmente difficili. Ma riusciranno in questo a capire davvero cosa vogliono le loro figlie e agire davvero da “buoni padri?”. È per il tuo bene è un remake della sfiziosa commedia spagnola del 2017 Es por to tu bien di Carlos Theron. Il regista è Rolando Ravello, autore del tenero e malinconico Ti ricordi di me? con Edoardo Leo e Ambra Angiolini (miglior prova delle Angiolini attrice a mio parere), un film assolutamente da recuperare se amate le pellicole sentimentali da guardare con il fazzoletto pronto. Qui si ride di più, anche grazie a tre mattatori della commedia italiana, ma il tema dei fragili equilibri che fondano la famiglia come “costruzione di un amore”, per dirla con Fossati, sono gli stessi. I nostri protagonisti sono catapultati su una specie di “campo minato relazionale“ dove tutto esplode da un momento all’altro in modo spesso tragicomico. Fai male e sbagli, fai bene ma al momento sbagliato e sbagli, ti penti e fai bene per recuperare ma comunque sbagli. Il film abbraccia questa dinamica quasi fantozziana dalla prima all’ultima immagine e sa essere molto divertente, con un buon ritmo e latore di argomenti non così banali sul ruolo del genitore. Ogni tanto lo stereotipo arriva di nascosto da dietro l’angolo, le “madri“ sono un po’ in ombra, quasi un coro greco, alcuni passaggi potevano essere più “cattivi”, ma la commedia di Ravello è una piacevolissima sorpresa da gustare su Amazon Prime in una sera d’estate. 
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lunedì 3 agosto 2020

Non ci resta che il crimine - la nostra recensione della commedia da “ritorno al futuro” di Massimiliano Bruno



Moreno (Marco Giallini), Sebastiano (Alessandro Gassmann) e Giuseppe (Gianmarco Tognazzi) sono tre amici di vecchia data, un po’ esauriti e un po’ spiantati, che dopo fortune alterne decidono di improvvisare una start-up innovativa: “il tour dei luoghi romani famosi per le vicende legate alla banda della Magliana”. Naturalmente, con zero permessi e zero progettazione, si trovano già al primo giorno una bella multa per esercizio abusivo, che viene però prontamente  “saldata” da un loro vecchio amico, Gianfranco (Massimiliano Bruno), comparso provvidenzialmente sulla scena. Gianfranco ha avuto successo nella vita, tra lui e il gruppo ci sono vecchissime e indelebili ruggini e il gesto d’aiuto è inteso come una sorta di vendetta sociale: “Lo faccio perché siete dei pezzenti”. Il gruppo decide di andare insieme in un bar a ricordare i tempi passati, ma Gianfranco deve pagare la sua supponenza e i tre amici decidono di scappare dal locale lasciandogli il conto da pagare, fuggendo da una porta sul retro. Ma aprendo quella porta si trovano nel 1982, sempre a Roma, ai tempi dei mondiali di calcio in Spagna. Il bar possiede quindi una sorta di un passaggio spazio-temporale, ma essendo un luogo di traffici loschi sarà difficile per i tre riuscire ad accedervi di nuovo.  Cercando di tornare a casa si troveranno per delle coincidenze del caso sulla strada della stessa banda della Magliana, all’epoca comandata da Renatino (Edoardo Leo), dopo essersi scontrato in un night club con la bellissima e pericolosa Sabrina (Ilenia Pastorelli). Ma la loro conoscenza degli avvenimenti del futuro giocherà un ruolo decisivo a salvarsi da questa strana situazione. Magari sarà l’occasione, come dice spesso Moreno,  per fare “i soldi con la pala”. 


Non ci resta che il crimine, che ho recuperato in streaming grazie a Tim Vision, può già dirsi una saga, come accaduto a Smetto quando voglio con un seguito in uscita, Ritorno al crimine i cui temi sono ampiamente anticipati alla fine della prima pellicola. C’è aria di Ritorno al futuro ovviamente, citato in più punti ma qui declinato in una vincente chiave action-“poliziottesca” che sicuramente appagherà i vecchi fan del Monnezza. C’è un po’ di Non ci resta che piangere ed è forse la nota più bella, quella dolce-amara. C’è tutta la fascinazione per quel “mondo criminale romano” che da Romanzo Criminale in poi, passando anche dal recente e bellissimo  film La verità sta in cielo, di Roberto Faenza, continua a riscuotere molto interesse per i suoi personaggi e i suoi misteri. Attori tutti bravi e appartenenti alla cerchia della commedia italiana moderna, quella che funziona. Una fotografia dal look patinato e citazionista, costumi bellissimi, inseguimenti, Ilenia Pastorelli che è strepitosa, teneramente fragile e bellissima ovunque la metti. Non ci resta che il crimine è così ben costruito a tavolino che all’epoca dell’uscita l’ho dato un po’ per “scontato”, temendo di non trovarci all’interno qualcosa di più di quanto non fosse reso già benissimo e in forma completa nel trailer. Mi sbagliavo e sono molto contento del recupero in streaming. La Pastorelli si presenta aggressiva e seducente, sembra uscita da una commedia sexy, ma riesce a dare al suo personaggio le mille di sfumature di tenerezza, senso morale e fragilità che già altre pellicole e libri attribuisco all’originale Sabrina. È molto tenera la sua “relazione impossibile” con con il precisino, dimesso e timido Sebastiano di Gassmann. Il Renatino di Leo è pericoloso quanto affascinante, un leader severo ma giusto, una fonte di ispirazione per il frustrato impiegato Giuseppe di Tognazzi. Il film fa un uso molto interessante di questi “personaggi storici”, li declina in modi inediti. Al contempo non si può che amare il personaggio incontenibile di  Giallini, che si fa chiamare nel passato “Steve Jobs”, vuole “fare i soldi con la pala” e avere successo nel passato anticipando grandi innovazioni come “il cellulare e il Pulcino Pio”.


- Breve Off topic - Io sogno sempre di vedere (come scrivevo qui) Giallini interpretare il celerino “Mazinga” contro Enzo “Jeeg”Ceccotti in un crossover tra Acab e Lo chiamavano Jeeg Robot. Vi prego fatemelo, me lo sogno tutte le notti!!! Già mi vedo lo Zingaro di Marinelli in versione Conte Blocken, una sindaca di Roma / Regina Himika interpretata da Stefania Rocca... e, perché non ci mettiamo pure un bel Claudio Amendola / Duce Gorgon / Ultras?. - Fine OT -

Molto riuscite le scene action, affrontate nello stesso modo, vincente, di Smetto quando voglio. Con  storyboard e non improvvisazione. C’è pure uno spicchio di Stranger Things, per gradire, che funziona molto bene ed è qui carina perché per una volta i bambini sono italiani, sognano di avere un Commodore 64, amano le figurine. 
Non ci resta che il crimine è andato decisamente al di là delle mie aspettative iniziarli, l’ho trovato una pellicola divertente, molto ben confezionata e di cui aspetto già da ora il seguito. È questo il cinema italiano di genere che più si dovrebbe spingere, quello che può portare pubblico nelle sale al di là delle commedie di Zalone e dei film sulla “gente pazza che urla” di Muccino. Speriamo che presto si possa tornare nelle sale per davvero. 
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