mercoledì 28 aprile 2021

The Woman - la nostra recensione “molto” post 8 marzo dell’horror psicologico di Lucky McKee, ora disponibile su Amazon Prime

 


(Premessa) oggi parliamo di un film pieno di satira e dark humor, ma anche molto forte a livello visivo ed emotivo. Per questo giustamente sconsigliato a un pubblico di età inferiore ai 18 anni. Se siete persone facilmente impressionabili o minorenni la visione è sconsigliata, anche se dalla nostra recensione può sembrarvi intrigante. 

(Essere donna oggi) Belle persone i Cleek, l’immagine stessa della famiglia americana moderna del Maine. Tutti sorridenti, in forma, amatissimi, con passione e impegno civico che sprizzano da tutti i pori. Una casetta nel verde con prato inglese e infiniti pomeriggi domenicali a base di barbecue, cui è invitato sovente l’intero vicinato, con salsicce e birra gratis per tutti. Chris Cleek (Sean Bridges) è un atletico quarantenne, avvocato di successo e grande appassionato di caccia. Un giorno mentre è intento nel suo hobby preferito scopre qualcosa di interessante e subito dopo decide di fare una grande sorpresa alla sua famiglia. Certo prima di scartare la sorpresa serve un po’ di preparazione, occorre fare spazio in cantina, pulire e spostare mobili, magari preparare delle attrezzature e vestiario dedicato, ma ne vale la pena! Perché Chris, marito devoto, padre encomiabile, avvocato onesto, cacciatore provetto e cittadino modello, ha scoperto nel bosco e portato a casa il regalo definitivo: una donna selvaggia (Pollyanna McIntosh)! Una donna da vestire, educare e rendere civilizzata per la felicità di tutta la famiglia, che subito la accoglie con gioia! Una specie di volontariato spontaneo, potremmo dire. Certo Chris l’ha notata un pomeriggio dove invece di dedicarsi ai cervi del boschetto di Dead River si è soffermato a lungo a guardare questa creatura farsi il bagno nel fango, con il mirino telescopico da guardone. Ma nonostante il rischio di avere certe “pulsioni” nei suoi riguardi, rimane importante per l’avvocato “salvare” la povera donna dal complesso di Tarzan, catturandola con una rete e legandola poi con dei cavi d’acciaio nel sottoscala di casa fino a una “civilizzazione avvenuta”, cui dovrà ovviamente contribuire attivamente e volenterosamente tutto il suo nucleo famigliare. Certo non dovrà saperlo nessuno fuori di casa, perché anche se questo si sta facendo per un bene superiore, è una cosa bella e giusta eccetera, molti “non capirebbero”. La grigia, evanescente e dimessa moglie Belle (Angela Bettis), è decisamente la meno entusiasta della novità. Sulle prime cerca di far ragionare Chris, chiedendogli gentilmente e dubbiosa: “Dobbiamo tenerla davvero noi, qui in cantina? Ma è legale? Non è che possiamo invece chiamare qualcuno, tipo i servizi sociali?”. Dopo il primo ceffone Belle viene subito rimessa al suo posto, anche perché la sua fragilità emotiva è già conosciuta da tutta la famiglia come conseguenza della anoftalmia di cui soffre (leggere su Wikipedia cos’è dopo la visione o vi perdete un colpo di scena interessante) e che le impedisce una percezione chiara del mondo circostante. Normale che la moglie ogni tanto dica cosa fuori di testa. Mentre Belle viene mandata con indulgenza a confezionare per la donna selvaggia vestiti facilmente sbottonabili senza doverla slegare, il marito inizia a fare su e giù nel sottoscala ogni notte, per un corso rieducativo intenso. In poco tempo pure il figlio adolescente Brian (Zack Rand), copia carbone del padre con stessi complessi da maschio alfa e crudeltà, inizia a fantasticare sulle infinite possibilità di avere una donna sexy e legata sotto casa sua. Così a un certo punto decidere pure lui per il su e giù rieducativo. La figlia adolescente Peggy (Lauren Ashley Carter) che non si oppone ma non collabora alla rieducazione, ogni notte ha gli incubi e pensa a come negli anni il suo amorevole padre Chris abbia prima zittito sua madre a suon di botte, oggi non si faccia problemi a tenere al guinzaglio come un cane una donna selvaggia e forse in futuro potrebbe pure scegliere lei o il bambino che porta in grembo, come vittime delle sue “attenzioni”. La piccola bimba di casa, Darlin' (Shyla Molhusen), non è che capisca molto di quello che sta succedendo ai “grandi”. Ma pensa che la signora in cantina sia triste e cerca di allietarla con le musiche del suo registratorino portatile o offrendole ogni tanto un paio di biscotti a forma di omino. I piani di reinserimento della donna richiedono costante acquisto e utilizzo di sapone, per scrollarle di dosso una terra marcia che sembra quasi essersi tatuata (in stile Rambo, usando un idrante), nonché la somministrazione prudente di cibo “dalla distanza”, perché, ehi, lei morde! Di questa particolarità della donna ha fatto le spese per primo l’anulare sinistro di Chris, reciso di netto insieme alla fede nuziale (momento erotico/simbolico), mentre la donna lo guardava avvicinarsi un po’ seduttivo e un po’ laido. Il morso ha portato al nostro eroe un misto di rabbia, ferocia e disperazione che come avvocato di provincia/maschio alfa non aveva mai scorto in nessuno. O almeno, in nessuna delle donne della sua vita. Puro girl power. Ma c’è un’altra donna che potrebbe forse sempre in nome del girl power mettersi contro all’opera rieducativa di Chris, ossia miss Raton (Carlee Baker), l’insegnante di Peggy. Una donna che sta vedendo troppo da vicino, giorno dopo giorno, il disagio in cui vive la sua alunna. Dalla voglia di fare qualcosa per aiutarla, potrebbe nascere una sorta di “solidarietà femminile“ in grado di far fronte alle situazione? 



(Donne du du du, in cerca di guai) The Woman è il classico film a tesi. L’ipotesi sociologica da cui pende le mosse guarda a come un modello culturale di “famiglia americana di provincia anni ‘50“, patriarcale, ultra-bigotta e autoreferenziale, possa esprimere una condizione della donna più deprecabile e meno evoluta di una civiltà delle caverne tipo nehandertal. La “tesi filminca”, che conferma l’horror come genere prediletto per smascherare i problemi sociali e psicologici odierni, è che nonostante le molte battaglie dei movimenti per la parità di genere, certi modi di pensare sono pervicacemente sopravvissuti pure ai giorni nostri. Le perfette “mogliettine/figlie/segretarie da Happy Days” sono in certi contesti considerate così  inferiori, fragili emotivamente, deboli nel fisico e pericolose, da convincere se stesse di meritarsi insulti, angherie a condiscendenza, alimentando la follia misogina di maschietti di casa che non esistano a trattarle come “mostri”. Come ha ripetuto per anni Tiziano Sclavi, in centinaia di storie a fumetti meravigliose, quelli che vengono chiamati “mostri” o “diversi” non sono necessariamente i veri “oppressori“ della libertà e felicità. Inoltre, come disse una volta Evelyn Cunningham, voce del primo movimento americano per i diritti civili: “Le donne sono l’unico gruppo oppresso, nella nostra società, a condividere la vita con i loro oppressori”. Un rapporto capo-suddito, con qualche influsso dall’epoca dello schiavismo, retto da un ferreo auto convincimento di quelli che il sociologo Talcott Parsons definiva i  rispettivi “ruoli sociali” di un modello familiare. The  Woman, opera centrale anche se autonoma all’interno della Dead River Saga di Jack Ketchum, usa il mito del buon selvaggio “”cannibale“” per cercare di ribaltare questo rapporti di forza basato sul genere e “vedere cosa succede”. Questo modello, dal sopra citato sociologo Talcott Parsons identificato nella famiglia americana perfetta delle pubblicità anni ‘60, riporta di fatto per gli analisti del settore già 20 anni dopo un’immagine non accurata, in ragione di importanti mutamenti sociali e culturali che hanno presto sancito la sua (de)composizione. Il diritto allo studio è cambiato, come l’accesso alle professioni e allo strumento del divorzio, come si sono ampliati  i diritti riconosciuti alle minoranze e i servizi volti alla tutela contro le violenze domestiche. Il “pacchetto Happy Days” con marito lavoratore e capo della sfera finanziaria, donna regina della casa e capo della sfera emotiva, figlia devota e vergine fino al matrimonio e figlio giocatore di football con borsa di studio (giusto per semplificare), semplicemente non esiste più nella realtà storica, se non che si dubita sia mai esistito, se non come “aspirazione ideale” o attraverso “accomodamenti relazionali” non sempre felici. Accomodamenti di cui ha prevalentemente patito la sfera femminile. Si può solo immaginare il numero delle guerre, combattute tra le mura domestiche e luoghi di lavoro, che questo disequilibrio ha comportato. I dati rilevati da chi opera nel settore del sociale sono abbastanza sconfortanti . 



(Tanto rape ma anche molto revenge - capitoletto un po’ lungo, se vi annoia a morte potere saltare tutto e leggere la “sintesi” nel seguente capitoletto). Il genere horror ogni tanto fa cose audaci e scorrettissime per farci ragionare, anche positivamente, su tematiche sociali. C’è stato un tempo, nei magici anni ‘70 con il loro “mondo delle repliche” e “titoli tradotti ad effetto” in cui in sala ti trovavi il Fulciano Non si sevizia un paperino (1972), con nella sala a fianco Non aprite quella porta di Hooper (1974) con nella sala vicina un altrettanto emblematico Non violentate Jennifer di Zarchi (1978). Tre horror fortemente a valenza “antropologica”: sul valore deviato dell’educazione dei giovani, sul decadimento umano delle zone rurali, sulla oggettificazione della donna in certi contesto. Tutti in cartellone con quel “Non” imperativo, che era titolo del film quanto il “comando morale” di dissociarsi da quello che vi era rappresentato. Era a tutti gli effetti una visione “italiana” del cinema (perché i film importati non avevano per esempio il “non” nel titolo originale) che lo voleva come strumento diretto di contrasto “possibile” ai comportamenti umani più devianti. Un modo di intendere la settima arte che qualche volta è un po’ bigotto e un po’ fuorviante, al punto da prodotto anche dei danni. Un modo di fare “giudicante”, qualche volta davvero “manicheo”, oggi scomparso ma che ogni tanto prova ancora a fare capolino. C’è effettivamente poi un cortocircuito morale interessante, dal punto di vista dello spettatore, proprio all’interno del sotto- genere “Rape and Revenge”, ossia quanto accomuna The Woman proprio a Non violentate Jennifer. Questi sono film, spesso bipartiti in due tronchi narrativi, in cui da una situazione di violenza spesso sessuale, da cui il “rape”, segue una violenza vendicativa della vittima sugli aggressori, da cui la “revenge”. A livello di catarsi lo spettatore, specie maschietto, è in genere in queste pellicole prima attirato da una componente vouieristica che gli permette sovente di soffermarsi su “belle ragazze svestite”, poi prova repulsione/confusione  per la violenza “ingiusta” subita dalla vittima, infine viene appagato in modo liberatorio da una vendetta sugli aguzzini, violenta ma percepita come “giusta”.  Il fulcro del disagio “morale” che vive lo spettatore è figlio di  tutta la componente sessuale che pervade queste pellicole. La nudità femminile può eccitare lo sguardo anche nei momenti più “inopportuni”, facendo sentire chi è spettatore quasi alla stregua di un complice degli aguzzini, colpevole di una condivisa anche se pur tacita e superficiale “oggettificazione” della figura femminile. Ci si sente a disagio a guardare in sintesi, con l’impostazione della pellicola che lancia una chiarissima susseguente condanna morale. Una condanna che con il tempo, con la progressiva codificazione del genere slasher, grazie anche ad Halloween di Carpenter (1978), è stata sempre più sfumata. Al punto che la componente sessuale diventava quasi imprescindibile, specie in Venerdì 13, come nella commedia sexy all’italiana. 



Negli anni ‘80 poi si è riusciti ulteriormente a includere una nota di ironia e satira anche negli horror a tematica “socialmente scomoda”. Grazie a Craven, che aveva iniziato la sua carriera proprio con un rape and revenge come L’ultima casa a sinistra del 1972 e che ora con Nightmare del 1984 torna a mettere al centro del discorso la (mal)educazione degli adolescenti, di cui sono principali artefici i genitori (che ci fa quasi parteggiare per il “cattivo”). Con Carpenter, che con Essi vivono, sulla manipolazione della realtà operata da chi occultamente comanda, non lesina in satira e momenti divertenti. Il tema “moralmente inaccettabile” si è quindi con il tempo ingegnerizzato nel genere e il tocco satirico di Lucky McKee, co-sceneggiatore e regista di The Woman, si pone sul solco di questa tradizione, innovandolo. Con McKee, grande conoscitore e amante del pop-horror, il testo di Ketchum, appartenente tanto ai rape and revenge che al genere piuttosto crudo, disincantato e “nostrano” degli horror con i cannibali, riesce così a stemperarsi, rendersi “nel grottesco” più accettabile dell’adattamento del precedente lavoro cinematografico di Ketchum, Offspring, colorandosi di “camp”. L’esito felice di questa impostazione è che se un’opera come Non violentate Jennifer negli anni ‘70 rimaneva appannaggio di una nicchia di cultori dell’horror percepiti un po’ matti e amanti dell’estremo, The Woman, con il suo approccio apparentemente leggero (ma che non lesina lo splatter grandguignolesco ed esagerato stile Dal tramonto all’alba nell’ultima parte), è invece un’opera che può raggiungere un pubblico più ampio, anche con il passaparola, riuscendo a espandere la platea di chi può ascoltare, riflettere e dibattere sull’interrogativo sociale “horror” che muove. Possiede un linguaggio e ironia non distante dai cartoni animati per adulti tipo I Griffin, pur in un contesto narrativo realistico. È divertente almeno quanto è inquietante, come molti horror di successo. Se Offspring era un film dal taglio quasi documentaristico che trovava nello splatter una lettura più brutale del reale, McKee vola glorioso e leggero verso i lidi della metafora socio/politica, con una decisa “presa di posizione” che si afferma tra personaggi volutamente caricaturali (ma in questo non meno spietati) e immense e parossistiche fontane di sangue. 



(Tanto rape ma anche molto revenge: in sintesi) Ho già detto che è una pellicola non adatta ai minori di 18 anni, vero? Provo quindi ad annodare i fili del discorso: attraverso l’efferatezza grafica e la cattiveria satirica, proprie di una buona commistione dell’horror sociale di denuncia del passato e dell’ horror moderno di cui McKee è una delle voci più interessati, viene denunciata con The Woman la violenza fisica e morale, tuttora esistente in certi ambiti, di considerare le donne come oggetti di carne, muti e volti per lo più alla cura della casa, alla procreazione e al sesso. E questo riesce ad essere più di impatto di molte spente biografia di eroine del femminismo o di molti dibattiti da salotto. Pertanto a mio parere il film di McKee, sebbene molto forte per temi e immagini, raggiunge proprio per questa forma estrema l’obiettivo di muovere una lodevole critica sociale, in grado di essere proficuamente sviscerata nel dibattito.   

(Siamo donne, oltre alle gambe c’è di più) The Woman offre una vera e propria “anamnesi horror” di una donna “schiacciata dal potere maschile”, scomponendo e dividendone le caratteristiche emotive tra più personaggi femminili, di età e psicologie diverse, quasi tutte disfunzionali. Laddove le figure maschili autoritarie rimangono monolitiche e tetre, indifferenti ai cambi di età, per “le donne” esistono diverse “strategie“ volte più alla sopravvivenza (im)possibile che a un contrattacco nei confronti delle angherie che mette in atto soprattutto il personaggio del “padre”. È una dinamica non banale. Se la donna delle caverne e la bambina sono abbastanza libere da compiere delle scelte autonome, le altre donne muovono tutte dalla speranza di ricevere benevolenza o al più indifferenza da parte dell’uomo, intavolando contrattazioni infinite con un interlocutore responsivo quanto un muro di mattoni. Un muro pure sadico. È in questo dialogo sordo che le idee più folli e sarcastiche di McKee prendono forma, percorrendo ogni tanto la stessa strada del grottesco dello zombesco Fido di Andrew Currie, con intuizioni ambientali derivate dalla Moglie Perfetta di Frank Oz. Molto bravi gli attori, tra cui spicca la McIntosh. Sean Bridgers ricorda molto Richard Burgi in Hostel, parte 2. La giovane Lauren Ashley Carter è amabilmente spaesata e Angela Bettis conferma il talento mostrato in May, dove era diretta sempre da Lucky McKee. Bella fotografia e le location, che prediligono gli inquietanti colori pastello sullo stile della piccola è pericolosissima cittadina di Edward Mani di forbice. Molto ispirata la colonna sonora, che riesce a svolgere a livello emozionale un ruolo attivo nella narrazione. 



(Donne con le gonne) The Woman è un film intelligente, divertente, spietato, pieno di situazioni così al limite dell’assurdo da farci pensare che possa essere una storia vera. È probabilmente il miglior film di Lucky McKee, uno dei più promettenti registi horror degli ultimi anni. È ben recitato, ben ritmato, pieno di fascino e mistero. È anche un vero e proprio manifesto horror del femminismo, una pellicola che può essere usata per approfondire e dibattere le molte criticità che ancora oggi affliggono la parità di genere. Ovviamente, ve lo stra-consiglio. 

Talk0

lunedì 26 aprile 2021

Space Jam: il trailer

 


LeBron James prende l’eredità di Michael Jordan nel nuovo scontro di basket tra Looney toons e “i cattivi” Goons. Dirige Malcom D.Lee, che pende il trono di director che fu di Joe “tutti i video di Michael Jackson tranne Thriller” Pytka, con alle spalle un sacco di film da noi abbastanza ignoti. Tra gli sceneggiatori gente che ha lavorato a Creed e Black Panther. Nel ricchissimo cast, oltre al cast vocale storico dei Looney Toons, c’è  Sonequa Martin-Green (che tutto il mondo odia unanime per il suo personaggio in Star Trek Discovery), la “MJ“ Zendaya, un vecchissimo Don Cheadle... alcuni giocatori di basket e... un sacco di persone “non accreditate” da Imdb. Produce tra gli altri Ryan “Creed” Coogler. 

Lo Space Jam nel 1996 è stato uno dei più grandi successi di sempre del cinema Silvio Pellico di Saronno, al punto da rimanere in cartellone per mesi con fiumi umani presenti a ogni proiezione. La produzione era di lusso, con Ivan “GhostBusters“ Reitman, Daniel “Una notte da leoni” Goldberg e Joe “Beethoven” Medjunk. La colonna sonora originale, con in testa I Believe I can Fly di R.Kelly,  è uno dei dischi che è stato più tempo nel mio lettore cd e in famiglia è ricordato con super-affetto come uno dei film che si guardava tutti insieme. Michael Jordan era super simpatico (e forse è per colpa di questa troppo felice commistione cinema/sport se poi siamo finiti a vedere Shaolin Soccer doppiato in italiano dai giocatori della Lazio), le animazioni frutto della Industrial Light and Magic bellissime, c’era Bill Murray, Lola Bunny era più sexy di Jessica Rabbit (al punto che ai tempi scoppiò un mezzo scandalo, abbastanza esagerato, sulla sua “sessualizzazione inappropriata”). Funzionava praticamente tutto nello Space Jam del 1996, durava il giusto, era divertente, faceva venire la laccrimuccia, ti faceva realmente avere voglia di prendere un pallone da basket e andare giù al campetto a fare due tiri. Se mi capita il dvd tra le mani lo rivedo in questo momento, più che volentieri, ve lo giuro. Si era deciso di fare “qualcosa di simile ma senza il basket” con Looney Toons back in action, con il sempre moscio Brendan Fraser, diretto niente meno che da sua maestà Joe Dante, ma non è andata così bene. Dopo questo trailer sono ancora più convinto che è giusto che una nuova generazione possa avere il “suo” Space Jam, con tutte le cose fatte giuste e le musiche al top da sentire magari non su un cd ma su Spotify. Spero davvero esca bene e non vedo l’ora di vederlo. Magari di nuovo al cinema, per poi correre al campetto con un pallone. A far vedere al mondo che oggi a basket sono forse più schiappa che nel 1996. Appena uscirà siamo pronti a recensirlo. 

Talk0

domenica 25 aprile 2021

Ghostbusters: afterlife - un mini trailer già da amare

Lo spirito-guida è quello di trattenere l’entusiasmo, razionalizzare, aspettare fiduciosi ma con compostezza. Però davanti a questo bocconcino gustoso, io mi sciolgo letteralmente. Come un marshmallow... o un fantomatico e mitologico “cereale di lichene”. 

Talk0

domenica 18 aprile 2021

Bitch Slap - la nostra retro-recensione di un piccolo, scombinato ma amabile fumettone sexy ora su Amazon Prime

 

La premessa è la solita, guardiamo dal catalogo di un servizio streaming un film di qualche anno fa. Possiamo direttamente passare alla trama. 

Tre cattive ragazze procaci e ultra-sexy vogliono rubare 200 milioni dal viscido e sessuomane boss del crimine di nome Gage (Michael Hurst) e si ritrovano impantanate nel deserto a cercare con una pala dove il tizio terrebbe nascosto il bottino. Hel (Erin Cummings) è una rossa esperta di fucili e manipolatrice che sembra lavorare per una specie di agente governativo di nome Phoenix (Kevin Sorbo). Camero (America Olivo) è una biondina svitata che picchia pesante, ha cercato di uscire dal suo passato diventando suora (tra le consorelle Lucy Lawless e Renee O’Connor) ma ha fallito. Trixie (Julia Voth) è una evanescente bambolina finita in una brutta storia a causa di Gage, ma che potrebbe trovare un principe azzurro in un poliziotto di passaggio (Ron Melendez). Sono un trio scombinato, rissoso, che non si conosce reciprocamente a fondo e risulta legato alla meno peggio da una strana relazione sentimentale che vede al centro Trixie, ma che ha problemi circa l’esclusiva sulla stessa. Potrebbero benissimo a un certo punto ammazzarsi tra di loro. Due svitati criminali, un punk (William Gregory Lee) e una ragazza orientale armata di uno yo-yo con le lame (Minae Noji) presto si metteranno sulle tracce del terzetto e andranno a incrementare il caos generale. Troveranno il bottino?



Prendete il regista Rick Jacobson e il produttore Eric Gruendemann e avrete tra le mani due membri senior, insieme a Sam Raimi e Rob Tapert, del gruppo di lavoro che più ci ha regalato alcuni dei pomeriggi davanti alla Tv migliori della nostra adolescenza e oltre. Da telefilm fantasy - action per tutti come Baywatch (1989-2001), Hercules (1995-99), Xena (1995-2001), Cleopatra 2525 (2000), passando per i più recenti e “sanguigni”, ma non meno divertenti, Spartacus (2010-2013) e Ash Vs Evil Dead (2015-2018), il dinamico duo, spesso coinvolto in qualche fase di queste opere, ha sempre garantito uno show dai connotati fumettosi, esagerati, pieno di scene di combattimento e di bellissime interpreti. Non hanno mai scritto un film o una puntata di uno show in vita loro, ma nei rispettivi campi sono ineccepibili e credo anche abbastanza fieri del loro lavoro. Io mi immagino che una sera, intorno al 2008-2009, Jacobson e Gruendemann siano andati a bere e dopo una sbronza colossale uno dei due abbia cominciato: “Sai una cosa? Proviamo per una volta a scrivere e dirigere noi, da soli, una storia! Prendiamo uno spunto o due (magari tre o quattro) dalle “ragazzacce” di Kill Bill di Tarantino del 2004, magari ingaggiando come coordinatrice stunt Zoe Bell che da sola ci porta avanti gran parte del lavoro. Tanto i film si scrivono spesso da soli!!! Visivamente ci ispiriamo a Sin City di Miller/Rodriguez del 2005, perché i fumettoni estremi e sexy in fondo li avevamo inventati prima noi, piacciono e The Spirit di Miller del 2008 è solo l’eccezione che conferma la regola. Anzi, noi lo faremo ancora più stilizzato e con set palesemente finti!!! Già che ci siamo convochiamo tutti i nostri amici e collaboratori più fidati, da Kevin Sorbo (Hercules)  a Michael Hurst (Iolao), passando anche solo per un cameo a Lucy Lawless (Xena) e Renee O’Connor (Olimpia), magari infilando dentro William Gregory Lee (il bagnino Eric). Ci devono tutti un favore o due, può essere che vengano via per pochissimo!!! Ho poi idee spettacolari per le tre protagoniste! Che ne dici della Scream Queen del nuovo Venerdì 13, America Olivo? Non trovi che assomigli a Uma Thurman in Kill Bill e sia quindi perfetta per alternarla nelle scene d’azione con Zoe Bell? Hai presente Erin Cummings, che abbiamo provinato come moglie di Spartacus? Mettiamola! E cosa mi dici della modella canadese Julia Voth? Certo, non l’ho mai vista recitare ma hai visto che sventola??!! Facciamo anzi che tutte e tre le protagoniste siano sempre vestite come sventole, mezze nude e magari le mettiamo di punto in bianco, di botto, senza logica, a fare cose zozze!!! Da paura, vero??!! Al pubblico piacerà!!!" Poi immagino che il tizio dei due che fino ad adesso non ha spiccicato parola, si mette a pensarci su. Si accende una sigaretta e con la faccia da poker più convincente che trova inizia a chiosare. “Tutto fantastico, Bro. Il mondo sarà nostro. Siccome potrebbe venirci una storta fantastica, ma siamo umili e in fondo le sceneggiature non le abbiano mai fatte, pur avendone lette a milionate, eccoti là mia idea. Nei credits facciamo scrivere che siamo scrittori ad honorem, esperti per esperienza. Così nessuno ci verrà a dire che ci siamo montati la testa quando sbancheremo con pubblico e critica.” Stretta di mano, un paio di telefonate e la giostra parte. Cosa poteva andare storto? 



Partiamo dalle cose positive: belle ragazze, tanta azione e un clima scanzonato. Basterebbero queste cose a mettere Bitch Slap in un multisala accanto a cui viene proiettato Grindhouse di Tarantino e Rodriguez. C’è la stessa iper-ultra sessualizzazione delle protagoniste, con inquadrature che scientemente inquadrano prima i seni e dopo i volti delle eroine, indugiando spesso abbondantemente su tutte le infinite curve del loro corpo fino a farci immergere nei loro occhi. Gli abiti, che le rendono in tutto delle bambolone deluxe, scoppiano, bagnano, si aprono e sfilacciano costantemente, permettendoci di indugiare, complice la generosità delle attrici, su lingerie sexy, calze a rete, scarpe tacco 12 e oltre. È tutto fumettoso, esagerato quanto soft al punto giusto da non arrivare mai al nudo in nessuna forma. Si vuole stuzzicare, sempre, a volte anche anteponendo un siparietto sexy alle logiche della trama. Per chi ama il catfight, Zoe Bell sfodera il meglio del suo talento per scene d’azione che, arricchite di una copiosa componente splatter e un po’ di senso dell’assurdo, rappresentano il vero selling point del film, il fattore che spinge volentieri a una seconda visione. Anche lo stile visivo da fumetto, che intorno al 2010 si trovava un po’ ovunque, riesce nell’intento di rendere la pellicola gustosamente sopra le righe. Gli attori e attrice sembrano evidentemente divertirsi un mondo e anche se non tutte offrono performance memorabili (Julia Voth è per esempio chiamata a impersonare un personaggio con più sfumature di quanto lei riesce a infondere), pure il pubblico può trovare simpatia per loro. L’elefante nella cristalleria, inutile dirlo, è la sceneggiatura. Il film parte da una situazione di stallo che dovrebbe idealmente precedere lo scontro finale, per procedere a ritroso facendo uno smodato uso di flashback. Eventi avvenuti tre minuti prima, poi un paio di mesi prima, poi quaranta minuti dopo, poi ancora sei mesi prima, poi quasi una mezz’ora dopo... un maledetto casino spazio-temporale che si trascina per tutto il film, rende disastrato il punto di vista del narratore, fa inutile confusione, si perde e ogni tanto crea voragini logiche. È palpabile la volontà di creare qualcosa di complesso, facendo magari affidamento sul fatto che la pellicola è un fumettone lineare che punta più al grottesco che alla logica. Ma è un approccio che tradisce inesperienza e butta via dolosamente gran parte di un potenziale visivo niente male, con il rischio che lo spettatore si incazzi più che divertirsi. Peccato. Se volete passare una oretta e mezza insieme a donne da infarto fateci un mezzo pensiero.  Vista come una gioiosa reunion di vecchie stelline dei Tv show del pomeriggio o come una pellicola senza pretese da guardare magari ubriachi, può comunque essere divertente, sexy, amabilmente scorretta e sostanzialmente così esagerata da essere innocua. Ecco, magari una “visione distratta” potrebbe aiutare a migliorare l’esperienza generale. Se volete risparmiare sulle birre, armatevi di sudoku. 

Talk0

sabato 17 aprile 2021

I care a lot - la nostra recensione della sfiziosa dark commedy con Peter Dinklage e Rosamund Pike, ora in esclusiva su Amazon Prime



Come funziona la tutela anziani in America? Quanto aiuta le persone e le comunità? Quanto rende a chi se ne occupa? Dalla voce disincantata di una cinica specialista della tutela (Rosamund Pike) ci viene raccontato che è un business necessario in un’epoca (ma siamo nel pre-covid) in cui l’età anagrafica si è innalzata, i figli sempre più assenti e distratti, i servizi sempre più efficienti. È per questi stessi motivi, continua la professionista, anche un business che può arricchire molto chi sa sfruttarlo, ungendo le giuste leve di potere, conoscendo i medici e avvocati giusti, intrattenendo le giuste relazioni con casa di cura. Le prede più ambite sono definite “ciliegie”, pensione benestanti, con pensione alta ma sole. Una volta individuata la “preda”, un medico compiacente la segnala al tutore e se l’affare è buono parte la procedura. Si fa convincere progressivamente la persona che ormai è vecchia e inizia a “perdere i pezzi”, si chiama un giudice per togliergli i suoi diritti “per il suo bene”, si fa internare in una casa di cura compiacente e il vecchietto finisce in una stanza. Una stanza che diventa così una  scatola in cui depositare l’anziano, tenendolo perennemente impasticcato e sedato, in vita ma senza poter scappare, fino all’ultimo respiro. La tutrice ci mostra la parete del suo studio, su chi appende le foto di tutti i suoi vecchietti che segue, calcolandone la resistenza e il ritorno economico mensile. Lo schema ha un buco, ma una sua conoscenza promette una ciliegia e lei si è già “attivata”. Solo che forse ha puntato la ciliegia sbagliata. Una ciliegia che conosce brutte persone. 



Chi è davvero peggio? Un boss del crimine specializzato in spaccio e prostituzione (Peter Dinklage) o una biondina altezzosa (Rosamund Pike) che si occupa della tutela dei vecchietti In modo truffaldino? Quale dei due vi farebbe più “paura”, se doveste finire tra i loro artigli? È una bella sfida tra mostri, quella proposta dal film scritto e diretto da J.Blakeson. In un continuo gioco di cattiverie e manipolazioni i due “cattivi” si fanno a turno sempre più giganteschi e spietati, sempre più inumani e “ineluttabili” (Thanos cit..), manco fossero Godzilla contro King Kong. La “preda del contendere“ è una vecchina graziosa e sorridente, apparentemente inerme e sola al mondo. La spietatezza con cui i due mostri “oggettificano” tutti gli esseri umani, giovani e anziani, che li circondano, è così estrema e crudele da fare il giro ed essere parossistica, da Black humor.  Lo spettatore ha la sensazione che questi mostri siano davvero onnipotenti, invincibili, almeno fino a sperare che compaia un “trickster” in grado di ribaltare il tavolo, in modo socialmente liberatorio, quasi fosse un esorcismo. Rosamund Pike riprende un po’ il character che l’ha resa famosa in Gone Girl, ossia l’inumano demone dallo sguardo di vetro verso cui non si può provare che un odio quasi atavico. Anche se la tutrice che interpreta possiede un lato del carattere più sentimentale, è molto difficile tifare ed empatizzare per lei. Dinklage è estremamente carismatico, come sempre. Il suo gangster sa essere buffo e umano. È spietato per lo più  “fuori falla scene” e quando si scaglia sulla tutrice sentiamo “che se lo merita”. Anche se ci dovrebbe fare schifo esattamente come lei, probabilmente il pubblico (mi sarebbe piaciuto vedere le reazioni del pubblico in una sala cinematografica) può facilmente tifare per lui, anche se le sue azioni non sono meno terribili, anche se pure lui di fatto tratta le persone come oggetti. Non voglio rovinarvi la trama, perché I care a lot è quel tipo di film da affrontare senza sapere niente, godendo delle piccole e grandi tragedie umane che i suoi personaggi sanno innescare. Godendo di colpi di scena in grado di capovolgere ogni tre minuti la prospettiva generale. È un film molto divertente, sagace, ben recitato e ritmato. Forse più giocoso che profondo, più esagerato che empatico, ma un film che funziona. Qualcuno ci vedrà felici affinità con Joker di Todd Phillips e qualcun altro troverà la pellicola spaventosa per lo stesso motivo. Sul finale diventa un po’ schematico, ma quanto accade nei crudelissimi ultimi minuti sa riportare in carreggiata la trama, sa riportare il mondo “in bolla”, almeno a livello emotivo. Ideale per una serata da film dell’orrore, perché quanto accade ai vecchietti della pellicola può spaventare di più di qualsiasi apocalisse zombie o invasione aliena. 

Talk0

venerdì 9 aprile 2021

Skullgirls 2nd Encore è ancora vivo e lotta con noi

 

(Premessa) Dopo anni di silenzio torna a far parlare di sé uno dei più interessanti e fieramente indipendente picchiaduro “vecchia scuola”. Un titolo tecnico e visivamente irresistibile, a base di combattimenti tra infermiere-ninja, gatte-zombie, ragazze con tentacoli, suore con l’appeal della “Cosa” di Carpenter, strumenti musicali umani, cartoni animati sadici, mummie egizie, agenti segreti, danzatrici con indumenti nerboruti, robot kawai e immancabili eroi norreni esperti di wrestling. Ma da dove arriva tutto questo helzapoppin adorabile? Cosa è previsto per il futuro? Chi ancora non si è unito alle schiere adoranti di Skullgirls, sa a cosa andrà incontro? 

Facciamo un salto indietro di qualche annetto. 

(Un po’ di amarcord dell’ultima era delle sale giochi - lettura opzionale, saltare se non interessati) C’è stato un tempo in cui i picchiaduro bidimensionali regnavano quasi incontrastati sulle terre videoludiche “pubbliche”, le sale giochi, insegnando alle vecchie e nuove generazioni la “nobile arte” dello Street Fighting virtuale. Che ponessero il giocatore davanti a ondate di nemici da abbattere “per salvare il mondo dai cattivi”, come in Golden Axe, o lo facessero partecipare a tornei di arti marziali “gestite da organizzatori cattivi”, i picchiaduro distanziavano i platform alla Rainbow Island quanto gli sparacchini alla R-type, i giochi con il volante come Super Off Road quando, qualche volta (raramente), farsi preferire pure a Gals Panic! Certo poi in sala rimanevano seguitissimi i giochi alla NBA Jam e ovviante il calcio in ogni sua forma, ma questo era inevitabile, endemico nell’accezione di “italico”. Sta di fatto che il genere picchiaduro era riuscito, nella sua “golden age”, anche in ragione degli immensi ritorni economici, ad arrivare a vette artistiche quanto ludiche inimmaginabili. Il lavoro di case come Capcom e SNK, alzava sempre più l’asticella audio e video, introduceva nuove meccaniche, spingeva sempre più sull’agonistico. Poi lo spazio delle macchine da gioco a tema “picchia picchia” iniziò a popolarsi delle prime, visivamente orribili ma a loro modo affascinanti, “schifezze in tre dimensioni” di Sega. Questa tecnologia portava un approccio del tutto diverso al gaming a base di arti marziali. La fluidità, la “leggibilità” dei movimenti e il granitico gameplay frutto del genio di Yu Suzuki, fecero cadere l’occhio di milioni di persone sui cubettosi combattenti di arti marziali “standard“ e dalla caratterizzazione appena accennata di Virtua Fighter, distanti anni luce dalla coolness di un Ryu Hoshi, un Andy e Terry Bogart o del nuovo “arrivato in sala”: Dimitri Maximoff. Maximoff venne messo da parte insieme agli altri combattenti di quel picchiaduro a base di vampiri, lupi mannari, zombie e alieni dal titolo roboante di Darkstalkers,  sontuoso tanto per il lato tecnico curato dal veterano Junichi Ohno, quanto per il lato artistico curato dalla leggenda Akira “Yas” Yasuda. Solo che Ohno esprimeva l’evoluzione finale e più estremizzata di un genere codificato in anni che Suzuki stava innovando e riscrivendo alla luce di una nuova prospettiva. Si stavano “semplificando” le sacre regole di ingaggio che da International Karate plus si erano presto evolute ad  uno “standard Fantasy” a base di palle di fuoco e braccia che si allungavano, in ragione di una riscoperta della lotta virtuale dal sapore “simulativo”, più vicina ai movimenti dei combattenti umani. La velocità dell’azione a schermo, diventata negli anni sempre più “turbo”, per assecondare i riflessi evoluti dei giocatori professionisti, “frenava”, con i primi processori 3d che di fatto non riuscivano ad essere altrettanto veloci, ma che anche per questo facevano apparire i movimenti dei combattenti più “realistici e intellegibili”, più “correttamente lenti”. Coesistevano quindi due filosofie di picchiaduro distinte, con la più sviluppata e antica che stava calando di appeal per seguire i giocatori più esperti, con un’altra, diversa, che stava avvicinano un nuovo pubblico. Certo la “colpa” era anche di Darkstalkers e i suoi “ coin-op fratelli”, giochi picchiaduro vecchia scuola ma 2.0 se non 3.0 o 4.0, in cui anche le più semplici strategie di attacco corpo a corpo venivano rese ancora più astratte e roboanti, da un Yas in vena di trasformare la pixel art in cartone animato. Così un calcio, un pugno, una presa e una parata standard, nell’ottica di una lettura sempre più raffinata e automatica degli schemi di attacco ravvicinato o a distanza da parte dei player, venivano sostitute dagli “equivalenti”: attacco con arto-zombie mutato in motosega, colpo con mitragliatrice uzi della nonna di Cappuccetto Rosso, bacio succhiasangue del vampiro, evocazione del sarcofago protettivo della mummia. Proprio per il fatto di essere frenetico quasi più di uno sparatutto, pieno di mosse astratte da eseguire, raggi e barre energetiche misteriose da riempire, Darkstalkers era “troppo strano” per il giocatore medio. Bellissimo da vedere ma più vicino a un cartone animato alla Dragon’s Lair, anche se molto più giocabile e comunque “leggibile” con un po’ di esperienza. Poi la ruota è tornata a girare, la “luna di miele” per la nuova tecnologia è finita e anche i nuovi giochi 3d, passato l’effetto novità, vennero a loro volta percepiti come ostici e  ultra tecnici. E l’assurdo era proprio che Virtua e i suoi fratelli erano già dall’inizio ostici, tanto per i comandi della nuova telecamera virtuale che per l’approccio simulativo “spinto” alla base di ogni colpo, ma gli si perdonava quasi tutto “Per la grafica”. Tra i giocatori il dibattito era tipo: “oh, io non ci metto i soldi in quella roba senza senso (Darkstalkers) che pare di stare al circo!! Io faccio arti marziali e Virtua (fighters) è fedele, vero, arti marziali pure!! Ed è giusto che sia difficile fare quella mossa perché io per impararla ci ho messo 3 mesi, viva il treddi!!!”.

Darkstalkers: resurrection per PS3


In effetti diventare esperti nei picchiaduro, bidimensionali o tridimensionali, era tosto. Serviva avere a casa il titolo ed era ai tempi un’opzione non praticabile, a meno di possedere una conversione del cabinato molto buona. Cosa che era rara, sia in termini di velocità che di comandi, e quindi non ad appannaggio di tutti i computer o console. Oppure serviva avere un costosissimo Neo Geo con le sue ultra-costosissime cartucce, che alcuni temerari pagavano facendo i doppi lavori d’estate. La “sepoltura definitiva” delle botte bidimensionali arrivò così con Street Fighter 3. Il picchiaduro 2d a livello tecnico e artistico forse più bello di sempre, frutto del fantomatico processore CPS3 da sala giochi, che veniva supportato/relegato a livello domestico solo dal processore Naomi del Dreamcast. Il Dreamcast era una macchina cara, che non aveva nessuno in Occidente, oltre che difficile da programmare. La “coetanea” PlayStation, macchina economica e facilissima da programmare, rinunciava alle skills tecnologiche 2d del CPS3/Naomi per far girare i picchiaduro bidimensionali più da urlo, preferendogli una cpu grafica in grado di masticare poligoni. In sala giochi e su Dreamcast escono Marvel Vs Capcom, Marvel vs Snk, Street Fighters 3d Strike, su Neo Geo arrivano Last Blade e Garoo, King of Fighters è amatissimo, ma è tutto inutile. È la fine, gli amanti dei picchiaduro bidimensionali iniziano a estinguersi insieme alle sale giochi che chiudono e all’impero di SNK che crolla. Crolla Dreamcast, quando è ancora incompresa e poco diffusa. Sopravvive nell’era PSX solo un piccolo manipolo di duri e puri amanti del picchiaduro 2d, negli anni supportati “in endovena” dai pochi ma amatissimi prodotti Arc System Plus (Guilty Gear o il picchiaduro di Hokuto no Ken) o dalle “eccezioni meritevoli” dalla sempre meno prolifica Capcom (JoJo, Pocket Fighters, Street Fighters alpha 3). Fu la “grande toppata di Capcom” secondo Shinji Mikami, autore che avrebbe però traghettato la fama di Capcom su altri lidi con Resident Evil. Nascono leggende urbane di gente che negli anni 2000 si è trasferita in Giappone per godere nelle sale giochi di Street Fighters 3 Third Strike, lavorando sottopagati ma senza dover aspettare che vent’anni dopo il titolo uscisse in una collection ufficiale, e non importata, per PS4. Poi tutti si sono accorti dei limiti della grafica 3d “estesa” per i picchiaduro, come il fatto che girare intorno all’avversario per schivare era poco divertente, salvo che in Soul Calibur di Namco. Girare intorno all’avversario in ambiente 3d esteso, come si ostinano a fare tuttora molti giochi di stampo Anime, faceva sembrare i picchiaduro (anche quelli più riusciti) più vicini al gioco della “acchiapparella”. 

Acchiappami! (Soul CAlibur 6)


Cosi c’è stato un significativo ritorno alle meccaniche del picchiaduro bidimensionale, pur con “sviluppo estetico” in ambiente tridimensionale. Di questo aspetto fu precursore, all’epoca isolato, la saga di Tekken del mitico Harada, che provò nel quarto capitolo a volgersi 3d esteso ma poi ci ripensò. Grazie a Tekken possiamo oggi godere della soluzione videoluduca  “2D e mezzo”, quella degli ultimi Street Fighters (dal 2008) e Mortal Kombat (dal 2011 ). Nel frattempo, dai secoli bui all’era PlayStation3  Arc System rilanciava con Guilty Gear di Daisuke Ishiwatani, non a caso con passato nei bidimensionali SNK, e Blazblue di Toshimiki Tori, legato ai franchise di botte bidimensionali di Double Dragon e River City. Questi guru, insieme a pochi sparuti studi giapponesi di animo indie tipo Examu, Ecole, French Bread, Type-Moon, hanno fieramente ripreso la linea dei picchiaduro “a cartone animato”, in memoria di Darkstalkers e Street Fighters 3, disegnati ancora ardimentosamente a “mano bidimensionale”. Certo erano prodotti che uscivano dal Giappone una volta su 10, spesso facendo conto su progetti vicini all’animazione giapponese ed eroici importatori, ma che quando capitava sapevano trovare il loro vecchio pubblico di giocatori vecchietti, magari ancora assopito ma battagliero. Un po’ lo stesso pubblico di Golden Axe e Tower of Doom che avrebbe accolto, a fine era ps3, a braccia aperte e tante lacrime il Dragon’s Crown di Vanillaware. Con John Kamitani dietro sia a Tower of Doom che a Dragon’s Crown (se non lo avete recuperatelo in versione “pro” sui vari formati). Vanillaware e Arc System, come gli altri discepoli del pensiero bidimensionale, oggi di fatto impiegano in vari lavori anche prospettive di grafica 2D e mezzo, pur “a modo loro”: gli scheletri delle animazioni e dei livelli di gioco nascono in animazione tridimensionale, come in Tekken, per poi passare alla “ricopertura bidimensionale”, che avviene con disegni classici eseguiti a mano o elaborazioni artistiche del cell shading, strumenti volti a dare l’appeal della pixel-art capcomiana 2.0. Parliamo ovviamente degli ultimi Guilty Gear Xrd e Strive o del Dragon Ball Fighterz di sua santità Tomoko Hiroki, ma è un tema sul quale vi abbiamo intrattenuto già altrove. Torniamo però a quei giochi picchiaduro 2d dell’era Arc System prima maniera, a quel clima da sale giochi ancora mezze aperte nelle nostre città, ai titoli come Marvel vs Capcom e Darkstalkers dell’era CPS3/Naomi e troviamo facilmente, un po’ giocatori e un po’ eredi dei picchiaduro di SNK e Capcom, proprio i creatori di Skullgirls. Skullgirls che ancora oggi fa parlare di sé, come tutti quei gloriosi picchiaduro del passato che oggi potete trovare facilmente emulati su console e Pc.

Dragon's Crown Pro (PS4)


(Skullgirl: Fatto da appassionati delle sale giochi  per appassionati delle sale giochi) Skullgirls è uscito nel 2012, esce ancora con un Season Pass che è già pianificato inizi su tutti i formati a maggio 2021, ma i lavori iniziano di fatto intorno al 2007, con il disegnatore Alex Ahad che pensa a questi personaggi già dai tempi del liceo. La voglia di mettere su uno studio di videogame e conquistare il mondo parte perché Alex incontra Mike “Mike Z” Zaimont, un campione dei picchiaduro giapponesi (partito con gli Street Fighters, approdato ai Marvel vs Capcom e oggi campione di Blazblue), uno che “vince i tornei” in giro per il mondo quando in Italia pensavamo solo fossero cose che esistevano nel film Il piccolo grande mago dei videogame di Todd Holland, del 1988. Mike, che spesso su internet parla tutt’oggi con trasporto dei picchiaduro, come se Blanka fosse più espressivo di un pezzo dei Clash, svela ad Alex tutti i segreti e l’infinito amore che risiede dietro alla creazione di questi prodotti. La filosofia del colpo a mezzaluna che mima sul joystick (la “leva della gioia... scusate, mi perdo in romanticismi...) la tecnica di Wolverine in Marvel vs Capcom, dall’atto di accucciarsi a protendere gli artigli in avanti. Il cerchio a 360 di T.Hawk per afferrare l’avversario e rotearlo in aria in Super Street Fighter. Il caricarsi dal basso per due secondi di Guile di Street Fighters II, per darsi la spinta prima di lanciarsi in aria con un calcio rotante. I due si trovano, la poesia del picchiaduro bidimensionale scorre in loro, si convincono e insieme a qualche amico mooolto talentuoso, mettono su uno studio americano di videogame. Dopo le prime prove tecniche del 2008 e uno studio del motore grafico nel 2009 su impronta del Cps3, l’avventura del dinamico duo parte per davvero nel 2010 sotto la label “Reverge Lab”, un piccolo studio indipendente, prodotto dall’etichetta Autumn Games. Reverge Lab conta poco più di una decina di membri, ma è ricolmo di amore e passione infinita per il disegno tradizionale a mano, i picchiaduro e in genere tutto quello che è giapponese, da Gundam a Evangelion passando per Sailor Moon, ma con una certa passione (che nasce da Alex) anche per Burton e Mike Mignola. Come frequente in quel periodo, si dedicano alla grafica in ambiente Flash per iniziare a fare le prime prove di un picchiaduro 2d vecchia scuola. Come capita un po’ a tutti, esordiscono però con tutt’altro, un gioco karaoke sulla Scena Rap Americana, la Def Jam, ma poi trovano tutto il tempo che vogliono per dedicare gli anni a venire al loro picchiaduro, Skullgirls. Skullgirls, per fare un esempio più recente, sta idealmente a Darkstalkers di Capcom come Cuphead sta a Contra di Konami... e potrebbero quasi essere ambientati nello stesso mondo. 



Skullgirls gode di animazioni fantastiche e progettate nei dettagli In grado di rendere vivi i disegni “da liceo” di Alex. Le animazioni di ogni singolo personaggio  fin da subito appaiono più numerose, più di qualità, più ricche e dettagliate di quelle riservate ai prodotti analoghi giapponesi del periodo. Dal taglio quasi sinistro di alcuni di questi disegni, esplorabile al meglio solo per chi sa soffermarsi frame by frame sulle animazioni, emergono ancora più nettamente le contrapposizione tra l’aspetto esteriore dei personaggi (che in superficie omaggia lo stile noir e l’animazione di inizio ‘90, quanto le maghette tetre di Puella Magi Madoka Magica) e la natura “disturbante”, pur satirica, che emerge dei dettagli più sfuggenti che li animano. Uno stile creepy e sessualizzato, da animazione per adulti, che potremmo idealmente avvicinare  quasi di al Don Bluth di Cool World, variante adulta di Chi ha incastrato Roger Rabbit che la storia del cinema ha un po’ dimenticato. Uno stile che ha portato un po’ di problemi con la censura, al punto da dover essere limato, ma che a tutt’oggi dona ai personaggi una personalità unica, strabordante. Vi invito a cercare su YouTube i video frame by frame di Double o Eliza, per apprezzare lo straordinario lavoro espressivo dei grafici di Zero Lab 


Il gioco possiede un gameplay sfidante ma non frustrante, veloce e performante, frutto e sintesi della passione di Mike per la tecnica più cartoon di Capcom (molto Darkstalkers) e più kawai di SNK (molto Waku Waku 7), tanto nelle meccaniche di combattimento quanto nella possibilità di configurare i combattimenti contro gruppi da 1 a 3 personaggi (sullo stile della serie Marvel vs Capcom). Il cast delle eroine è ristretto all’inizio a 8 (+boss) anche perché la produzione è indipendente e il lavoro su ogni character immane e non riciclato. Ma il cast, davvero “molto Darkstalkeriano”, risulta vario, affascinante e “burtonianamente” stralunato. Il giocatore può muoversi tra scenari elegantemente vintage da Chicago anni '20 tra strade del centro, musei di storia e Night club, passare per ambientazioni steampunk come enormi dirigibili e laboratori pieni di ampolle e luci colorate. Può finire nelle classiche atmosfere scolastiche tra banchi di scuola e parchi autunnali, per arrivare a quadri apocalittici da fine del mondo, carichi di crateri, fulmini, tempeste, chiese maledette. Tutti ambienti coloratissimi e dettagliati che proprio nei dettagli raccontano delle storie, con personaggi sullo sfondo che presto potrebbero essere inseriti nel gioco o che di fatto compiono un ruolo attivo nella modalità storia. Scenari che possono essere scelti in fasi diurne e notturne, accompagnati da una colonna sonora frutto di uno spettacolare mix accattivante che spazia dai fiati dell’acid  jazz ai cori e organi “da film horror”, passando ai tamburi tribali. Le eroine con cui possiamo “combattere” sono ragazzine più o meno “sfortunate/eroiche”, spesso scolarette (da cui il gioco di parole tra Skullgirls e school girls) il cui corpo è zombificato o fuso con dei mostri, artificiale o maledetto, spesso mutante in forme terribili, tentacolari o metalliche. Non mancano però epigoni di Robocop e rappresentati di una forza militare non dissimili agli ispettori di Tokyo Ghoul, ma sono per la maggior parte piccole freak in cerca di vendetta, esperimenti da laboratorio finite male ed epigoni di Venom, che starebbero benissimo in un’opera di Tim Burton o Guillermo Del Toro, abitanti in un mondo folle, retro/splatter/dissacrante, ma che si può stemperare proprio grazie alla forte ironia che trasuda dalla narrazione e stile grafico. 



Un mondo sopra le righe diverso per epoca ma molto simile a quello di Darkstalkers, dove tutti i personaggi godono di enormi animazioni, volti spesso caricaturali e mosse ultra-eccentriche che puntano a deformare, stiracchiare, contorcere e far esplodere in mille proiettili e gadget stralunati ogni loro azione su schermo. Arc System e Konami hanno distribuito in oriente Skullgirls e le musiche hanno goduto dell’arte di Michiru Yamane, la compositrice di Castlevania. Dal 2012 a oggi Skullgirls, si è aggiornato con nuovi contenuti alla versione Encore all’epoca di Ps3 e poi alla 2nd Encore per il suo adattamento a PsVita e Ps4. È rimasto giocabile in cross-play da tutte le varie piattaforme e versioni dal 2012, passando le generazioni videoludiche rimanendo sostanzialmente invariato ma incrementando a 15 le combattenti giocabili, ha venduto quasi 2 milioni di copie. Il gioco partecipa tuttora agli eventi internazionali legati al gaming, tra cui il torneo Evo (recentemente sospeso per una storiaccia), in Giappone nel 2015 ha ottenuto un proprio cabinato da sala giochi (capitano solo in Giappone queste cose...) ed è fino a oggi così seguito che le fan Art, i fumetti, spin-off vari (tra cui il recente fumetto Skulldudes) e i cosplay, dedicati alle protagoniste e al mondo del titolo, riempiono ogni mostra del fumetto e siti internet dedicati. Reverge Lab nel tempo ne ha passate di tutti i colori, e con lei Skullgirls. La piccola Software House di Alex Ahad e Mike Z si è trasformata in “Lab Zero games”, si è staccata da Konami e Autumn, poi ha dovuto fermarsi. Poi è risorta con il crownfunding, si è riunita ad Autumn, ha stretto un nuovo sodalizio con Hidden Variable per la versione di Skullgirls su Mobile. Ora, roba di pochi giorni fa, dopo essere falliti come Zero Lab, moltissimi dei programmatori hanno fondato la neonata Future Club e si occupano insieme a Hidden Variable della Stagione 1 dei nuovi dlc di Skullgirls. Insomma, è successo un casino dal 2012 fino quasi a ieri, metà marzo 2021. Nel mezzo, più o meno dal 2012 fino a ottobre 2020, Zero Lab realizza l’ottimo metroidvania “Indivisible”, sempre con i disegni di Alex Ahad, che nel frattempo è esploso a livello internazionale e ha trovato il tempo per occuparsi anche del platforn Shantae di Wayfoward Tecnologies. 

Indivisible


Indivisible, altro illustrissimo omaggio ai videogame bidimensionali del passato, nella specie i platform, è un progetto ambizioso e di successo che gode di animazioni prodotte dallo Studio Trigger di Gurren Lagann e dimostra la stessa cura e impegno in ogni animazione e aspetto di gameplay. Nel frattempo il brand di Skullgirls si è espanso appunto in crossover mobile  anche se il progetto principale veniva “messo in pausa” nel 2015. È stato un blocco un po’ inaspettato, avvenuto mentre alcuni nuovi personaggi da sviluppare erano già stati scelti con una votazione dai fan del titolo. Ma i Lab Zero, per scelta precisa di indipendenza volevano rimanere un piccolo studio con pochi dipendenti che realizzano una cosa per volta e con “tutto il tempo necessario”. Nel 2017 ad ogni modo, grazie ad Autumn, Skullgirls rinasce in versione gioco mobile prima, che con le microtransazioni diventa una IP davvero forte e permette al brand di arrivare al 2019 con la molto attesa conversione per Nintendo Switch di 2nd Encore, per la quale torna al lavoro il gruppo storico. Poi il patatrac. Mike Z finisce nei casini per una storiaccia i cui contorni non sono ancora chiari (tipo la storiaccia dell’Evo). Sta di fatto che Lab Zero chiude, tutti i dipendenti si licenziano, Indivisible si ritrova senza i dlc pianificati, fine della storia. È un piccolo grande dramma, il potenziale di Lab Zero era enorme e lo studio ha saputo imporsi per stile e originalità ai giorni nostri, lavorando sempre controcorrente alle mode, con un occhio molto attento alla qualità. Game Over. Poi girovagando su YouTube mi imbatto nel trailer qui in alto, uscito a inizio di febbraio. Annie, anche lei disegnata da Alex con il suo stile stralunato e irresistibile, era uno dei personaggi che avrebbe dovuto integrare il roster di Skullgirls via dlc prima della sua “sospensione”. Di più, Annie era stata ripescata come personaggio extra per i dlc di Indivisible, prima che anche  Indivisible venisse cancellato dopo il guaio di Mike Z. Forse Annie porta un po’ sfiga, come però sono un po’ sfigate tutte le Skullgirls e quindi si trova già in perfetta compagnia! Il personaggio è già uscito su Skullgirls Mobile, grazie a una Autumn che ora si sobbarca di riprendere anche il titolo principale, Skullgirls 2nd Encore, ricominciando ad ampliare il gruppo dei combattenti fermo dal 2015. Si vociferava già di almeno un altro personaggio dopo Annie e lo story mode del gioco in questo senso è già ricchissimo di spunti. Io punto sul mega-cattivo Brain Drain, almeno per portare i “maschietti” a tre. Ad ogni modo non era ancora stata comunicata una data di uscita per Annie, anche se si parlava di un periodo imminente. 

Poi sono arrivate in questi ultimissimi giorni delle novità.  

Autumn Games ha annunciato a fine febbraio di avere in in programma una resurrezione in grande stile per le Skullgirls. Da inizio marzo via Steam arriverà in early access Annie, che sarà invece del tutto giocabile, su tutti i sistemi (tranne su ps3 e la scorsa old gen in genere) dall’inizio di maggio. Ma c’è di più! Da maggio partirà il “Season pass 1” di Skullgirls, che dovrebbe attestarsi (salvo conferme più specifiche) sui 30 euro, includendo nel pacchetto oltre ad Annie anche 3 nuovi personaggi (che saranno rilasciati fino al 2022), un Art-book digitale e la soundtrack del gioco. Se le cose andranno in porto, Autumn si è sbilanciata già, annunciando a Destructoid che entro la fine del 2021, se le vendite andranno bene, si potrebbe aggiungere un quinto personaggio, sempre compreso nel season Pass 1. E chi può dirlo? Magari ci sarà un Season Pass 2 in futuro. 

Notizia di qualche giorno fa, la resurrezione di Lab Zero come Future Club, salvo l’assenza nel gruppo di Mike Z, ora estraneo al progetto. In un modo o nell’altro le Skullgirls sono tornate, anche se il nucleo iniziale che ha dato il via a tutto è ora spezzato.

Inutile dirvi quanto, da fan del gioco, aspetto già con fibrillazione di raccontarvi delle Skullgirls che verranno... e magari portare sul blog anche qualche bel gameplay! 

Skullgirls si trova su pc, x-box, ps3, ps4, vita, switch, mobile e si prepara alla next gen sempre intatto e bellissimo come già è, con ancora più personaggi. Se ancora non lo avete provato e amate i picchiaduro vecchio stampo è il momento almeno di scaricare una demo e mettervi alla prova. Potreste trovare qualcosa di bello. 

Talk0

mercoledì 7 aprile 2021

I see you - la nostra recensione del thriller psicologico diretto da Adam Randall, ora su Amazon Prime

 


Nella perfetta villetta di periferia da “sciuri” di una perfetta famiglia americana, iniziano a volare parole e oggetti. La mamma, psicologa sull’orlo di una crisi emotiva che cura con continui psicofarmaci (Helen Hunt), deve aver messo le corna al papà e spezzato l’armonia familiare. Il papà, sceriffo di provincia dai modi bruschi (Jon Tenney), si scopre affetto da incontinenze notturne e si ritrova causalmente così incazzato da attaccarsi alla bottiglia e distruggere finestre, cellulari, ecc. In città è forse tornato un pedofilo rapitore e il nostro eroe non è esattamente “sul pezzo” per risolvere qualcosa. Il figlio adolescente della coppia (Judah Lewis)  è, da adolescente, totalmente chiuso in se stesso e nei videogame, apatico, scontroso e forse quasi assassino nei confronti del nuovo ganzo della mamma, che a sua volta se lo immagina quando aveva sei anni e andava all’asilo e vorrebbe non essere troppo severa con lui. Anche quando sembra che il figlio abbia quasi ucciso il ganzo, perché sono cose da ragazzi. Intanto i quadretti familiari che adornano la scala che porta al secondo piano del villino sembrano scomparire uno a uno, la casa è piena di rumori strani ed è comparsa misteriosamente una maschera inquietante con l’espressività di una rana. Cosa può andare storto?



Diretto con classe da Adam Randall, scritto dall’attore Devon Graye nel suo primo sorprendente lavoro da sceneggiatore, I see you è uno psycho-thriller molto ben costruito e “cattivo al punto giusto”, che sembra quasi di matrice coreana. Non so se sia un remake, dovrei verificare, ma guardate la cosa da parte mia come un sincero complimento. I coreani sono indiscussi maestri del thriller psicologico e Randall ha compreso appieno la filosofia vincente di tali produzioni: personaggi sfaccettati in bilico tra bene e male, uno scenario pieno di misteri tutti prima o poi decifrabili, la prospettiva di guardare ogni singolo dettaglio da un diverso punto di vista. A questo piatto succulento, Randall aggiunge un tocco tutto americano di horror-slasher. Dire di più sarebbe ingeneroso nei vostri confronti, citarvi opere simili o anche solo i registi delle stesse vi priverebbe della gioia della scoperta di un ingranaggio narrativo e visivo ben oliato, gustoso da vedere e rivedere una seconda volta. Magari anche solo per sincerarvi che tutti i pezzi ritornino nel puzzle finale. Bravi gli attori, intrigante la location, ottimo il ritmo narrativo, bellissima la maschera. Helen Hunt dismette i suoi panni da attrice brillante e diventa una donna complessata e grigia. Tenney riempie di ombre il suo classico ruolo da “sbirro”, Lewis è perfettamente assente e spaesato come la trama richiede. Un plauso ai “personaggi misteriosi” interpretati da Libe Barer (Kiara in Parenthood) e Owen Teague (il bulletto col capello lungo di IT). I see you è una bella sorpresa. Vi consiglio di “tenere duro” fino alla seconda parte, perché all’inizio tutto appare frammentario e quasi in zona b-movie. Tutto troverà un senso specifico e una logica. Buona visione. 

Talk0

sabato 3 aprile 2021

Suicide Squad - squadra suicida: il primo trailer italiano!

 


James Gunn si “impossessa” dei losers DC e già dal primo trailer mette in scena la “versione Deadpool” dei Guardiani della Galassia. Amabilmente sfigati nel look, super-auto-ironici, nel contesto di un fumettone esageratissimo e sanguinolento, i membri della Squadra Suicida, con in testa la Harley Queen di Margot Robbie e la Amanda Walker di Viola Davis, con tante gustose aggiunte come Idris Elba, John Cena, Taika Waititi in versione “Street Shark” (lo dico per i non addetti ai lavori), Nathan Fillon e Michael Rooker (amici e attori - feticcio di Gunn, che tornano diretto da lui dopo quella bomba di Slither. Con Fillon che per molto tempo avrebbe dovuto già essere Star Lord) sembrano in ultra-forma. Ovviamente ritornano anche il Captain Boomerang di Jai Courtney e il Rick Flagg di Kinnaman. La prima pellicola era sgangherata, piena di buchi logici, ma aveva personaggi adorabili. Si riparte da questi è il clima generale non sembra niente male. Stiamo sintonizzati per aggiornamenti. 

P.S. Idris Elba interpreterà Bloodsport e non sostituirà quindi Will Smith nel ruolo di Deadshoot, come inizialmente si pensava. Anzi, sembra che a una prima stesura della pellicola fossero presenti anche il Deadshoot di Smith e il Deathstroke di Joe Manganiello (già presente nel ruolo nei titoli di coda di Justice League, mentre nella serie tv Arrow era interpretata da Manu Bennett). Al momento non sappiamo se i due compariranno da qui alla release finale.

Talk0