venerdì 28 giugno 2019

Toy Story 4: la nostra recensione



Gli anni passano, i bambini cambiano e i giocattoli, come le tate, gli insegnanti e gli educatori, sono pronti a nuove sfide. E la sfida più dura è quella di scoprire che di loro non c'è più bisogno, che altri prenderanno il loro posto nella cura del bambino. Come il piccolo Andy è cresciuto, anche Woody il cowboy è diventato un giocattolo più consapevole del suo ruolo e del suo tempo. Nel primo film negava che un nuovo giocattolo prendesse il suo posto nella cameretta del bambino, nel secondo comprendeva la tristezza di essere un giocattolo "vintage", un "oggetto" che poteva essere da esposizione chiuso in una teca di vetro come un quadro. Nel terzo film accettava di passare a una proprietaria più giovane, Bonnie. Nel quarto dall'inizio sa che il ruolo di giocattolo prefetto, di sceriffo, è passato per Bonnie a Jessie, la Cowgirl. E allora cosa fare, come essere ancora utile? Con l'esperienza e con la comprensione più matura del suo ruolo di giocattolo, tata, insegnante ed educatore. Mettersi al servizio della bambina in modo del tutto disinteressato, sostenerla e spronarla anche se dietro le quinte, in modo silenzioso. Così Woody segue di nascosto Bonnie nel suo primo giorno di asilo, quando ancora sola e senza amici crea da un "forchetto", uno spago, uno stecchino e qualche optional di Art Attack un pupazzetto. "Forchi", doppiato molto bene da Luca Laurenti. Lei si affeziona a Forchi, mentre questo nuovo giocattolo non ha ancora chiaro il suo posto nel mondo, si considera "spazzatura" in quanto "fatto di spazzatura" (per la sua particola creazione, che vi invito ad approfondire al cinema). Un oggetto inutile come forse un po' inutile si sente ora Woody. Woody e Forchi si trovano così protagonisti per una serie di circostanze in una avventura on the road che li porterà nei pressi di un parco giochi e di uno strano negozio di antiquario dove i giocattoli stanno dietro a una teca di vetro da troppi anni.


Sentire Woody senza la voce di Fabrizio Frizzi è un dolore, nonostante il buon lavoro svolto da Angelo Maggi. Così come fa commuovere rivedere su schermo i giocattoli della Pixar, in storie che progressivamente si sono fatte sempre più intime e forse tragiche. Il divertimento c'è sempre, ma la lacrimuccia è sempre più insidiosa ad ogni film e questo Toy Story 4, dietro la patina colorata e gioiosa di una animazione computerizzata sempre più calda e gentile, non manca di scene davvero strazianti. È un film crepuscolare, sulla necessità di reinventarsi la propria vita dopo che il vecchio lavoro è finito del tutto, senza tradire quello che si è sempre ritenuto importante. Come chi "ha fatto il suo corso", anche i giocattoli più amati vengono dimenticati, finiscono in soffitta, al mercatino e se sono stati "persi" non vengono più ritrovati o ricercati. Si chiude un capitolo con il bambino che si aiutava a crescere, si fanno i conti su quello che si vuole ancora fare nella prospettiva che un altro bambino da accudire non ci sia più. È doloroso, è realistico. Non è una seconda occasione, che non arriverà più. È la necessità di una rinascita. È attuale in modo drammatico, vista la velocità in cui negli ultimi tempi con la crisi molte persone hanno dovuto reinventarsi un lavoro e cercare un nuovo posto nel mondo. Toy Story arriva a parlare di giocattoli che per sapere come affrontare il proprio futuro devono seguire o "avere" una loro "voce interiore" a guidarli. Su questo tema/metafora, non priva di enormi implicazioni psicanalitiche, trovano fondamento suggestioni narrative pirotecniche quanto universali, profonde quanto ridicole, buffe quanto quasi horror (con una scena che non sarebbe sfigurata in Saw l'enigmista). E Pixar, con la stoffa che da anni dimostra nel campo, palleggia tutte queste suggestioni con la leggerezza di cui solo lei è capace, con la cristallina semplicità che riesce a trasmettere anche quando vuole far ragionare i bambini, quanto gli adulti, su temi anche molto complessi. Ne risulta, ancora una volta, un film straordinario, unico, profondo e godibilissimo. Una gemma che vi farà ridere e vi farà piangere. Per i bambini uno spettacolo colorato che ricorderanno come una bella gita trascorsa in famiglia. Per i genitori e adulti uno spettacolo che trasmetterà catarticamente tutta la gioia e disperazione di poter essere bambini, ma solo per 90 minuti. Con la consapevolezza che a volte il genitore è più simile per ruolo a quello di un giocattolo che prima o poi sarà vecchio. Grazie ancora una volta, Pixar, per le grandi emozioni, il grande spirito positivo che infondi nei tuoi prodotti  insieme alle troppe lacrime. 
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mercoledì 26 giugno 2019

La bambola assassina - la nostra recensione del remake ora al cinema per Midnight Factory!




- Sinossi fatta male: Karen è una giovane, bellissima, ironica, un po' depressa e sexy mamma single (Aubrey Plaza), con a carico un figlio, Andy, un po' solo e un po' depresso pure lui (Gabriel Bateman), lavora come cassiera in un centro commerciale e vive in un palazzo fatiscente in un quartiere abbastanza povero. Come tutte le giovani ragazze bellissime, ironiche, un po' depresse e sexy mamme single, pure Karen sta con un tizio stronzissimo, Henry (Tim Matheson), che la tratta come una pezza da piedi e odia il figlio. Oramai Andy, quando sa che c'è Henry in casa, preferisce uscire dall'appartamento per non vederlo urlare contro di lui o accoppiarsi con la madre davanti a lui. Chi salverà Andy? Forse Chucky (in originale sempre doppiato storicamente da Mark "Luke Skywalker" Hamill, doppiatore storico nei cartoni animati americani anche del Joker di Batman, per capirci) una nuova bambola ultra-tecnologica wi-fi, wire-less, chrome-cast, domotica deluxe, un po' Siri e un po' Teddy Ruxpin e con qualcosa di "Emiglio è meglio". Insomma, una specie di pupazzo semi-senziente, in grado di muoversi, forse pensare, con una peculiarità in più rispetto a tutti i pupazzi come lui. Il costruttore cinese sottopagato della catena di montaggio addetto a questo Chucky, con il chiaro intento di fare un danno economico alla sua azienda irriconoscente, ha deciso, prima di passare il pupazzo alla sezione confezionamento finale, di "togliergli ogni limitatore" e "protezione da tre leggi dei robot", per poi suicidarsi nei primi tre minuti della pellicola. Perché sì, questa azienda cinese, ha in pratica creato dei Terminator nani senza accorgersene. Così il nostro Chucky con coscienza, dopo varie traversie, arriva ad Andy in anticipo di due settimane dal suo compleanno, con tutta l'intenzione di diventare il suo "migliore amico". E Chucky impara. Impara quello che gli insegna un ragazzino sui dodici anni per lo più bullizzato dagli amici e maltrattato dall'amico di mamma. Impara che questo ragazzino ride ed è felice quando vede un film come Non aprite quella porta, dove le persone vengono uccise e fatte a pezzi. Chucky non ha filtri, assorbe tutto e cercherà con tutte le forze di difendere Andy, magari facendolo ridere e rendendolo così felice. Seguirà sangue e humor nero per 90 minuti di pellicola. 


- Oltre le aspettative: ero curioso, un po' scettico ma abbastanza "tranquillo" su questo remake di Chucky. Amo la saga di Bambola Assassina per la sua anarchica leggerezza e humor nero, trovando unico e straordinario in primis proprio il pupazzo di Chucky. Anche se il remake avesse stravolto le regole alla base del franchise (come di fatto fa), la bambola sarebbe rimasta quella, con tutto il carisma e anima splatter che si porta dietro dagli anni '80. Se cercavo come minimo sindacale un po' di gore, sapevo di trovarlo anche in questa forma. In qualche modo ero rasserenato anche dal marchio Midnight Factory, che ha portato negli ultimi anni in sala ed home video dei prodotti nella stragrande maggioranza dei casi interessantissimi. Poi la sorpresa. Questa nuova trama funziona benissimo e gli attori, Aubrey Plaza e il piccolo Gabriel Bateman, sono davvero bravi. Perfino i comprimari, i giovani Ty Consiglio e Beatrice Kitsos e il simpatico Brian Tyree Henry (in questo periodo in sala anche con l'interessante "johnwickano" Hotel Artemis) funzionano molto bene. Non avevo dubbi sulle capacità di Hamill di creare con la sua voce una creatura inquietante, ma mi ha saputo davvero sorprendere. Anche gli effetti e le location, anche il ritmo narrativo, funziona tutto e i 90 minuti della pellicola scorrono che è un piacere. Parlavamo giorni fa del regista Lars Klevberg per Polaroid, un omaggio al cinema slasher anni '80 con i suoi difetti ma anche con qualche idea gustosa. Il tiro qui è migliore e il risultato finale decisamente convince. Una bella scommessa vinta rischiando su qualcosa di nuovo. 
- Chucky 2.0: Questo è un Chucky tutto nuovo. Non è, come nell'originale, un serial killer sadico e sarcastico che per sopravvive a una sparatoria si fondeva con una bambola e aveva di conseguenza la frustrazione di non avere più il pisello (e per compensare la libido aumentava la sua voglia di uccidere). A Chucky toccava spostarsi su target/vittime più a misura della sua attuale altezza e il piccolo Andy e il suo mondo da bambino diventavano per lui ostacoli non certo appaganti, ma che non poteva scegliere o cambiare. È invece, questo nuovo Chucky, una creatura diversa. Una intelligenza artigianale magari davvero "con buone intenzioni", a cui inculcano, senza dargli accesso ad un sottotesto per comprendere al meglio le cose, che è "giusto" comportarsi come un mostro come faccia di cuoio di Non aprite quella porta. La citazione al capolavoro di Tobe Hooper (peraltro altro film ora nel catalogo di Midnight Factory, in edizione extra lusso) è diretta e folgorante. Un bambino trascurato e depresso come il protagonista, il "nuovo Andy", osteggiato da un patrigno davvero crudele, vede insieme ai suoi amici e a Chucky in TV Non Aprite quella porta. In questa scena, che è davvero il cuore del film, Andy nella finzione cinematografica di Non aprite quella porta riesce ad esorcizzare  le violenza che subisce tutti i giorni dal patrigno e ride, si diverte. Forse vorrebbe avere la forza di Faccia di cuoio per affrontare il patrigno, ma è al contempo consapevole che quello è un film, che è tutta una messa in scena in grado giusto di offrirgli uno sfogo. Il suo pupazzo, che non distingue finzione da realtà, ma registra solo il fatto che il bambino è felice, cerca di diventare come un mostro da film horror, per rendere contento il suo Andy. Lo fa con tutta la spontaneità e ingenuità che gli consente il fatto di non avere limitazioni e codici morali per via di quanto avviene nei primi minuti del film. Lo fa perché pensa che sia un bene. E non viene compreso, non gli viene detto dove "sbaglia". È un Chucky quasi tragico, che passerà anche a un altro padrone-bambino, che lo tratterà pure con disprezzo, ribattezzandolo "faccia di merda". È un Chucky che cercherà di rimettere insieme la sua relazione con Andy sulla base del linguaggio che ha pensato di condividere con lui, basato sulle suggestioni dei film horror. Anche se forse fa un po' ridere attribuire una "tragicità Shakespeariana" ad un pupazzo assassino nato e prosperato nel filone più consapevolmente grossolano e "easy" dell'horror per appassionati, questo Chucky è tragico. Con un nuovo capitolo di Bambola Assassina non si voleva certo ambire a Shining, Rosmary's Baby, Hereditary, VVitch. Siamo e restiamo in un filone più allineato a roba come Violent Cop, Critters, Venerdì 13, ma questo è davvero uno spunto in più che rielabora, aggiorna ed espande il concetto stesso della Bambola Assassina. L'originale Chucky era pensato a metà tra un folletto e un babau. Frutto della fantasia di Don Mancini (autore storico e anche regista dell'ultimo e fantastico trittico cinematografico sulle avventure della Bambola Assassina Chucky: Il figlio di Chucky, La maledizione di Chucky e Il culto di Chucky), Chucky è idealmente un po' come il folletto che ruba il respiro ai bambini nel terzo episodio de L'occhio del gatto di King (Klevberg in Polaroid citava anche un po' il Fotocane di King). È un po' come i piccoli demoni di Non avere paura del buio e in un certo senso è anche un po' come IT. Un mostro che se la prende con i bambini e la loro innocenza, impossibile da vedere per il mondo degli adulti e per questo affrontabile solo dai bambini (che peraltro possono batterlo). Chucky come queste creature "ha un raggio d'azione limitato", ed in più è un babau zoppo e impotente, che sopravvive e uccide giocando sul fatto di essere percepito come un essere effimero e tutto sommato debole. Chucky è un cattivo che deve "sopravvivere alla sua mission di assassino sfigato" e usa un sarcasmo sfrenato, con cui facilmente riusciamo a empatizzare come spettatori. Si può quasi parteggiare per lui, come per Freddy, ma non si può dimenticare che è in fondo, come lo era Freddy,  il classico e più pericoloso "bulletto", verso cui la Società (famiglia, scuola, istituzioni varie) non prende alcun provvedimento in quanto è percepito solo come spauracchio. In più, Chucky è un giocattolo. Un prodotto commerciale, un ammasso di plastica e stoffa, pagato dai genitori, per intrattenere i pupi. Se facesse altro, se risultasse ai bambini in qualche misura "pericoloso", sarebbe probabilmente un problema di "autosuggestione" dei ragazzini, probabilmente frutto della loro fantasia fervida e sfrenata. Materia  da psicologi infantili di cui i genitori si lavano un po' le mani. Perché i giocattoli sono sempre per gli adulti "roba da bambini e per bambini". E questo discorso può valere (e questo è interessante perché Bambola Assassina è nato molto prima della diffusione dei videogame espressamente pensati per adulti) oggi anche per i videogame con in copertina "vietato ai minori di 18 anni", che vengono acquistati con leggerezza da genitori incuranti delle possibili conseguenze non educative del prodotto, unicamente perché il bambino lo richiede. Che poi oggi è purtroppo automatico che un gioco (o videogioco) stia per un certo tempo con il bambino in assenza della supervisione del genitore. Comprando un gioco, il genitore si compra del tempo libero dal figlio, facendoci pure una bella figura: "Te l'ho preso, ora ci giochi dopo i compiti e non rompere!!". Dopo l'acquisto il genitore nel 95% dei casi ha finito il suo rapporto diretto con il gioco che ha comprato per suo figlio. Il giocattolo, che sia videogame come un peluche (che può pure essere tossico per i materiali con cui è realizzato) è tragicamente una bambinaia a ore, e Chucky è davvero il volto cattivo dei giocatoli di Toy Story. Ed è significativo che questo remake e Toy Story in questo periodo siano a due sale di distanza nello stesso multisala, con Annabelle 3 che a breve si unirà alla comitiva. Questa estate al cinema i giocattoli saranno un argomento forte. Ma torniamo a Chucky. Lo spunto originale di questo mini-babau ha reso grande la prima pellicola, diretta da Tom "Ammazzavampiri" Holland (peraltro sceneggiatore di Psycho 2 e del quasi culto Classe 1984 di Lester), ha dato il giusto stimolo a Ronny Yu per reinterpretare, con una abbondante dose di ironia e citazionismo, Chucky come novelli Frankenstein in chiave pop (La sposa di Chucky) e ha permesso al bambolotto di sopravvivere nonostante due film invero bruttini. La bambola assassina 2 e 3, che ricordo con affetto in ragione comunque delle due rispettive ambientazioni (molto interessanti ma poco sfruttate) della clinica- manicomio per bambini e dell'accademia militare, sono davvero i 2 fast 2 furious del brand, con La sposa di Chucky che da buon Fast'n'furious: Tokyo Drift ha rilanciato il brand (pure qui un regista asiatico dietro al rilancio, i casi della vita!).


- Conclusioni: Il nuovo Chucky, che a quanto ho capito non sostituirà l'originale bambola maledetta (la vecchia versione dovrebbe godere di una serie TV sceneggiata da Don Mancini), ma aprirà un nuovo filone, aggiorna in tutto e per tutto il brand, sostituendo la plastica e stoffa della bambola originale con ingranaggi e chip dell'era degli smartphone e delle "mini-intelligenze artificiali" come Siri. È una bella svolta narrativa che sposta il messaggio di queste opere dalla necessità di "ascoltare i bambini", alla necessità di far comprendere e metabolizzare la violenza ai bambini. La violenza non va negata, ma affrontata, insieme agli adulti, oppure diviene una spirale in cui non è troppo difficile cadere senza sapere bene come uscire, desiderando vendette virtuali che possono tradursi in drammi reali. Il delizioso humor nero di questa nuova e un po' malinconica Bambola Assassina ci porta da queste parti. Una sorpresa inaspettata sotto l'ombrellone per divertirsi, spaventarsi e un po' riflettere. 
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domenica 23 giugno 2019

The banana split movie - i pupazzoni di quando ero piccolo diventano protagonisti di un Horror!



Ve li ricordate? Io me lo ricordo come fosse ieri, il momento in cui queste mefistofeliche creature di un supposto "show per bambini" entrarono nella mia spaventata immaginazione di "quattrenne/cinquenne" abbandonato incautamente davanti alla tv. C'era questa specie di videoclip/sigla, che una volta entrata in testa con suoni e immagini non ti usciva mai più...


Io ci ho sempre fatto gli incubi, forse per via di tutta quella strana ossessione/paura dei pupazzi che colpisce i bambini piccoli. Pure mia sorella mi ricordo che aveva paura ad andare sul trenino di Gardaland perché spaventata senza un chiaro motivo dalla "caverna del Drago Prezzemolo". Avete presente?


Negli anni '80 i pupazzi in effetti erano più inquietanti... ma torniamo ai Banana Split, perché pare che ad avere gli incubi non sono stato solo io, ma anche gente di Hollywood. Ecco perché oggi esce questo trailer


I più giovincelli probabilmente invocheranno una mezza paraculata. Un film su pupazzi che diventano "malvagi" che viene fatto perché, nel frattempo, non riesce ad uscire il film tratto dal videogame di Five Nights at Freddy's, soprattutto dopo che l'autore, con già il contratto di Blumhouse firmato, lo sta scrivendo e riscrivendo da mesi nella convinzione di fare IT. Certo, probabilmente si vuole cavalcare l'onda, ma quei pupazzi pelosi anni '70, diavolo, facevano davvero paura prima ancora che ti dicessero che potevano essere dei mostri psicopatici in un film o un videogame. E in Giappone c'è ormai tutto un filone di opere che sottolinea il connubio tra "pupazzoso e cattivo/inquietante", tra i vari Danganrompa, Gleipnir, Dolly Kill Kill ecc. ecc. Prezzemolo!! A questo punto voglio un film su Prezzemolo di Soavi, con effetti di Stivaletti e le musiche dei Goblin! Ma sicuro ci arriveremo a questo punto, il vostro pelouche presto farà più paura dei pagliacci del circo, probabilmente
A produrre è Syfy, che suona di fatto come Asylum e "tornadi squaleschi" e quindi "non sorprende" per la voglia di anticipare il trend proprio di Five Nights, di Blumhouse. Insomma, siamo davvero un po' dalle parti di Atlantic Rim, presentato in concomitanza di Pacific Rim. Questo non è di sicuro un buon punto di partenza in effetti, ma quei pupazzi del Banana Split Show trasudano ancora oggi carisma e inquietudine.
La regia è di Danishka Esterhazy (che ha diretto solo cose che non ho mai visto), il film sarà un "film Tv" e l'idea di Syfy è cavalcare magari un altro Sharknado mediatico. La sceneggiatura è in mano di tizi che hanno fatto uno Scooby Doo o roba così, il cast è probabilmente composto da dei vicini di casa di qualcuno. Insomma, devono sorprenderci forte a questo giro, dispiace manchi in cartellone un "nome di grido del passato disperso" come Ian Ziering (Sharknado) o Steve Guttenberg (Lavantula). Il carisma di questi pupazzi però non è male, e io sto già tremando...


Non credete ai pupazzi e state attenti se vi seguono di notte per strada con i loro go-kart maledetti. Sotto il pelo c'è probabilmente un Terminator. Speriamo che questo film sia una bella sorpresa come l'ultimo Chucky.
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mercoledì 19 giugno 2019

Godzilla: King of the monsters - la nostra recensione



- Micro-sinossi: Madison Russell (Milly Bobby Brown) è una ragazzina americana che metaforicamente potrebbe essere una sorta di Greta Thunberg. I suoi genitori metaforici sarebbero gli "adulti dei giorni nostri" che hanno forse deciso di affrontare, dopo mille tentennamenti, il tema del cambiamento climatico. Certo i cambiamenti climatici al cinema hanno avuto metaforicamente forma di glaciazioni improvvise (The Day after tomorrow), tornadi squaleschi (Sharknado), alluvioni da rapina (Pioggia Infernale), terremoti più forti di The Rock (San Andreas), vulcani decolorati (Dante's Peak). Ma quale metaforone del cambiamento climatico può essere cinematograficamente più forte e convincente dei mostroni giganteschi? Mostroni che vivevano nel sottosuolo terrestre e ora, dopo che abbiamo inquinato, deforestato, depauperato e trivellato la loro casa, sono venuti in superficie per distruggerci e ripristinare lo status quo. Con le loro manone, code acuminate e raggi laser, i mostroni sono pronti a farci diventare una "civiltà perduta" come Atlantide, Agartha, Mur e altra roba più o meno storica o fanta-storica. E c'è pure nel film una spiegazione razionale di stampo "immunologico" a questo fenomeno.  Gli "umani germi-inquinatori" hanno ammalato madre terra che ora scarica su di loro i suoi "mostri giganti-anticorpi". E cosa può fare l'uomo, in senso lato la famiglia di Madison? Seguendo l'idea del padre Mark (Kyle Chandler), forse è possibile convivere con i mostri emersi in superficie, controllarne i movimenti e forse comunicare con loro come si fa con le balene, per evitare che si dirigano dove gli umani sono più indifesi. L'uomo, conoscendo sempre più i mostri, diventerà umile e più rispettoso dell'ambiente. Era metaforicamente in prospettiva climatica l'idea di Al Gore di "inquinare meno e vivere responsabili". Seguendo invece l'idea della madre Emma (Vera Farmiga), bisogna che tutti i mostri siano lasciati liberi di compiere il loro lavoro di ultracorpi. Ridare loro in mano in mondo, nascondendo magari la razza umana all'interno dei  molti bunker segreti, già scavati dalla associazione Monarch in sessant'anni di attività, sotto la superficie terrestre. Quando e se gli umani riemergeranno, il mondo sarà un paradiso nuovo, mondato e privo dell'inquinamento che ora lo affligge. E questa metaforicamente è l'idea che apprezzerebbero alcuni noti supercattivi come Magneto, il Samuel Jackson cattivo di Kingsman, metà dei villain dei libri di Dan Brown. E Madison/Greta è lì, nel mezzo, tra una scelta sensata e una da fumetto, senza avere ancora chiare le ricette dei rispettivi genitori per affrontare i mostri/ambiente che loro stanno elaborando in modo confuso. E ognuno dei suoi "genitori/metafora" le chiede di schierarsi dalla sua parte. Cerchiamo di non inquinare e migliorare la nostra convivenza con la natura o non combattiamo più, consegniamo il mondo alla natura e sia quello che sia? Questa seconda azione, in un film con al centro dei mostri giganti, da situazione di inerzia (o da idea di attacco atomico /batteriologico ammazzatutti in chiave "fumettistica") può diventare, e diventa, un'azione provocata specifica, l'incipit narrativo. Il (non troppo) famoso Liberate il Kraken, oggetto di (poco vendute) t-shirt ai tempi di Scontro tra titani. Un Liberate i kraken, al plurale, per essere precisi. I mostri che da anni studia e ritrova l'organizzazione Monarch in giro per il mondo (come già ci hanno raccontato il precedente Godzilla e Kong Skull Island) sono tantissimi, ormai quasi una ventina. Sono tutti sorvegliati in basi/crateri sotterranei stile il geo front di Evangelion (questa citazione è ovviamente rivolta agli appassionati di cartoni animati giapponesi). Da una organizzazione comandata dal grande attore Charles Dance, di cui forse sì forse no fa parte la madre di Madison, i mostri vengono spinti a uscire dalle loro tane sorvegliate, a suon di esplosivi e smitragliate varie, a scopo "apocalisse Royale rumble". 


Solo che il piano non funziona come si vorrebbe, perché proprio il primo mostro che si sceglie di svegliare non è un "anticorpo della terra", ma un essere alieno, un parassita xenomorfo. Un incredibile colpo di scena che muta la metafora mostri/natura/grande corpo umano? No, solo una variazione del genere disaster movie, dove al posto di un vulcano la minaccia è costituita da un meteorite (come in Armageddon, Deep Impact ecc.). Si sveglia così Ghidorah. Una creatura/meteorite ben più forte dei "titani/anticorpo standard", imprevedibile, enorme, quasi immortale, di cui nei testi antichi si avevano vaghissime ma documentatissime conoscenze (si parla della mitologica Idra, ma anche del drago dell'apocalisse di San Giovanni), che ora, vuoi per la sfiga, vuoi per il karma non cercherà davvero di sanare un pianeta inquinato quanto di limitarne drasticamente i giorni. Una creatura/metafora/meteorite/drago dorato a tre teste che, anzi, forse ha già distrutto il mondo in passato e ora sta chiamando a raccolta tutti gli altri mostri/titani per combatterli (nello stress test di resistenza della terra come organismo) ed essere alla fine libero di distruggere tutto. Siamo spacciati? Probabile. Ma chissà che pure Godzilla, da anni scomparso, non torni a combattere per dimostrare a quell'alieno chi è il vero re dei mostri/ l'anticorpo del mese del pianeta Terra. Chissà che gli umani della G-force, alla guida del loro probabilmente inquinantissimo jet gigate grande come uno stadio da calcio, possano assistere Godzilla nella lotta contro il drago dorato e tutti gli altri mostri risvegliati.  
Così, per un gioco del destino tra macro e micro cosmo (argomento sempre forte al cinema) la famiglia di Madison si divide in due fazioni di super soldati G-force/Monarch (Capitanate da Ken Watanabe) e Anti-Monarch (Capitanate da Charles Dance) e inizia a viaggiare per il mondo, per lo più tra basi segrete e questi mega aerei giganti stile giocattoloni dei G.I.JOE. Nel frattempo lo spunto/metaforone è bello che finito e i mostri iniziano a menarsi distruggendo palazzi e soldatini a profusione per la restante durata del film, con Madison che sarà però ostinatamente e parossisticamente centrale nella vicenda, in un modo che è giustificabile solo metaforicamente. Chi si salverà? Da che parte si schiererà la giovane protagonista/ ambientalista? 


- Poco metaforicamente  parlando, il problema di gestire al cinema dei pupazzoni: se la traccia di massima può essere in qualche modo resa più accessibile da un approccio metaforico di questo tipo, la sceneggiatura di questa pellicola non gode certo di troppa raffinatezza e gli attori, tutti comunque molto bravi, devono veramente fare i salti mortali per dare credibilità drammaturgica a questa materia. Il regista, il bravo Michael Dougherty (andate a recuperare il suo Krampus, del 2015, una vera bomba se amate i film di Natale oscuri e pieni di mostriciattolo come Gremlins) riesce a conferire al tutto un ritmo indiavolato. È di sicuro un esperto di "coolness" nel gestire i mostri, aerei, carrarmatini e creature digitali in genere. Spesso si arriva a situazioni piuttosto epiche, di quell'epico-militare che fa tanto la cifra stilistica dei film di Michael Bay e che in parte anche Edwards nel primo film di Godzilla ricercava. C'è purtroppo un grosso e ulteriore problema concettuale di cui è Dougherty a farsi carico: i mostri. La fedeltà totale dei mostri oggi al cinema agli originali pupazzoni dei film giapponesi storici è di sicuro una scelta netta e per molti versi davvero encomiabile per rispetto assoluto della fonte. Ma si può oggi portare in sala, sprecando male la computer grafica, dei mostri che palesemente ricalcano dei costumi di cartapesta pensati per roba tipo i cattivi di Megaloman oltre 40 e passa anni fa? Di sicuro serve una precisa strategia per non "cadere nel goffo", per lo più involontario. Gareth Edwards, regista della precedente pellicola su Godzilla, del 2014, aveva centrato appieno la natura dei mostri come "titani", visualizzandolo come vere e proprie emanazioni del pianeta terra. Vedevi i mostri pochissimo, ma appena si muovevano partivano maremoti, terremoti, fulmini. L'effetto del loro passaggio era "la natura" e la figura de mostro in sé era tenuta coperta, nascosta nell'ombra, per lo più "staticamente fissa e minacciosa". Una chiave visiva di pensare ai mostri che Edwards aveva già fatto sua nella sua pellicola precedente, del 2010,  Monsters. Anche Edwards aveva scelto, o gli avevano imposto la fedeltà totale al mostro classico creato dalla giapponese Toho. Certo in quei pochi secondi di pellicola in cui il mostro lo dovevi vedere per davvero, Edwards sperava di coprirlo con il buio, la pioggia, inquadrature controcampo e artifizi vari. L'alternativa era rivelare la sua origine "pupazzoide". Un pupazzone che male nasconde il tizio in calzamaglia coperto da un brutto costume di cartone. Apro parentesi: il Godzilla classico è iconico, straordinario come concetto e pioneristico per tutti i mostri cinematografici che sarebbero a lui seguiti. Ma spogliato dell'aura mitica è un coso con dei piedoni ridicolissimi stile elefante, una testolina piccola, una panza immensa e delle braccine buffe. Negli anni hanno fatto dei veri e propri miracoli tra inquadrature, luci, effetti sonori e musica per renderlo un minimo credibile. Hanno puntato sui suoi "pezzi forti" come la coda, le scaglie e il raggio fotonico, per distrarci da tutto il resto. Anche Edwards ha fatto di tutto per tenere il lucertolone nascosto o fermo e inquadrato dal basso. Fuggendo giustamente (anche se un po' vigliaccamente) dalla prospettiva di rappresentare a pieno schermo e piena luce uno scontro tra mostri giganti di cartapesta (invero un po' bruttini) sulla scenografia di un modellino di una città fatta di cartapesta, con i canoni del telefilm medio dei Power Rangers. Questo perché Godzilla è invecchiato male per l'era della alta definizione e dell'effetto speciale "credibile". Jurassic Park ha alzato di tantissimo l'asticella in tema di costruzione cinematografica di dinosauri et similia, al punto che anche Anno, che è un genio ma di solito anche un integralista, nel più recente Godzilla cinematografico Giapponese, ha dovuto cedere al conservatorismo e ha stravolto quasi del tutto la fisionomia e fisica del celebre lucertolone (in un modo che dire esaltante quanto artigianale è poco). Il primo Godzilla americano, quello del film del 1998, disegnato da Patrick Tatopoulos su spunto di Emmerich, sulla scia di Jurassic Park era  più simile a un incrocio tra un alien e un velociraptor che a un tizio in calzamaglia. Aveva, tanto per dire, le zampe di un rettile e non una specie di moonboots stile elefante. Ma non era piaciuto ai giapponesi, fondamentalmente perché era "troppo mobile". I maligni ritengono che un Godzilla come quello del film del 1998, da subito ribattezzato dai guappi con disprezzo "Gino" (Godzilla in name only, l'acronimo di Gino), non sarebbe mai stato possibile replicarlo con il budget nipponico che in genere dedicano ai film di Godzilla prodotti dalla Toho. Era meglio disprezzarlo. Gli americani al nuovo giro del 2014, secondo i complottisti, sarebbero stati così obbligati contrattualmente a riprodurre fedelmente i mostri nella loro forma più pura di costumi di cartapesta degli anni '60. Il risultato per Edwards era di totale sottrazione dell'immagine ed è per Dougherty di inevitabile azione impacciata. Se Edwards se la cavava con un paio di scontri al buio, Dougherty doveva rappresentare battaglie con più mostri coinvolti in un mondo che sembrasse per lo più "credibile" e "fluido". Il problema è che un bambino di 6 anni, che gioca sul tappeto con i pupazzetti di plastica di questi mostri replicandone con la bocca i versi, può mettere in scena facilmente delle azioni di lotta più adrenaliniche. Almeno, questo è il mio giudizio personale sulla gestione delle animazioni di lotta dei mostri in questi film. Godzilla con le sue "manine" che cercano di "placcare" il drago a tre teste è ridicolissimo, perché è un'azione, pur famosa (e magari amata) nella storia del "Godzilla tradizionale", del tutto goffa e insensata per la struttura corporale "credibile" di una creatura fatta al computer nel 2019. Mette tanta tenerezza. Quello che un costume di pezza poteva far perdonare, la computer grafica svela come un televisore in alta definizione fa sfigurare gli effetti visivi dei film anni '80 come Ghostbusters (che all'epoca su pellicola non digitale sembravano pure belli!!!). Non è un caso che nel Godzilla di Anno le braccine del lucertolone siano solo "vestigiali", come protuberanze inerti simili alle piccole braccia di un tirannosauro che "per stringerti" usava direttamente la grossa bocca carica di denti. I giapponesi stessi hanno superato i limiti strutturali dei loro mostri classici, ma (sempre per i complottisti) hanno imposto agli occidentali i loro modelli storici. I mostri e relativi combattimenti di Skull Island, pellicola legata al franchise di Godzilla anche in virtù de film dell'anno prossimo, Godzilla vs Kong, sono tutta un'altra cosa, anche perché Kong, nato non come un "costume" ma come "creatura di plastilina", era già all'origine una creatura con molta più mobilità e coerenza fisica. I movimenti di Kong sono più dinamici, sono appaganti da scorgere nei dettagli. Possono essere alla luce del sole e come coreografie di lotta non si limitano al lancio di raggi colorati (e a fare tutte le altre azioni in modo goffo). Quando "stanno fermi", magari in minacciose pose plastiche, i mostri di Godzilla King of the Monsters invece funzionano alla grande, come li inquadrava Edwards, sono davvero evocativi. Ma questo era ovviamente più facile da fare e Dougherty non poteva farlo sempre. Quindi sta un po' a voi, valutare come questa volontà di essere aderenti alle raffigurazioni classiche possa piacere o meno. Io onestamente non riesco a essere troppo critico, ma nemmeno troppo indulgente, su questa scelta. Avrei preferito vedere mosti più mobili e meno "ingessati", un po' alla maniera di Pacific Rim. Ma mai come in questo caso sono convinto che siamo ampiamente nel territorio dei "gusti personali". 


- Tanta voglia di soldatini: Moooolto fico, invece, tutto ciò che concerne Monarch e G-Force. Nel film di Edwards sapevamo che Monarch era una organizzazione potente, con le mani in pasta e grossi fondi, ma di cui abbiamo visto pochissimo. In Skull Island, Monarch era ancora solo una azienda governativa alla sue origini, aveva zero soldati operativi ma era già dotata di basi segrete e un ricco staff di scienziati. In King of the Monsters vediamo davvero e per la prima volta la Monarch in tutto il suo potenziale espresso. Ed è davvero immensa, piena di basi segrete in tutto il mondo, truppe e scienziati, alleanze internazionali, aerei, sommergibili, super-armi. L'aereo-fortezza della G-force, la parte combattente di Monarch, avessi 9 anni, lo chiederei a Babbo Natale. È un colosso del cielo tipo il mega aereo finale di Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki. Pieno di torrette, ponti di lancio di aerei più piccoli, un ricco equipaggio. È grande quanto Rodan e forse potrebbe tenergli testa per un po'. Sarebbe un sogno bagnato da nerd troppo vecchio, ma nel prossimo Godzilla vs Kong mi piacerebbe vedere una delle più iconiche e colossali unità della G-force, il Mecha-Godzilla. Certo fa strano che di colpo si parli della Monarch come di un esercito parallelo, ma a livello visivo tutti questi omini in uniforme e veicoli speciali funzionano. Anche se stridono un po' alcune scelte "militari" rivolte alla presentazione" della piccola Madison. Sono sequenza che abbassano un po' il livello di credibilità generale del film. Ma forse parlare di credibilità, di questo ambito, comprendo possa apparire azzardato. 
- Il grande attore si vede anche nei luoghi più inaspettati: Ken Watanabe, Vera Farmiga, Charles Dance. Wow. Questo trio da solo si sobbarca un peso titanico, davvero titanico, sull'economia generale del film. Le loro parti sono assolutamente ingrate, scritte male, troppo abbozzate. Loro ci mettono "l'anima" e danno un cuore a dei personaggini da due soldi. È un vero atto d'amore alla professione di attore, la loro interpretazione. Un cesello di sguardi e pose, quasi Shakespeariane, che va disperatamene a completare e nobilitare quanto sulla carta non c'è scritto. Lo spirito di sacrificio, l'orgoglio, il tormento per il senso di colpa, impotenza di essere un buon genitore. Tutte emozioni che, più che dalle parole, trasudano e risuonano dai corpi di questi straordinari attori. Emozioni gentilmente sottolineate da una colonna sonora che non si dimentica tra tanta potenza visiva e sonora "necessaria" di citare Debussy. 


- La farfalla: Mothra, che suona come "Mother", come "madre natura", è fin dal primo trailer la creatura più bella e sognante dell'intera pellicola. Sembra in lei raggiunta la leggerezza spettacolare e il senso di stupore metafisico di creature come gli alieni di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Pura poesia che traghetta l'opera verso la sua anima più favolistica e bonariamente ingenua. Dougherty quando "tratta" Mothra diventa davvero Spielberg. Cita nelle sue scene non sono Incontri ravvicinati ma anche i templi e l'estasi mistica de I predatori dell'arca perduta, la dolcezza di E.T., perfino nell'uso delle inquadrature, alcune suggestioni sulla poesia del volo riprese da L'impero del sole. Mothra è un film a sé e fa sfigurare il più "sanguigno" e prevedibile Rodan, rende meno interessante il luciferino Ghidorah, addirittura annienta con il suo carisma un Godzilla che davvero "non ce la fa".
- Si, per me Godzilla "non ce la fa": spoglialo dei fulmini, maremoti e tempeste notturne e vedrai un lucertolone cicciottone con lo sguardo da gattino e una scarsa convinzione nei movimenti. Una creatura incatenata alla sua forma visiva più classica, che inevitabilmente la schiaccia. Pure in versione "potenziata", la sua natura buffa non scompare, anche se tutto il cast continua a urlare frasi che sottolineano quanto il mostro stia compiendo azioni clamorose ed eroiche, quanta potenza di fuoco stia sprigionando. Il Godzilla di Anno mutava pelle, esplodeva di ossa e sangue, vomitava fuoco alterando la forma del suo collo e del suo volto, lanciava raggi da una coda enorme simile alla punta di uno scorpione, si appoggiava ai palazzi e li schiacciava con il suo peso, aveva una pelle che evidenziava venature di lava su tutto il corpo. Soprattutto, il Godzilla di Anno metteva una paura fottuta. Questo, opinione mia personale se volete, è una specie di gattone-ciccione, un coccodrillo trippone con i piedoni e le manine che fa una fatica del diavolo a mettere insieme un paio di passi dritti. Mentre è in acqua ce lo spacciano per la creatura veloce che non può essere e che infatti per il resto del film non è. È buffo, e lo dico con tutta la mestizia che ho un cuore. Io lo trovo inesorabilmente e irrimediabilmente buffo. E rimpiango il Godzilla "Shin" di Anno, ma anche il povero e incompreso "Gino" di Emmerich, i Kaiju di Pacific Rim e il T-Rex a spasso per la città di Jurassic Park 2. Spero di ricredermi a una seconda visione, ma davvero mi ha convinto di meno di questa pellicola, gradevole pur con molti difetti, proprio il protagonista. 
- Tirando le somme: Il nuovo film di Godzilla sfrutta in modo un po' confuso un'idea di fondo interessante ad uno di un intrattenimento alla fine gradevole. Si fa lustro di un cast di attori di tutto rispetto e di un'azione sempre costante e che sicuramente piacerà a molti. La decisione di mettere sul campo a menarsi quanti più pupazzetti colorati possibili paga, anche se gli scontri sono alla fine meno belli di quanto si auspicava, magari proprio per la fisica dei mostri coinvolti. Il film diverte, corre veloce, non è scritto per niente bene ma piacerà di sicuro agli amanti dei kaiju movie, che già pregusteranno la prossima portata. Forse un ammodernamento di alcuni mostri mi sarebbe piaciuto e avrebbe evitato la classica sfilata di tizi in calzamaglia coperti da costumi colorati di mostri di cartapesta, pur mitigata dalla realizzazione in computer grafica. Aspetto una seconda visione, magari in home-video, per tornare a parlarvi di questo film. Forse mi è mancata la giusta prospettiva per leggerlo. A tutti quelli che vivono senza paranoie come me, un'occasione d'oro per andare al cinema. I mostri giganti vanno gustati su schermo gigante. 
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sabato 15 giugno 2019

Il grande salto - la nostra recensione del nuovo film di Giorgio Tirabassi





La fortuna è cieca, ma la sfiga vede benissimo e chirurgicamente attacca, colpisce e distrugge ogni speranza di due amici romani (Ricky Memphis e Giorgio Tirabassi) con il sogno di fare il "grande salto di qualità", la svolta della vita. Certo il loro campo lavorativo, gli esperti della rapina, ultimamente non offre le soddisfazioni di un tempo. Se punti una banca o un ufficio postale, oggi può essere che qualcuno li svaligi prima di te o che quella sede sia in ristrutturazione o che la banca sia proprio fallita e non ci sia contante. E questa è la norma, forse. Solo che sui nostri eroi c'è nell'aria una sorta di accanimento crudele da parte del fato, qualcosa dalle parti del Pessimismo Cosmico leopardiano o del Titanismo Tragico fantozziano. E anche se i nostri sono dei determinatissimi e irriducibili Expendables del crimine, quando certe forze cosmiche sono in azione c'è poco da fare se non imparare a incassare, incassare e basta. A meno di decidere davvero di cambiare vita, leggendo tutta la negatività lavorativa che li circonda come un messaggio preciso del Karma. In quanto, in fondo, il crimine non è poi un mestiere da brave persone. Cosa faranno i nostri eroi?


C'è una colpa precisa alla base dei dolori umani. Se per Fantozzi era l'essere rinchiusi in un lavoro mediocre che si insiste a perseguire, per i criminali di Memphis e Tirabassi la colpa è la stessa. Non ci sono ribellioni o moti di orgoglio che tengano, non ci sono afflati eroici o tragici che commuovano. La sconfitta di questi eroi è ineluttabile, tanto quanto le risate, amarissime, degli spettatori. Perché quasi tutti siamo un po' come loro, ostinati nello sbagliare strada o compagnie. La risata diviene qui una forma di esorcismo dove in realtà, noi spettatori, ridiamo di noi stessi e della società che ci ingabbia. Cosa non facile da fare al cinema. Cosa che appunto riusciva a Paolo Villaggio, a Risi e i suoi "Mostri", a Stanlio e Olio, Mel Brooks, ai Monty Python e a tutti quanti hanno storicamente legato la risata al dolore umano. E Tirabassi, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, ce la fa. Ce la fa, al fianco del sodale amico Memphis con cui dimostra di avere una chimica strepitosa e con cui veicola il più bel messaggio del film: il potere della "amicizia titanica" nell'affrontare, pur senza mai vincere, il dolore umano. Ce la fa grazie a una schiera di attori romani noti in brevi e folgoranti scenette per lo più satiriche e avvolte da uno humour spesso nero sulfureo (il richiamo ai "Mostri" si sente). Ce la fa con uno stile di regia senza tempo, elegante quanto vintage, che ricorda il primo Verdone quanto i film più cattivi di Sordi, Gassman, Tognazzi e, ovviamente, Villaggio. Ce la fa con la giusta colonna sonora, ce la fa con una folgorante sceneggiatura con al centro una scena, che separa il primo e il secondo atto, di una potenza devastante quanto il "piede di Dio" del Monty Python che compare dal cielo, abbattendosi sulla terra, schiacciando noi misere formiche umane. Altro che Thanos. 
Il grande salto è un film crudele quanto malinconico, profondamente tragico quanto satirico. Per questa somma di elementi, uno dei migliori film comici del periodo, quello che più di "meritiamo" per leggere il tragico periodo storico che stiamo vivendo ed "esorcizzarci insieme".  Con l'unica pecca di spegnersi un po' negli ultimi minuti, a dispetto di un ritmo generale sostenuto e molto  ben gestito, il Tirabassi regista è una bellissima sorpresa che rischia di passare sotto traccia in una stagione cinematografica scandita da un numero sostenuto di grosse produzioni. Andate a scovarlo e preparate a ridere amaramente di gusto. 
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giovedì 13 giugno 2019

Polaroid - la nostra recensione!



È interessante come di nuovo sia un corto cinematografico a dare il là a un film che ne estenda la trama e personaggi. Di recente lo abbiamo visto con Mama, lo abbiamo visto con Lights Out, lo abbiamo visto con Turbo Kid e ce ne sono un sacco! Io tipo punto che prima o poi mi diventi un film lungo questo corto qui sotto


Vai Jester che ce la fai!! Già ti vedo i pupazzetti e le comparsate in Mortal Kombat, ma torniamo in tema, torniamo a Polaroid. Nel nostro caso il corto era questo:


Non è che sia tutto questo manifesto dell'innovazione. Tra i miei lettori chi da detto "il foto-cane" di Quattro dopo mezzanotte di King, o Project Zero o Shutter? O Ring? O altre sessanta pellicole, game e libri diversi con macchine fotografiche possedute? Ma il punto non è questo, quanto la natura più sorprendente e sexy dei corti cinematografici horror. Sai che in tre minuti o poco più ti vogliono spaventare, tu stai al gioco ma un po' stai "vigile", alla fine salti sulla sedia e se funziona bene hai il tuo brividino. E Polaroid, di un regista dal lontano nord Europa, Lars Klevberg, funziona. Ha i tempi giusti, spaventa. Spaventa così bene che Klevberg ne ha diretto una versione lunga e tipo "dopodomani" lo troverete ancora al cinema perché ha già avuto luce verde per un progetto più ambizioso, il remake di Bambola Assassina. Un'altra bella storia?
Insomma.
Partiamo dalla trama "espansa". Una ragazzina, con un brutto trascorso passato alle spalle, vive serena nel suo contesto scolastico nel freddo paesino nord Americano in cui abita. È appassionata di fotografia e si imbatte in un modello storico di Polaroid mentre lavora all'antiquario locale. La macchina è ovviamente maledetta e chi viene fotografato è destinato a morire male. Prima appare sulla stampa alle sue spalle un'ombra minacciosa, poi nelle ore successive 'sto sfigato incontra un brutto mostro in bermuda, fisico bruciacchiato e mani con coltello retrattile. Ovviamente finirà male. La nostra protagonista porta a una festa questa macchina vintage, con cui tutti si fanno dei selfie vintage, per poi finire tutti in una spirale di morte per le mani-coltello di un mostro vintage pure lui. Perché è un mostro molto anni ottanta, calato perfettamente in uno slasher movie pure lui fortemente anni '80. È tutto un vintage quindi. Un plauso al momento della "creazione del mostro", una roba che Andy Kauffman della Troma avrebbe applaudito, tra fulmini, fuochi, pallottole e tanto lattice prostetico. Forse pure a Tsukamoto con le sue fusioni/ossessioni uomo-macchina potrebbe apprezzare questa variante in mutandoni e meno verve di Krueger/Sadako. 'Sto mostro risponde a sue regole ultraterrene poco chiare, ha naturalmente un passato "umano" che il gruppo dei protagonisti-vittime deve indagare, ha il compito di mettere un po' di verve a una pellicola che è davvero troppo, troppo derivativa. Le giovani vittime sono il classico cast da teen- horror e rispondono al 100% alla ritualità che questo genere comporta, in un modo che direi piuttosto "onesto". Gli scenari sono quelli rituali, tra la scuola, la stazione di polizia e la biblioteca di ogni paesino standard degli slasher anni '80. Allo stesso modo i colpi di scena arrivano con una certa prevedibilità, ma non è nemmeno questo il punto, questo genere non ha mai brillato per inventiva. Ciò che non va è lo "Slash", ed è piuttosto grave. Lo Slash è "l'omicidio" e in qualche modo diventa la firma del mostro. La vittima viene fotografata, la Polaroid fa il suo particolare rumore di ingranaggi prima di lasciare la stampa, che subito viene sventolata, con il suo rumore di plastica caratteristico, per asciugare l'immagine. Chi conosce le Polaroid può pure immaginare / ricordare l'odore della foto. E poi appare il mostro la prima volta, alle spalle di chi è fotografato. È un rituale semplice e veloce, inesorabile, quanto un corto cinematografico horror. Solo che il mostro, che in qualche modo è il "proiettile" di questa "inconsapevole pistola" non è altrettanto bravo. Si sente il suo respiro, in genere mentre la vittima si aggira per scenari bui, e poi l'azione finisce in un attimo senza che si abbia il tempo di capire dinamica e senso. Forse perché un ibrido Kruger/Sadako non lo puoi concettualmente fare. È questo il grosso limite della pellicola, che spegne gli entusiasmi per un prodotto tutto sommato discreto, adeguatamente presentato e diretto, benché chiaramente diretto a una platea amante del genere. Il mostro, che pure può essere buffo quanto interessante visivamente, ha poca personalità. Non ha l'incredibile presenza scenica e l'occhio vitreo e giudicante di Sadako, non ha la verve dialettica quanto la teatralità di Kruger. Si presenta in azione per lo più in ragione delle sue mani allungate e bruciate che si avvolgono al collo della vittima e poco altro. Sembra una "cosa", un essere troppo veicolato dalle regole che ne spiegano le azioni al punto che le "morti e il modo di evitarle" sembrano più seguire logiche da Final Destination. È un orco deludente e monocromatico. Non ha nemmeno un'imponenza tale da permettergli di essere un convincente bruto come Jason, Micheal o Faccia di Cuoio. Un vero peccato che poi la trama non cerchi in nessun caso di bypassare questo suo status, magari dandogli qualche battuta o un background più interessante. E quindi tutto lo spettacolo si riduce al solito "banchetto di adolescenti" dello slasher anni ottanta, alimentato come tratto sociologico dalla nuova ondata edonista del popolo dei selfie (e l'edonismo anni '80 è stato di fatto un importante precedente). Troppo poco. Può essere comunque divertente per un'ora e mezza e tanti pop corn. La cornice è quella giusta, per farcelo piacere dovrete magari attingere dalla vostra memoria storica di qualche notte Horror su Italia 1. 


Temibile mostro in bermuda, più bello però dell'Uomo senza sonno di Bale.

Scena standard di agguato del mostro. Buio. Due mani da mostro di gomma. Urla. FIne. Total: 2,37 secondi di agguato in media

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martedì 11 giugno 2019

A mano disarmata: la nostra recensione del film ispirato alla storia di coraggio e impegno sociale di Federica Angeli.



Federica Angeli è una giornalista che ha avuto il coraggio e la pazzia di denunciare la criminalità che stava sempre più prendendo possesso delle vie di Ostia, proprio nel quartiere in cui era nata e cresciuta. Come capita a tutti gli eroi, ha pagato un carissimo prezzo per questo gesto, tanto a livello professionale che umano. Ha sofferto le malelingue di chi l'ha accusata di aver peggiorato la situazione, ha patito la "reclusione forzata" di essere sotto scorta per 1700 giorni. Qualcuno l'ha sostenuta e la giustizia forse ha iniziato a fare il suo corso, ma non se l'è passata bene. Questo film di Claudio Bonivento ha l'indubbio merito sociale di parlarci di Francesca Angeli, ed è caldamente consigliato per un approfondimento anche il bellissimo libro da cui la vicenda è tratta, edito da Baldini e Castoldi e scritto dalla stessa Federica Angeli.
Certo c'è una componente narrativa che "rivisita e sintetizza i fatti", che si impegna a "coprire i nomi", in quanto le inchieste sono ancora in atto. Gli eventi, il coraggio e il dramma umano vogliono comunque essere genuini e la prova della Gerini non è affatto male. La confezione finale del "prodotto film" di questo A mano disarmata però è decisamente curiosa, e non tanto per una chiara indicazione d'uso di stampo televisivo. 
Così mi trovo un po' nell'imbarazzo di quando ero  nell'estate del 1994 al cinema estivo a guardare Il giudice ragazzino di Placido, per cercare di lumare una mia compagna di classe (spoiler: non ci sono mai riuscito). Quella sera ero riuscito a sedermi di fianco a lei con alle spalle (giuro!!!!) sua madre (ri-spoiler: certo, con premesse di questo tipo... nella seconda uscita cinematografica la situazione è pure peggiorata, in sala tra me e lei c'era tutto il gruppo scout di cui faceva parte... non prendete appuntamenti al cinema, mai). Ora, Il Giudice Ragazzino è un film ugualmente importante per il fatto di raccontare la coraggiosa e sfortunata vita del giudice Livatino e la visione di queste pellicole ha un po' la funzione di un rito, una celebrazione di etica che è anche mistica se vogliamo. È proprio il far rivivere gli eventi davanti al fuoco con la tua collettività, ti verrebbe voglia di partecipare a una fiaccolata dopo la visione, prendere una chitarra e cantare La Libertà di Gaber. Insomma, il cinema può essere "anche questo" ed è importate anche "per questo". Solo che questa ritualità, che ci mette se vogliamo direttamente in contatto con la Storia, con la "S maiuscola", si scontra per forma  anche sul modo in cui la storia con la "s minuscola" è rappresentata. O almeno questo vale per me. Così nell'estate del 1994, a fine visione de Il giudice ragazzino di Placido, ancora al buio prima dei titoli di coda, con tutta la sala che subito dopo tra qualche lacrima partiva con un applauso spontaneo a celebrazione della vita del giudice Livatino, io con la mia voce da ragazzino parlo. È un commento breve e lapidario: "Certo, che questo film è una vera cagata". È stato come se fossi entrato in chiesa durante il presepe vivente lamentandomi che il bambino che faceva Gesù stava giocando con il pallone da calcio. Il film di Placido, che ho rivisto di recente in parte rivalutandolo almeno per la "sobrietà", era un compitino svogliato e frettoloso (come quasi tutta la cinematografia di Placido, per me), di cui però se parlavi male ti prendevi da tutti, e a ragione, dello stronzo. Perché il rito collettivo non prevede un giudizio sulla rappresentazione della Storia, la Storia rivive da sola a prescindere se il bambino che fa Gesù nel presepe vivente ha otto anni e con il pallone ha appena colpito le palle del corista pastorello che ha imprecato. Capite quindi qual e' il mio cruccio?


Certo Federica Angeli è per me molto più bella della Gerini. È un po' l'effetto Erin Brockovich, dove Julia Roberts non poteva minimamente competere con la persona reale che interpretava a cinema.


La Gerini ci mette impegno, ma a interpretare i "criminali cattivi" ci mettono questi tizi.


Un Rodolfo Laganà che dire luciferino è poco. Ma soprattutto lui, Mirko Frezza


Io da oggi sono fan a vita di Mirko Frezza. Ha lo sguardo da matto e il fisico enorme di un Gerald Butler, con tutta la "possenza" di un Kane Hodder. Il buon Frezza gira la sua parte a questo livello di convinzione...


E stiamo davvero a un passo da Non aprite quella porta. Urla, occhi di fuoco, violenze sui minori con tutta la convinzione dell'uomo nero. Gli manca la motosega ma il gliela darei sulla fiducia. Perché Dario Argento non sta lavorando con Frezza a un nuovo film slasher?? 
Poi però ti rendi conto che i "cattivi" sono solo quei tre, che si limitano a guardarti male e scappare in due sullo stesso (piccolo) Booster mentre inveiscono contro la protagonista frasi uscite da Squadra anitifurto. Fanno un po' tristezza. Ma si poteva scegliere un registro un minimo più sottile? Certo, non si può pretendere sempre un approfondimento sul fascino del male stile Scorsese, magari. Ma ve lo vedete Frezza che gira per Ostia conciato e motivato come un Urukai con tutti che se la fanno sotto e lui che guarda storto tutti? Ma può essere credibile questo approccio per rappresentare il modo sotterraneo e crepuscolare in cui in genere si radica il crimine negli ambienti sociali più apparentemente tranquilli? 
E poi c'è Pannofino a interpretare il caporedattore del giornale per cui lavora la protagonista.


Che io amo Pannofino, ma dopo Boris non ce la faccio davvero a vedermelo in un ruolo serio. Anche il suo Nero Wolfe è buffo, perché lui hai il "corpaccione" e ogni tanto le faccette buffe te le tira fuori spontanee, come sudore. Così, dopo aver visto i "cattivi" di Non aprite quella porta aggirarsi con il Booster per le vie di Ostia, Pannofino è un'altra (pur amabilissima!!)  macchietta che rende ancora più strana la pellicola. E non aiuta certo all'intreccio il presepio dei coprotagonisti.


C'è il ristoratore, l'edicolante, la signora delle pasterelle, l'addetto alle deposizioni dei carabinieri. La protagonista "visita" questo piccolo presepe, con gli omini montati all'interno dello specifico scenario,  periodicamente.  Ma non interagisce mai davvero con loro al punto che quando per un puro caso uno di loro compare al di fuori dal suo "diorama" ci si sorprende e quasi ci si tranquillizza che scompaia di nuovo dopo aver detto una singola battuta.
Ma la vera sciagura è Francesco Venditti, nel ruolo del marito della protagonista.


C'è una rocambolesca e disordinatamente dolce scena di sesso nei primi minuti del film. Poi si spegne, per sempre. Per il resto del film, ogni volta che la moglie gli rivolge la parola, lui la tratta come se si fosse fatta un amante e stia tradendo il suo nido domestico. La giornalista può parlare delle minacce che subisce come giornalista, può parlare delle nuove grate alle porte o può spiegare ai bambini il perché ora è sotto scorta (lo fa in un modo molto tenero di "occultare la realtà" che mi ha ricordato La vita è bella). Il marito fa la faccia dell'uomo cornuto, sempre, e minaccia di tornare da sua madre. Anche qui è l'assenza di sfumature a lasciare confusi. Si poteva fare di più, forse, per gestire la dinamica della coppia, come per rappresentare i criminali, come per rappresentare il "presepe popolare". Avrei voluto vedere di più Ostia, magari con tutta la calma e poesia di "altre Roma". Come quella in viaggio sulla vespa di Moretti (Caro Diario) o con il passo veloce e mattutino di Giulio Base (Cartoline di Roma), senza per forza scomodare Fellini. La storia della Angeli parla anche di un "mare rubato" e io su quel mare (presente in un'unica bella sequenza, sottolineata bene dalla colonna sonora di Mirkoeilcane, ma come avrebbe potuto indugiare ed esplorare quel "mare a sbarre" un regista come Edoardo De Angelis?) e su quelle sbarre che lo contengono ci avrei indugiato di più, come sulle sbarre della sempre più fortificata casa della giornalista, che le impediscono di vedere "sua figlia che gioca in giardino". La storia che all'epoca la scorta non era stata concessa al marito e ai figli poteva essere esplorata di più, poteva essere un film a sé migliore del marito che si sente "tradito dal lavoro della moglie". Certo i cattivi fanno paura, almeno prima di vederli impennare su quel motorino che fa fatica a tenerli in sella. C'è una scena molto bella e molto potente, nel contesto di una aggressione notturna, che richiama magnificamente lo "stordimento dell'omertà" rappresentato anche in film come La casa dalle finestre che ridono.  
Questo film di Bonivento sceglie troppo spesso le inquadrature strette degli sceneggiati Rai. Sente troppo forte il bisogno di spiegare le situazioni senza dare il giusto peso all'assordante silenzio che emana questa materia. Si dà troppa briga nel dissipare dubbi e sfumature, nel dividere nettamente buoni da cattivi. Forse funziona meglio per il pubblico televisivo classico, magari un po' "vintage", della nostra vecchia TV italiana. A me ha fatto di sicuro uno strano effetto. E secondo molto di quanto ho già letto in giro per la rete, mi sento di nuovo al cinema estivo nel 1994. 
La Storia di Federica Angeli è però straordinaria ed è  importante che sia ricordata. Dopo la visione magari buttatevi sul libro omonimo pubblicato della Baldini-Castoldi. Ne vale la pena. Per salutarvi da questa recensione mi è poi venuto in mente questo pezzo di Silvestri, per me qui cade  davvero a pennello.


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