lunedì 31 luglio 2023

Animali selvatici (R.M.N.): la nostra recensione del nuovo film drammatico e “onirico” del regista rumeno Cristian Mungiu

Ci troviamo alcuni giorni prima di Natale, in un paesino della Transilvania dove da poco è rientrato il silenzioso e apparentemente burbero macellaio Matthias (Marin Grigore). La sua avventura lavorativa in Germania è repentinamente terminata dopo che l’uomo ha reagito con un pugno a un superiore che lo ha definito “zingaro”, ma Matthias è in fondo contento di essere di nuovo a casa in Romania: per la bellezza delle montagne, la cordialità dei suoi vicini e per risolvere alcuni problemi che negli ultimi tempi sono diventati per lui particolarmente impellenti. Il suo gracile figlio Rudi (Mark Blemyesi) di recente, mentre andava alla scuola elementare passando per i boschi, si è imbattuto in qualcosa di enorme e minaccioso, forse un orso. Da allora è diventato taciturno, spesso rimane immobile come traumatizzato e ha una assoluta paura a tornare a scuola da solo. La madre, Ana (Macrina Barladeanu) si limita a tenerlo per mano e confortarlo mentre il padre vorrebbe reazioni più concrete. Ora il macellaio può accompagnare lui a scuola Rudi, insegnandogli nel contempo a difendersi da “orsi e sconosciuti” preparando trappole e sparando con un fucile da caccia, ma Matthias deve anche trovare il modo di occuparsi di suo padre Otto (Andrei Finti), che da qualche tempo non sembra essere più in forma e sempre più spesso si comporta in pubblico in modi eccentrici. Anche l’unica consolazione “locale” del macellaio, la sua bella amante Csilla (Judith State), non se la passa troppo bene, specie da quando per conto del panificio industriale per cui lavora ha assunto due ragazzi dello Sri Lanka, facendo esplodere una incontrollata onda di invidia e odio xenofobo, che presto arriva a contagiare tutta la cittadinanza. Matthias vuole insegnare anche a Csilla l’uso del fucile, ma la donna preferisce vivere con le porte di casa aperte. Tra l’addestramento alle armi da fuoco e la protezione del figlio, fenomeni di violenza e incomprensione, strani suicidi e misteriose apparizioni notturne, a un certo punto sembrerà a Matthias che l’intero paese e i gentili concittadini che lui conosce da quando era piccolo siano stati tutti come “sostituiti”: scambiati con un branco di “animali selvatici”. Dovrà armarsi di nuovo, ma sembra che nessun altro voglia di difendersi e cambiare lo strano processo “sociale e animale” in atto nel suo paese. 


Il geniale e molto spesso celebrato e premiato regista rumeno Cristian Mungiu, una delle voci più interessanti della cinematografia dell’est Europa, torna al cinema a sei anni di distanza da Un padre, una figlia, con un’opera corale presentata in occasione del Festival del Cinema di Cannes del 2022. Un film che risulta curioso e atipico fin dal titolo originale, R.M.N., un acronimo riferito alla “risonanza magnetica nucleare”, un esame medico diagnostico cui si sottopone il padre del protagonista. È un esame per valutare “fotograficamente” lo stato della attività cerebrale, da cui risulta in questo caso la presenza di lesioni della corteccia tali da aver compromesso le funzionalità “relazionali” dell’uomo. Per via di queste lesioni, il padre può ora solo agire e reagire in base all’istinto di sopravvivenza, in una regressione che a tutti gli effetti rende l’uomo non dissimile da un animale selvatico. In un contesto (dis)umano più ampio, ipotizzando “drammaturgicamente” che di tale patologia si stia ammalando l’intero paesino protagonista delle vicende, viene facile immaginare che ogni uomo possa qui diventare, per rabbia o per autodifesa  “cacciatore dei suoi stessi simili”. Un animale selvatico, per citare il titolo italiano del film, ma anche, per la celebre massima di Hobbes, un “homo, homini lupus”.  Avevamo incontrato i vanitosi e vigliacchi “animali notturni” americani raccontatici da Tom Ford nel suo film del 2016, vittime e carnefici di un piccolo mondo familiare ricco e autoreferenziale, mentre  Mungiu qui ci porta tra i “suoi” animali selvatici, più proletari e meno altolocati, quasi fornendoci plasticamente la radiografia di una popolazione arrivata allo stremo. Una popolazione contadina e fiera, volenterosa e generosa, ma che si sta sempre più socialmente “ammalando”, dai più grandi ai più piccoli, senza che ci sia di fatto una cura per invertire il processo e dove anzi basta un piccolo screzio per generarsi una tragedia rabbiosa. Il meccanismo crudele della rabbia, che innesca la parte animale, monta progressivamente e inevitabile tra i personaggi fin dalla prima scena della pellicola, dove Mungiu ci mostra lo sfogo distruttivo di chi si sente delegittimato (e sempre delegittimabile) della propria dignità per il solito banale odio etnico. Alimentato dal timore per il futuro alla paranoia, fino ad arrivare alla xenofobia, il regista inietta dentro ai suoi personaggi un odio che dal punto di visto dall’ aggressore si palesa, miseramente alla stregua di una “””giustificazione morale”””. Una piccola rivalsa all’interno di una eterna guerra tra poveri e senza vincitori, dove chi è straniero è giocoforza nemico, come i bracconieri e gli orsi. Matthias è stato straniero in Germania allo stesso modo in cui, per riflesso, i panettieri dello Sri Lanka sono stranieri e non voluti “a casa sua”, in una realtà rurale priva di lavoro e prospettive, piena di paura e diffidenza (in questo caso ben riposte) verso le autorità e i padroni. Una realtà difficile, ma nella quale comunque nessuno farebbe il panettiere “a tempo precario“, rinunciando così a una specie di “reddito di cittadinanza transilvano”. Di fatto sono “arrivati gli stranieri” dopo che non si è trovato nei canali ufficiali nessuno che volesse fare il panettiere per via di una bassissima proposta economica, dopo che l’industria ha espressamente deciso di pagare gli stranieri ancora meno, facendo affidamento quasi del tutto su dei fondi europei per promuovere l’immigrazione. Ad aumentare la tensione gioca un ruolo importante anche la stessa “comunicazione” tra i cittadini.


Mungiu parla di un territorio, drammaticamente reale, nel quale per varie vicissitudini storiche, sono  presenti una ventina di lingue e culture diverse, tutte messe insieme a convivere attraverso arditi equilibrismi sociali e politici. Aggiungere una ennesima etnia alla babele pre-esistente è una goccia che fa quasi crollare un complesso castello di carte, scatenando un risentimento sociale che diventa lui stesso un unico grande personaggio, un autentico “blob sociale”. In una delle lunghissime ed elaborate sequenze a piano fisso per le quali il regista è da sempre considerato un maestro della macchina da presa, Mungiu ci racconta minuto per minuto le vicissitudini di un'assemblea comunale convocata sul sopracitato problema dei “panettieri stranieri”. I personaggi in scena sono tantissimi, usano lingue diverse, intervengono al dibattito in modo scomposto e spostano continuamente il discorso in territori di difficile compromesso, ostacolando ogni soluzione. Ci sono i dirigenti del panificio che si fanno vanto di offrire lavoro anche se sottopagato, il sindaco che vuole rimanere estraneo a tutto e delega le colpe, il prete che sollecitato dai parrocchiani non è sicuro sulla fede dei panettieri e paventa l’estremismo, i cittadini disoccupati e arrabbiati che pretendono parità di diritti a salari alti, le famiglie timorose dell’impatto degli stranieri sulla loro prole, il medico locale che paventa epidemie, studenti francesi in scambio culturale che parlano tra i fischi della ricchezza offerta dal convivere di culture diverse e una marea di altra gente, che per quasi venti minuti filati urla, fa il tifo, borbotta e contribuisce a comporre e intrecciare un unico grottesco quanto complicato quadro umano. Un quadro fortemente gustosamente satirico, così stratificato e contraddittorio da sembrare la rappresentazione “più nobile” della classica “folla inferocita con i forconi” che compare ogni due per tre nel cartone animato dei Simpson. In tutto questo caos umano di cittadini arrabbiati, stranieri e folle inferocite il nostro protagonista “morale”, Matthias, è l’unico personaggio sulla scena che forse può andare oltre le apparenze, provare empatia e forse abbassare i toni generali. Ma Matthias indugia, non prende la parola nè dice niente. Forse  perché per la sua storia personale “ci è già passato” e “il suo pugno” lo ha già tirato. Il macellaio invece cerca di fare qualcosa di diverso, estraniandosi, tentando solo di mantenere un “contatto fisico e umano”, stringendo le mani della sua amata. Un piccolo gesto di empatia e amore mentre tutti si scannano. Un gesto a cui risponde silenziosamente anche Csilla, che per aver deciso di accogliere i panettieri stranieri ora è diventata anche lei straniera e nemica. Era in fondo l’unica in paese ad aver ri-accolto con entusiasmo il ritorno di Matthias, magari sperando di costruire qualcosa di nuovo con lui. Gli animali selvatici di Mungiu formano un branco disordinato e forse la soluzione per contrastarlo che ci suggerisce il regista è ripartire dai piccoli legami, dall’affetto che porta alla creazione di nuovi gruppi sociali più piccoli. Piccoli gesti di affetto per immaginare nuovi equilibrismi e assestamenti sociali. Il film parla di animali che si muovono tra i boschi e tra le strade,  ma anche di persone che accolgono in casa loro i forestieri, ma l’impresa è tutt’altro che facile e la “malattia sociale” che affligge quei luoghi peggiora, minuto dopo minuto, mietendo altre vittime mentre i nostri personaggi vagano volenterosi ma quasi impotenti tra gli eventi. Mungiu è per tutta la narrazione particolarmente severo con i suoi personaggi. Critico e a tratti quasi cinico. Quando si avvicina all’epilogo, forse per farsi perdonare, in un modo del tutto imprevedibile (quasi citando il finale di Sogni d’oro di Moretti) muta gli orrori del reale in orrori immaginari, confonde le carte, fa emergere dal suo dramma sociale tracce e scampoli che lo avvicinano quasi a un “innocuo” cinema horror di genere. Lo fa sapendo di riuscire con il suo cinema a farci strabuzzare gli occhi dopo averci fatto cadere nel dramma. Ci colpisce nell’angolo cieco della logica e per un attimo ci rassicura “che è tutto uno scherzo”, che è solo una “storia strana della transilvania” come Dracula. “Potere del cinema” quanto degli straordinari paesaggi, quanto di umori e personaggi che avvicinano la pellicola all’ottimo Ad Bestas come al nostrano Delta, scavando anche tra gli orrori che si annidano (e un po’ accomunano) le  comunità montane, viste metaforicamente oggi come l’ultimo confine condiviso, con sempre maggiore difficoltà, tra uomo e natura. Mungiu disperde i suoi personaggi in questa natura sconfinata e matrigna, dove la caccia agli orsi e ai bracconieri è qualcosa di legato alla quotidianità quanto alla sopravvivenza e al “lavoro di comunità”, dove la macellazione degli animali (in una scena specifica) è ancora un rito antico e quasi magico e dove le relazioni sono spesso turbolente. Un piccolo mondo antico il cui “futuro politico” per il regista è ancora fosco, a meno di non considerare quei popoli già perduti, certificando “l’accaduto inevitabile” tramite un esame cranico. Un film che fa riflettere e un po’ arrabbiare, ma che come tutte le opere di Mungiu non lascia indifferenti. Bravi tutti gli attori, molto suggestiva la fotografia e la colonna sonora. Una occasione unica per scoprire al cinema un autore e un modo di raccontare intrigante quanto complesso. 

Talk0

venerdì 28 luglio 2023

Mission: Impossible - Dead Reckoning - parte uno: la nostra recensione del nuovo film di Christopher McQuarrie con protagonista la super spia interpretata da un sempre più brizzolato, ma comunque scattante, Tom Cruise

Circolo polare, tempi odierni. Sotto i ghiacci artici infuria uno scontro tra sottomarini russi e americani. I siluri russi sono già lanciati e il bersaglio nemico sembra scoperto, l’impatto è imminente. Ma i siluri oltrepassano l’obiettivo senza colpirlo, come fosse invisibile, come fosse un fantasma. Poi, di improvviso e in automatico, quasi “hackerati”, quegli stessi siluri trovano un nuovo bersaglio e “tornano indietro”: hanno rilevato come nemico le stesse bocche da fuoco che li hanno sparati. Non ci sono possibilità di fuga, il sommergibile esplode e i corpi senza vita dell’equipaggio iniziano a galleggiare in mare, verso una superficie che non raggiungeranno mai, perché ricoperta da un ampio strato di ghiaccio. Tutto questo è opera di una arma di nuovo generazione, votata alla distruzione come alla distrazione di massa, un'arma che riesce a confondere i radar quanto a riscrivere ogni dato o notizie pubblicata online, dai quotidiani all’anagrafe alle banche. Un’arma che sa anche usare e piegare la tecnologia nemica contro se stessa “riprogrammandola”. È questo il terribile potere con cui ha iniziato a manifestarsi l’intelligenza artificiale autoproclamatasi al mondo come “Entità”. Nessuno conosce il luogo dove si sia sviluppata e dove risieda il suo punto debole, sembra essere già “ovunque” e sta giorno dopo giorno crescendo. Entità ha già iniziato a dotarsi delle sue prime “risorse umane”, tra cui un intero esercito di mercenari comandato dai super terroristi Gabriel (Esai Morales) e Paris (Pom Klementieff). Entità “paga bene” manipolando i flussi delle banche online e soprattutto promette ricchezze senza fine, garantisce ogni tipo di “potere” in grado di dominare il mondo  e grazie alle sue straordinarie capacità di calcolo per qualcuno può arrivare perfino a predire il futuro. Entità sta diventando nei fatti più simile a un dio. Una minaccia impossibile da gestire. 


Quando il gioco si fa duro in genere  i duri iniziano a giocare, ma quando il gioco  diventa “impossibile” c’è solo un uomo da poter chiamare. È lo 007 del nuovo millennio ma “vecchio stampo”, senza crisi di memoria o di mezza età. È un uomo che invece di usare l’ascensore si arrampica sulle facciate dei grattacieli a mani nude, uno che è solito prendere un treno sedendosi rigorosamente sopra il tetto dei vagoni a corsa già iniziata, uno che può tenere il respiro sott’acqua per ore e nel frattempo gonfiare con i suoi polmoni più di una bombola di ossigeno per aiutare il prossimo. Il suo nome è Ethan Hunt (Tom Cruise) ed è, oltre a questo, esperto “di tutto”: tattica e combattimento, lingue esotiche e travestimento, guida acrobatica con auto, moto, aereo, snowboard e parapendio. Tutto, Hunt sa fare tutto e lo fa sempre al meglio, in genere accompagnato in missione da un paio di donne bellissime “che cambiano sempre” e dai suoi inseparabili amici ed esperti di informatica: l’immenso e protettivo Luther (Ving Rhames) e il buffo ed esagitato  Benji (Simon Pegg). Nella sua prima missione “cinematografia” Hunt ha combattuto a Praga una guerra interna e generazionale tra spie per ridefinire la “spia alfa”, culminata con uno scontro tra un elicottero e il treno super veloce Londra-Parigi (la regia del primo film è di Brian De Palma). Come l’eroe Bellerofonte, Hunt ha in seguito sconfitto a Sydney la diffusione del virus Chimera (la regia del secondo film è di John Woo) voluta da un gruppo di ex agenti corrotti, ha poi fatto un giro in Vaticano a cercare la super arma “zampa di lepre” con cui un criminale (interpretato dal mai troppo compianto Philip Seymour Offman) teneva in scacco il mondo insieme a degli agenti corrotti (la regia del terzo è di J.J. Abrams), ha quasi fatto esplodere il Cremlino per l’attuazione del “protocollo fantasma” (il quarto film è di Brad Bird) per scoprire degli agenti corrotti in seno al suo stesso gruppo. È volato a Vienna per la Turandot e per affrontare una super organizzazione criminale di ex agenti corrotti chiamata “il sindacato” (nel quinto film, di McQuarrie) e poi insieme a una giovane spia, brava quasi quanto lui, Ilsa Faust (Rebecca Ferguson) ha combattuto tra Parigi e il Pakistan il gruppo terroristico degli “apostoli”, un “Superman con i baffi” (l’attore Hanry Cavill in una pausa da Justice League) e le loro bombe al plutonio (nel sesto film, di McQuarrie): anche loro pare fossero tutti ex agenti corrotti. Ora Hunt e la IMF, la super organizzazione di super spie “Impossible Mission Force”, si trovano ad affrontare, per l'ennesima salvezza del mondo libero, questa misteriosa “Entità” che sa tutto, modifica tutto e controlla tutto. Nessuno sa esattamente cosa sia, dove sia e come funzioni, ma tutti vogliono metterci le mani sopra, sperando in qualche modo di controllarla. Per la Cia Ilsa, la sodale di Hunt, sembra coinvolta nei giochi e non è chiaro se stia facendo già il doppio gioco. La rossa e sexy spia sembra essere in possesso di una delle due chiavi che tramite un congegno misterioso possono far accedere a Entità e tutti la stanno cercando, tra le dune del deserto. Sulla tracce di Entità si sta muovendo anche una vecchia conoscenza come la sexy super trafficante di armi Vedova Bianca (Vanessa Kirby). Ma Ethan Hunt, convocato per il recupero di “entità” con il solito (per gli appassionati della serie) “messaggio che si autodistrugge”, è contrario questa volta a qualsiasi tipo di recupero, “compromesso”, “patto” o trattative che permettano a un qualsiasi paese di “allearsi” con l’intelligenza artificiale; la super spia vede all’orizzonte un pericolo troppo grosso e pensa che sia meglio che una roba come Entità debba essere, prima di tutto, distrutta per sempre. Hunt è una spia “vecchio stampo” e non ne può più dei droni che ti volano sul terrazzo, dei ritocchi delle foto su Tinder, delle fake news sul prodotti contro la calvizie, dei poteri forti che controllano i negozi online che ti costringono a comprare un divano che il giorno dopo l’acquisto è a metà prezzo, della musica trap con l’auto-tune  “che non è musica regolamentare”… Entità rappresenta un po’ “tutto questo fastidio” e lui ha deciso che la distrugge, gratis, a mazzate, in modo “analogico” e definitivo. Ma ecco che la Cia non ci sta e questo atteggiamento, definito con sprezzo da “boomer”, espone Ethan sia alle critiche dell’ex capo della IMF e ora capo della CIA Kittridge (Henry Czerny), nonché al biasimo del loschissimo alto funzionario USA Denlinger (Cary Elwes). Questa volta la IMF non farà squadra con le spie americane nè con tutte le altre spie del mondo e sarà ritenuta lei stessa alla stregua di un gruppo terroristico formato da ex agenti corrotti. Per di più la super spia al soldo di Entità Gabriel sembra avere qualcosa di losco e misterioso in comune con Hunt, qualcosa che risale al periodo prima che lui entrasse nella IMF o forse la stessa causa per cui Hunt è entrato nella IMF. Se tutto ciò non bastasse, i codici di Entità fanno gola anche a una super ladra giovane e affascinante di nome Grace (Hayley Atwell). Riuscirà Ethan Hunt, in una classica grande caccia al tesoro in giro per il mondo, ma soprattutto in Italia (in luoghi peraltro simili a quelli visitati dalle arzille vecchiette di Book Club 2!!), a trovare Entità, seminare tutte le altre spie, sedurre Grace e dimostrare nel mentre per l’ennesima volta che è l’uomo più tosto del mondo facendo qualcosa di folle? Perché ricordiamo che Tom Cruise, interprete di Hunt, fa rigorosamente senza controfigure tutte le sue scene d’azione come buttarsi da un palazzo con delle ventose, arrampicarsi sul Grand Canyon a mani nude e senza cavi o stare aggrappato a un aereo dall’esterno durante un decollo. A questo giro Tom promette di gettarsi con una moto da un dirupo altissimo per poi planare con un paracadute su un treno in corsa. Riuscirà il nostro eroe a fare pure questo? 


Come il pilota di caccia Maverick l’estate scorsa è stato al cinema campione di incassi e ha sancito la superiorità dei piloti di caccia anni '80 su tutto quanto ha fatto la tecnologia bellica nei successivi 40 anni, l’agente segreto Ethan Hunt, sempre interpretato da Tom Cruise e paladino dell’action movie “di una volta”, torna in sala con l’intenzione di sbancare nuovamente il box office. La serie Mission: Impossible si è formata negli anni come reale alternativa ai film action di 007, coinvolgendo personalità del calibro di Brian De Palma e John Woo, offrendo la grande occasione del “salto di carriera” a JJ Abrams e a Brad Bird e infine trovando il suo regista di più lungo corso in McQuarrie, storico sceneggiatore di Bryan Singer e di tanti film interpretati da Tom Cruise, passato poi alla macchina da presa. Sono film estivi, di puro intrattenimento “ombrelloniano” ma sempre ricercati ed eleganti nella forma, per molti versi vicini nelle atmosfere alle opere di scrittori classici di avventura “ombrelloniana” come Tom Clancy e Lee Child, ma con spesso un occhio rivolto all’oriente e alle nuove tecnologie dell’intrattenimento. Profuma di Tom Clancy anche la parte iniziale di questo nuovo capitolo cinematografico, tra giochi di maschere e di potere, sommergibili e “guerre fredde”. Ma quando iniziano a manifestarsi i “poteri” di Entità ci sono dei momenti che ricorderanno a molti i videogame di Hideo Kojima se non addirittura suggestioni dei romanzi “biblici” di Dan Brown. Sotto questa cornice, il film dimostra ancora una volta la solidità realizzativa che da sempre definisce questa serie come il fiore all’occhiello dell’intrattenimento estivo per gli amanti dell’action. La trama è sì articolata, ma fin dalla prima scena, grazie a un tocco di classe narrativo, permette allo spettatore di avere un quadro generale della vicenda quasi più chiaro di quanto lo avranno i personaggi durante tutto il film. È una intuizione molto originale, quasi da “film noir”, la riprova del fatto che McQuarrie, ancora una volta anche alla sceneggiatura, è sempre lo stesso autore de I Soliti Sospetti. Con i suoi 163 minuti, il film si prende tutto il tempo necessario per costruire al meglio l’intrigo, presentare molti personaggi e fazioni in gioco per poi mettere in scena le prime indagini, i primi “depistaggi”, travestimenti e pedinamenti. Con la spettacolare scena dell’aeroporto di Abu Dhabi il ritmo sale e l’azione irrompe sulla scena con elaborati inseguimenti cittadini in auto o tra i vicoli, le sparatorie, le scene più spettacolari in fatto di esplosioni e stunt. È un crescendo rossiniano che coinvolge in gran parte scenari italici, tra le strade trafficate di Roma e i vicoli notturni e spettrali di Venezia, ma che è se vogliamo solo un antipasto alla lunga sequenza che da Venezia porta sull’Orent Express, in uno scenario con suggestioni tanto da Agatha Christie che dal Bullet Train di Leitch, con un tocco di Dalla Russia con Amore e un accenno graditissimo alla Trappola tra le montagne rocciose di Steven Seagal. Come l’ultimo John Wick, anche il nuovo Mission: Impossibile è un film dalla durata poderosa, ma in cui difficilmente ci si annoia, specie dopo che vengono superate le fasi iniziali, che di fatto possono sembrare molto dense per numero di informazioni e personaggi in gioco. Come sempre, nonostante qualche capello bianco in più, Tom Cruise non perde occasione per esibirsi in spericolate acrobazie ai limiti della forza di gravità. La gradinata di Piazza di Spagna a pochissima distanza di tempo da Fast X è di nuovo oggetto di rocamboleschi inseguimenti, ma a questo giro Cruise, invece che una scattante Alfa come Han, predilige una Fiat 500 old School da Lupin III, con tanto di “miyazakiani” comandi truccati. Gialla ovviamente, con cui fare una decina di giri veloci intorno alla celebre “Barcaccia”, tra fumo e passanti. È una scena molto divertente e forse è più riuscita della già super reclamizzata “scena della moto che salta il burrone con Cruise che apre il paracadute e atterra sul treno in corsa”. La suddetta scena (un po’ “ridimensionata dalle inquadrature”) è comunque spettacolare e il volo nel vuoto di Cruise con la moto è qualcosa di unico al cinema. Se non mancano quindi le prodezze alla guida, particolarmente riuscite sono le scene action, specie quelle con al centro la già apprezzata ginnica Ferguson e soprattutto una incredibile Pom Klementieff, che dopo la Mantis dei Guardiani della Galassia si candida a mani basse a nuova Bad Girl del cinema action. Tanto snodata quanto adatta ad arti marziali e acrobazie estreme, ruba la scena a tutti ogni volta che è inquadrata mentre veste i panni della mattissima Paris. Interessante come action woman ma “da approfondire” anche Hayley Atwell, con cui Cruise duetta qualche volta in divertenti scene da “ladro acrobatico” in cui entrambi dimostrano grande abilità “prestigiatorie” con le mani e grazia nei movimenti. Al di là delle scene d’azione, prestigidizzazione (che non si scriverà sicuramente così)  e inseguimento, tutto il cast riesce a dare vita a dei personaggi interessanti e sfaccettati. Un particolare plauso va alle “eminenze grigie” interpretate da Vanessa Kirby, Henry Czerny e Cary Elwes: veri equilibristi dei giochi di potere che rendono la vicenda particolarmente ricca di chiaroscuri, abbastanza pragmatica, al netto del fatto che Hunt e soci (specie gli amatissimi e inseparabili  Rhymes e Pegg) e “i cattivi” hanno dei caratteri riusciti quanto forse fin troppo ben definiti. Pur nella sua natura di “cattivo” Esai Morales riesce però a conferire al suo personaggio un tale carisma da rendere quasi credibile il fatto che il suo “boss” sia un super computer semi-divino. Tutto il film di McQuarrie fa molto per rendere “Entità” qualcosa di minaccioso, a volte descrivendocela quasi come “l’occhio di Sauron”, ma è soprattutto il lavoro di Esai Morales sul personaggio di Gabriel a dare la spinta giusta, tra calcolo e fanatismo, di fatto rendendo quasi tragico il personaggio della Klementieff. Potremmo quasi dire che Entità riesca a incarnare tanto la paura del progresso, nell’ambito delle ricerche sulla intelligenza artificiale, quanto le paure dell’ integralismo religioso: un risultato che fa riflettere, del tutto inaspettato in un film di intrattenimento a base di inseguimenti e luoghi da cartolina. 


Tom Cruise torna al cinema dopo il successo di Top Gun: Maverick, con un film ugualmente “grosso nel minutaggio” e se vogliamo ugualmente “nostalgico”, nella sua volontà di omaggiare con stile e garbo molto del cinema action e di intrattenimento. Sul piano narrativo la trama è un po’ tra Clancy e Lee Child, ma spuntano note da Dan Brown che nell’insieme sono particolarmente riuscite nel costruire una “minaccia” interessante quanto sospesa tra presente e passato, al netto di dover aspettare la seconda parte del film per avere un’idea più completa del lavoro finale. Bravo Cruise e tutti gli interpreti, come sempre rimarchevoli per dettagli e stile tutte le scene d’azione, bella la fotografia e la colonna sonora con il suo riconoscibilissimo tema. Se nella prima ora il ritmo risente della necessità di offrire allo spettatore un gran numero di informazioni, i restanti “100 minuti abbondanti” sono un'unica corsa a rotta di collo tra ambientazioni “classiche” quanto amate dagli appassionati degli spy movie, belle donne, situazioni divertenti e concitate, gioiose spacconerie varie e pure una trama dotata di tanti piccoli tocchi di classe. In attesa della parte due, McQuarrie si conferma il regista e sceneggiatore ideale per Mission: Impossible. Con i 45 gradi all’ombra di questa caldissima estate, entrare in una sala cinematografica per un film di 3 ore pieni di inseguimenti, sparatorie e posti bellissimi, non è una brutta idea.  

Talk0

lunedì 17 luglio 2023

Indiana Jones e il quadrante del destino: la nostra recensione del nuovo film con Harrison Ford per la regia di James Mangold

Berlino, ultimi giorni della seconda guerra mondiale. L’archeologo e avventuriero Indiana Jones (Harrison Ford) nella notte dell’attacco aereo inglese alla capitale, si trova su un treno blindato carico di tesori mistici trafugati dal Reich, alla ricerca della lancia di Longino. Con travestimenti e acrobazie, schivando proiettili, crucchi e bombe inglesi, il nostro eroe percorre tutti i vagoni saltellando all’interno e all’esterno delle carrozze, fino a che scopre che l’oggetto magico è in realtà un falso. Poco male, un “archeologo del male” (Mads Mikkelsen) come i suoi “storici antagonisti” Belloq ed Elsa, gli si butta letteralmente addosso. Nella concitazione degli eventi Indy gli sfila dalla tasca un manufatto vero, il “comesichiama” di Archimede, che però si spezza in due tra mille inseguimenti ed esplosioni. Con il professor Jones c’è sul treno un altro archeologo, Basil (Tobey Jones), che in seguito deciderà di dedicare tutta la vita a quell’aggeggio. La guerra finisce, il mondo va avanti e gli anni passano. Indiana Jones, che assomiglia sempre di più al vecchietto del cartone animato Up di Pixar, continua a insegnare archeologia, ma ora gli eroi con il cappello da cowboy come lui e Woody non vanno più di moda: sono tutti presi da questa cosa dello spazio e degli astronauti. L’uomo va sulla luna, verso l’infinito e oltre e il Prof. Jones va in pensione. Non prima però che si rifaccia vivo qualcuno del suo passato. È la figlia di Basil, Helena (Phoebe Waller-Bridge), ed è matta come un cavallo, come lo era da giovane sua moglie Marion (Karen Allen). Helena si è negli anni messa in tanti di quei casini che servirebbe un film a parte a descriverli, è inseguita da svariate tipologie di debiti, amanti traditi e tipacci e vuole trovare il tesoro che cercava il padre. Presto si scopre che pure “l’archeologo del male” di quella lontana notte delle bombe sopra Berlino è ancora in giro per quella storia di Archimede. È tornato il momento che in vecchio dott. Jones indossi di nuovo cappello e frusta e parta per una avventura in giro per il mondo, per scoprine tutti i misteri celati dal fantomatico quadrante del destino di Archimede. Ce la farà o dovrà intervenire Buzz Lightyear? 


Pa pa papaaa, pa pa paa! Pa pa papaaa, pa pa pa pa paaa! Pa pa papaaa, pa pa paaa! Pa pa pa, pa! Pa pa, pa! Pa pa, pa! Pa pa, pappapa!! Pa, pa pa pa…papapapapa!!!.

Eh… il tema di John Williams versione onomatopeico / “futurista” ha ancora il suo perché. Due pa pa pa ed ecco che scorre nella mente di migliaia di fan tutto il mondo di Indiana Jones con usi e costumi: piatti tipici come il cervello di scimmia, cuori fiammeggianti super piccanti, roba biblica varia che squaglia la gente, nazisti un po’ buffi, serpenti-topi-scarrafoni assortiti per gradire, fruste, belle donne a ogni angolo (compresa una futura moglie di Spielberg), enormi palle rotolanti di pietra e trabocchetti pronti a schiacciare tutto. Un mondo dove l’eroe se non si muovesse con un tempismo alla Matrix finirebbe male ogni sei secondi e spesso quasi ci finisce per “salvare il cappello”. Un mondo che omaggia i grandi film d’avventura degli albori del cinema, tra Zorro, Tarzan e il Ranger Solitario per volere dei suoi stessi realizzatori, Lucas e Spielberg, di riflesso ricordando pure i loro Star Wars ed E.T.. Un mondo che profuma per qualcuno “che c’era” di quella “giovinezza anni ‘80” fatta della “merendina Raider” delle pizzette surgelate dal gusto plasticoso, del mistero e dell’avventura dei film in tv per ragazzi presentati da Jerry Scotti vestito da mago: tra una Piramide di Paura e un tesoro sepolto dei Goonies. Con quelle poche note di John Williams per riflesso pavloviano qualcuno tornerebbe pure adesso a sfogliare oggetti ludici misteriosi come i libro-game o le avventure grafiche della “Lucas Film Games”. Qualcuno affascinato da questo mondo si è fatto pure il liceo classico per studiare “le misteriose lingue morte” come il greco e latino, sognando di indossare, “un giorno”, un cappello in cuoio da “eroe” per sentire nelle orecchie quel tema di John Williams, magari alla prima gita al museo etrusco. Pura magia. Magia “un po’ vintage” se vogliamo, ma oggi assolutamente in forma grazie alle nuove tecnologie in grado di presentarci l’ottantenne Harrison Ford come quando era un giovanotto, circondandolo di botti ed esplosioni, folgori sacre e lapilli, tuc tuc e berberi armati come non ci fosse un domani, all’interno di un action non stop colorato e divertente come le montagne russe. È un film che fa tornare bambini i fan, più “centrato” del divertente ma altalenante quarto capitolo (Il teschio di Cristallo) con un registro visivo sempre fresco e dinamico che in più punti ricorda lo sfortunato ma riuscitissimo fin di Spielberg su Tin Tin. Ci immaginavamo un film quasi tutto in digitale come Tin Tin a partire dai trailer, magari sognando l’avvio di altri film su Indy in digitale, magari tratti da The fate of Atlantis, ma alla fine ha prevalso la nostalgia e la voglia di riportare sullo schermo attori in carne e ossa.  C’è quindi tempo per rivedere facce note alla serie come l’archeologo Sallah di John Rhys-Davis e la Marion di Karen Allen, attempati ma sempre graditi. Per creare un nuovo “cattivo” Mads Mikkelsen ci mette il phisique du role da villain per cui è da sempre un fuoriclasse, costruendo un “mr. Smith” malinconico come il suo Le Chiffre per 007, con al seguito degli “sgherri esagerati e divertenti” (tra cui Boyd Holbrook, che effettivamente ha molto più senso nei ruoli da cattivo piuttosto che di eroe) che rendono particolarmente bene nelle scene d’azione, un po’ come il trio Drombo di Yattaman. Phoebe Waller-Bridge è spiritosa e sfrontata come una Indiana-girl deve essere, anche se il sex appeal nei confronti di Indy è ai minimi storici, quasi a livello del personaggio di Ana De Armas nei confronti del vecchio Creig nell’ultimo 007. Il tempo passa anche per i seduttori e Ford non appare marpione come Sean Connery nel ruolo del Dott. Jones senior in L’ultima crociata. In una piccola particina pure Banderas, che fa subito Mulino Bianco.


Si gira per il mondo, tra la periferia di Berlino, i cortei cittadini di una New York in parata, una Tangeri che è una unica scena d’azione a bordo di colorati tuc tuc. Si va sott’acqua con le bombole, si arriva in luoghi misteriosi come grotte nascoste a decifrare enigmi e comporre strani oggetti, si fa una capatina in Sicilia a mangiare quelle che sembrano “piadine” in un clamoroso abbaglio storico. Non ci si ferma mai tra sparatorie e duelli aerei, agguati e momenti ironici. C’è naturalmente anche la “magia”, elemento indispensabile di ogni pellicola della saga, ma qui è meno spaventosa e “horrorifica” che nei primi tre film, forse volutamente “depotenziata” per aggiornarsi al logorio dei tempi e della censura moderni. Questo non rende la parte finale del film meno interessante, quanto semplicemente meno “truculenta”: non ci saranno nazisti sciolti come statue di cera a questo giro e forse a qualcuno potrà (non) spiacere. Mangold non fa rimpiangere Spielberg dietro la macchina da presa, riuscendo spesso a sintonizzarsi non solo con il suo ritmo incalzante e l’azione spericolata, ma anche con la straordinaria ironia delle pellicole. Decisamente in forma Ford, al netto degli anni che passano, sempre pronto a coprire il suo personaggio di spavalda autoironia e malinconia per i tempi andati. È un Indiana Jones per certi aspetti più tragico del solito e questo ce lo rende se vogliamo ancora più simpatico. 

Quello che però “purtroppo c’è”, all’interno di una produzione riuscita sotto i moltissimi punti di vista sopra esposti, è una trama che a tratti va un po’ a sfaldarsi. Gli “enigmi archeologici” sono troppo immediati nella soluzione e sembra sempre che sulla scena ci sia qualcuno esperto di lingue morte, quanto di settimana enigmistica, pronto a dare in pochi secondi una risposta precisa a interrogativi che hanno fatto brancolare nel buio l’umanità per anni. Il personaggio di Mikkelsen parte temibile come i suoi agguerriti sgherri, ma con il tempo si trasforma in un epigono meno sveglio dei nazisti  del Wisconsin dei Blues Brothers. Il finale è poi piuttosto anticlimatico, quasi contratto, con la situazione narrativa del pre-finale liquidata con un cambio di scena velocissimo quando invece avrebbe necessitato qualche approfondimento in più. Se vogliamo peccati veniali, all’interno di una giostra divertentissima dal primo all’ultimo minuto, che fa uscire dalla sala ancora gasati e forse con qualche lacrimuccia, specie se si è fan di vecchia data.


Indiana Jones torna al cinema con un film divertente e ottimamente confezionato in quasi tutte le sue parti, salvo una trama con piccole sbavature e una componente “horror-magica” un po’ latitante e dei cattivi forse un po’ caricaturali. Sempre bravo Ford e in genere tutti gli attori coinvolti, Mangold non fa rimpiangere Spielberg, la cui mano dietro al progetto in qualità di produttore rimane sempre visibile e sempre ferma. Forse non un film dedicato ai più giovani, un po’ come si diceva di Up di Pixar, ma comunque un film molto divertente da vedere al cinema questa estate con tutta la famiglia per una serata all’insegna dell’avventura, del divertimento e se vogliamo un po’ anche dell’amarcord. 

Talk0

domenica 16 luglio 2023

Piggy (Cerdida): la nostra recensione di un “romantico horror alla Tobe Hoper” scritto e diretto da Carlota Pereda e con protagonista una meravigliosa Laura Galan


Ci troviamo in un paesino della provincia spagnola dei giorni nostri, nel mezzo di una torrida estate.  L'adolescente Sara (Laura Galan) è una ragazza un po’ corpulenta dagli occhi scuri e i capelli arruffati, che lavora alla macelleria della sua altrettanto corpulenta famiglia. Per aiutarli caccia con il fucile nel boschetto di zona i conigli e li cucina personalmente, serve alla cassa e quando riesce, tra una comanda e l’altra, cerca di fare gli esercizi di matematica. È il primo pomeriggio quando Sara tira nervosamente con la bocca una ciocca di capelli, mentre ascolta nelle sue enormi cuffie musica rock e guarda oltre la vetrina, con un po’ di invidia, dei ragazzi sulla panchina adiacente. Sono tutti bellissimi e magrissimi e tra di loro c’è pure la biondina Claudia (Irene Ferreiro), la cui famiglia è da anni cliente fissa della macelleria. Quando erano più piccole, Claudia e Sara erano amiche e per questo ancora portano entrambe al polso lo stesso braccialetto di perline rosa, ma i tempi cambiano. Il gruppo ride e sta programmando qualche bella gita insieme nel pomeriggio. Poi i giovani entrano nel negozio, spostando le tendine rosa. Claudia compra qualcosa e di sorpresa una di loro scatta delle foto a Sara e alla sua famiglia. In un attimo quelle foto arrivano sui social di tutto il paese, Sara compresa. Sono immortalati sua madre, suo padre e lei nel loro negozio rosa, mentre lavorano con i camici rosa dietro il bancone con i prosciutti, davanti alle pareti rosa. Sotto la foto la scritta “i tre porcellini”. Tutti ora stanno ridendo, tutto il paese. Sara continua a lavorare a testa bassa e ogni tanto sbircia le nuove foto del gruppo, che si riprende mentre si tuffa gioioso nella piscina locale. Fa caldo e quando arriva l’ora in cui può andare anche lei a fare il bagno la zona è deserta. Non c’è più neanche il solito bagnino, non c’è la solita cameriera del chiosco. Unica presenza umana nel raggio di duecento metri un tizio barbuto (Richard Holmes) che nuota e che quando vede Sara sbucare con il suo costume da bagno rosa striminzito si ferma, la osserva. La osserva con i suoi occhi blu come nessuno ha mai osservato prima Sara: senza ridere o guardare di scatto da un’altra parte, quasi “volendole bene”. È forse scattato qualcosa tra i due ma ecco che Claudia e le sue amiche fanno capolino. Ancora ridono per la divertentissima foto dei tre porcellini, poi iniziano a chiamare “maiale” la ragazza che nuota in bikini rosa. Fanno i versi della scrofa, si “preoccupano” urlandole che con quel pancione potrebbe annegare. Una battuta sguaiata dopo l’altra ma a mezza bocca, quasi sussurrando, confessano con cattiveria: “come mi fa vomitare”. Sara si immerge nell’acqua per non ascoltarle, nuota in profondità ma quando riemerge le ragazze le mettono intorno alla testa un retino da pesca. La trattengono e spingono verso l’acqua impedendole quasi di respirare. Hanno pescato un “pesce maiale” e il gioco deve continuare. L’uomo barbuto va via con un furgone bianco, ma prima lancia un’occhiata preoccupata per la ragazza. Claudia invece guarda in disparte la scena, forse soffre ma non interviene, non aiuta per nulla Sara, anche mentre lei rischia di annegare. Il gioco diventa noioso e le ragazze decidono di andare via, non prima di aver rubato tutti i vestiti e lo zaino di Sara, che ora per tornare a casa deve camminare mezza nuda per qualche chilometro, tra i campi e poi nel centro cittadino. Sara piange e corre, cercando di tenere ferme con le mani le sue forme, che provano a sfuggirle continuamene dal costume. Un'auto dorata si mette dietro di lei e i tre bifolchi al suo interno iniziano a suonare il clacson, per poi rincorrerla a piedi per toccarla, urlando e ridendo: “Guarda, un maiale!!!”. Sara per scappare prende un percorso non asfaltato, quello che porta al vicino torrente. I tre dopo un po’ sono spariti, ma lungo la strada Sara trova un furgone bianco che è sicura di aver già visto poco prima. Alla guida c’è l’uomo barbuto, che la guarda dallo specchietto retrovisore. Da uno dei due finestrini che danno sul bagagliaio appare una mano insanguinata con un braccialetto rosa e poi una faccia. È Claudia. Forse è stata rapita, è coperta di sangue e di sicuro è in trappola. Sara invece guarda la scena quasi in disparte, forse soffre ma non interviene, non aiuta per nulla Claudia e cerca faticosamente di tornare a casa. Nella città nel giro di poche ore si parla di strani ed efferati delitti compiuti nella zona della piscina e di ragazze che non hanno ancora fatto ritorno dopo alcune ore. Forse c’è in giro un assassino, ma per Sara quello è anche il primo ragazzo che l’ha guardata non come un mostro. La ragazza ripercorre i boschi in cerca del suo cellulare, che le ragazze ora rapite le avevano rubato insieme ai vestiti e allo zaino. Vuole farlo suonare a partire da dove si trovava il  furgone, sperando che le rapite siano nei paraggi. Vorrà liberarle? 


Carlota Pereda dirige un film romanticamente brutto, sporco e cattivo, quanto davvero nell’insieme ben riuscito, convincente e coinvolgente. Un film che si pone fieramente nella tradizione dell’horror spagnolo più splatter, dissacrante ed esagerato di Alex de la Iglesia, Balaguero e Plaza, ma anche un affettuoso omaggio all’horror USA degli anni ‘70.  Piggy è così un inno gioioso allo slasher più puro e “socialmente militante”, quello delle zozze macellerie cannibali, “cantate” da Tobe Hooper in Non Aprite quella porta, ancora (pur)troppo (metaforicamente) “attuali”. Al contempo il film rappresenta genuinamente quel poetico mix di sangue, carne e traumi che è l’adolescenza, trasfigurandola con lo stesso appeal sinistramente seducente del Carrie lo sguardo di Satana di De Palma. 

La formula è semplice quanto efficace, ma riesce a mettere in scena con particolare sensibilità e gusto per l’eccesso un piccolo mondo di mostri malinconici. Delle “creature di confine”, come quelle che abbiamo già incontrato di recente anche nei film di Ali Abbasi, vittime e al contempo carnefici “compulsive” per ragioni di affetto più che di crudeltà. Ciò che le circonda e “aizza” è la realtà di una “altrettanto piccola” provincia piccolo borghese, fatta di tanto perbenismo quanto di un sottile odio strisciante per il diverso che rende la gente impermeabile a qualsiasi “attacco di empatia” verso chi è più fragile o sfortunato.  


Quando parte nella cittadina la caccia al killer, questa si trasforma presto in caccia al diverso e poi in “caccia alle streghe”, frantumando in un attimo amicizie e famiglie senza pietà e ripensamenti. Una caccia al mostro che crea altri mostri e porta quasi, come esito felice quanto inatteso e inopportuno, seducente e pericoloso. alla “solidarietà tra mostri”. 

Risulta quindi squisitamente complesso vedere nella pellicola della Pereda chi sia il “vero mostro”: quello “nato per primo”. Specie quando la regista ci mostra oltremodo la grazia e innocenza di una ragazza che nessuno chiama come un essere umano. Oppure quando ci fa immergere negli occhi malinconici di un killer senza che questi risultino forzati e fasulli, come lo erano invece quelli del  Leatherface di Nispel che pareva senza maschera più sperduto di Bambi. Attraverso questa particolare “cura visiva”, frutto di un attento lavoro di trucco e fotografia, ma anche della espressività di ottimi attori, la regista ci porta a considerare il “limite morale” della narrazione, con lo scorrere dei minuti, come un filo che si fa sempre più sottile e insidioso. Una fune da equilibristi sulla quale il pubblico fino alla fine viene invitato a “barcollare” sopra, in cerca di un epilogo  consolatorio, quando per lo meno della fine della “macellazione”. Una macellazione in salsa splatter dei personaggi, fisica ma anche spirituale, che diventa protagonista assoluta di un ultimo atto decisamente per “palati forti”, dove bestialità e ipocrisia si scontrano e deflagrano nel sangue, nello sporco e nell’odio. Un odio che è quasi la variante “socialmente accettabile” di un amore tra mostri. È in questo gioco delle parti che l’opera si fa struggente e riesce a farsi apprezzare ben oltre il classico b movie dall’alto tasso emoglobinico. È qui che Piggy si avvicina alla poetica degli eccessi di Bigas Luna ma anche di un Ferreri. 

L’opera prima di Carlota Pereda è un horror romantico, sanguigno e sorprendente. Un film che accontenta senza fatica chi cerca lo splatter, gli uncini e la violenza, ma anche una pellicola che è in grado di incuriosire chi vuole andare oltre al grasso, il sangue e il grottesco, in cerca di un cuore emotivo pulsante. Un cuore debitamente sventrato e impreziosito simbolicamente, come solo i migliori body horror sanno fare, per farci anche riflettere. 

Talk0

sabato 15 luglio 2023

A Thousand and One: la nostra recensione del bellissimo film scritto e diretto da A.V.Rockwell, al suo esordio da regista, con protagonista una straordinaria Teyana Taylor.

A Thousand and One, che è una espressione che tradotta significa più o meno “mille e rotti”, è un film che ci mette a contatto con la realtà di quartiere di una delle “migliaia” di famiglie che dagli anni '90 al 2000, dal sindaco Rudy Giuliani a Bloomberg, ha vissuto nei quartieri più periferici e poveri della megalopoli. Quartieri etnici che negli anni, nel segno della “tolleranza zero al crimine” quanto della “gentrificazione” (il trasformare in quartieri per ricchi la periferia, di fatto cacciando via i vecchi occupanti), hanno più volta cambiato forma e umore, spesso nel segno di una “burocratizzazione sociale” insensibile se non quasi criminale. La nostra “famiglia tra tante” inizia a prendere forma in zona Riker Island, letteralmente per strada e a due passi della prigione. È qui che la giovane, bellissima e grintosa Inez (Tenaya Taylor), ragazza di colore entrata e uscita da più case famiglia e poi finita pure dentro, si improvvisa parrucchiera distribuendo tra il traffico i volantini sulla sua attività. È sempre qui che la donna incrocia lo sguardo con suo figlio Terry (Aaron Kingsley Aadetola), di sei anni. È diventato mentre lei era dentro un ragazzino dalla corporatura gracile e dai pantaloncini corti, il suo “T”. Ha l’aria spaesata ed è fuggito per l’ennesima volta dalla sua famiglia affidataria, per gironzolare con un ghiacciolo insieme a un gruppetto di ragazzini. Inez lo vede già sotto una macchina o con cattive compagnie e tutto d'improvviso per lei cambia: decide di mettere da parte la sua vita sballata e fare la madre. In modo un po’ rocambolesco, a seguito della ennesima distrazione degli affidatari che porta il bambino a trovarsi in ospedale, Inez “rapisce” Terry, gli cambia nome e documenti e inizia insieme a lui, dopo un paio di tentativi sfortunati, una nuova vita “fuori legge” in una nuova casa ad Harlem, in una specie di palazzo occupato gestito da amorevoli vecchine. Dovranno vivere con un profilo basso, facendo lavoretti e non lasciando troppe tracce agli investigatori, ma presto si insabbierà tutto e in fondo “tutto” per Inez va bene, pur di non far tornare “T” a vivere in una casa famiglia. A fianco di Inez e “T” arriva anche come improvvisato papà Lucky (William Catlett), un vecchio amico della mamma che sembra pure lui un mezzo tipaccio ma che come Inez ora vuole solo fare il padre. La sfida è diventare dei genitori decenti pur non avendo nessun requisito in tal senso, ma Lucky e Inez ci credono tantissimo, al punto da ribaltare del tutto la loro vita passata. Ogni tanto si fa viva anche la “zia” Kim (Terry Abney), un'amica di mamma, ma la famiglia è presto ben voluta e integrata nel quartiere, nonostante il pugno duro del sindaco Giuliani renda vivere in quelle zone particolarmente difficile. La casa occupata e spoglia diviene presto un appartamento accogliente, si riempie di mobili e di vernice blu e la vita va avanti. Tra mille difficoltà Inez e Lucky fanno più lavori ma tutti onesti, “T” va scuola e cresce comunque sereno e diligente. Quando una nuova legge permette ai poliziotti di fermare per strada per “accertamenti” ogni ragazzino di colore, T ha 13 anni (lo interpreta Aven Courtney) e si avvicina sempre di più a Lucky. Insieme giocano a basket nei campetti di quartiere e il ragazzo inizia a fare domande su chi sia il suo vero padre, ma la madre rimanda sempre la questione, come se nascondesse qualcosa di troppo difficile e complicato da affrontare. Inez ha tanti segreti ma dirige la sua famiglia come un colonnello di ferro, rompendosi la schiena tutti i giorni lavorando alla lavanderia o tagliando i capelli. Terry ha 17 anni (l’attore è qui Josiah Cross) quando l’appartamento in cui vive è sottoposto a “ristrutturazione forzata” per conto dei nuovi proprietari, di fatto con i bagni e la cucina che non sono più agibili ma che Inez cerca di tenere insieme da sola con lo scotch adesivo. T ha la prima cotta per una ragazzina che fa la cameriera in una tavola calda che le ricorda per temperamento un po’ la mamma ed è davvero bravo a scuola. Così bravo che potrebbe andare ad Harvard o alla MIT, ma la sua consulente scolastica ha un problema: tutti i documenti di Terry sono falsi e lei deve allertare i servizi sociali, magari denunciare la madre, magari aprire un contenzioso con la scuola per frode, magari farlo finire in affido momentaneo. È finalmente arrivato il momento per Inez di rispondere a quelle domande che ha sempre rinviato sul padre di Terry. Nel frattempo la loro casa sta cadendo a pezzi “per ristrutturazione” ed essere delle persone di colore ad Harlem non è più cosa troppo gradita, per quel gigante severo e silenzioso che si chiama “New York”. Un’altra “famiglia su mille” sta forse per essere schiacciata. O forse no. 


A.V.Rockwell, regista originaria del Queens, attiva dal 2012 come autrice di cortometraggi spesso premiati, arriva in sala con il suo primo film, raccontandoci una storia a lei piuttosto vicina, quasi autobiografica e per questo particolarmente carica di passione e amore. È una storia di affetti e territorio, tra barriere burocratiche e barriere umane, che ci porta in una “zona di frontiera” insieme a personaggi apparentemente comuni, quanto incredibilmente eroici. Come si poteva trovare l’Anabasi di Senofonte tra i Guerrieri della notte di Coney Island di Hill, si può trovare un po’ di “miti greci” anche in questa storia famigliare ambienta ad Harlem. È eroico, nel senso più nobile e tragico del termine, il personaggio di Inez interpretato dalla straordinaria Teyana Taylor, nel confrontarsi contro una città di New York che sembra più insidiosa del gigante Polifemo. Come Ulisse per Polifemo anche Inez per New York è “Nessuno”. Inez è povera, poco acculturata, problematica, inaffidabile e forse pericolosa: una perdente senza speranze che la società ha messo alle corde quasi “scientificamente”, per lo più additandola come prostituta o ladra. Ma da questa situazione Inez si rialza, si ripulisce, fatica, costruisce una famiglia e offre a suo figlio un futuro su cui non avrebbe scommesso nessuno. Inez riesce a testa bassa a immaginare e realizzare per il suo Terry un futuro, senza sconti e senza piagnistei, con un coraggio e una determinazione che possono essere  davvero di esempio per tutti i genitori di oggi: spesso giustamente spaventati e timorosi, ma che forse nel personaggio di Ines possono trovare qualche speranza. Ines si rialza e sembra che tutta New York si rialzi. Sembra che anche le sfide più difficili possano essere affrontabili e anzi “debbano” essere affrontate, specie a monte della rivelazione sull’identità del padre di T, che verso il finale conferisce a tutta la storia un sapore se vogliamo ancora più epico. La colonna sonora di Gary Gunn è sinfonica e di ampio respiro che bene si sposa a questa epicità, risultando coinvolgente e sempre perfetta nel descrivere ogni scena con un tappeto sonoro adeguato quanto appropriato. La fotografia di Eric Yue è calda e ci porta in una New York piena di vita e di polvere come l’area dei gladiatori. Quasi un far west post moderno, che fa idealmente eco al West Side Story di Spielberg nel raccontare, anche se più “sottilmente”, una trasformazione urbana continua quanto convulsa. Molto bravi tutti gli attori, ai quali ci si affeziona senza sforzo fin dalle prime scene grazie a una recitazione attenta quanto estremamente naturale, che ce li fa percepire quasi come persone reali. 


Faccio fatica a trovare le parole adeguate per descrivere al meglio quanto mi abbia colpito fin dalla prima visione il film scritto e diretto da A.V.Rockwell. A Thousand and One ha lo stesso profumo epico-urbano di He got game di Spike Lee. Sa raccontare il trascorrere del tempo con garbo e malinconia come Moonlight di Barry Jenkins. È un film che nella sua assoluta semplicità narrativa e bellezza estetica riesce nel sublime intento di essere intimo quanto politico, al pari del capolavoro Terra e Polvere di Rui Jun Li. Con pochi gesti e giri di parole, senza retorica ma con passione, una regista esordiente nella sua opera prima ci racconta con incredibile efficacia e perizia tecnica la storia di una famiglia e di una delle città più grandi del mondo. A.V. Rockwell è una delle autrici più interessanti degli ultimi anni e la cantante Teyana Taylor come attrice è una bellissima scoperta. La sua Inez è spigolosa, scombinata, iraconda, dolce e disincantata. È un personaggio che non si dimentica. Molto bravi tutti e tre i ragazzini che impersonano “T”, molto bravo anche William Catlett nel conferire a Lucky in egual misura forza quando gentilezza. 

In questa assolata estate fatevi un regalo e tra tanti film d’azione e intrattenimento scegliete di andare a vedere questo film drammatico su una famiglia newyorkese come tante: sarà una sorpresa inaspettata. 

Talk0

venerdì 14 luglio 2023

La folle vita (Madly in life): la nostra recensione di una interessante “commedia drammatica”, pellicola di esordio per registi francesi Rapharl Balboni e Ann Sirot, candidata nel 2022 a 12 premi Magritte


Ci troviamo nella Francia dei giorni nostri, all’inizio dell’estate, in un appartamento del centro città. I giovani Alex (Jean Le Peltier) e Noemie (Lucie Debay) hanno una camera da letto simile a un piccolo giardino dell’Eden dell’Ikea. Coperte, pigiami, tablet e cellulari, anche le tende, tutto è griffato con lo stesso stampo di “campo fiorito”. Ovviamente in casa mancano dei fiori e delle piante “reali”, che di fatto non ci sono: è un verde solo “progettuale”, futuro, un post-it di quando avranno il tempo di occuparsi di curare fiori veri. Un altro progetto della coppia ancora in stato di pre-produzione è avere un bambino, compatibilmente con gli impegni di entrambi e con i fondi disponibili, ma l’estate è alle porte e porta entusiasmo. Nello specifico “L’Estate di Vivaldi” è alle porte, sparata a massimo volume dallo stereo dell’auto rossa di Suzanne (Jo Deseure), madre di Alex, che si appresta a parcheggiare sotto l’appartamento della coppia, con disinvoltura, nell’area invalidi. Più un presagio che un atto di non curanza. La splendida settantenne Suzanne è l'atletica, divertente, arguta, scombinata e stimata direttrice di un museo di arte moderna, ma sta anche iniziando infatti a perdere i primi colpi. All’inizio dimostra eccentricità che per lei sembrano ancora nella norma, ma piano piano il quadro si fa più strano. Non si ricorda di cose e persone, dimentica i contratti o anche solo il fatto di essere o meno in pensione. Qualche volta cerca di entrare a casa di qualcun altro, pensando che sia la propria e svaligiandogli il frigorifero. Mangia a orari strani, canta, osserva incantata il robottino che taglia l’erba, guada di notte con un gommone a forma di ciambella (ex opera d’arte moderna del suo museo) i corsi d’acqua cittadini. Suzanne è in tutto questo sorridente, ma il figlio Alex ride poco e inizia a preoccuparsi “più del solito”, specie quando vede l’incredibile ammontare dei debiti “strani” e multe non pagate dalla madre. Per il figlio “non è più lei”. Per Noemie invece è una donna che sta sicuramente passando dei momenti difficili, ma che va sostenuta, proprio perché è ancora una persona in grado di sorridere alla vita. Ad ogni modo bisogna riorganizzare un po’ le cose. Serve un aiuto e arriva in supporto dopo qualche “provino” il corpulento e barbuto infermiere specializzato Kevin (Gilles Remiche),  che ama pure lui ascoltare l’Estate di Vivaldi, anche se in una versione Metal. Kevin e Suzanne potranno ora  sentirla a tutto volume per tutto il giorno, mentre il primo potrà premurarsi di rendere la casa della madre più sicura, occuparsi di cibo e medicine e sorvegliarla mentre Alex, il sempre più preoccupato Alex, è al lavoro. Le cose sembra vadano abbastanza bene ma il figlio vorrebbe fare di più, magari accudire lui personalmente la madre, mettendo tutta la sua vita momentaneamente in pausa, fino a che la situazione si “stabilizzi”. Vanno prima di ogni cosa appianate le pendenze economiche della madre e questo comporterà “per ragioni di budget” che pure i progetti sull’allargare la famiglia e il “verde” con Noemie debbano schedularsi a data da destinarsi: bisogna prima salvare il salvabile, magari trasferirla a casa loro, magari pensare più in grande. Come un foglio di carta immerso nell’acqua di una istallazione ora presente nel museo di Suzanne, che si sfalda progressivamente su sfondo nero fino a diventare simile a un piccolo universo stellato, anche la mente della gallerista si sta scomponendo, diventando sempre più complessa da capire o forse, intimamente, molto più “semplice”. A tutti gli effetti in poco tempo Suzanne si comporta come una bambina e tocca ad Alex accudirla, come lei ha fatto per lui quando era piccolo. Durante le feste, allo stesso tavolo, Noemie si trova così a imboccare la figlia avuta dal suo primo matrimonio mentre Alex imbocca Suzanne, compiendo quasi gli stessi gesti. Suzanne fa sempre più i capricci e sparisce sempre più spesso di casa. È diventato pericoloso pensare che la donna guidi ancora l’auto, ma Alex non può togliergliela: Suzanne è sempre così contenta quando può lavare la sua macchina e poi sedercisi dentro a fumare di nascosto, come ha sempre fatto fin dal liceo. È così contenta mentre lava quella macchina che Noemie la immortala in quel momento di felicità scattando una foto, che Alex non approva. Come Alex non è contento di accompagnare la madre a sempre più surreali incontri con medici, commercialisti, psicologi e altri professionisti. Lì, mentre vengono esaminati e riempiti di domande, Suzanne si mette sempre a mangiare tutte le caramelle, non si ricorda soavemente di niente, gioca con le penne e i fogli di carte, fa le boccacce. È una fatica starle dietro, ma forse è meglio così. Se ora scappa, urla o compie qualche azione strana nel quartiere, forse è meglio che possa continuare a farlo a casa sua “finché possibile” e non in un istituto di cura, dove può avere al massimo dieci metri quadrati di spazio, da vivere magari costantemente addormentata dai farmaci. Certo che se tutta l’esuberanza di Suzanne fosse mitigata da alcuni farmaci per Alex ci sarebbero meno preoccupazioni, ma può il figlio accettare così di “spegnere” sua madre, forse per sempre, come si spegne un frigorifero? Alla fine Alex e Noemie dovranno scegliere se accogliere o meno la folle vita di Suzanne o pensare solo alla nuova famiglia che stanno costruendo da anni, rimandandone ogni volta i lavori. 


Arriva nelle sale  La folle vita, film scritto e diretto da Rapharl Balboni e Ann Sirot, al loro primo lungometraggio e già un piccolo caso cinematografico con vari riconoscimenti nei festival. È un’opera di “dramedy”, un po’ commedia è un po’ drammatica, che mette in scena, in modo divertente quanto disincantato, più tragicomico che tragico, i problemi quotidiani di una famiglia dove uno dei membri centrali viene colpito dalla demenza senile mentre quasi nessuno se ne accorge, essendo una persona molto estroversa e sopra le righe. La scelta narrativa, coraggiosa quanto riuscita e coerente con lo spirito di molte famiglie che si trovano a dover convivere con questa problematica, è quella di cercare di descrivere la malattia come un momento di unione più che di distacco, in controtendenza a un’opera come Still Alice con Julianne Moore e più vicini a Shine con Geoffrey Rush (nella sua parte finale). La pazza gioia descrive anche positivamente come passo dopo passo, grazie all’aiuto medico e il supporto sociale, una famiglia possa in questi casi sviluppare al suo interno una forte resilienza, permettendosi così di fare fronte qualche volta anche alle situazioni più complicate. È un film che vuole dare speranza, specialmente oggi che Demenza senile o Altzeimer sono parole che mettono davvero i brividi anche solo a pensarle, laddove si cerca di allontanarle ed esorcizzarle al punto di considerare, vigliaccamente, chi vi è colpito e i suoi famigliari alla stregua di persone maledette.

Rapharl Balboni e Ann Sirot vanno oltre a questo “tabù”, con una sceneggiatura fresca e non banale, mai didascalica e piena di spunti che divengono interessanti anche grazie a interpreti in grado di rendere al meglio, con leggerezza ma non superficialità, le complesse, quanto “pratiche”, dinamiche interne ed esterne con cui una famiglia di questo tipo deve ogni giorno confrontarsi. Particolarmente riusciti e divertenti i momenti di “incontro con i professionisti”, dove i nostri protagonisti sono sempre inquadrati dietro a un tavolo, con telecamera fissa, mentre parlano con interlocutori che non vediamo mai in volto, un po’ come gli “adulti” nelle strisce dei Peanuts e un po’ come gli studenti all’orale della maturità. Sempre accompagnate da una nota surreale sono invece le scorribande di Suzanne per il quartiere, ma la sua “vittima principale” diviene spesso l’infermiere Kevin, interpretato da un Gilles Remiche paterno e quasi “zen”, usato da lei un po’ come una specie di orsacchiotto gigante. I momenti di “sorveglianza” di Suzanne da parte di Alex hanno invece note spesso agrodolci, se non proprio amare, nella misura in cui descrivono le difficoltà nella comunicazione, la paura di non essere all’altezza e il timore del futuro. Timori comuni per chi si trova ancora agli inizi di un percorso di aiuto ai propri familiari, che sottolineano ancora una volta come questo sia un film dall’approccio positivo, ma che non semplifica le cose cercando di edulcorarle o renderle semplici. 


Jo Deseure interpreta con “gioiosa e dolorosa incoscienza” Suzanne lungo il suo lento percorso nella malattia, facendola apparire eccentrica quanta solare, sempre in grado di “esprimere le emozioni” attraverso l’arte e la parola, costantemente sul punto di compiere qualcosa di strano, ma al contempo in linea con il suo spirito libero e anticonformista. Ci si affeziona e si soffre per lei, specie quando viene descritta una terapia farmacologica che la rende di colpo inerte, quasi un fantasma. Jean Le Peltier caratterizza Alex come una persona dall’animo un po’ rigido, timoroso e un po’ spaventato, in grado “per pignoleria” di scatenarsi in molti momenti comici quanto di riflettere lo stato di precarietà della sua esistenza. La Noemie di Lucie Debay è un personaggio che viene chiamato quasi a fare da madre tanto a Alex che a Suzanne che al figlio avuto dal primo matrimonio. A differenza di Alex riconosce prima le esigenze affettive di ognuno e riesce a costruire quasi un ponte tra i personaggi, con piccoli gesti d’affetto, ma al contempo è il personaggio che proprio per questo ruolo più di tutti deve essere supportato e motivato nella necessità di immaginare un futuro comune. Sono tutti personaggi ben scritti e sfaccettati, quanto resi assolutamente credibili e genuini in un percorso di vita complicato che li mette sempre alla prova, ridefinendo ruoli e aspirazioni, frustrazioni e desideri. È una materia magmatica che Rapharl Balboni e Ann Sirot riescono a maneggiare con soave “leggerezza”, trasformando più volte il dramma quasi in favola, senza però mai staccarsi davvero dal reale e anzi guardandolo negli occhi. Non è la realtà che viene edulcorata, è anzi il modo in cui la percepiscono i personaggi a diventare più bello, grazie a uno sguardo diverso e una fiducia diversa nei confronti di se stessi e degli altri.

È un film che fa stare bene e che invita a volersi più bene. Rapharl Balboni e Ann Sirot confezionano una pellicola tenera e coraggiosa, magari anche “difficile” per il tema trattato, ma comunque in grado di coinvolgere e far riflettere con intelligenza e passione. Molto bravi tutti gli interpreti, buono il ritmo della narrazione nel suo coniugare felicemente momenti leggeri quanto più complessi. 

Talk0

giovedì 13 luglio 2023

Ruby Gillman - la ragazza con i tentacoli: la nostra recensione del nuovo film di animazione diretto da Kirk DeMicco (I Croods) e Faryn Pearl, dai produttori di Dragon Trainer

         


Nella ridente città sulla costa di Oceanside, vive una famiglia di persone con la pelle azzurra e le orecchie strane: dicono di essere “canadesi”. Sono bravissimi nel settore immobiliare, amano costruire dei piccoli velieri dentro delle bottiglie di vetro, vanno forte a dodgeball e in matematica. La liceale Ruby, la primogenita, è quella che va più forte in matematica, ma soprattutto sogna di poter andare al ballo di fine anno con uno skater, non canadese e riccioluto, di nome Connor. È già qualche tempo che i due studiano insieme e un po’ forse si piacciono, ma Ruby non è ancora riuscita a dichiararsi. Ruby è una ragazza super timida e studiosa, non si veste o trucca in modo appariscente, è poco sportiva, la sera non esce mai, frequenta solo un gruppo di nerd non canadesi. Connor è per lei, al di fuori dalle ripetizioni, quasi irraggiungibile: troppo bello e impossibile per i suoi standard. Su quel ballo della scuola Ruby punta tutto, ma la festa purtroppo quest’anno si terrà su una nave nel mezzo dell’Oceano ed è un grosso problema. La madre di Ruby (in originale con la voce di Tony Collette), una canadese bravissima nel settore immobiliare, è da sempre tassativa sul fatto che la figlia non debba mai e poi mai mettere piede nell’Oceano, senza scuse e senza eccezioni: mai. Non ha mai chiarito bene la questione, ma per questo motivo nega da sempre a Ruby ogni tipo di gita sull’acqua, corso di biologia marina, lezioni di sub, visite all’acquaparco e tutte le principali attività tipiche di un luogo di mare come Oceanside. C’è davvero da chiedersi per quale sadico motivo abbia voluto che la sua famiglia vivesse proprio lì e non nel deserto o su una montagna! I tentativi di convincimento per fare un'eccezione alla regola in vista del ballo sembrano subito una manovra diplomatica complicata: non ha effetto nemmeno una minuziosa presentazione in “power point” dell’evento alla famiglia! Ma il destino cambierà il corso delle cose in un modo inatteso. Pochi giorni prima della festa, mentre Ruby sta cercando ancora di invitare Connor al ballo, nel modo più maldestro possibile, il ragazzo finisce scagliato in acqua dopo essere stato colpito da una “bomba di coriandoli”. Ruby lo vede cadere in acqua, è nel panico e si butta a salvarlo senza pensare a niente. Ma al primo contatto con l’acqua il suo corpo, di colpo, sembra mutare. Le mani si allungano, spuntano sulla pelle degli starni fori dai quali escono raggi luminosi, le gambe diventano tentacoli e per finire dalla ragazza viene rilasciata una specie di “energia” che si propaga sulla costa quanto in fondo al mare con l’energia di una bomba. Ruby è disorientata ma in un secondo si riprende e velocissima riesce a portare Connor in superficie per poi dileguarsi, mentre il ragazzo viene trasportato sulla terra ferma da un'altra ragazza, di nome Chelsea. È una ragazza appena arrivata nell’istituto, del tutto “nuova” : dice di essere una “olandese”. Sembra che tutti gli olandesi siano bellissimi, gentilissimi, dai capelli vaporosi e occhi azzurri, atletici, amati e ammirati da tutti. Se Ruby è appena diventato un Kraken, questa Chelsea sembra a tutti gli effetti una sirena ammaliatrice e il suo salvataggio di Connor viene accolto con un bagno di folla mai visto a Oceanside. La nuova arrivata in pochi secondi diventa la ragazza più popolare della scuola, mentre ora Ruby, tornata momentaneamente normale, si sente così “strana e fuori posto” che vorrebbe scomparire. Si nasconde in biblioteca ma la mutazione presto torna in azione, nonostante momentanei tentativi anche riusciti di comprimerla. Di colpo Ruby si trasforma in un Kraken, una creatura marina piena di tentacoli, delle dimensioni di Godzilla che si muove abbattendo palazzi. Scoprirà di lì a poco che è una cosa che tipicamente accade più o meno a tutte le donne “canadesi” (molto girl-power), mentre gli uomini al più si trasformano in uomini-pesce di dimensioni standard. È una cosa che accade tipicamente, guarda caso, quando qualcuno di loro viene a contatto con le acque dell’oceano non ascoltando i consigli materni. Oceanside è poi una comunità in questo senso pericolosa per i “canadesi”, perché cresciuta sul mito della caccia ai Kraken. Tra le strade è facilissimo trovare ancora dei depressi “capitani Akab” che in attesa di nuovi scontri guidano piccoli pulmini turistici. Alcuni sono così “fuori” che parlano tutto il giorno con dei piccoli granchi da compagnia, ma ciò non li rende meno pericolosi… e ancora ci chiediamo come mai la mamma di Ruby abbia voluto vivere lì e nel nel deserto o in montagna, ma soprattutto ci chiediamo: come farà ora Ruby a frequentare la scuola e andare al ballo, se da un momento all’altro rischia di diventare un mostro gigante? 


Forse in suo aiuto potrebbe però arrivare, inaspettatamente, un altro mostro gigante. Un mostro dal quale la madre la ha sempre tenuta lontano con tutte le sue forze, al punto da portare tutta la famiglia a vivere a Oceanside, a diverse miglia marine da lei: sua nonna (in originale con la voce di Jane Fonda). Allertata della trasformazione della nipote da quella luce e folgori sprigionate nel mare come una bomba, la nonna ha già inviato lo zio di Ruby a darle una mano e accompagnarla nel regno sommerso dei Kraken. Qui, tra castelli, corone e sudditi adornati la regina-nonna, la nipote apprenderà tutti i rudimenti dell’essere Kraken. Qui svilupperà grandi poteri in termini di forza e raggi fotonici, ma allo stesso tempo riceverà la grande responsabilità di usarli per salvare il mondo dai più terribili mostri del mare, tra cui le diaboliche sirene. Kraken e sirene si scontrano da secoli in battaglie campali a base di pugni tentacolosi, calci a lisca di pesce, raggi laser, tridenti magici e vortici d’acqua  e la mamma di Ruby ha cercato per questo in tutti i modi di tirarla fuori da questa faida: per farle avere un'adolescenza normale, come quella di tutti coloro che non sono canadesi. Ma ora Ruby sente il richiamo “supereroistico” della sua natura marina e al contempo sta stringendo amicizia con una sirena compagna di scuola, proprio Chelsea, con la quale sta pianificando di porre fine alla guerra secolare grazie al recupero di un’arma magica. Farà bene la mamma di Ruby a continuare ad opporsi alla natura sovrannaturale/supereroistica della figlia? Troverà fine la lotta tra sirene e Kraken? Riuscirà Ruby ad andare con Connor al ballo della scuola?


In una calda estate come questa non c’è niente di più rinfrescante di un bel film sulle sirene, i kraken o gli squali. Abbiamo da poco visto il live action de La sirenetta di Disney, vedremo a breve il film sugli squali giganti con Jason Statham e oggi siamo qui in compagnia della Dreamworks e dei Kraken per una divertente e spettacolare storia di “adolescenza e mutazione del corpo”, che si colloca se vogliamo sull’onda lunga di Spider-man ma pure, per chi è nato negli anni ottanta, del classico Teen Wolf con Michael J.Fox. Oltre alla “mutazione adolescenziale”, la pellicola parla anche di un tema molto caro (e caldo) dei giorni nostri, come il rapporto tra padri e figli immigrati di seconda generazione, ricollegatosi idealmente in questo a opere animate recenti come Red e Elemetals di Pixal. Il regista Kirk DeMicco ha dato già prova con i Croods di essere molto abile nel rappresentare famiglie “fuori dagli schemi” (anche per la presenza in quell’opera nel cast vocale di Nicolas Cage), rappresentandole in modi buffi ma non banali. Come poi accade in casa Dreamworks dai tempi di Shrek, il tono generale dell’opera è amabilmente “scorretto”, descrivendo un mondo in cui le amatissime sirene sono in realtà creature diaboliche e dove i tentacolari Kreken sono invece i buoni. A rendere questa scorrettezza ancora più “divertente”, tra gli sceneggiatori troviamo al suo esordio anche Pam Brady, storica produttrice del dissacrante South Park che presto affronterà anche un musical sui Puffi. Lo stile di disegno, molto carino, super colorato e morbido, sembra uscire direttamente da una favola illustrata per bambini. Nella costruzione visiva degli ambienti di Oceanside ci sono dei richiami ai ricchissimi e artigianali “mondi di plastilina” della Aardman, mentre i personaggi “nella consistenza dei corpi” sono spesso buffi e “snodati” come i Trolls. Il reparto artistico è riuscito a conferire una caratterizzazione molto originale, “fresca” e distintiva al mondo di Ruby, che risulta sempre facilmente “riproducibile” dai più piccoli su carta con dei pastelli colorati. 


Ruby Gillman, la ragazza con i tentacoli, è una pellicola che nei suoi 90 minuti ci lancia all’interno di un vortice di battute, azione e colori, ma la storia al contempo è qualcosa di non così scontato. È come Red una storia al femminile che parla del rapporto tra donne di differenti generazioni, ma qui, pur coperta da arcobaleni, gag e musiche divertenti, abbiamo sottotraccia una vicenda anche abbastanza “cupa”, che va oltre a discorsi relativi alle differenze culturali. Sirene e Kraken nel mezzo del mare sono in guerra e la mamma di Ruby ha voluto portare la sua famiglia a Oceanside, un luogo pacifico, proprio per non farle vivere un’adolescenza fatta di preparazione militare, missioni sul campo, scontri con altri mostri marini. Trascorso un periodo di relativa pace, appena Ruby non è più una bambina viene chiamata pure lei a combattere, quasi fosse un “destino genetico”. Ruby diventa Kraken allenandosi giorno dopo giorno pur con le migliori intenzioni possibili, quelle di far terminare per sempre la guerra, ma di fatto la sua è una preparazione militare. Se vogliamo possiamo anche vederla come un più rassicurante “training da supereroe”, ed è sicuramente questo che vedranno i bambini più piccoli al cinema, ma oltre a dover accettare un corpo da adolescente/Kraken la nostra protagonista è chiamata a diventare a tutti gli effetti un eroe per “tradizione familiare”, allontanandosi dalla pacifica Riverside. È su questo tema di “impegno bellico” che si sviluppa in modo decisamente non scontato il rapporto tra Ruby, la madre e la nonna. Con l'ambigua sirena Chelsea che di fatto sostiene Ruby nella scelta di mettere da parte il suo lato umano per “imprese più grandi”. All’improvviso il coloratissimo film sulla ragazza con i tentacoli riesce a parlarci così quasi di temi di attualità, magari facendoci volgere lo sguardo a quanto sta succedendo in Ucraina, pur con tutto lo stemperamento dei toni e l’umorismo di cui l’opera è carica. Anche questo “tono adulto ulteriore” se vogliamo è nel dna di Dreamworks e lo abbiamo già riscontrato nella loro bellissima saga di  Dragon Trainer

Il nuovo film Dreamworks Animation arriva al cinema pieno di colori e personaggi buffi, con una trama divertente per i più piccoli ma che si presta a ulteriori interessanti riflessioni anche per un pubblico più adulto. Bella l’animazione e il ritmo generale, tanto delle scene d’azione che in quelle più da commedia, buono il cast vocale e la colonna sonora. Indovinata la scelta di personaggi che i bambini possono disegnare con facilità con i pastelli. 

Ruby Gillman - la ragazza con i tentacoli è un film molto carino e colorato per portare i più piccoli al cinema questa estate, in una sala magari con aria condizionata per abbattere un torrido pomeriggio a 40 gradi. Un film pieno di umorismo e buoni sentimenti, ma che si presta anche interessanti riflessioni per un pubblico più grandicello. 

Talk0