domenica 16 luglio 2023

Piggy (Cerdida): la nostra recensione di un “romantico horror alla Tobe Hoper” scritto e diretto da Carlota Pereda e con protagonista una meravigliosa Laura Galan


Ci troviamo in un paesino della provincia spagnola dei giorni nostri, nel mezzo di una torrida estate.  L'adolescente Sara (Laura Galan) è una ragazza un po’ corpulenta dagli occhi scuri e i capelli arruffati, che lavora alla macelleria della sua altrettanto corpulenta famiglia. Per aiutarli caccia con il fucile nel boschetto di zona i conigli e li cucina personalmente, serve alla cassa e quando riesce, tra una comanda e l’altra, cerca di fare gli esercizi di matematica. È il primo pomeriggio quando Sara tira nervosamente con la bocca una ciocca di capelli, mentre ascolta nelle sue enormi cuffie musica rock e guarda oltre la vetrina, con un po’ di invidia, dei ragazzi sulla panchina adiacente. Sono tutti bellissimi e magrissimi e tra di loro c’è pure la biondina Claudia (Irene Ferreiro), la cui famiglia è da anni cliente fissa della macelleria. Quando erano più piccole, Claudia e Sara erano amiche e per questo ancora portano entrambe al polso lo stesso braccialetto di perline rosa, ma i tempi cambiano. Il gruppo ride e sta programmando qualche bella gita insieme nel pomeriggio. Poi i giovani entrano nel negozio, spostando le tendine rosa. Claudia compra qualcosa e di sorpresa una di loro scatta delle foto a Sara e alla sua famiglia. In un attimo quelle foto arrivano sui social di tutto il paese, Sara compresa. Sono immortalati sua madre, suo padre e lei nel loro negozio rosa, mentre lavorano con i camici rosa dietro il bancone con i prosciutti, davanti alle pareti rosa. Sotto la foto la scritta “i tre porcellini”. Tutti ora stanno ridendo, tutto il paese. Sara continua a lavorare a testa bassa e ogni tanto sbircia le nuove foto del gruppo, che si riprende mentre si tuffa gioioso nella piscina locale. Fa caldo e quando arriva l’ora in cui può andare anche lei a fare il bagno la zona è deserta. Non c’è più neanche il solito bagnino, non c’è la solita cameriera del chiosco. Unica presenza umana nel raggio di duecento metri un tizio barbuto (Richard Holmes) che nuota e che quando vede Sara sbucare con il suo costume da bagno rosa striminzito si ferma, la osserva. La osserva con i suoi occhi blu come nessuno ha mai osservato prima Sara: senza ridere o guardare di scatto da un’altra parte, quasi “volendole bene”. È forse scattato qualcosa tra i due ma ecco che Claudia e le sue amiche fanno capolino. Ancora ridono per la divertentissima foto dei tre porcellini, poi iniziano a chiamare “maiale” la ragazza che nuota in bikini rosa. Fanno i versi della scrofa, si “preoccupano” urlandole che con quel pancione potrebbe annegare. Una battuta sguaiata dopo l’altra ma a mezza bocca, quasi sussurrando, confessano con cattiveria: “come mi fa vomitare”. Sara si immerge nell’acqua per non ascoltarle, nuota in profondità ma quando riemerge le ragazze le mettono intorno alla testa un retino da pesca. La trattengono e spingono verso l’acqua impedendole quasi di respirare. Hanno pescato un “pesce maiale” e il gioco deve continuare. L’uomo barbuto va via con un furgone bianco, ma prima lancia un’occhiata preoccupata per la ragazza. Claudia invece guarda in disparte la scena, forse soffre ma non interviene, non aiuta per nulla Sara, anche mentre lei rischia di annegare. Il gioco diventa noioso e le ragazze decidono di andare via, non prima di aver rubato tutti i vestiti e lo zaino di Sara, che ora per tornare a casa deve camminare mezza nuda per qualche chilometro, tra i campi e poi nel centro cittadino. Sara piange e corre, cercando di tenere ferme con le mani le sue forme, che provano a sfuggirle continuamene dal costume. Un'auto dorata si mette dietro di lei e i tre bifolchi al suo interno iniziano a suonare il clacson, per poi rincorrerla a piedi per toccarla, urlando e ridendo: “Guarda, un maiale!!!”. Sara per scappare prende un percorso non asfaltato, quello che porta al vicino torrente. I tre dopo un po’ sono spariti, ma lungo la strada Sara trova un furgone bianco che è sicura di aver già visto poco prima. Alla guida c’è l’uomo barbuto, che la guarda dallo specchietto retrovisore. Da uno dei due finestrini che danno sul bagagliaio appare una mano insanguinata con un braccialetto rosa e poi una faccia. È Claudia. Forse è stata rapita, è coperta di sangue e di sicuro è in trappola. Sara invece guarda la scena quasi in disparte, forse soffre ma non interviene, non aiuta per nulla Claudia e cerca faticosamente di tornare a casa. Nella città nel giro di poche ore si parla di strani ed efferati delitti compiuti nella zona della piscina e di ragazze che non hanno ancora fatto ritorno dopo alcune ore. Forse c’è in giro un assassino, ma per Sara quello è anche il primo ragazzo che l’ha guardata non come un mostro. La ragazza ripercorre i boschi in cerca del suo cellulare, che le ragazze ora rapite le avevano rubato insieme ai vestiti e allo zaino. Vuole farlo suonare a partire da dove si trovava il  furgone, sperando che le rapite siano nei paraggi. Vorrà liberarle? 


Carlota Pereda dirige un film romanticamente brutto, sporco e cattivo, quanto davvero nell’insieme ben riuscito, convincente e coinvolgente. Un film che si pone fieramente nella tradizione dell’horror spagnolo più splatter, dissacrante ed esagerato di Alex de la Iglesia, Balaguero e Plaza, ma anche un affettuoso omaggio all’horror USA degli anni ‘70.  Piggy è così un inno gioioso allo slasher più puro e “socialmente militante”, quello delle zozze macellerie cannibali, “cantate” da Tobe Hooper in Non Aprite quella porta, ancora (pur)troppo (metaforicamente) “attuali”. Al contempo il film rappresenta genuinamente quel poetico mix di sangue, carne e traumi che è l’adolescenza, trasfigurandola con lo stesso appeal sinistramente seducente del Carrie lo sguardo di Satana di De Palma. 

La formula è semplice quanto efficace, ma riesce a mettere in scena con particolare sensibilità e gusto per l’eccesso un piccolo mondo di mostri malinconici. Delle “creature di confine”, come quelle che abbiamo già incontrato di recente anche nei film di Ali Abbasi, vittime e al contempo carnefici “compulsive” per ragioni di affetto più che di crudeltà. Ciò che le circonda e “aizza” è la realtà di una “altrettanto piccola” provincia piccolo borghese, fatta di tanto perbenismo quanto di un sottile odio strisciante per il diverso che rende la gente impermeabile a qualsiasi “attacco di empatia” verso chi è più fragile o sfortunato.  


Quando parte nella cittadina la caccia al killer, questa si trasforma presto in caccia al diverso e poi in “caccia alle streghe”, frantumando in un attimo amicizie e famiglie senza pietà e ripensamenti. Una caccia al mostro che crea altri mostri e porta quasi, come esito felice quanto inatteso e inopportuno, seducente e pericoloso. alla “solidarietà tra mostri”. 

Risulta quindi squisitamente complesso vedere nella pellicola della Pereda chi sia il “vero mostro”: quello “nato per primo”. Specie quando la regista ci mostra oltremodo la grazia e innocenza di una ragazza che nessuno chiama come un essere umano. Oppure quando ci fa immergere negli occhi malinconici di un killer senza che questi risultino forzati e fasulli, come lo erano invece quelli del  Leatherface di Nispel che pareva senza maschera più sperduto di Bambi. Attraverso questa particolare “cura visiva”, frutto di un attento lavoro di trucco e fotografia, ma anche della espressività di ottimi attori, la regista ci porta a considerare il “limite morale” della narrazione, con lo scorrere dei minuti, come un filo che si fa sempre più sottile e insidioso. Una fune da equilibristi sulla quale il pubblico fino alla fine viene invitato a “barcollare” sopra, in cerca di un epilogo  consolatorio, quando per lo meno della fine della “macellazione”. Una macellazione in salsa splatter dei personaggi, fisica ma anche spirituale, che diventa protagonista assoluta di un ultimo atto decisamente per “palati forti”, dove bestialità e ipocrisia si scontrano e deflagrano nel sangue, nello sporco e nell’odio. Un odio che è quasi la variante “socialmente accettabile” di un amore tra mostri. È in questo gioco delle parti che l’opera si fa struggente e riesce a farsi apprezzare ben oltre il classico b movie dall’alto tasso emoglobinico. È qui che Piggy si avvicina alla poetica degli eccessi di Bigas Luna ma anche di un Ferreri. 

L’opera prima di Carlota Pereda è un horror romantico, sanguigno e sorprendente. Un film che accontenta senza fatica chi cerca lo splatter, gli uncini e la violenza, ma anche una pellicola che è in grado di incuriosire chi vuole andare oltre al grasso, il sangue e il grottesco, in cerca di un cuore emotivo pulsante. Un cuore debitamente sventrato e impreziosito simbolicamente, come solo i migliori body horror sanno fare, per farci anche riflettere. 

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