lunedì 2 dicembre 2024

Longlegs: la nostra recensione di un nuovo, piccolo cult horror a tema satanico/sovrannaturale, scritto e diretto da Osgood “Oz” Perkins, con Maika Monroe, Alicia Witt e un Nicolas Cage davvero da brivido nel ruolo di villain

   


Percepire la presenza del “male”: scovarlo istintivamente tra le pieghe di un fascicolo di polizia su un caso non risolto, come individuare una minaccia per la vita nascosta in agguato a pochi metri di distanza.  

È questo il “sesto senso” di Lee (Maika Monroe), una giovane agente dell’FBI che sta destando per le sue doti speciali l’interesse di tutto il dipartimento. 

Un’infanzia oscura e irrisolta alle spalle, con al centro un terribile trauma di cui sa forse qualcosa solo la stralunata madre Ruth (Alicia Witt). Un futuro prodigioso nella risoluzione dei cold case più violenti ed efferati: quelli con al centro manipolazioni operate da sette sataniche, con le vittime portate a commettere omicidi/suicidi rituali. 

C’è un uomo che spesso abita gli incubi di Lee. Ha un volto incipriato, pallido e quasi artificiale. Lineamenti aggraziati, femminili, occhi vitrei vuoti. Porta capelli rossicci spettinati e irti simili a una parrucca, veste con abiti chiari eleganti quasi ottocenteschi. Un uomo che sembra una bambola (Nicolas Cage), che a sua volta vive in una stanza tutta di legno dove costruisce bambole: oggetti molto realistici, simili a bambine reali ritrovate morte a seguito di stragi familiari. 

Quell’uomo misterioso e dalla risata a singhiozzo in fondo è con Lee da sempre, da quando era ancora bambina e forse l’ha visto entrare nella sua vita in una notte carica di neve e dolore. 

Sente che lui la “sorveglia  da lontano” in un modo quasi “magico”, al punto che forse sembra credere che sia stato quest’uomo ad aver influenzato le “doti speciali” con cui Lee oggi lei risolve i crimini. Forse i suoi sensi speciali si sono “attivati” prima di tutto per difendere Lee dall’avvicinarsi in futuro, di nuovo, di questa strana creatura a cui lei ha dato il nome di “Longlegs”: come una distorta versione del mentore occulto di Judy,  “Papà Gambalunga”, nel romanzo di Jean Webster. 

Lee, dopo essere miracolosamente scampata all’ennesima aggressione grazie al suo istinto, si trova a indagare su degli omicidi/suicidi rituali legati probabilmente dalla stessa mano invisibile, accompagnati ogni volta da messaggi in codice come quelli di Zodiac. Ma c’è di più. Su molte scene del crimini sono state ritrovate delle strane bambole di porcellana. Bambole simili a quelle di Longlegs, con al centro della testa una sfera nera di origine misteriosa. 

Per risolvere il caso Lee dovrà prima di ogni cosa riappropriarsi di un passato che con tutte le forze cerca di dimenticare. Tornare a frequentare una madre che da anni vive reclusa nella vecchia casa di famiglia, tra scatoloni e rimpianti. Decidere finalmente se l’uomo dei suoi sogni, in fondo, non è che un essere umano. 


Ci sono horror che nascono da inquietudini autobiografiche, con al centro spesso il difficile rapporto dell’autore con la figura paterna.

Spesso è un padre ricco e famoso quando a volte “assente”, fragile o giudicante. Comunque sempre un genitore al quale, anche solo per “riconoscenza”, questi figli sentono di “dovere tutto”, in primis la vita: decidendo infine di stare al loro fianco nonostante situazioni molto difficili per la loro età. 

Un padre può essere ricordato come un autentico “incubo”, spingendo un autore a esorcizzarlo proprio attraverso l’arte, scrivendo magari un film horror. 

Abbiamo visto di recente il “pastiche” meta-cinematografico The Exorcism - L’ultimo esorcismo, scritto e diretto da Joshua John Miller, figlio dell’attore premio Pulitzer Jason Miller, celebre per essere stato interprete del personaggio di padre Karras ne L’Esorcista di William Friedkin. Per The Exorcism, Joshua Miller raccontava di essersi ispirato proprio al suo difficile rapporto con il padre: andando a rivivere con “fantasia horror” il periodo in cui era diventato vittima dell’alcol. Un padre che nella finzione diventa Russell Crowe, attore in crisi che deve affrontare il demone dell’alcol mentre “per lavoro”, sul set, “affronta il diavolo” come esorcista. Lo affronta con disperazione, ma anche con l’aiuto di una figlia, interpretata da Ryan Simpkins. 

In Longlegs succede qualcosa di simile. Troviamo alla regia e alla sceneggiatura Osgood “Oz” Perkins, come pure troviamo alla straordinaria colonna sonora il musicista elettronico “Zilgi”, pseudonimo di Elvis Perkins. Entrambi sono figli dell’attore Anthony Perkins, interprete di Norman Bates in Psycho di Hitchcock. Il film prende principalmente spunto da un famoso quanto terribile caso di cronaca nera degli anni ‘50, l’omicidio irrisolto di JonBenet Ramsey. Un fatto di sangue in seguito al quale fu recapitato ai genitori della vittima, a Natale, uno strano pacchetto al cui interno c’era una bambola con le fattezze della figlia. Ma Osgood Perkins stesso ha dichiarato che un’altra fonte di ispirazione per il ruolo del villain è stato proprio suo padre: una figura irrisolta, spesso sfuggente e solitaria. Si dice anche a seguito di una controversa  “cura dall’omosessualità”, avvenuta prima che Anthony si sposasse, alterando il carattere e il rapporto con gli altri, rendendolo una figura quasi indecifrabile per i figli.  


Un padre che riecheggerebbe qui su pellicola assumendo proprio il fantasmatico volto di Nicolas Cage: un Cage sorridente quanto alieno nella sua eccentricità, truccato in modo da apparire come una fragile bambola di porcellana e al contempo davvero molto simile alla “madre di Norman Bates”: il più celebre dei ruoli di Anthony Perkins. 

Ancora una volta “l’ombra del personaggio di un grande film horror” che si sovrappone all’immagine paterna. 

Oz Perkins sceglie per protagonista la brava Maika Monroe, ex atleta che ha esordito come attrice in un altro capolavoro horror degli ultimi tempi, It Follows di David Mitchell, del 2014 (si dice seguito confermato nel 2025).

Lee è una detective che per molti versi richiama la Clarisse de Il silenzio degli innocenti, quando l’agente Carter di Twin Peaks: un personaggio sospeso tra realtà e incubo proprio a seguito di un trauma familiare. Tragica come eroica proprio in ragione di una infanzia frantumata e irrisolta, della quale sta ancora raccogliendo i cocci per dare un significato alla propria esistenza, nel frattempo risolvendo altri “puzzle” criminali. 

Se il personaggio di Lee ha il dono di “intuire le cose” prima di comprenderle, anche la struttura narrativa stessa di Longlegs, per metterci ancora più in profondità nei suoi panni, si frantuma in infiniti puzzle visivi e labirinti narrativi. Puzzle che lo spettatore deve cercare di comprendere, come in un racconto dark fantasy, senza riuscire però mai ad arrivare a un nocciolo che, per sua natura stessa, può apparire ”umanamente” inaccessibile. È proprio in virtù di questa “cervellotica” quando originale impostazione se Longlegs appare distante da un film del Conjuring Universe di James Was, pur avendone in comune moltissimi aspetti e suggestioni, arrivando invece a sfiorare le atmosfere criptiche dello Shining di Kubrick. Un Kubrick inseguito da Oz Perkins anche nella costruzione geometrica/asettica dei luoghi, nella scelta di luci “fredde”, nell’uso di immagini subliminali. Uno “Shining” che  che insegue anche Zilgi nella costruzione di una colonna sonora che, tra sussurri sotterranei ed esplosioni di trombe e archi, riesce a colpirci in profondità sul piano emotivo. Zilgi una la musica come “forma di premonizione”: rendendoci partecipi di una inquietudine che colpisce l’orecchio prima ancora che una azione si sia svolta sul piano visivo. 

Longlegs, più che raccontato nella sua trama “di genere”, va quindi vissuto a livello sensoriale: assaporando il senso di smarrimento che prova la protagonista sulla pelle, muovendosi tra paure e incertezze che si confondono tra conscio e inconscio. 

Maika Monroe e la Witt riescono molto bene a maneggiare dei personaggi davvero complessi, vividi, in grado di emozionare quanto atterrire per le loro fragilità e ostinazioni. Cage offre una delle sue interpretazioni più leggendarie: una creatura fatta di puro orrore e incomunicabilità, aliena quanto terribile.

Per il suo particolare linguaggio frammentato e per le molte intuizioni sonore e visive, Longlegs ha tutte le carte in regola per diventare un cult. Di sicuro è un film affascinante e da non farsi scappare. 

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venerdì 22 novembre 2024

La cosa migliore: la nostra recensione del film drammatico scritto e diretto da Federico Ferrone, con protagonista Luka Zunic, Abdessamed Bannaq e Lawrence Hachem Ebaji

 


Nella provincia italiana di una Trento dei giorni nostri, l’introverso Mattia (Luka Zunic) lavora tutto il giorno a testa bassa in fabbrica, la sera canta la sua rabbia con la musica rap che autoproduce. 

Ha solo 17 anni, ha lasciato la scuola anche se era bravo. 

Lo ha fatto per cercare in qualche modo di “continuare la vita” di un fratello maggiore, amatissimo dal padre, che lavorava in quella stessa fabbrica prima di morire in seguito a un incidente. Ha cercato di sostituirlo, forse per riuscire a sentirlo emotivamente ancora vicino.

La famiglia non sembra capirlo, nonostante una madre preoccupata cerchi sempre modi possibili di comunicare con lui. Il padre (Fabrizio Ferracane) quasi non gli parla. Sul posto di lavoro si trova male: è sempre in ritardo e fa errori, anche perché viene costantemente cazziato da un superiore a cui non importa nulla della sua storia personale. 

A volte anche la musica non basta più e Mattia si perde: covando dentro di sé un malessere che lo spinge quasi ad annullarsi, perdendosi in un senso di vuoto.

In cerca di una mano tesa, la trova un giorno sul lavoro, durante la  pausa per una sigaretta. Murad (Abdessamad Bannaq), è un simpatico ragazzotto di origine marocchina, che presto con la sua amicizia lo tira fuori dalla tristezza. Lo aiuta a vincere la timidezza e parlare con le ragazze. Riesce a farlo tornare a sorridere e pensare al futuro, magari in compagnia di Laura (Francesca Rabbi), che forse ama già da anni. 

La positività contagiosa di Murad deriva forse anche dalla sua religione, così l’amico decide di iniziare a frequentare anche lui la moschea: scoprendo una spiritualità che lo arricchisce, una comunità accogliente, la ritualità confortante della preghiera. Molto accogliente nei suoi confronti è soprattutto Rashid (Lawrence Hachem Ebaji), il fratello di Murad, un ragazzo posato e gentile, più empatico anche se meno giocherellone. Rashid sembra capire in profondità Matteo: è fortemente interessato alla rabbia che esprime con il rap, capisce il suo desiderio di rivalsa, la sua ricerca di equilibrio in un mondo che sembra rendere tutti sempre più soli, perennemente “sconfitti” . 

Segue una bellissima vacanza in Marocco. Arriva la decisione di abbracciare l’Islam. Mattia infine lascia la sua famiglia per vivere da solo, magari trovarsi una ragazza. 

Il gentile Rashid pone però di colpo l’amico davanti a una strada importate quanto terribile. Entrambi devono fare qualcosa di concreto per cambiare il mondo. Gli dà una pistola e un telefono non rintracciabile a cui rispondere, per avere istruzioni quando “sarà il momento”. 

Rashid si è radicalizzato, Matteo non trova tra la famiglia, Laura e gli amici sufficienti motivi per non esserlo. 

Chiuso nel buio di una stanza con le tapparelle abbassate aspetta, insonne.

Il ragazzo si trova di nuovo prigioniero di quel vuoto da cui era riuscito a fuggire grazie a Murad. 


Federico Ferrone è un giovane regista e documentarista fiorentino che ama affrontare la Storia di petto: partendo dai fatti e dalle testimonianze dirette, alla ricerca di temi che risultano essere sempre profondamente di attualità, “urgenti e necessari” per affrontare anche quelli che sono dei veri e propri “tabù”. 

In Merica, del 2007, raccontava le difficili storie reali di emigrati italiani Veneti che a fine ottocento si spostavano a cercare fortuna in America Latina, confrontandole con le storie di chi immigra in Italia oggi. Affioravano, anche con sorpresa, difficoltà nell’integrazione che in più aspetti sono molto simili. 

Ne Il Varco, del 2019, usando archivi visivi della seconda guerra mondiale, Ferrone raccontava il 1941 come l’anno in cui l’esercito italiano vedeva l’infrangersi dei sogni di vittoria, con l’arrivo di un convoglio militare in Ucraina, nel pieno dell’inverno russo.  Con Il treno per Mosca, attraverso i filmati di una super 8 e i racconti personali di un barbiere, raccontava quella che è stata la caduta del sogno del comunismo. 

Per costruire la storia de La cosa migliore, Ferrone dal 2010 si è interessato alle storie raccontate dai “foreign fighters” che partivano per la Siria o l’Iraq. Un caleidoscopio umano che il regista descrive come incredibilmente variegato per età, etnia, posizione sociale, ma forse tutto accomunato dalla necessità profonda delle persone di dare “un senso alla propria vita”, all’interno di un mondo presente caratterizzato prima di tutto da un vuoto spirituale imperante. Una spiritualità combattuta e ormai negata per anni in Occidente, in virtù di una preferenza ““ontologia”” nei confronti delle “logiche di Mercato”, ma di cui forse qualcuno ha ancora così bisogno da spingersi fino all’estremismo.


Luka Zunic, il protagonista della pellicola, è un giovane e promettente attore di 23 anni, che ha avuto già modo di confrontarsi con personaggi molto complessi. Uno di questi era Marcello, il protagonista del film drammatico Non Odiare, diretto nel 2020 da Mauro Mancini. Nella pellicola, Zunic era un giovane cresciuto all’interno dell’estremismo di destra per motivi anche strettamente familiari. Un giovane quasi “pre-destinato” a cadere in una spirale di odio e vendetta, che però partiva “per uno scherzo del destino” proprio da chi si sentiva contrario a quella scelta politica: il co-protagonista del film, interpretato da Alessandro Gassman. 

Il personaggio di Mattia in La cosa migliore è forse attraversato dalla stessa rabbia di Marcello di Non Odiare, ma Zunic questa volta ha deciso di focalizzarsi molto di può sul senso di solitudine e smarrimento di un personaggio in grado di dare voce a molti giovani d’oggi. Giovani “dimenticati”, dallo Stato, dal mondo del lavoro e a volte pure dalla famiglia, che quasi senza rendersene conto finiscono per cadere vittime di meccanismi anche autodistruttivi: magari per assecondare i sogni delle poche persone che hanno dimostrato (anche mentendo) di vedere in loro, nei fatti, un valore.

Il film di Ferrone non è un film contro l’estremismo islamico, quanto piuttosto un film che affronta di petto quel “vuoto spirituale”, ormai insediatosi nella cultura moderna. La principale causa per cui persone di tutte le età, religioni ed estrazioni sociali possono oggi diventare dei Foreign Fighters, ma anche la ragione per cui oggi serpeggia un odio, quasi viscerale, per chiunque non la pensi allo stesso modo. 

Ferrone, che abita in Turchia dal 2018 e vive a stretto contatto con la comunità araba, tiene molto nella sua opera a raccontare il lato umano, la spiritualità e accoglienza di un mondo che per molti in Occidente è bollato come “pericoloso” a prescindere, spesso per diffidenza, a volte per ignoranza, a volte perché manca la stessa “attitudine a parlare” tra chi è percepito di una cultura diversa (in una scena in Marocco a Mattia è impedito di entrare in moschea) . 

Ferrone non si sottrae però  a guardare l’estremismo negli occhi: denunciando con fermezza “quanto sia facile”, pur con le migliori intenzioni di un personaggio “rivoluzionario gentile” come Rashid che si arrivi al peggio. Per affrontare la “rabbia sociale”, l’empatia si trasformi di colpo in manipolazione, per poi arrivare a peggio in breve tempo. La soluzione che il regista suggerisce per affrontare questo “effetto valanga”, che colpisce soprattutto i giovani, è semplice quanto gentile: tornare a dare un valore alle persone rimettendo al primo posto la famiglia e la rete di amici. Mettere al primo posto l’ascolto e la comprensione, scalzando dalle priorità la “competitività a tutti i costi” e il senso di superiorità che questa implica. Una strada complessa ma che si può affrontare, forse con la spontaneità che esprime un personaggio ben strutturato come quello di Murad. 

La cosa migliore è un film duro, ma può essere anche un film di speranza.

Bravissimi gli attori coinvolti. Una trama semplice e lineare, implacabile nella evoluzione drammatica della vicenda ma mai banale o ridondante.

Il film viaggia veloce ma lascia il segno, offrendo un nuovo modo di vedere il prospettiva i problemi dell’attualità. 

Tanto Ferrone che un interprete valido come Zunic sono da tenere d’occhio. 

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lunedì 18 novembre 2024

The substance: la nostra recensione del nuovo geniale, sexy, super-splatter e divertente film, scritto e diretto da Coraline Fargeat, con protagoniste le meravigliose Demi Moore e Margaret Qualley


La bellissima modella ed “esperta di aerobica” Elizabeth (Demi Moore) fin da giovane, forse anche in virtù del suo cognome, uno “Sparkle” che tradotto letteralmente suona come “scintillante”, sapeva di essere destinata a diventare una stella. 

Così di esercizio in esercizio, come stella indiscussa di un morning show mattutino,  è finita per avere anche una stella che porta il suo nome sulla prestigiosa Walk of Fame. 

Ma gli anni passano e inevitabilmente anche Elizabeth Sparkle era destinata prima i poi a diventare “meno scintillante”, almeno quanto la sua stella su Hollywood Boulevard ha progressivamente iniziato a splendere di meno, sopraffatta dalle intemperie del tempo e dall’incuria dei passanti.

Il direttore dello show tv di aerobica, lo spregiudicato e ambiguo Harvey (Dennis Quaid), ha già iniziato a guardarsi in giro in cerca di una sostituta, mentre la diva Elizabeth, ancora incredula di questo volgere degli eventi, vaga nel suo appartamentino super moderno, camminano avanti e indietro davanti alla gigantografia di se stessa da giovane, che impera nel salotto. È ormai una donna alla ricerca del senso che dovrà prendere la sua vita futura, magari iniziando a “rifare i conti” a partire dalle mille rinunce che ha dovuto patire per anni, per avere ancora quel fisico da ventenne, che non gli riconosce ormai più nessuno. 

Se solo si potesse tornare a splendere di nuovo.

La proposta risolutiva arriva, anche se appare davvero “strana”. 

Delle persone sconosciute le propongono di recarsi in un luogo anonimo quanto pericoloso di periferia, al quale si può accedere unicamente chinando il capo in segno di umiltà, per iniziare un curioso “trattamento”. Si parla di “nuova giovinezza” e forse addirittura di “una nuova vita”.

Attraverso iniezioni di uno strano composto ancora tanto segreto quanto “esclusivo”, ecco l’ultimo grido dell’anti-aging: l’auto-clonazione.  

Può e dovrà fare tutto da sola: nessuno aiuto medico esterno se non la periodica fornitura di tutti i materiali necessari, che stanno stipati in una specie di fermo-posta. Istruzioni telegrafiche da seguire alla lettera, l’invito severo e perentorio a prendersi “cura di se stessa”, un sempre attivo numero verde da chiamare in caso di necessità. Nient’altro.

Elizabeth ormai disperata alla sola idea di uscire in pubblico e incontrare persone che non la vedano bellissima come un tempo, ci prova. 

Elizabeth rinasce.

La nuova se stessa, che presto assumerà il nome indipendente di “Sue” (Margaret Qualley), inizia a muovere i primi passi facendosi largo dal corpo della vecchia Elizabeth, squarciandolo dalla schiena dopo la prima iniezione del trattamento, quando è ormai priva di sensi a causa di spasmi e  convulsioni. 

Sue si toglie di dosso l’involucro rugoso e le ossa usurate, che rimangono in terra come una specie di sacco a pelo. È giovane e bellissima: così magnifica da rimirarsi a lungo, nuda allo specchio, quasi ancora coperta di sangue. 

Il suo primo compito è ricucire e curare il corpo di Elizabeth con il kit di farmaci, attrezzi e graffette allegati al “pacchetto”. L’esito è prodigioso, la donna ancora viva. Successivamente le alimenta il corpo con delle enormi flebo che ne garantiscono la sopravvivenza per una settimana. Alla fine di quel periodo, sarà sempre Sue a dover avviare un'ulteriore procedura: un'iniezione in grado di invertire il procedimento, portando lei in coma per sette giorni ad essere alimentata dalle flebo, mentre Elizabeth si risveglierà e avrà una settimana intera per tornare al mondo. 

Mai sgarrare la regola dei sette giorni, senza eccezioni.


Saper sempre prendersi cura di “se stessa”. Queste due istanze dovranno rimanere inscindibilmente legate alle esistenze di Elizabeth e Sue: a loro volta unite dal filo rosso del destino quanto dalla catena del DNA. 

I primi tempi sono sorprendenti. 

Sue in breve prende il posto della vecchia se stessa nello show di aerobica mattutino e la rete è così entusiasta di questa ragazza, magnifica quanto comparsa dal nulla, da spingere perché la sua fama cresca a dismisura fin da subito. Nel pieno della forma e della bellezza, Sue diventa un'autentica calamita per diversi uomini contemporaneamente. 

Elizabeth intanto ha per la prima volta tempo per non pensare alla sua carriera da eterna pin-up: sperimentare per la prima volta una alimentazione non salutista al 100%, passare tempo davanti alla tv, iniziare timidamente a mettere in piedi una relazione adulta con un uomo in grado di amarla davvero al di là dell’aspetto esteriore. 

Tuttavia gli effetti della vita dell’una, iniziano presto ad avere ricadute su quella dell’altra. Il dovere di prendersi cura di “se stessa” inizia a venire meno, in virtù di una sempre più evidente rivalità tra Sue ed Elizabeth, che diventa simile, per perfidia e sarcasmo, a quella di Bette Davis e Anne Baxter in Eva contro Eva.  

Elizabeth presto si sente prigioniera in casa: incapace di godere direttamente di quei riflettori che amava tanto, assediata dagli amati del suo clone, diventa sempre più una casalinga disperata e disordinata. Sue vuole sempre più spazio per la sua vita e non sopporta i “chili” che sta mettendo su la sua controparte e il caos in cui versa la loro abitazione comune al momento del suo risveglio. 

Una delle due inizia a violare la regola del “risveglio” dopo sette giorni, con la conseguenza che il corpo dell’altra inizia a degenerare in modo mostruoso. Un po’ come la strega di Biancaneve, un po’ come la terrificante e tentacolare “Cosa” di Carpenter.

 


La bravissima Coralie Fargeat, già autrice del piccolo e scorrettissimo cult Revenge, miscelando Eva contro Eva con Il ritratto di Dorian Grey e con La morte ti fa bella, frullando il tutto in una estetica tra Society di Yuzna e La Mosca di Cronenberg, scrive e dirige un body-horror irriverente quanto affascinante, dal quale è davvero difficile staccarsi fino ai titoli di coda. 

Una gemma di puro sarcasmo sulfureo, sangue e critica all’edonismo/cinismo a stelle e strisce, che fosse uscita anni fa avrebbe potuto benissimo essere scambiata per un lavoro di Paul Verhoeven. 

Merito di una trama brillante e imprevedibile, che interrogandosi costantemente sull’ossessione della “bellezza a tutti i costi” arriva anche ad argomentazioni sulla “immortalità della bellezza” che forse non dispiacerebbero al Foscolo. 

Si parla di amore e odio verso se stessi, di eredità artistica e caducità umana, di sogni di immortalità venduti a basso costo come trattamenti di bellezza bizzarri, pericolosi e senza rimborso. Il tutto senza che la trama conosca tempi morti, muovendosi con grazia tra suggestioni pop, critica di costume e favola nera. 

Merito di un'ottima scrittura ma pure di due interpreti davvero in stato di grazia, capaci letteralmente di mettersi del tutto a nudo, tanto emotivamente che fisicamente, in un tour de force che spinge quasi al limite le loro capacità di interpreti. Personaggi/Corpi (poco)comunicanti, che riescono incredibilmente a dialogare tra loro in modo convincente pur non essendo mai effettivamente sulla stessa scena. Aggredendosi a distanza schizofrenicamente, intralciandosi autodistruttivamente negli obiettivi personali, cercando fantozzianamente di portare dalla loro parte un serafico quanto poco reattivo “uomo del numero verde/servizio clienti”, che per lo più salomonicamente ripete con meccanicità e zero trasporto la massima del “prendersi cura di se stessi”. 

La “scarsa cura nel prendersi cura di se stesse” salirà così progressivamente, fino ad esplodere nell’ultimo atto della pellicola, andando a portare sulla scena un inaspettatissimo, psicanalitico, psichedelico quanto mega-splatterosissimo “scontro esistenziale”, che di colpo arriverà addirittura a prendere le forme di un “Kaiju Movie”. 


Gli effetti visivi da cui parte ogni mutazione ed efferatezza risultano davvero molto convincenti e ispirati, frutto di un lavoro tecnico artigianale quanto certosino, in grado di commuovere ogni cultore delle pellicole super splatterose curate da geni degli effetti speciali come Screaming Mad George, Rick Baker e  Rob Bottin. Per i super fan dell’horror più estremo, il momento della “nascita di Sue” può ricordare anche il terrificante corto di Xavier Gens X is for XXL, contenuto nell’antologico ABC of the Death.

Anche la fotografia fredda e patinata di Benjamin Kracun risulta piena di personalità e fascino: riesce a far risaltare la fisicità prorompente dei corpi femminili delle protagoniste, quanto al contempo è in grado di sottolineare il loro essere “corpi rinchiusi” in ambienti per lo più claustrofobici, simili a frigoriferi o magazzini. Ogni scena si trasforma in un sinistro “palco teatrale” dove le due protagoniste sono infine per la maggior parte del tempo sole o inermi, come “carne esposta in dispensa”, fresca o progressivamente ammuffita. La supervisione artistica di Gladys Garot, rendendo più sopportabile il costatante decadimento biologico delle protagoniste, le ricopre spesso di glam e abiti eccentrici, riuscendo a trasportarci in un mondo distorto ma al contempo sfarzoso, “impaiettato”: intriso di citazioni alla sottocultura anni ‘80, al mondo della moda quanto ai classici Troma più estremi e scorretti. 

La colonna sonora, ultrapop e ricca di suggestioni elettroniche, rende le interpretazioni se possibile ancora più vibranti, folli e quasi febbricitanti nell’esprimere emozioni forti.

Tra mille suggestioni e spunti di visione, è però giusto dare almeno una precauzione a chi si appresta a entrare in sala, specialmente se si tratta di uno spettatore “sensibile alla violenza visiva”: in The Substance oltre a due bellissime interpreti per lo più semi nude, c’è spesso in scena tantissimo sangue, corpi mutanti, mutilazioni e flagellazioni assortite. Non mancano stranezze di ogni tipo, legate al cibo, alla sessualità, al mondo del wellness, allo star System come alla politica. In generale, il quantitativo di “weird”, sangue, frattaglie, corpi “sbudellati e ricomposti”, è sulla scena così alto, esagerato e assurdo che tutti questi eccessi visivo/narrativi finiscono inevitabilmente per essere accolti dal pubblico con assoluta ilarità. Ma se siete particolarmente sensibili, anche solo a sangue e budella finte, andateci un po’ con i piedi di piombo e preparatevi ad abbassare lo sguardo nei momenti più “truculenti”.

The Substance è una pellicola accattivante quanto originale, piena di idee visive e narrative interessanti, con un ottimo comparto tecnico e due straordinarie attrici al centro della scena. Semplicemente favolose la Moore e la Qualley, divertente in un ruolo particolarmente spregiudicato e sopra le righe Dennis Quaid, simpatico e adeguato al contesto tutto il cast e i tecnici. 

Dopo il suo interessante piccolo esordio con Revenge, Coraline Fargeat è un nome assolutamente da annotarsi e seguire nelle sue prossime opere. 

Certo The Substance è una pellicola “per stomaci forti”, ma vale la pena affrontarla comunque, per divertirsi e terrorizzarsi con questa versione stranissima, quanto assolutamente “letterale”, di Eva contro Eva. Quasi una Eva al quadrato. 

 Magari a stomaco vuoto, è un istant cult da non perdere. 

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mercoledì 13 novembre 2024

Smile 2: la nostra recensione dell’ottimo sequel diretto da Parker Finn, con protagonista la brava Naomi Scott

Si può “fare giustizia” utilizzando come arma una maledizione? 

È con questa ferrea convinzione, forse l’ultima, che un poliziotto con il passamontagna si trova in auto davanti al covo di alcuni spacciatori, mentre il demone che è dentro di lui sta finendo di divorarlo. Mentre le allucinazioni stanno iniziando a prendere il sopravvento, l’uomo cerca con tutte le forze rimaste di arrivare a guardare negli occhi un criminale, magari il pezzo più grosso lì dentro: è solo allora che la creatura entrerà in lui.

Il piano non funziona. 

Al termine di uno scontro a fuoco il demone del sorriso si impossessa di un piccolo spacciatore di nome Louis Fregoli (Lukas Gage), che poco dopo passa a sua volta la maledizione alla giovane cantate Skye Riley (Naomi Scott), una ex compagna di scuola che ogni tanto lo frequenta per avere degli anti dolorifici extra per la sua schiena.

Il mondo in cui vive Skye è già così com’è strano e confuso, al punto che il fatto di avere una creatura maligna millenaria che ne altera le percezioni, crea incubi e vuoti di memoria, per “nutrirsi della sua disperazione”, all’inizio non cambia troppo le cose. 

Ogni giorno SKye ha a che fare con una madre (Rosemaire DeWitt), manipolativa quanto autoritaria e anafferiva, che la riempie di incarichi, tormenti e personali frustrazioni. 

È ancora molto recente, nella mente come sulle cicatrici della cantate, il trauma per l’incidente in auto al quale è sopravvissuta per miracolo pochi mesi prima, mentre il suo compagno, l’attore Paul (Ray Nicholson), ha perso la vita.

Tra i milioni di fan si fanno ormai largo agli eventi pubblici dei veri e propri stalker: persone disturbate quanto inquietati, con le quali è sempre più complicato interagire come previsto dal contratto.

Poi ci sono le prove di un grande e complicato concerto da portare a termine. Le invadenti richieste di apparizioni pubbliche della casa discografica, nelle quali si è costretti a sorridere e stringere mani. È tempo di cambiare un’immagine pubblica “buona, ma da rivedere sotto una veste più accattivante”, anche con il rischio calcolato di snaturare ogni scampolo di personalità, se è per vendere più dischi.

Fortuna che c’è sempre Gemma (Dylan Gelula), l’amica di sempre disposta a seguirla in mezzo alle tempeste emotive, infondendo calma e razionalità. Fortuna che gli esercizi di meditazione imparati di recente funzionano, ripristinano tranquillità, placano ossessioni e disagio. 

C’è in giro uno svitato infermiere di nome Morris (Peter Jacobson) che sa molto su quel demone e forse può aiutarla, ma in fondo serve a SKye questo aiuto? Se lo spirito che è dentro di lei spesso si limita a far dubitare la vittima di quello che la circonda, facendole pensare che le persone al suo fianco le sorridano malevolmente per poi volerla aggredire, il demone deve fare decisamente di più per impressionare una pop star. 

Ma le creature interdimensionali millenarie hanno sempre più di un asso nella loro manica, quando si tratta di divorare dei piccoli e miseri umani. 


Dopo il grande successo di critica e pubblico del primo capitolo, Parker Finn torna a scrivere e dirigere il secondo atto delle “gesta sovrannaturali” del demone di Smile

Formula che vince non si cambia e Finn porta ancora in scena una storia ben scritta e ben recitata, carica di ironia, tanto mestiere e qualche piccolo tocco di genio. La cifra di Smile consiste ancora nel metterci come spettatori sui binari del più classico “tunnel dell’orrore”, dove quasi a ogni inquadratura si salta sulla sedie, per improvvisi spaventi (in gergo i cosiddetti “bus”): la colonna sonora che di colpo si fa aggressiva, un movimento di macchina veloce indugia su figure inquietanti, onirico e reale si confondono. “Spaventarelli” classici della grammatica Horror, a cui in sala seguono a volte risate, anche se a volte dopo lo spavento la tensione non smette di salire, portandoci verso una sana inquietudine. 

Se il primo Smile, pur in una logica squisitamente lovecraftiana, era molto debitore, per atmosfere rarefatte e “corpi mutanti”, delle suggestioni di molto cinema horror asiatico, Finn qui rilancia la sua passione per l’Oriente, scrivendo una sceneggiatura che è una vera e propria lettera d’amore a uno dei capolavori animati del compianto Satoshi Kon: Perfect Blue

Ancora al centro della scena è di fatto una pop star e il mondo che intorno a lei è mutato in modo sinistro a causa della fama. 

Tornano come in quel film del ‘97 i fan/mostro come “Me Mania”. Torna il difficile rapporto tra un mondo privato e pubblico che non riesce più a costruire dei confini sani, giungendo spesso a conflitti e sovrapposizioni che portano alla paranoia. Arriva a svilupparsi un dialogo “impossibile” tra la protagonista e la parte più oscura di se stessa, che spesso le parla attraverso il suo riflesso in uno specchio, come l’entità di un mondo parallelo. 

Tutte suggestioni in cui il demone di Smile può sguazzare alla grande:  confondendo ulteriormente le carte, agendo come un agente del caos emotivo particolarmente autodistruttivo, rendendo disumano ogni rapporto umano o “supposto tale”. 

Come la protagonista di Pefect Blue, il personaggio di SKye interpretato dalla bravissima Naomi Scott aumenta in complessità emotiva e disperazioni ogni minuto che passa, trascinandoci dentro un incubo vivido quanto disperato. Un’ulteriore bravura del lavoro di Finn consiste anche nell‘innestare, nella parabola emotivo/soprannaturale che vive la povera SKye, sfiziose “suggestioni celebri”: frammenti di vita ispirati alla “storie da rotocalco” di alcune cantanti famose. 

Assistiamo in lei a una “perdita dell’innocenza programmata”, nella sua immagine  pubblica, che riporta alla mente una fase professionale travagliata e difficile di Miley Cyrus. 

Emerge lo strano e spesso conflittuale rapporto, più imprenditoriale che protettivo, che si instaura tra la star e i suoi genitori, con suggestioni che rimandano alla biografie di Britney Spears. Si parla della difficoltà reale nell’organizzare e portare in scena degli spettacoli sempre più grandi, con tutte le conflittualità legate al bisogno di coordinarsi con un piccolo esercito di ballerini, musicisti e registi, in enormi strutture come quelle che ospitano realmente i concerti di Taylor Swift. A tratti la storia di SKye ci parla anche della caduta della star negli abissi delle relazioni tossiche e degli abusi di sostanze, come accaduto alla povera Amy Winehouse. 

SKye è in fondo un mosaico di molte suggestioni, più o meno note, ma Naomi Scott, ben guidata da Finn, riesce a rendercela comunque unica, credibile bei suoi mille tic nervosi (come l’ossessione per l’acqua), disagi emotivi (la paura di essere riconosciuta in pubblico), insicurezze (l’incubo che si trasforma in una performance di ballo). La Scott infonde al personaggio grande umanità e la determinazione che richiedono le scene più drammatiche e horror, ma sa anche esibirsi in prima persona, in ottime performance di canto e ballo che la renderebbero assolutamente credibile come Rockstar. 


Tornano dal primo film anche l’abbondante dose di splatter, le claustrofobiche scenografie in cui i mostri si muovono nella penombra, l’accurato Monster-design della “creatura”. 

Come l’Alien di Scott, lo “Smile” di Finn ha delle scene “tutte per lui”: per farsi ancora di più ammirare e riconoscere nella sua forma primordiale, quasi da divinità lovecraftiana. Affascinante quanto respingente, idealmente tra Society di Brina Yuzna e From Beyond di Stuart Gordon. Ha un corpo filiforme ed elastico, nella sua forma “vuota” quasi simile a delle budella umane, in grado di contrarsi e distendersi come un guanto all’interno dell’ospite, fino a muoverlo come un burattino. Riesce ad avanzare e adattarsi sotto la pelle e la mente di ospiti sempre nuovi, cannibalizzandoli dal di dentro, masticando con gioia ogni loro linfa vitale, come una zanzara. 

Tra le righe Finn ci parla ancora di come il peggiore male dei nostri giorni sia l’indifferenza alla sofferenza altrui, che spesso porta le persone più fragili a nascondersi in mondi chimici effimeri quando senza uscita.

I mille, brutti sorrisi che il demone fa comparire davanti alla vittima, giocando con la sua mente, servono ancora per deriderla e confonderla, offrendole ancora una volta il volto di un mondo dove l’empatia è morta. Guardare quei sorrisi stirati al cinema, quasi da “uncanny valley”, fa ancora “male”: scava nel profondo dello spettatore, crea quell’ambiguo cortocircuito in virtù del quale ridere durante la visione, delle sventure di SKye, fa sentire crudeli come i “mostri che ridono” che la circondano. 

Finn sa il fatto suo ed è sicuro che non si fermerà al capitolo 2. Anche perché, piano piano, inizia a costruire dietro a questi racconti, per moltissimi versi autonomi e autoconclusivi, una piccola “lore” carica di suggestioni e rimandi. Il quadro si fa sempre più grande e affascinante e il finale del secondo capitolo apre a una prospettiva futura inedita, che non vediamo l’ora di esplorare.

Smile 2 è un film ben recitato e studiato, che gioca con intelligenza e mestiere collocandosi all’interno di un cinema horror molto classico, fatto di slasher, splatter e “spaventi a schiaffo” come nel classico tunnel dell’orrore. Ogni tanto la pellicola gioca bene le sue carte anche su un piano “più cerebrale”, dimostrando di avere la stoffa per evolversi magari verso forme diverse di “terrore”. 

Se avete amato il primo capitolo non perdetevelo assolutamente. Se non avete ancora visto il primo Smile, è tempo che gli diate una concreta possibilità. 

Talk0

lunedì 11 novembre 2024

My Hero Academia: You’re next – la nostra recensione del nuovo film con protagonisti i personaggi del manga di Kohei Horikoshi.

 

Sinossi: siamo in un mondo in cui l’80% della popolazione mondiale ha sviluppato superpoteri. Ci troviamo in un luogo sconosciuto, anche se in un’epoca passata piuttosto recente e familiare. Quella che sembra la camera di un castello antico è illuminata dalla luce che proviene dallo schermo di un grande televisore. È in onda in diretta l’epico e disperato scontro tra il più forte degli heroes e il più terribile dei villains (è una scena che abbiamo visto alla fine della prima stagione della serie tv).

La città di Tokyo è ormai completamente distrutta, avvolta dalla polvere, dalle esplosioni e dai detriti. Le forze dei due contendenti sono ormai al limite. L’imponente e solare All Might raccoglie tutta l’energia che gli rimane nel suo colpo più devastante, l’United States of Smash. Shigaraki, il “simbolo del male”, rimane schiacciato al suolo, finalmente immobile e inerme, anche se nemmeno questa volta sarà “per sempre”. Per All Might è comunque l’ultimo round: il suo quirk, il potere che gli consente di sprigionare tutta la sua energia, consuma parte dell’energia vitale dopo ogni utilizzo e ormai l’hero più amato è giunto al limite. Lo nasconde bene, ma ormai il suo vero aspetto è quello di un uomo segaligno e malato, lontanissimo dalla montagna di muscoli della sua immagine pubblica. È per questo motivo che già da tempo è diventato insegnante nella U.A., l’accademia che prepara giovani eroi. È per questo motivo che a fine scontro punta il dito verso la telecamera e dice a qualcuno “you are next”: tu sei il prossimo.

L’uomo misterioso nel castello, ebbro di tutta l’energia e potenza a cui ha appena assistito, si sente direttamente ingaggiato da quell’invito. Sarà lui il nuovo All Might.

La scena si sposta ai giorni nostri. In una zona periferica divenuta campo di battaglia, al centro di una piazza che ormai è un cratere, un ragazzo con arti cyber, vestito elegantemente, è in attesa. Si prepara un caffè con un fornelletto da campo, vicino alla sua moto amaranto, mentre alle finestre lo osservano uomini armati di fucile.

Aspetta di intercettare una ragazza, Anna, che possiede un quirk che si manifesta nella forma di petali di rosa, in grado di potenziare a dismisura i poteri altrui. Non è chiaro se sia lì per aiutarla o ucciderla, anche perché il suo volto non tradisce alcuna emozione. La trova, è al seguito di un criminale in fuga dagli eroi tirocinanti della U.A. in missione per liberare la zona portuale da un gruppo criminale. L’uomo sbraita e trascina Anna con forza, si fa largo sventrando i palazzi mentre i petali lo hanno trasformato in una tentacolare macchina da guerra.

Il ragazzo, anche per la presenza dei tirocinanti, non può intervenire sfoderando la pistola che nasconde nel braccio bionico. Può solo seguire gli eventi di nascosto, spostandosi silenzioso con la sua moto, fino a che la situazione degenera del tutto.

Un gruppo di villain, che l’intelligence della U.A. identifica come affiliato alla famiglia criminale dei Gandini, fa il suo ingresso su un vascello volante. Gli affiliati, una volta schiacciati tutti i rivali sulla scena grazie alle armi e a quirk in grado di innalzare barriere per annullare i poteri, si impossessano di Anna. Il loro capo, circondato da droni con telecamera, è pronto per una importante dichiarazione in diretta, su tutti i canali. Il capo dei Gandini si toglie la maschera e dichiara di essere lui il nuovo All Might. Il mondo cambierà e lui guiderà la rivoluzione. Il suo volto e il suo corpo sono identici a quelli dell’amato eroe, ma di fatto stringe a sé Anna e il suo gruppo non si è fatto scrupoli di usare metodi violenti. I tirocinanti dello U.A. non ci stanno a queste provocazioni e gridano alla frode.


Il giovane Midoriya urla al finto All Might di non fregiarsi di quel nome, se intende agire solo con violenza. Di risposta il leader stringe a sé Rosa quasi asciugandola, ricoprendo di conseguenza il suo corpo da petali di rosa, rendendolo “dorato”. La città viene avvolta da una luce intensa che inizia a risucchiare al suo interno auto, persone, palazzi. Tutti gli eroi, anche i professionisti, scendono in campo erigendo barriere psichiche, mura di ghiaccio o di fuoco. Niente sembra funzionare, la luce ingloba ogni cosa. Compresi i tirocinanti dello U.A.. Compreso l’uomo con innesti cyborg e la moto amaranto.

Poi la luce si ferma, quando al suo apice si è formata del tutto una specie di fortezza volante, praticamente invalicabile. I professori dello U.A. e gli eroi professionisti dovranno stare all’esterno e fare affidamento sulle capacità dei tirocinanti di abbatterla dall’interno.

Ma all’interno il gruppo dei giovani eroi è stato intanto diviso in tre gruppi. Un gruppo è capitanato dal timido ma volenteroso Midoriya, uno dal calmo e riflessivo Todoroki, uno dall’irascibile e sanguigno Bakugo. Gettandoli in zone che sembrano ambienti reali, ma al tatto appaiono del tutto “finti”, il finto All Might, ribattezzatosi Dark Might, ha in serbo per i ragazzi prove di sopravvivenza e avversari mortali. Dovranno essere in grado di dimostrargli di essere forti e degni quanto lui di diventare il nuovo “faro per l’umanità”.

Tutto sembra essere stato predefinito fin nei minimi dettagli dai Gandini, tranne la presenza del ragazzo con la moto amaranto. Perso nella labirintica struttura interna della fortezza, finito in una botola tra gli alberi di una giungla, poi all’interno di uno scivolo metallico, poi piombato in caduta libera su una distesa innevata e infine inzuppatosi in una pozza d’acqua, un Midoriya spaesato, quanto rimasto provvisoriamente senza poteri, incrocia questo ragazzo misterioso. Sarà lui la chiave per salvare Anna, Tokyo e il mondo intero dall’ebbrezza di potere di Dark Might? Chi sarà il vero erede di All Might?

 

Il quarto film di My Hero Academia:

Sono 41 i volumi complessivi della serie manga My Hero Academia, scritta e disegnata da Kohei Horikoshi e serializzata su Weekley Shonen Jump, dal luglio del 2014 fino all’agosto 2024.

In Italia siamo ancora in attesa di leggere gli ultimi capitoli, così come stiamo tutti attendendo la trasposizione animata della saga finale, che sarà sempre animata da quello studio Bones che ci ha regalato in passato anche la bellissima trasposizione di Fullmetal Alchemist. Nei  prossimi mesi avremo il grande confronto tra heroes e villains, che porterà i giovani protagonisti al vero “esame finale” per diventare supereroi, intanto il cinema ci delizia con un nuovo film autoconclusivo, sempre curato da Bones, basato su una storia inedita.

Come garanzia di continuità c’è la supervisione dall’autore originale, che ha collaborato anche al chara design dei nuovi personaggi, in sinergia con Kohei Horikoshi.

La sceneggiatura è opera di Yosuke Kuroda, già tra gli sceneggiatori di My Hero Academia, ma che i fan degli anime “più grandicelli” ricorderanno tra gli autori di Trigun, Tenchi Muyo! e di una serie anime super folle come Excel Saga. Kuroda ha inoltre collaborato a Mobile Suit Gundam 00 e al particolarissimo Gundam Build Fighters, di recente a Hellsing Ultimate e Goblin Slayer. Oggi sta lavorando alla folle serie tv tratta dal manga parodia di Harry Potter Mashle.

La regia è invece di Tensai Okamura, per la prima volta alle prese con My Hero Academia, in sostituzione dello storico regista della serie Kenji Nagasaki. Okamura è noto per essere anche l’autore del fumetto Darker than Black, nonché uno degli autori storici della Bones, appartenente a quel “gruppo originale” che partecipò anche al Cowboy Bebop di Sunrise. Ha una esperienza sconfinata nel settore anime e in vari ruoli ha partecipato a moltissime opere considerate “di culto”, da Il mio vicino Totoro a Ghost in the Shell, passando per Ninja Scroll, Jin-Roh, Spriggan. È stato il regista del folgorante corto Stink Bomb nell’antologico Memories, I racconti del labirinto e ha curato la regia di due film di Naruto, nel 2004 e nel 2005.

Le musiche sono ancora una volta curate dal bravo Yuki Hayashi.

All’infinito cast vocale che ritorna al gran completo, i nuovi personaggi hanno le voci di Kenta Miyake (Dark Might, attore vocale di lunghissimo corso, voce di Dohko in Saint Seiya: the Lost Canvas e di recente anche Avdol in Jojo), Mamoru Miyano (la voce di Giulio, voce di Epsilon nel recente Pluto di Netflix, ma anche come attore il volto del personaggio Ultraman Zero, nonché in passato cantante) e Meru Nukumi (attrice e modella, che debutta come doppiatrice nel ruolo di Anna).

Una storia spettacolare, interessante e anche struggente, che si fa largo tra centinaia di personaggi:

I film cinematografici legati a serie tv animate in corso di pubblicazione sono fin dagli anni '70 un “classico” della animazione giapponese.

Tengono “impegnati” animatori e autori nel periodo di tempo che il fumettista completi un blocco di episodi che possa costituire una nuova “stagione”.

Qualche volta i film possono essere prequel o sequel diretti della serie, ma in Giappone vanno fortissimo anche dei film-compilation che sintetizzano la serie in un paio d’ore, come “ripasso veloce” in attesa della nuova stagione, aggiungendo poche nuove animazioni a un prodotto già pronto.

Qualche volta i film danno la possibilità di sperimentare un diverso approccio narrativo o provare registi diversi, senza particolari “rischi produttivi”, facendo affidamento su fan che comunque andranno a vedere i loro beniamini e magari compreranno il nuovo merchandising collegato.

Ultimo ma non ultimo motivo per importanza: il proprio cartone animato preferito “va al cinema”, permettendo piccoli raduni tra appassionati ma anche “solo” la gioia di assistere a un “episodio lungo due ore”, su grande schermo e con un sistema sonoro spettacolare.

Tra Mazinga che incontra il Generale Nero, un prequel di Captain Harlock sulla costruzione della Arcadia, Goku che incontra il “cugino” Broly, un film-compilazione de L’attacco dei giganti con animazioni 2.0, il nuovo viaggio della ciurma di One Piece in un isolotto mai menzionato sulla rotta maggiore e il consueto film o special annuale di Lupin terzo, questi prodotti funzionano.

Certo che My Hero Academia è un prodotto sempre piuttosto complicato da essere portato in sala, anche per degli assi dell’animazione moderna come lo Studio Bones.

Il mondo di My Hero Academia va gestito visivamente come un film del Marvel Cinematic Universe stile Avengers: centinaia di personaggi in scena, palazzi che crollano, gente che vola e lancia raggi, sequenze d’azione lunghissime. Bones in genere non si risparmia e ogni volta cerca di alzare l’asticella della spettacolarità: le evoluzioni tra i palazzi di Midoriya nel terzo film sono forse l’apice del loro lavoro di ricerca e sviluppo, pur nella preservazione di un risultato finale che faccia il minor uso possibile della computer grafica.

Dal punto di vista della trama, la serie presenta ulteriori criticità. Fin dalle origini il manga di Horikoshi ha una profonda vocazione alla “coralità”, di fatto abbondando di situazioni dove non è insolito vedere almeno una trentina di personaggi sulla scena. Tutti personaggi a cui l’autore riesce sempre a fornire “qualcosa da fare” o almeno una piccola battuta da dire. È una scelta stilistica “complicata”, che rende le pagine particolarmente dense di informazioni, ma che allo stesso tempo conferisce un gusto unico alla lettura. Trasmettono l’incondizionato amore dell’autore per i personaggi più “grossi e spettacolari” ma anche per quelli apparentemente più scarsi e buffi. Il bello delle trame è come tutti lavorino insieme, di fatto essendo tutti, pur nel piccolo, indispensabili.

In animazione, dove l’azione per essere intellegibile deve anche essere un po’ fluida, questi momenti corali vanno un po’ sintetizzati, di fatto tagliando interazioni e battute, ma quando parliamo di un film cinematografico di una serie molto amata, come questa, succede che abbiamo sulla scena anche più personaggi di quelli necessari. Parliamo dei cosiddetti personaggi “molto amati”, che “sarebbe bello vedere al cinema”, sostanzialmente “perché fighi”. Insomma: Non ce lo vuoi mettere Endeavor, il padre di Todoroki nonché uno dei più potenti e tormentati heroes di sempre? E la carismatica “spia alata” Hawks? C’è spazio per Lemillion dei Big 3, uno degli hero più amati? Si può almeno citare Eraser Head? E i fan di Fat Gum e Mount Lady? E la donna drago?

Tagliamo subito la testa al toro: il nuovo film di My Hero Academia riesce abbastanza brillantemente ad affrontare con una particolare originalità le sfide visive quanto narrative.

Funziona molto bene il fatto che la “fortezza volante” dei cattivi “all’esterno” appare come una sorta di gigantesco mostro gigante, che avanza tra le strade di Tokyo. È enorme, avanza e “non parla”, qualche volta rilascia dei piccoli golem da combattimento: permette a tutto il “cast di supporto” della serie di intervenire cercando di sferrare il proprio attacco, organizzare strategie di contenimento, esibirsi negli spettacoli pirotecnici più estremi. Se vogliamo è una situazione simile a quella del “mostro finale” del film One Piece: Stampede. Nel frattempo, all’interno della fortezza, l’azione può muoversi con dinamiche diverse: con i giovani eroi “più forti” che attaccano il nemico e con gli eroi di “supporto” che cercano un modo di uscire, di fatto risolvendo delle sfide che si basano più sull’esplorazione.

Funziona altrettanto bene la scelta narrativa, se vogliamo poco ortodossa, di dare un grosso risalto nella trama ai “nuovi personaggi”. Giulio, Anna e Dark Might sanno essere tragici, interessanti e non banali, dotati di una certa cura nel loro sviluppo emotivo.

Dark Might ricerca il potere in modo distorto, sa rendersi quasi una caricatura grottesca di se stesso: di fatto convivono in lui una infantilità e senso di inferiorità che non gli permettono di comprendere il mondo che lo circonda. Anche per questo, se vogliamo, è un uomo “senza (un vero) volto”. A questo aggiungiamo il quirk di Anna, che di fatto fa perdere il controllo emotivo a chiunque ne abusi ed ecco che avremo un villain davvero disperato.

Giulio è un anti-eroe tragico, sconfitto e “senza pezzi”,che richiama molto il senso di solitudine del protagonista di quel Darker Than Black di cui il regista è autore. Al contempo ha i tratti del perfetto eroe disperato e ambiguo da western post-apocalittico, se vogliamo alla Trigun (più il reverendo che Vash), non a caso un’opera a cui ha lavorato lo sceneggiatore di questo film. Al look tenebroso, ai modi raffinati ma “da killer”, agli inserti cyborg e alla “difficoltà a sorridere”, aggiungiamo che si muove con una moto futuristica stile Kaneda in Akira. Giulio buca lo schermo e catalizza in un istante tutta l’attenzione.

Anna è invece una ragazza rapita, con un immenso potere distruttivo che di fatto la “autodistrugge” più passa il tempo un po’ come All Might, nella condizione mentale di essere per quasi tutto il tempo plagiata da una villain con poteri telepatici. È un personaggio “tragico al cubo”, nonché quasi una strega da film horror.

Sono questi tre, i veri mattatori della storia. Il resto dei personaggi si “armonizza” nel cercare di raccontare la loro storia. Come sempre c’è una parte narrativa che mette in luce il carattere di Midoriya, Bakugo e Todoroki, sottolineando il modo sempre più maturo in cui prendono le decisioni e si coordinano con la squadra. Qualche volta Midoriya fa giusto da “motivatore” a Giulio, ma nell’insieme la scelta di limare molti scambi “all’essenziale” premia, al netto di un paio di personaggi che forse non riescono a emergere. Moltissimi dettagli della trama rimangono “per i soli fan”, ma è un compromesso accettabile.


Finale:

Il nuovo film di My Hero Academia convince tanto sul piano narrativo che su quello dello spettacolo, soprattutto se siete fan della serie animata. È un film pieno di ritmo ben imbottito di inseguimenti e scontri tra superpoteri, come sempre confezionato da uno studio d’animazione di primo piano come Bones, in grado di gestire al meglio tanto le scene d’azione che i momenti più emotivi. Molto buoni i nuovi personaggi introdotti per la pellicola, per tutti gli altri saltuariamente si avvertono “problemi di overbooking” nel cercare di delinearsi un proprio spazio, ma i correttivi a questa problematica risultano funzionali al positivo esito finale.

 Talk0

sabato 2 novembre 2024

Venom: The Last Dance - la nostra recensione del cinecomic scritto, diretto e co-prodotto da Kelly Marcel, sul celebre anti-eroe Marvel


Premessa: Venom è un personaggio dei fumetti creato da Todd McFarlane e David Micheline, apparso per la prima volta come “costume alieno nero” di Spider-Man in Amazing Spider-Man numero 252 del 1984. Da Amazing Spider-Man 300 del 1988, quando come “simbionte” si impossessa del corpo del lunare giornalista Eddie Brock, Venom inizia una evoluzione autonoma dall’arrampicamuri, dai toni sempre più esagerati, sarcastici e dark. Dal 1993, con la serie Venom: Lethal Protector, il nostro simbionte alieno, sempre più anti-eroe, diventa titolare di una testata tutta sua e continua ancora oggi a essere uno dei personaggi Marvel più amati dal pubblico più giovane, al punto da arrivare anche al cinema.

Venom: The last dance è il terzo film di una saga iniziata nel 2018 con il film diretto da Ruben Fleischer. La storia riparte esattamente da dove finiva la precedente pellicola, Venom: Let there be Carnage del 2021, per la regia di Andy Serkis, ma il film risulta godibile e comprensibile anche senza particolari “ripassi”.


Sinossi: ci eravamo lasciati in un bar nel Messico di un’altra dimensione. Il nostro Eddie (Tom Hardy) era ubriaco, mentre ascoltava assurde storie di alieni viola che schioccando le dita erano in grado di far sparire metà della popolazione mondiale.

Poi si apre un varco dorato e il nostro eroe è di nuovo a casa, in un bar del Messico del suo mondo, con il suo simbionte alieno Venom che è così contento da volersi ubriacare. Basta con le menate dei multiversi!

Venom si fa un cocktail stile Tom Cruise muovendo come una bambola il corpo di Eddie che è ancora ubriaco, rivelando qualcuno dei suoi tentacoli neri al terrorizzato barista locale. La tv richiama i due alla realtà: sono accusati di aver ucciso un poliziotto a seguito della storiaccia con Carnage e ora pure i telespettatori messicani conoscono i suoi casini. Non si può tornare a Los Angeles.

Fuggire da un’altra parte, magari a New York dove forse Eddie può sfoggiare la sua abilità di giornalista e forse incastrare un politico corrotto. Si può anche prendere l’aereo dall’esterno, appiccicandosi alla carlinga con il corpo tentacoloso e appiccicoso di Venom, senza pagare il biglietto. Certo fa un po’ freddo e si può morire malissimo, ma i due sono abbastanza disperati da provarci. 

Il viaggio è orribile e Eddie è ancora sbronzo, quando sull’ala dell’aereo diretto verso la Statua della Libertà compare una creatura aliena insettoide, piena di denti, enorme e minacciosa. Riescono a frullarla tra i motori dell’ala prima che lei se li divori con i suoi denti a motosega, ma quel mostro è del tipo che si riforma come il T1000 di Terminator. È stato creato da chi ha creato anche i simbionti ed è in cerca proprio di loro due, Eddie e Venom, per una strana storia che frulla sfiga, prigioni interdimensionali, chiavi cosmiche ancestrali e il futuro di tutto l’universo.

È un casino, anche perché per il simbionte il mostro tornerà sulle loro tracce appena Eddie e Venom cercheranno di fondersi per le loro classiche “attività da Supereoi”. Bisogna fare qualcosa, prendere tempo, nascondersi.

Scendere dall’aereo con un Venom-paracadute.

Trovare un cavallo per “venomizzarlo” e usarlo come mezzo di trasporto superveloce. Prima o poi si arriverà a New York, non fosse per una nuova grana che incombe presto su di loro. La grana viene dall’area 55, la parte più nascosta dell’area 51 del Nevada: i militari cercano Venom con le telecamere e lo hanno trovato proprio in quel bar in Messico, poi sull’ala di un aereo. Non è che si mimetizzi benissimo e Eddie è sempre sbronzo per aiutare nelle questioni logistiche.

Per fortuna, tra mille inseguimenti e qualche senso di colpa, la coppia incontra una famiglia di hippie stralunati in fissa con gli alieni, capitanati dal visionario Martin (Rhys Ifans) e in gita proprio nell’area 51. La celebre base sta per chiudere per un provvedimento di Washington e loro sono in cerca di souvenir a tema omini verdi. Forse gli hippie, amorevoli, gentilissimi e bravissimi a cantare a cappella Space Oddity di David Bowie, potrebbero dare a Eddie e al suo “socio” (il riferimento al personaggio del “socio” dei libri di Sandrone Dazieri è voluto) un passaggio almeno per Las Vegas.

È un viaggio quasi rilassante, nel quale Eddie e Venom trovano dopo tanto tempo un po’di quiete, aria di famiglia, cioccolata. Ma l’area 51 incombe sul loro destino, insieme ai molti simbionti come Venom che nasconde al suo interno. Presto la Terra si riempirà di insetti giganti immortali a caccia di simbionti e forse di oscure divinità ultra-dimensionali. 

Ma forse quando ciò accadrà Eddie sarà ancora così sbronzo da non accorgersene.

 


Affilando i denti: Tom Hardy ce lo aveva “minacciato” già nell’agosto del 2018, quando era ancora fresco dell’uscita del primo, sgangherato ma molto divertente film della saga. Ai botteghini era piaciuto e quindi “facciamo almeno tre!!”. 

È nel dicembre del 2021 che Sony, come “regalo di Natale”, inizia effettivamente la produzione del terzo film dedicato a Venom, dopo che il divertente ma forse più sconclusionato capitolo 2 aveva comunque, tra cinema e home video, fatto breccia nel pubblico. 

Era ormai chiaro che il simbionte dentato di casa Marvel al cinema non poteva fallire. Del resto, aveva dimostrato quel “super potere ai botteghini” già con la sua primissima partecipazione in un live action, nel terzo Spider-Man di Raimi del 2007, pur risultando anche lì, per colpa di una sceneggiatura ipertrofica, un personaggio assolutamente, amabilmente “del cavolo”. Venom rubava la scena, anche elargendoci a piene mani alcuni dei momenti più cringe e divertenti della carriera di Tobey Maguire. 

E quindi vai con il numero tre. 

A debuttare nella regia, ma ancora responsabile dello script e della produzione, questa volta è nientemeno che la co-sceneggiatrice dell’intera trilogia di Venom: Kelly Marcel.

Una Kelly Marcel che tra un Saving mr Banks, l’adattamento di Cinquanta sfumature di grigio, Crudelia e la serie fantasy Tera Nova, aveva anche trovato il tempo di collaborare molto bene con Tom Hardy: nel suo film forse più importante per la carriera, il dramma carcerario Bronson, ma anche in un trattamento di Mad Max: Fury Road

Hardy, che co-produce e co-scrive la saga fin dall’inizio, l’aveva voluta fortemente a bordo anche per una forma di riconoscenza nei confronti del “vero committente occulto” di Venom: il piccolo figlio di Tom, Louis Thomas Hardy, classe 2008, all’epoca del primo Venom di anni 10. 

Papà Hardy voleva realizzare un film tutto per lui, che, come tutti i bambini di dieci anni, amava i fumetti di Venom, al punto che il primo film sul simbionte alieno ha preso vita probabilmente da intensi brain-storming tra Kelly e Louis, con Tom che partecipava facendo facce strane. Ce li immaginiamo insieme, lanciare per una stanza del set uno di quei pupazzetti allungabili che si appicciano ai muri, insieme a moto giocattolo, uno shuttle e tante macchinine, per spiegare i momenti drammaturgicamente più intensi di quella pellicola anche ai dirigenti Sony.

Immaginiamo (è sempre una nostra supposizione non avvalorata da fonti) un coinvolgimento attivo di Louis anche nella lavorazione delle successive pellicole: perché c’è una surreale “continuità” tra le scene in cui Eddie ha caldo e per rinfrescarsi entra nell’acquario di un ristorante e la passione di Venom per l’allevamento dei polli che si sviluppa nel secondo capitolo. Un gioioso non-sense.

Forse Louis non era abbastanza in vena di motorette ed esplosioni per Venom 2: del resto i 12 anni e le scuole medie sono un periodo di grandi cambiamenti, goniometri, test invalsi, i brufoli, le prime cotte… Se vogliamo l’aspetto delle “cotte”, che in modo differente affrontano Venom e Carnage, diventa a tutti gli effeti la parte più stuzzicante della seconda portata della saga. Venom 2 è quasi un film di amori adolescenziali alla Makoto Shinkai (stiamo usando una iperbole in modo molto ironico qui, non prendeteci sul serio), scombinati quanto “sentiti”. Del resto alle medie si scoprono spesso gli abitanti “dell’altra parte del mondo”: che più che “gli alieni” sono le donne…


Ma ora Louis, che supponiamo ironicamente ancora dietro alle storie cinematografiche di Venom, è un sedicenne americano medio e pensa anche ad altro. Lo immaginiamo diventato un grande appassionato di biologia e scienze naturali, assiduo consumare di Tolkien, magari frugale appassionato delle storie on-the road di Jack Kerouac. Forse anche Michael Crichton o Christopher Paolini hanno iniziato così. Probabilmente non ha usato più dei pupazzi allungabili per spiegare junghianamente la dualità dell’animo umano in “salsa McFarlane”. Ma la voglia di divertirsi insieme a papà e alla Kelly nell’immaginare nuovi simbionti ibridati con animali o nel portare su schermo creature alla Starship Troopers non deve essere finita. Me li vedo tutti e tre a lanciarsi addosso “cavalli-Venom” o “aquile-Venom”, rane ed elefanti Venom, debitamente cospargendoli prima di slime color nero notte e poi di slime di tutti i colori, con Hardy che continua a fare voci buffe, simula sbronze e prova a parlare con un Venom immaginario come un ventriloquo, usando un calzino per fingere il suo volto dentuto. Perché anche se hai sedici anni, se trovi un barattolino di slime e non hai ancora “ucciso” quel “fanciullino interiore” che secondo Pascoli dimora in ognuno di noi, con lo slime ci giochi. Ci giochi e torni di colpo a quando avevi 10 anni. 

Tutta l’operazione Marvel/Disney/Sony/Columbia legata a Venom, ridotta all’osso, è in sostanza da sempre basata sull’idea di farci “giocare al cinema” con un simpatico barattolino di slime con i denti. Certo non è l’unico Venom possibile, non è per nulla il migliore immaginabile: ma è comunque un Venom con cui hanno “giocato” un padre e un figlio, divertendosi un mondo.   

 


Chine e pennelli: Il direttore della fotografia è uno che ci piace: Fabian Wagner. Ha fatto un buon lavoro sui “due” Justice League di Snyder, sul Frankenstein con Daniel Redcliffe, ma anche nell’originale Overlord di Avery. Ha una predilezione per le tinte scure e i forti contrasti cromatici, riuscendo a trasmettere bene l’atmosfera tipica dei fumetti che su Venom calza ovviamente a pennello.  

Il montaggio è invece affidato a Mark Sanger: una carriera negli effetti visivi e poi il debutto all’editing con Gravity di Cuaron, seguito a breve da un film molto “fumettoso” (direi quasi un manga shakespaeriano) come Last Knights di Kazuki Kiriya e poi da un altro mega-fumettone come Transformers: the Last Knight. Più di recente ha lavorato a Jurassic World Dominion e di fatto continua a interessarsi a film con al centro tantissime creature animate, gestendo spesso scene quasi da cartone animato digitale. 

La colonna sonora curata da Dan Deacon si accompagna con una track list di lusso da classico film “on the road”, tra Cat Stevens e David Bowie (il “momento Space Oddity” è forse la parte più bella di tutto il film), passando per gli Abba e con intrusioni gustosissime dei Linkin Park.

Naturalmente torna in scena nel ruolo da protagonista e mattatore assoluto Tom Hardy, ormai indistinguibile tra versione umana e “aliena”, ma il cast annovera anche il bravo Chiwetel Ejiofor, già “personaggio a fumetti” come Karl Mordo in Doctor Strange, ma pure premio Oscar per 12 anni schiavo. C’è la bravissima Juno Temple, che abbiamo apprezzato nella serie Ted Lasso di Apple+ ma è stata anche lei in passato un “personaggio a fumetti”: nel secondo (un po’ sfortunato) film di Sin City del 2014. Alla voce “ritorni attesi”, c’è Rhys Ifans, che per i fan di spider-Man dovrebbe ricordare già per qualcosa, come ritorna Stephen Graham in un ruolo che è qui destinato a diventare molto importante. Non poteva mancare l’amarissima Peggy Lu e la sua già iconica Mrs Chen: che abbiamo potuto ammirare in una scena di ballo già molto reclamizzata nei trailer. La presenza di Kelly Marcel e Tom Hardy alla sceneggiatura, con la Marcel che esordisce alla regia, garantiscono una forte continuità con le pellicole precedenti.

 


In sala: Il primo Venom sembrava a tutti gli effetti una elaborazione più ironica di Life di Daniel Espinosa: tanta “voglia di Alien”, quanto voglia di un umorismo sopra le righe ma sotto controllo, quasi “Troma per famiglie”.

Il secondo film facendo leva su Woody Harrelson puntava altissimo cercando di rielaborare Natural Born Killers di Stone: si perdeva un po’, trovava momenti interessanti proprio sul lato “sentimentale” della vicenda, riproponeva ancora tantissimi effetti speciali “mostruosamente innocui” per la felicità di grandi e piccini.

Venom The Last Dance ha la struttura del classico film on the road ambientato ai margini del deserto americano, con la “variabile alieni” che a tratti lo avvicina al divertente Paul della coppia Simon Pegg e Nick Frost. Ma nella seconda parte la pellicola subisce una trasformazione/evoluzione esaltante, quasi da incubo lovecraftiano alla Southbound.

Il “cacciatore di simbionti” diventa qui mattatore quasi assoluto, dimostrandosi una creatura davvero spaventosa con cui la lotta si fa sempre più estrema e disperata, frenetica come a gravità zero, nonché sempre condita da momenti splatter di forte impatto. Il “rumore” con cui la creatura “trita” i nemici che ingoia è un effetto sonoro che rimane impresso nella memoria e dimostra l’incredibile bravura del comparto effetti sonori.

Permane il divertimento, le trasformazioni buffe e l’umorismo adolescenziale, ma la tragedia piano piano si fa largo, quasi riuscendo a trasformare Venom in un personaggio davvero epico. Nell’ombra intanto si fa largo con convinzione un villain, animato da Andy “Gollum” Serkis, che non avrebbe nulla da invidiare al Thanos gioiosamente “preso in giro” in un paio di battute a inizio film. Tutta l’iconografia di Knull, il mondo-prigione in cui vive e lo sterminato potere di cui può disporre, profumano molto di Signore degli Anelli.

Alla fine, anche il dissacrante Venom si è fatto epico, ma nell’evoluzione generale del personaggio è una tappa che grazie al buon equilibrio della sceneggiatura non stona.

Tom Hardy indossa ormai alla perfezione i panni tanto del simbionte che del giornalista “bollito” Brook: la “follia a due” che lega Eddie a Venom, trasformandoli a volte in amici fraterni, a volte quasi in una coppia di fatto, a volte “uno burattino dell’altro”, è sempre divertente, carica di momenti surreali quanto di “divertite” interazioni nelle scene action.

Ma è tutto il cast a funzionare.

Rhyan Ifans nei panni dello spirituale quanto stralunato Martin è davvero irresistibile, ma colpiscono in positivo anche il granitico e serissimo militare di Chiwetel Ejofor, il misteriosissimo personaggio interpretato da Juno Temple e la curiosa scienziata dall’animo empatico con il volto di Clark Backo.

Buoni gli effetti speciali, molto riuscite tutte le creature digitali multiforma e multicolore, tra cui si segnala un “tritone” che sembra uscito direttamente da un film di Guillermo Del Toro.

Conclusione: Fin dalle note di produzione, questo Venom si è dimostrato un film in forte continuità con i capitoli precedenti, ma anche in grado di portare il personaggio a una interessane maturità. Permangono l’ironia, una messa in scena fracassona quanto ricca di esagerazioni, i momenti carichi di non sense, i combattimenti super colorati in cui il simbionte si fonde e trasforma con l’ambiente.

La sceneggiatura non è priva di sbavature quanto ricca delle “semplificazioni” tipiche dei fumettoni cinematografici del passato: specie di quelli degli “anni 80/90”, alla Spawn (non a caso come Venom un altro personaggio di McFarlane), che sono stati il brodo di cultura del personaggio di Venom.

Se non vi scoraggia la profonda quanto “liberatoria” ingenuità di fondo del soggetto,  se siete “vittime” dell’indubbio carisma di un anti-eroe esagerato quanto esagitato come il simbionte alieno di Marvel, rimarrete incantati per un paio d’ore nell’osservare questo alieno gommoso/allungabile, pieno di denti e muscoli, che urla e fa cose assurde su schermo.  Un po’ goffo e un po’ minaccioso: come il Taz dei Looney Tunes, come gli assurdi Street SharksI personaggi anni '80 pieni di denti e con il caratteraccio piacciono sempre a grandi e piccini.

Ovviamente “vade retro” se cercate qualcosa di più profondo di un personaggio pensato “ab origine”, qui effettivamente, da un bambino di dieci anni.

Ma se volete tornare bambini, tra amanti dello slime di più generazioni, siete nella sala cinematografica giusta.  

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