sabato 26 febbraio 2022

Gli occhi di Tammy Feye: la nostra recensione del film biografico di Michael Showalter con protagonisti Jessica Chastain e Andrew Garfield

 

America, 1994. Tammy Feye (Jessica Chastain), uno dei volti più celebri della tv nazionale “per un pubblico di religiosi” e co-fondatrice di una mega-associazione attiva sul volontariato e “finita male”, si trova nel suo camerino. Sotto il parruccone da scena ha gli occhi luminosi ma tristi, incastonati in un trucco “leggero”, vagamente metallico, a metà strada tra Gene Simmons e Megaloman. È una donna matura e sfiorita, ha avuto un sacco di problemi, è scoppiato l’ “Evangel-gate” che le ha rovinato l’esistenza e questa forse è l’ultima volta che si esibirà in pubblico e piange, con quel trucco che si squaglia drenando lacrime d’acciaio. Facciamo un passo indietro, al 1952, quando Tammy Feye era ancora bambina, davanti alla chiesa in legno di suo padre, un pastore evangelico del Minnesota. Non poteva entrare, anche se era in atto una celebrazione piena di canti e persone felci, perché lei era la “figlia del peccato”: la figlia del pastore concepita prima della conversione di quest’ultimo a Dio. Sua madre Rachel (Cherry Jones) invece era sempre nella chiesa in legno insieme agli altri, anche se “strega e maledetta”, perché era l’unica che sapeva suonare l’organo e il Signore ha sempre bisogno di un accompagnamento musicale. Musiche e canti che la piccola Tammy conosceva e un giorno le diedero la forza di “sentire lo spirito” e varcare l’ingresso della chiesa durante un gospel, cantando e incantando con la sua voce tutto il pubblico. Da allora il pubblico accorreva in numero maggiore alle funzioni e anche lei poteva entrare in chiesa come la madre, per portare la parola del Signore. 


Tammy diventa grande e nel 1960, mentre studia come diventare una predicatrice, incontra Jimmy (Andrew Garfield), che sarà l’uomo della sua vita. Jimmy prima della chiamata della fede era un disc jockey e non è che avesse un grosso background sulle sacre scritture. Tra punti di vista controversi come “Dio ci vuole felici, ma soprattutto ricchi economicamente per esserlo” e una blasfema/terrificante affermazione come “Dio sta nei dettagli”, Jimmy si dimostra l’uomo di chiesa più confuso di sempre. Ma ha il ciuffo, l’aria da ragazzino e gli occhi perennemente entusiasti. Si accende qualcosa nella piccola Tammy che decide di getto di sposarlo e accasarselo prima di finire il corso di predicazione. I due iniziano a viaggiare  insieme in giro per l’America in macchina, cantando e predicando, fino a quando Tammy ha un’intuizione e crea un pupazzo animato stile Topo Gigio, Susy Muppet, per portare il pubblico dei più piccoli alle funzioni. Durante i sermoni “sui generis” di Jimmy, la piccola Susy Mappet, guidata da Tammy, compare alle sue spalle in piccoli e graziosi sketch.  È una svolta, perché il pubblico arriva per davvero in gran numero e in pochissimo tempo Tammy e Jimmy approdano in tv, sul più importante canale riservato al “pubblico di persone religiose”, la CBN (Christian Broadcasting Network). Qui Jimmy assapora il successo, ha grandi idee, fa con il pomeridiano “Tammy e Jimmy Show” grandi ascolti e nel 1970 punta in alto e vuole creare il primo talk-show serale per religiosi: il “Clan dei 700”. Un altro successo. Ma la coppia da allora dovrà scontrarsi con un mondo di tele-predicatori, capitanato dal gelido pastore Falwell (Vincent D’Onofrio), che invidierà tutto quel successo e quel pubblico. Un mondo che non verrà incontro alla visione della religione tutta a cuoricini di Tammy, che spesso non si schiera con i punto ideologicamente più sentiti dal network, come la necessaria discriminazione degli omosessuali. Sarà allora che Jimmy, forte del suo lavoro con Tammy, che è diventata anche una importare cantante di musica religiosa, si smarcherà dalla CBN creando nel 1974 un impero tutto suo, la PTL (Prise The Lord). Un impero fondato sulle donazioni dei fedeli, sul marchandising e sulla costruzione di un futuro parco giochi sullo stile di Disneyland, che Jimmy persegue spinto dal suo mantra di sempre: “è giusto e il Signore ci vuole ricchi”. Un mantra che Tammy non ha mai condiviso e che porterà proprio all’Evangel-gate e alla crisi della coppia. 


Basato sul documentario Gli occhi di Tammy Feye di Fenton Bailey e Randy Barbato (narrato all’epoca con la voce della drag queen RuPaul Charles) e “rimpolpato” con una biografia di Tammy Feye Bakker del 2012, il film, prodotto dalla Freckle Film di Jessica Chastain e diretto da Michael Showalter, adatta con alcune licenze poetiche la vita di uno dei personaggi più noti e amati della tv americana. Tammy Feye cantava, intratteneva i più piccoli con i pupazzi, promuoveva raccolte fondi per la creazione di centri di assistenza per i più bisognosi e le madri abusate, si faceva portavoce delle minoranze e nel complesso faceva “sentire bene” il suo pubblico, lo coccolava e aveva sempre una parola gentile. Tammy faceva un tipo di televisione a noi lontano, ma che può ricordarci qualcosa della nostra tv del passato, degli anni ‘70/‘80 e suscitare gustosi rimandi. Nel film vengono raccontate anche cose per noi italiani ancora straordinarie e impossibili in tv, come la sensibilizzazione “in fascia protetta” su argomenti come i sex toys e un modo non paternalistico di trattare le diversità di genere. A latere della forza televisiva dei programmi di Jimmy e Tammy si sviluppa tutto un mondo di chiaroscuri e gossip (cosa che invece è italianissima!!) su dove le donazioni realmente finivano, sulla natura del rapporto “effettivo e affettivo” tra lei e il marito Jimmy, sulle relazioni tra la CBN e il partito repubblicano, sui “valori e costi” dietro la creazione di una specie di immenso parco dei divertimenti a tema religioso. Una materia magmatica e un personaggio pubblico davvero unico che non potevano sfuggire all’immaginario di Hollywood e ad una delle sue interpreti più affascinanti, versatili e apprezzate. Jessica Chastain riesce con disinvoltura a passare dai temi sociali di integrazione razziale di Tate Taylor (The Help) alla fantascienza di Nolan. Dal mondo onirico di Terrence Malick al giocoso horror-favolistico di Burton e del Toro (divertendosi un mondo a “fare la strega cattiva”) fino ad approcciarsi all’“action-impegnato” di  Katherine Bigelow. Riesce a passare dall’essere la sensuale Salome di Oscar Wilde per Pacino alla dolcissima e “infranta” Beverly immaginata da Stephen King per l’IT dei Muschietti. Nel suo straordinario caleidoscopio di interpretazioni, la Chastain da sempre ha un particolare occhio di riguardo nel portare sullo schermo anche donne forti, complesse, “autentiche”. Ha studiato ed è stata a contatto con reali analiste della CIA per Zero Dark Thirty. Ha incontrato delle reali lobbiste di Washington per Miss Sloane, ha incontrato Molly Bloom per Molly’s Game. Purtroppo non ha potuto incontrare la vera Tammy Feye, scomparsa nel 2007, anche se il materiale televisivo e non qui non è di certo mancato. In questo ruolo, che le è valsa la terza candidatura all’Oscar come migliore attrice protagonista, la Chastain ha riversato la straordinaria versatilità e impegno di sempre, supportata da una ricostruzione storica accurata dai luoghi agli abiti e da un make-up che rende credibile ogni cambiamento di età del personaggio, dall’adolescenza alla vecchiaia. Tammy Feye è amabilmente complicata. Ci appare tanto come un personaggio leggero quanto come un animo complesso, tormentata ma gentile, kitch ma elegante, onesta e inclusiva. Un personaggio contento ma al contempo costretto a vivere perennemente sulla scena. Costretta a rivolgersi a un pubblico di bambini e adulti che volte genuinamente, con la forza della fede, motivare, tutelare e preservare. Costretta per questo ad apparire sempre positiva e sorridente senza mai poter togliersi quel trucco pesante e “vivace” che le incornicia gli occhi, che potrebbe rovinarsi anche solo piangendo. C’è qualcosa (a livello di suggestione, relativo ai primi “people show”) della Carrà dei primi anni ‘80 forse, anche sul piano del trucco. Un trucco forte e vistoso, dal sapore metallico, come una armatura di “ottimismo” in costante disfacimento, in caduta libera insieme a sorrisi sempre più tirati e un parrucco sempre più eccentrico. Ad affiancare la Chastain c’è un Andrew Garfield in passato mai così convincente, che sembra qui essersi trasformato di un giovante William H.Macy. Il suo Jimmy sembra un po’ il Macy di Fargo, un omino dall’aria buffa e dimessa alla Ned Flanders che, dietro al perenne sorriso e all’infinita calma, nasconde un intero inferno interiore fatto di odio e insoddisfazione. Jimmy sorride a denti stretti, vive vite parallele dietro le quinte, qualche volta odia Tammy per il suo modo “limpido” di porsi alla vita, spesso risponde a telefonante misteriose. È nevrotico, possessivo e pronto a fare cose cattive per poi piangere come un bambino una volta scoperto, incolpando gli altri. Anche lui è fragile. La Tammy della Chastain e il Jimmy di Garfield (che negli spezzoni degli “show televisivi” con Susy Muppet  ci ricordano pure Sandra Mondaini e Raimondo Vianello del periodo di Sbirulino), dialogano perfettamente sulla scena su questa fragilità, in un continuo gioco a nascondino dove celano i loro reali sentimenti per paura (o certezza) di offendere l’altro e “svelare il trucco”, abbattere la maschera gioiosa aprendo la strada al caos e alla solitudine. Vincent d’Onofrio dà volto all’ennesimo personaggio cinico e spietato della sua galleria personale di personaggi cinici e spietati, risultando più funzionale che incisivo. Invece è davvero straordinaria Cherry Jones nel ruolo della mamma di Tammy. Una donna rigida e delusa dalla vita, sprezzante nei commenti quasi a sembrare nichilista, ma capace di pochi quando forti slanci di affetto, mirati quanto “reali”. Una donna con un mondo interiore prosciugato che ha un rapporto molto confuso e conflittuale con la figlia. Sono personaggi di cui ci si affeziona presto, davvero ben portati sulla scena da attori molto affiatati. 



Il regista Michael Showalter, attore comico di recente regista di lavori  divertenti con protagonista Kumail Najiani, confeziona un film che riesce ad essere leggero nonostante una componete drammatica e “documentaristica” importante, piena di date, eventi, acronimi e personaggi perlopiù notissimi in America, ma meno in Italia. Ha la stoffa di un P.T.Anderson nella gestione del cast e degli spazi, ha una vocazione alla Adam McKay per il modo di rappresentare la politica americana. Un bel connubio di stili che viene valorizzato al meglio dalla presenza della diva Chastain, che si esibisce anche in alcuni numeri musicali gospel che donano una cifra ulteriore alla pellicola. Il montaggio permette al film di svolgersi in modo fresco, ritmato, la fotografia di Mike Gioulakis (già apprezzata nei lavori di M.Night Shyamalan e Jordan Peele) è sgargiante e amabilmente vintage, colorata. 

Gli occhi di Tammy Feye è un film ben recitato e ben confezionato in ogni reparto. Può sembrare inizialmente un ostacolo il fatto che la pellicola abbia al centro un tipo di “televisione religiosa” poco conosciuta in Italia, ma alla fine ci si riesce comunque ad orientare ed è pure sfizioso trovare similitudini sfumate con la storia della nostra televisione nazionale. La Chastain è come sempre perfetta e convincente, in grado di mutare camaleonticamente il suo aspetto fino nei dettagli. Una vera sorpresa è invece l’interpretazione di Andrew Garfield, che come sapranno i lettori del blog io ho in passato apprezzato solo nelle scene in cui veniva torturato a bastonate nel Silence di Martin Scorsese. Sta diventando un bravo attore e siamo contenti oggi di dirlo. 

Gli occhi di Tammy Feye ha tutti gli stilemi del “filmone da Oscar”: un’ottima messa in scena, una storia avvincente e interpreti molto affiatati. Se cercate questo tipo di spettacolo è il film giusto da gustare al cinema o in streaming. 

Talk0

martedì 22 febbraio 2022

Vendetta - Una storia d’amore: la nostra recensione di un piccolo rape & Revenge in salsa giudiziaria con protagonista Nicolas Cage e Don Johnson

Niagara Falls, festa del 4 luglio di qualche decennio fa. Sotto il rumore dei fuochi di artificio la bella Teena (Anna Hutchison, la “libertina tentatrice” in Quella casa nel bosco) e la figlia Bethie (Talitha Bateman, la problematica ragazzina che “diventerà Annabelle” in Annabelle Creation) si divertono a un party. La donna balla su un tavolo pericolante in cortile, mentre quasi nuda e del tutto ubriaca rischia di cadere e vomitare sul suo giovane Toyboy. La bambina sale su un tetto con ai piedi le infradito “perché lo fanno tutti”. Incredibilmente scampate da morte certa, le due decidono di tornare a casa da sole, nella strada più buia e isolata della zona. Qui, mentre Bethe riesce a nascondersi tra dei cespugli all’ultimo momento, Teena viene inseguita e abusata da tre ragazzotti bifolchi e grezzotti della gioiosa fauna locale, che sapevano che “era una facile”. A ritrovare la mattina dopo le due donne, più morte che vive, è John (Nicolas Cage), un detective di mezza età con alle spalle un bel disturbo post traumatico, che decide di diventare il loro angelo custode, seguendole durante tutto l’iter di denuncia dei ragazzotti e magari oltre: perché il film si chiama “Vendetta: una  storia d’amore”. Male che vada la nonna è pure interpretata da quella super milf di Deborah Kara Unger (vista in Crash ma anche “strega cattiva” nei film di Silent Hill). Ma le cose sembrano prendere una piega brutta quando le famiglie dei rozzi ragazzotti, convinte dal prete di zona, ingaggiano per difenderli, ipotecando le case, il fantomatico avvocato Jay Kirkpatrick (Don Johnson). Jay è un uomo che protegge i timorati di Dio, veste come un cowboy da rodeo e si sposta su una moto dei CHiPs come Ponciarello. Davanti a quella che tutto il paesino definisce come una famiglia di tre streghe (non a caso le attrici sono anche le interpreti della lussuriosa di Quella Casa nel Bosco, dell’indemoniata Annabelle e della strega di Silent Hill), Jay ha vita facilissima nel manipolare la giuria e il giudice: la causa più facile di sempre. Non ci sono prove, è solo la parola di tre donne senza marito (e quindi socialmente colpevoli) contro tre bravi ragazzi che abitualmente creano casini pure nel bar locale ma “So’ ragazzi…”.e “le donne mezze nude provocano e sono tutte donnacce”. Applausi in tribunale.  Ma l’avvocato non ha ancora fatto i conti con la circostanza che il film si chiami Vendetta: una storia d’amore e che Nicolas Cage non si faccia problemi a giustiziare ragazzetti bifolchi in modi creativi, eliminando anche lui ogni tipo di prova e manipolando i fatti, proprio mentre si svolge il processo.

Chi vincerà? 




Non è molto chiaro come Nicolas Cage sia finito per essere diretto dal regista di orrori da b-movie come Skeletor-Man, al secolo Johnny Martin, ma la sceneggiatura di questo Vendetta: Una storia d’amore è per qualche strano caso del destino divertente e firmata da John Mankiewicz, una bella penna dietro a tv show come House of Cards, The Mentalist, Miami Vice e Doctor House. Non sorprende quindi che il buon Nick abbia fiutato la possibilità di lavorare con lui e al contempo con Don Johnson, con cui ha più più un punto di contatto nel modo di concepire “visceralmente” la recitazione. Quando i due attori interagiscono fra di loro vanno entrambi in un minuto in over-acting (come solo loro sanno fare) e davvero c’è da tirare fuori i pop-corn. Sguardi da matto, urlacci, frasi ad effetto, l’auto-convincersi di matrice stalloniana: “Tu sei il male e io sono la cura. Pare che nella scontro tirino fuori la loro aura come i personaggi dei cartoni giapponesi e se ne vuole ancora di più, magari si sognano dieci sequel in cui i due incomincino a volare e lanciarsi fulmini dagli oggi. Cage decide per il suo personaggio di essere in modalità “punitore della Marvel” (ma quanto sarebbe bello un Punisher con protagonista Nick Cage? Io la butto lì…), tutto sguardi truci e pistolettate in faccia, mai frasi con più di cinque parole. Johnson pare tipo uno di quei preti americani che fanno gli esorcismi pubblici, parlano a manetta e iniziano a cantare con dietro un coro gospel. È avvolto da un’aria messianica, si sente ascetico ma anche per lo sguardo da furbetto e i baffoni da cantante country appare totalmente kitch e fasullo. Magnifici e amabilmente contraddittori nel personale modo di “girare la giustizia” dalla loro parte, i personaggi di Cage e Johnson rendono la pellicola al contempo un legal-thriller che non va da nessuna parte in ambito “legal” (perché solo uno fa l’avvocato) e un revenge movie che sembra un po’ ingiustificatamente “revenge” (perché solo uno fa il detective e di fatto non ha alcuna certezza delle prove). È “tutto rotto” e così cosparso di questa chimica malsana (amabilissima) tra i due protagonisti che Revenge: una storia d’amore (ma quanto è surreale anche solo questo titolo?) arriva ad essere un guilty pleasure pure niente male. Un film da “scazzo” in cui si tifa a chi è più matto, ambientato in una provincia americana da vera cartolina (ma quanto è bello il paesaggio delle Cascate del Niagara?) ma bigotta quanto sarcastica, in cui tutto il cast di personaggi sembra un po’ essere uscito da un fumetto per adulti stile Preacher di Ennis. I tre ragazzotti sono inspiegabilmente crudeli e minacciano le ragazze pure quando sono imputati in aula, con tutti che guardano dall’altra parte. I parenti degli stessi vogliono che siano almeno assolti perché le spese legali sono costate troppo e chissene cosa hanno fatto. L’avvocato con la moto dei CHipS in missione per conto di Dio e il nostro Cage-Punitore fanno il resto. Nick si diverte un mondo quando può fare il bad guy che gira con una pistola in tasca che estrae compulsivamente come un prolungamento erotico (già lo faceva nel remake de Il cattivo tenente). Quando non più fare il vendicatore tutte le sinapsi del suo volto si scatenano in una infinita serie di faccette cattive e lombrosiane, come accade in tutte le scene quando deve stare tra il pubblico nelle sedute del tribunale. Quando “Vendetta” deve raccontare di più che è pure “una storia d’amore”, Cage riesce a trovare una buona sintonia con la piccola Bateman, l’unica attrice (e pure brava) che dà un po’ di credibilità alla vicenda. Il loro rapporto è molto tenero mentre purtroppo non scatta “una storia d’amore” né con la Unger né con la Hutchison, entrambe comunque sempre bellissime, ma che rimangono purtroppo un po’ sullo sfondo, solo accennate e quasi angelicate oltre il necessario. Si poteva giocare di chiaroscuri, seguendo un paio di intuizioni narrative che emergono dalle prime scene in cui compare la Hutchison, ma la pellicola non vuole in alcun modo andare in quella direzione e diventare qualcosa di più profondo di un generico “buzzurri vs brave ragazze”. 

Vendetta: Una storia d’amore è un piccolo e assurdo filmetto in cui Cage spara ai bifolchi e Johnson si veste come un predicatore esorcista americano. Pur nell’impegno profuso dal cast femminile per dare un po’ di credibilità dall’intreccio, la pellicola si ammanta di continuo di amabili fesserie ed esagerazioni che ne fanno un fumettaccio compiaciuto quanto godibile. Divertente quanto consciamente surreale e sopra le righe. Don Johnson e Cage devono di nuovo incontrarsi sullo schermo. Ne va del futuro del mondo dell’intrattenimento mondiale e ovviamente non stiamo scherzando. 

Talk0

sabato 19 febbraio 2022

Una riflessione unica sull’ultima parte dell’Attacco dei Titani in esclusiva sulla piattaforma Crunchyroll, sul Game Pass di Microsoft e su Disco Elysium.

 


Tre fatti veloci, un’unica riflessione.

Questo Natale Gianluca mi ha regalato il videogame Disco Elysium per ps4, scelto da me dopo che per più volte lui ha cercato invano di farmi riflettere sul fatto che fosse un gioco narrativo di miliardi di parole tutto in inglese, con me che non affronto un gioco di ruolo in inglese da Final Fantasy VII, uscito 25 anni fa. Cacchio se è dura. Ci capisco un po’ ma sono davvero troppi dialoghi per un gioco troppo complesso da maneggiare con superficialità. Certo, è un bell’esercizio per rispolverare l’inglese, ma è una faticaccia. Gli sviluppatori, una microscopica ma eccelsa software house indipendente, impietositosi di me e altri pirla in giro per il pianeta che non sanno l’inglese, hanno aperto una petizione in cui chiedevano al mondo intero in quali lingue adattare la loro opera “per gradi”, con la collaborazione degli utenti al progetto. Gli italiani hanno risposto, se la versione iraniana e quella bosniaca andranno in porto, saremo i prossimi della lista. Magari questo dato però significa che gli italiani che amano i giochi di ruolo parlano tutti bene in inglese fluente e non vedevano necessaria la traduzione per giocare. È quindi un po’ colpa mia. 

Il secondo fatto di cui voglio parlarvi è una questione che nel futuro porterà forse ad una vera e propria rivoluzione nel campo dell’intrattenimento videoludico, ossia la nuova politica del Game Pass targata Microsoft. 



Microsoft è da poco diventato per quote di mercato il terzo polo mondiale nel settore dei videogame. Il primo posto è detenuto da una società cinese, Tencent, che solo con gli utenti in Cina sbanca nei numeri su tutto il mondo. Il secondo posto è ancora di Sony ma il terzo posto, “di volata”, superando Nintendo, se lo è preso Microsoft dopo una serie strabiliante di acquisizioni concretizzatesi in un brevissimo lasso di tempo. Spendendo una somma di svariati miliardi, Microsoft ha acquisto una serie di grandi e piccole software house, nonché addirittura dei publisher enormi. Da Bethesda, leader dei giochi di ruolo (Fallout, Elder’s Scroll) e degli sparatutto in prima persona (perché al suo interno c’era già ID Software, quella di Doom) rilevata a fine 2021, è seguita negli ultimi giorni anche l’acquisizione di  Activision/ Blizzard, patria degli strategici a turni (Warcraft, Diablo) e del gioco online (Call of Duty). A questo si è aggiunta da poche ore l’acquisizione del colosso dei giochi mobile “King”, quello dietro a Candy Crush e che per Candy Crush fattura da solo più di tutto il Portogallo. E la marcia di Microsoft non sembra ancora finita. Questa operazione significa che quasi la totalità dei giochi, che in passato erano prodotti da quelle che venivano definite “terze parti”, ora saranno esclusiva di XBox e che io come utente Sony mi sento un po’ incazzato. Ma significa anche in seconda battuta che Microsoft punti potenzialmente a cambiare le regole di mercato, perché inizierà a gestire questi titoli attraverso una nuova formula di vendita solo digitale, usando come base un abbonamento mensile che per ora si attesta sui 13 euro. Per farla semplice, Microsoft vuole sdoganare il modello Netflix per lo streaming ai mercato dei videogame. Ci sono già stati in passato sistemi di noleggio, abbonamenti per fruire di servizi online ed esclusive temporanee, ma qui si parla di un vero e proprio monopolio esclusivo. Sony e Nintendo potranno rispondere solo acquisendo anche loro le “terze parti rimanenti” (chi Sega, chi Capcom, chi Konami, chi EA o From, a patto che Microsoft non se le pappi prima o che qualche azienda preferisca rimanere autonoma), o decidendo di accontentarsi di quanto hanno da sempre come parco titoli come sviluppatori interni, vivendo comunque anche loro sempre più di dinamiche da abbonamento integrato (per Sony si parla di un misterioso Project Spartacus che ridefinirebbe PsPlus e PsNow).

È una cosa che “ci piace”? È di sicuro una cosa che è “successa” e al momento ha anche permesso a molte realtà disastrate come Activision / Blizzard di non chiudere i battenti. Inoltre stare sotto un ombrello imprenditorie così grosso garantirebbe, anche alle giovani e piccole software house acquisite, una continuità economica indispensabile per crescere. Magari una software house piccola potrebbe trovare i fondi per tradurre il suo lavoro in tutte le lingue senza impazzire: come nel caso di Disco Elysium di cui vi parlavo sopra, che per essere localizzato nelle sue svariate migliaia di righe di testo ha oggi bisogno del contributo (semi)gratuito degli appassionati e di una lista d’attesa che pone l’Italia più o meno in fondo a tutti. Certo dopo queste maxi-acquisizioni ci saranno pur “con buone ragioni” licenziamenti (perché non serviranno tipo diecimila piccoli “uffici del personale” o “commerciali”), fusioni (perché non servirà avere diecimila licenze diverse in mille filiali e relativi operatori specializzati, per gestire un unico programma), progetti che dovranno seguire logiche che partono dai piani alti Microsoft (che rispondono anche a ragioni geopolitiche sull’inclusione sociale, rispetto dei costumi, politiche anti tabacco ecc) e magari per questo essere censurati (chi ha detto Via col Vento?), dirottati (chi ha detto Deadpool?), snaturati (chi ha detto Super Mario Mobile?) e questo ci porta al terzo punto, alla piccola questione dell’Anime L’attacco dei giganti.


L’attacco dei Giganti è prodotto da Fun Animation, che è stata acquista da Sony (vedete sono ”Sonaro” ma faccio autocritica… ma non pronuncerò mai invano il nome di Sony in questo pezzo, sbagliandomi giusto su un capro espiatorio). Il cartone animato è stato distribuito in Italia da VVVVID e Dynit, mentre nel resto del mondo era proprietà per lo streaming della piattaforma Crunchyroll (ecco il mio capro espiatorio ideale!!). Tutto veniva doppiato in Italiano e VVVViD era una piattaforma gratuita, tutto finiva poi in home video, DVD e Blu Ray. L’ultima stagione dell’anime, quella conclusiva della serie, per vari motivi tra cui il covid, è stato deciso di dividerla in due parti. La prima era stata acquista da Amazon Prime, ma la “gestione” è rimasta in mano a Dynit, che pubblicherà a inizio febbraio l’home video. La seconda parte dell’ultima stagione è entrata in produzione dopo l’estate, quando la multinazionale Crunchyroll è stata acquista da Sony (che rimane del tutto incolpevole di quanto segue). Detenendo sia Fun Animation che Crunchyroll, Sony ha deciso di lasciare L’attacco dei giganti nei suoi “feudi”, come titolo esclusivo. Solo che la politica attuale di Crunchyroll non prevede alcun passaggio in home video né alcun doppiaggio in italiano perché l’Italia “non rende abbastanza”. Che gli anime in Italia “non rendono abbastanza” lo aveva già detto in passato anche la multinazionale Kaze, che prima di lasciare il nostro mercato aveva pure deciso di risparmiare oltre i limiti del morale sul doppiaggio, affidandolo a doppiatori dell’Europa dell’est che si improvvisavano italiani per due lire (cosa divertente se non avevi speso 39.90 per una serie in “lingua bizzarra”). Realtà editoriali “piccine” come Dynit e Yamato Video, che puntano a vendere poche migliaia di copie in home video a una nicchia di fans per avere quel tanto che basta per “comprare nuove acquisizioni”, riescono spesso a confezionare prodotti molto curati e in molti casi doppiati. Ma alla fine ci guadagnano poco-niente come i traduttori di Disco Elysium!!! Per aziende multinazionali enormi come ieri Kaze e come Crunchyroll oggi invece non sembra valere la candela per questioni meramente statistiche di “mercato globale”. In Germania, di un anime, si comprano 10.000 copie quando doppiarlo costa 1.000. In Italia comprano 1200 copie quando per doppiarlo costa 1000. È il mercato che fa le regole, è il mercato che da l’immagine degli italiani come un popolo che (per vari motivi culturali) non compra anime quanto i tedeschi. Abbiamo una tradizione di grandi doppiatori che così va a farsi friggere a meno di una inversione di tendenza così convincente che giustifichi che Crunchyroll inizi a doppiare i suoi prodotti in italiano. Ma come possiamo “farci sentire” se andiamo verso un mondo in cui tutto è fatto di “abbonamenti” che creano “pacchetti” a seconda di statistiche di mercato? Mettere dei like o dislike sulle pagine di Microsoft o Crunchyroll ci permetterebbe di far sentire la nostra voce oltre al dato statistico “italiani pessimi clienti?”. Dovremo spendere “in tre” abbonamenti maggiorati per anime doppiati fino a che la barca affonderà uguale? E quando la barca affonderà? Non sarà probabilissimo che presto ci dicano “basta anche per i sottotitoli, che tanto oggi tutti parlano in inglese e gli italiani comunque non comprano niente?”. Non è che alla fine l’idea che “sarebbe fico avere una multinazionale che paga i sottotitoli dei videogame o i doppiaggi in Italiano” non si rivelerà che essere solo un boomerang? 

È dura, ma devo riprendere a giocare a Disco Elysium in inglese. Perché non so quando uscirà la versione in italiano e perché la trama pur capendola a spanne un po’ la capisco e mi fa tornare a sfogliare il mio dizionario di inglese, che ha ancora un buon profumo. 

Talk0

venerdì 18 febbraio 2022

211- Rapina in corso: La nostra recensione di un filmetto poliziesco con Nicolas Cage e suo figlio Weston Coppola Cage, caratterizzato da una strabiliante e grandguignolesca dose di splatter


Massachusetts, America. La più sconvolgente impresa della mattinata del poliziotto quasi in pensione Mike Chandler (Nicolas Cage) e del suo sbarbato partner Steve MacAvoy (Dwayne Cameron) sembra essere portare sulla loro volante un bimbetto di 15 anni di nome Kenny (Michael Rainey), per fargli scontare una “”abbastanza sovra-dimensionata”” punizione scolastica. L’idea geniale della scuola in concerto con la municipalità sarebbe infliggere, all’unico ragazzo di colore e omosessuale della scuola, abituale vittima di bullismo da parte di ragazzini più grandi e bianchi, un “tour” sulle zone della città da evitare perché troppo a rischio per la delinquenza, facendolo sedere sul posto dell’auto dove si tengono di solito i criminali (ed esponendolo quindi a tutta la criminalità locale “in azione”). Ma come può funzionare davvero questo sistema senza stimolare invece un sentimento di “vendetta sociale”? Misteri del Massachusetts, ma anche una buona occasione per parlare dei problemi del bullismo e della velata presenza di problemi razziali in un film di “sparamenti”, il che non è mai un male… ma andiamo avanti. Capita che il dinamico duo di poliziotti, rispettivamente suocero scorbutico e genero amorevole, finiscano insieme al “ragazzino in tour sulle strade della malavita” dentro alla più sanguinolenta rapina del decennio e tutto diventi un casino di corpi che esplodono carichi di c4, macchine crivellate, urla e terrore in diretta tv. I rapinatori sono un commando di super-mercenari, pompati, barbuti e incazzati, nonché armati di tutte le armi del mondo e di battute da cattivi dei cartoni animati. Vogliono i soldi, uccidere tutti e si chiamano rispettivamente: Rob, Hyde, 3 e Luke (manco c’ha un nome il terzo, come i fratelli “dos” e “tres” di Fantasmi da Marte di Carpenter). Di loro non sapremo molto altro, se non che questi “scappati da un film di Steven Seagal” ci vengono introdotti nella primissima scena del film, che pare a tutti gli effetti un mini-filmaccio di Steven Seagal ambientato in estremo oriente, tra petrolieri cattivi, turbanti e contractor, dove vengono “truffati” e bramano vendetta derubando “quello che gli spetta” nella banca del paesino del Massachusetts di cui sopra. Come potevamo esserci tanti soldi in contanti nella banca del paesino del Massachusetts non ci è dato saperlo di preciso, prendiamolo come un dato di fatto del modo oscuro in cui agiscono i “crudeli poteri forti”. I nostri “Villains” sono ovviante anche l’obiettivo di una super agente segreta gnocca da paura dell’Interpol, (interpretata da Alexandra Dinu) che sembra stia in un film diverso a sua insaputa, per il quale sfoggia molte graziose sciarpette. 


Ma la cosa più importate è che tra i villains c’è anche il tizio di nome Luke, che assomiglia a un ciccio Costantino della Gherardesca reincarnato in uno degli ZZtop, che è interpretato niente meno che dal figlio reale del solo e unico Nicolas Cage, il più grande attore vivente. È sempre bello vedere quando recitano insieme padre e figlio o in qualche modo si “passano il testimone”. Nicolas e il figlio Weston li abbiamo già visti insieme nel 2005 (in una particina piccolina piccola) in Lord of War. Nel 2014 (in una parte più consistente) in Rage - Tokarev, Weston interpretava la versione giovane del personaggio di Nick, un po’ come succede oggi con il giovane Gandolfini in Tutti i santi di New Orleans. Ma il “piccolo” Weston, che è appunto grosso come un armadio e di professione principale musicista black metal, (ed è anche piuttosto grandicello, in quanto figlio di una relazione giovanile di Cage con la modella Christina Fulton) ha accompagnato babbo Nick qualche volta pure scrivendo o cantando parte della colonna sonora dei suoi film, come in Drive Angry del 2011, Joe del 2013 e Vendetta - una storia d’amore del 2017. È interessante a livello artistico ma anche psicanalitico che in 211 - Rapina in corso Cage interpreti il ruolo del poliziotto compassato ma anche del ”padre assente” di Lisa, interpretata da Sophie Skelton, con il suo “vero figlio” (nato prima dei cinque matrimoni di Cage e senza essere battezzato con il nome di un supereroe) che di fatto rivesta il ruolo del criminale. Nella sua vita personale Cage si sarà sentito come un padre poco presente (molti padri lo fanno)? Cage avrà riportato questo sentimento in 211 come spunto emotivo per caratterizzare il suo personaggio? Sarà questa pellicola di sparatorie, botti e sanguinamenti un ideale “transfert cinematografico” tra Nick e Weston? Cage, che è stato Ghost Rider, Spider-Man (solo voce), Superman (solo voce) e Big Daddy (che è più fico di Batman), potrà affrontare il suo figlio che qui gli si contrappone nel ruolo di un Villain? E perché questo mi sta ricordando la storia del Cappuccio Rosso e Batman (in contrapposizione alla storia di Big Daddy e Hit Girl)? Ma perché vi parlo del rapporto psicologia/arte e di deliri meta-fumettistici e non delle sacrosante sparatorie che dovrebbero contraddistinguere un film del genere? Vi sento, cari i miei lettori. Vi sento supplicare: “Dove sono i botti? Quanti sono i botti? Valgono il biglietto del film, i botti?”. E se vi dicessi che il personaggio di Lisa, nel mezzo della vicenda, si scopre essere incinta, elevando 211 ad un film di rapine a tema genitorialità difficile + vittime del bullismo + problemi di integrazione razziale + futuri figli di poliziotto che nascono con sopra il lettino una giostrina fatta di piccole volanti della polizia? Ok, ho capito. Parliamo un po’ di botti e squartamenti. Esattamente dal minuto 39, salva l’intro alla Steven Seagal e un paio di scene preparatorie volte a introdurre giubbetti antiproiettili, fucili d’assalto, bombe e anche la super poliziotta sexy Sarah (Amanda Cerny), si scatena l’inferno. 


La rapina “parte piano” con il diversivo di disintegrare una tavola calda per dirottare lì polizia e soccorsi, ma davanti all’auto dei villains c’è Nick Cage all’attacco. Giusto subito dopo aver confortato il piccolo Kenny sul fatto che si può dire di no a un mondo di bulli e xenofobi e omofobi. Cage scende dall’auto di pattuglia perché vuole fare la multa al rapinatore che è parcheggiato davanti alla banca fuori dalle strisce blu e come reazione innesca una folle sparatoria con decine di vittime collaterali inermi tra cui molte vecchiette, incidenti a catena e incipiente futura apocalisse cittadina. L’ospedale in un lampo si prepara ad accogliere le decine di morti e feriti sbudellati della caffetteria, dopo che questa è esplosa malissimo come fosse un barattolo di carne e lamiere. Nel contempo in direzione della banca perché allertati da Cage, unico uomo in campo sotto il fuoco nemico, arrivano decine di blindati della polizia in armamento da guerra urbana. Anche qui mi sembra strano tutto questo armamento per un paesino del Massachusetts, ma sarà tutto frutto di una strategia del terrore voluta dai poteri forti… Manca solo Chuck Norris e tutti iniziano a sparare come se non ci fosse un domani. Con il figlio di Nick Cage, ciccio della Gherardesca ZZ top,  che sta per sparare alla testa del padre con un Barrett!!! Le armi in campo si fanno sempre più grosse e rumorose, passando dalle pistole ai fucili d’assalto tattici. Cage ha la pistola di ordinanza, ma ha attiva l’opzione “colpi infiniti", come usasse un trucco dei videogame. Poi arriva la SWAT. Come andrà a finire?


Scritto e diretto da York Shackleton, uscito nel 2018, questo 211 - rapina in corso è tratto da una storia vera (così dicono, spero di no) ed è il classico filmetto di rete 4 del pomeriggio che non ti aspetteresti. Quello che inizia come una puntata di Don Matteo e finisce come Black Hawk Down. Nel mezzo tutti i luoghi comuni sulla pensione, le spalle di colore che non arrivano alla fine del film, i cattivi super cattivi di un certo film di genere anni 80/90 (con il plus di una immotivata quanto surreale iper-violenza alla Paul Verhoeven) e un Nicolas Cage con gli occhiali da sole in modalità terminator. Se vi “prende bene”, un filmetto divertente proprio nel suo essere retorico, esageratissimo e pieno di azione. Con in più quella suggestione del rapporto padre-figlio che stuzzica e rende la salsa più piena, in attesa che anche Kal-El Cage diventi grande e accompagni papà Nicolas al cinema. Perché in fondo quanto è bello ogni tanto andare al cinema con papà? Solo che Cage lo fa “a modo suo”, da dentro lo schermo. Chuck Norris approverebbe questa pellicola. 

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giovedì 17 febbraio 2022

Monterossi: la nostra recensione della nuova serie Amazon basata sui libri di Alessandro Robecchi

 

In una Milano dei giorni nostri che sembra Londra, tra i grattacieli del Giardino Verticale, il monumentale e le miserie umane di chi vive nelle case in ringhiera più fatiscenti, si aggira un uomo attempato ma ancora piacente, per lo più con le palle girate. Si chiama Monterossi (Fabrizio Bentivoglio) sulla carta autore di programmi tv brutti condotti da una bionda isterica (Carla Signoris) ma con l’aspirazione del detective Hard-Boiled, con tanto di aria stanca, malinconia e un certo amore per Bob Dylan. Nei casini ci cede un po’ per sfiga e un po’ per gusto del brivido, un po’ come Miss Marple, ma subito sa muoversi con il piglio del comandante, giocandosela in prima persona e mettendo in capo i suoi collaboratori (e futuri autori di programmi tv brutti) più fidati: la perspicace analista Nadia (Martina Sammarco) e l’uomo d’azione Oscar (Luca Nucera). Questo “giocare al detective” irrita un po’ chi il detective lo deve fare per lavoro anche se non gli riesce benissimo, come Carella (Tommaso Ragno), il “serpico della Bovisa”, ma porta anche l’ammirazione e il supporto dell’ispettore Ghezzi (Diego Ribon). Ma forse quello che spinge più di tutto il Monterossi ad andare giù di testa per le storie del crimine in cui continuamente inciampa è la mancanza di qualcosa di importante. Forse un amore del passato per una report finita a Londra per lavoro (Donatella Finocchiaro).


Rohan Johnson, classe 75, già regista degli adattamenti televisivi dei Delitti del Bar Lume e di C’era una volta Vigata, oggi porta sul canale streaming di Amazon Prime un’altra penna illustre pubblicata in Italia da Sellerio Editore. Alessandro Robecchi è un po’ come il suo Monterossi: un autore tv milanese, oltre che giornalista e scrittore. Forse per questo riesce ad infondere nelle pagine tutti i colori e paradossi che conosce chi Milano la vive davvero, al di fuori del glam e dei quartieri alla moda, trovando spesso storie avvincenti ma anche umane. Johnson riesce bene a sintonizzarsi con l’autore, dando vita a un giallo “scorbutico e di corsa”, ma anche “con il cuore in mano” un po’ come sono i milanesi. Fabrizio Bentivoglio prende Monterossi e se lo indossa come un guanto, con tutta la sua insofferenza, fascino e sarcasmo. Tutto il gruppo di attori è ben affiatato, da Ribon, Ragno, Finocchiaro, ma un plauso speciale va per me a Marina Sammarco. Molto appropriata alle atmosfere noir la fotografia di Federico Annicchiarico, che riesce al meglio a descrivere tanto il lato sfarzoso che quello più “vissuto” della città meneghina. 

La prima serie conta per ora di sei puntate, che adattano il primo e terzo romanzo con protagonista Monterossi. Ogni storia è divista in tre parti da una mezz’ora, per un totale di sei episodi che forse sono troppo veloci. Se ne vorrebbe di più e pare che per la seconda stagione bisognerà attendere inizio 2023. Speriamo ci siano in programma più storie. Poi finalmente un detective che parla in milanese, dopo i vari Montalbano da seguire con i sottotitoli  e i tizi toscani del Lume che ogni tre secondi esclamano “oh bimbi!!” (che odio alla follia). Meno male!!! 

Avanti così! 

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martedì 15 febbraio 2022

Strappare lungo i bordi : la serie Netflix sui fumetti di Zerocalcare

Zerocalcare è uno che seguo da sempre, con discreto entusiasmo. Ve lo dico mentre sto osservando i pupazzetti da Edicola di Centauria de ‘su Nonna e der bullo con la catana che lo maltrattava da piccolo. Perché Zero scrive della vita di tutti i giorni e spesso chi lo legge trova sempre qualcosa di suo nelle sue storie, dai drammi del liceo al “momento ribelle”, dalla paranoia di fare la spesa al supermercato al “grande viaggio” che ci ha cambiato la vita. E io che al liceo, come lui, scarabocchiavo fumetti con protagonisti i miei amici, mi sono subito affezionato al mondo di Zero. Al punto da avere oltre ai libri anche i pupazzini di cui sopra e di aver visto in sala La profezia dell’Armadillo senza voler poi alla cassa riavere indietro i miei soldi (mi sono trattenuto per Zero, non per chi ha realizzato male quel film). 

Ed eccoci a Strappare lungo i bordi, che scopro essere stato animato per Netflix da un mio amico del liceo, uno che pure lui da ragazzino faceva i disegnini ed oggi è diventato davvero bravo nel mondo dei cartoni animati. Bella Giorgio!! 

Strappare lungo i bordi è quello che doveva essere quella ca**ta del film de La Profezia dell’Armadillo. La storia è sulla stessa linea ma attinge per “cameo/extra” da tutto l’universo narrativo degli ultimi 20 anni di zero. Lo stile visivo (colonna sonora di Giancane compresa) è una diretta evoluzione dei corti  animati Quarantena a Rebibbia, realizzati per la trasmissione Propaganda di La7 durante il lockdown e funziona, coglie appieno lo spirito dei fumetti anche sul lato del ritmo. Le puntate possono essere viste anche in modo slegato, ma scansionano temporalmente le tappe di un unico viaggio che Zero fa insieme all’amico Secco e a Sarah. Un viaggio in salsa nerd/citazionista sulla strada dei ricordi pieno di incertezze sul futuro che poi è la cifra emotiva di molta della produzione di Zerocalcare, ma che non esaurisce l’estro dell’autore romano. Ci sono storie su apocalissi zombie, reportage di guerra, riflessioni sulle guerre mondiali, spaccati sulla politica e riflessioni sociologiche e filosofiche, nella ricca produzione di Zero. 

Sembra abbia avuto molto successo e per me se lo è meritato tutto. Ora non vedo l’ora che il viaggio continui con le altre storie o storie inedite. Bravi tutti. 

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domenica 13 febbraio 2022

Sempre più bello - la nostra recensione!

La nostra eroina affronta una nuova operazione importante che le permetterà di avere nuovi polmoni e sogna di riabbracciare la nonna (Drusilla Foer), con cui non parla più da molti anni. Intanto prende corpo la possibilità di trasferirsi in una casa con il suo amato scenografo mentre la sua coppia di amici, intrippata nel progetto di aprire un Bed & Breakfast, vive l’esperienza surreale di occuparsi di una bambina neonata abbandonata da una madre strampalata. Tutto sembra “sempre più bello”, ma l’intervento potrebbe non essere l’ultimo capitolo dei problemi di salute della nostra protagonista e forse i contrasti con la nonna non potranno appianarsi. 

Abbiamo visto Sul più bello, Ancora più bello e questo  film non è davvero “sempre più bello”. La formula iniziale della “trilogia”, legata alla felice intuizione di un cast giovane e fresco, unito in una “famiglia Modena”, che vive la quotidianità con una leggerezza giusto velata da un alone di malinconia legato allo stato di malattia di una di loro (sulla linea di Colpa delle Stelle), non sembra più funzionare a dovere. L’ultimo capitolo manca un po’ di frizzantezza e riesce invece benissimo a perdersi nei mille rivoli di un quotidiano piatto quando a volte abbastanza devastante. I nostri giovani protagonisti (sempre simpatici e bravi la Francesconi, la Masciale e Gjura, mentre Commare è davvero troppo, troppo spaesato), devono fare il trasloco, imparare a conoscere nuovi amori, scoprire la voglia di maternità, cimentarsi con il primo lavoro da insegnante, sperimentare nuove convivenze non prima di aver scelto una casa, fatto il rogito, allacciamento gas, scelta dei mobili, il pranzo a casa dai suoi, i problemi di aprire una fideiussione per gli Under trenta, nonna che non apre agli estranei e chiama la polizia, l’insicurezza delle relazioni aperte… Sarà anche colpa della colonna sonora a base di tre note ripetute da pianola Bontempi stile il telefilm francese “Primi baci” degli anni novanta, ma ci sono momenti in cui la centrifuga della lavatrice di casa dipinge sull’oblò scenari molto più travolgenti dell’ultima pellicola con protagonista la Amelie torinese affetta da “mucoviscidosi”. Ed è un peccato, perché il cast c’è e funziona (a parte Commare, che speriamo di rivedere più in forma), ci sono dei momenti anche intensi (come quelli con protagonista Drusilla Foer), ma la fantasia sembra essersi spenta o persa per strada. Si ride poco, si vive un quotidiano piatto e quando “ricompare la malattia” sembra quasi un meccanismo ricattatorio. Quindi no, questo film non è “Sempre più bello”. Ma chi può dirlo, un futuro “Ancora sempre più bello” potrebbe aggiustare il tiro e far perdonare gli scivoloni di questo capitolo tre. Perché siamo innamorati pazzi di Ludovica Francesconi, ma troviamo che anche la sua sinergia con Gaja Masciale e Gjura funzioni ancora benissimo. Forza e coraggio. 

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giovedì 10 febbraio 2022

Assassinio sul Nilo : la nostra recensione del film diretto e in interpretato da Kenneth Branagh

 


Ama gli schemi e le simmetrie il vanitoso investigatore Poirot (Kenneth Branagh) e per questo gli basta un’occhiata rapida a quanto avviene sulla pista da ballo di un celebre Night londinese per immaginarsi quello che dovrà passare da lì a qualche mese, quando sarà convolto in una crociera sul Nilo. Accompagnati da una orchestra jazz e dalla voce suadente di Salome Otterbourne (Sophie Okonedo), un uomo e una donna ballano appiccicati, si toccano, si perdono nei loro sguardi e quasi sembrano fare l’amore. Lui è un giovanotto con i baffetti in cerca di lavoro di nome Simon (Armie Hammer, visto in Lone Ranger). Lei è una rossa fascinosa di nome Jaqueline (Emma Mackey, vista nella serie Sex Education), amica di una giovane e ricchissima ereditiera di nome Linnet (Gal Gadot) che può offrire a Simon quel lavoro. In un attimo la musica cambia, entra nel Night la stessa Linnet ed è bellissima, quasi una dea. Il mondo si ferma per ammirarla nel suo abito da sera luccicante. Nel giro di dieci minuti sono lei e Simon che ballano appiccicati, si toccano, si perdono nei loro sguardi e quasi fanno l’amore, con Jaqueline incredula che assiste alla scena. La stessa perfetta simmetria di movimenti tra il primo e il secondo ballo, ma con in mezzo un cuore infranto. Cambio di scena, mesi dopo, Poirot si trova in Egitto, a contemplare la simmetria perfetta di una piramide millenaria. La osserva in una mattina assolata ponendosi seduto davanti, al vertice, mentre si prepara a degustare le sue due uova sode cotte alla perfezione lisciandosi i suoi simmetricamente perfetti baffi affusolati, mentre qualcosa arriva a turbarlo, irritarlo. Un aquilone verde maneggiato da un matto che va a rovinare la sua visuale perfetta della parete liscia della piramide, deturpandola come una crepa. Il tizio con l’aquilone si rivela essere l’amico Bouc (Tom Bateman), che poco prima lo aveva coinvolto in un travagliato viaggio sul leggendario Orient Express (trasposto dal libro al film di Branagh del 2017) e ora vuole portarlo a vivere una nuova avventura sul Nilo, al seguito di un viaggio di nozze. Si sposano proprio l’ereditiera Linnet e Simon e Poirot è chiamato a gestire l’eventuale arrivo di Jaqueline, che da tempo minaccia la coppia e potrebbe essere armata e pericolosa.


Hanno il fascino dei grandi film di avventura alla Lawrence D’Arabia e Indiana Jones, i nuovi film diretti e interpretati da Kenneth Branagh ispirati al ciclo dell’ispettore Poirot di Agatha Christie e sceneggiati da Michael Green (autore non a caso di film Disney dallo stesso “charme” come Il richiamo della foresta e Jungle Cruise). La fotografia dai colori caldi di Haris Zambarloukos, la colonna sonora avvolgente di Patrick Doyle e il montaggio raffinato di Una Ni Dhonghaile sanno portarci in un attimo in quel mondo tra storia e fumetto, romanzo di avventura e noir. Come a sottolineare le ulteriori affinità con questa amatissima oasi della narrativa cinematografia. al di là degli scenari esotici in cui si svolgono le vicende, in questo secondo episodio il prode investigatore di Branagh ci viene introdotto anche con una vera e propria origin-story “sui suoi baffi”, ambientata tra le trincee della prima guerra mondiale e che ci rimanda simbolicamente alla storia del “cappello” del terzo Indiana Jones. È un avvio molto bello e ben riuscito, che subito ci mostra un Poirot “in azione”, geniale quanto tragico, perennemente condannato a seguire il verbo della razionalità e degli schemi per non crollare in un mare di malinconia e trovarsi così in balia dei sentimenti. Se il nostro eroe avventuroso apre le danze del racconto, tutto si ferma al passaggio della nostra tragica eroina noir. Bellissima quasi da svenire, la divina Gal Gadot è una Linnet altrettanto ambivalente. Donna forte quanto fragile e sola, Linnet un po’ per gioco e un po’ per vanità finisce per trasfigurarsi in una perfetta Cleopatra, fino a condividerne anche il tragico destino all’ombra della Valle dei Re. L’attrice israeliana come sua consuetudine dona molto cuore al personaggio. Ce la fa vedere goffa e infantile mentre si spoglia dei vestiti regali per apparirci come una donna piccola e quasi timida (nella scena in cui “impersona Cleopatra), ce la mostra desiderosa di abbracci che arrivano sempre troppo avari e tristi, mentre vaga sulla sua barca regale, con tutti che si divertono, senza riuscire a parlare con nessuno. 


Sono forse Poirot e Linnet la diade perfetta che guida emotivamente questo film corale: i personaggi che più di tutti vivono lo scostamento tra l’apparire forti quando il sentirsi fragili, irrisolti. Il resto del cast è ben calato nella parte e rispecchia abbastanza fedelmente nella caratterizzazione la fonte originale, anche permettendo nel corso della narrazione interessanti digressioni su temi come l’omosessualità e questioni razziali. Ma il film di Branagh sa essere soprattutto il giallo pieno di azione, dialoghi serrati e colpi di scena che ci aspettavamo di vedere anche in virtù dei virtuosismi di regia di cui il regista britannico aveva già dato sfoggio in Assassinio sull’Orient Express. Come i vagoni del treno protagonista della precedente pellicola sapevano risplendere di ogni dettaglio quanto offrire un set molto dinamico e idoneo all’azione, grazie a un uso della macchina da presa estremamente mobile e a tratti vertiginoso, la nave Karnak che viaggia placida sul Nilo ci viene fatta esplorare grazie a continue riprese aere effettuate con droni, piani sequenza sullo stile di Wes Anderson e un intrigante mix di effetti speciali di contorno. Grazie a tutti questi artifizi Branagh di nuovo a gestire la scena come un palco teatrale (il suo luogo ideale in quanto regista di molte rappresentazioni Shakespeariane) senza farci mai sentire intrappolati in una narrazione investigativa per lo più statica, al netto del fatto che Assassinio sul Nilo è un romanzo più “movimentato” del precursore, con sontuose scene che si svolgono anche nella valle dei Re e all’ombra delle piramidi. Anche qui l’effetto “cartolina” di molte inquadrature esterne, che descrivono per lo più la flora e fauna che segue il corso del fiume al di là degli eventi principali, è un qualcosa di fortemente ricercato, elegante e gustosamente in contrasto con la catena di omicidi che presto andrà ad avviarsi. Omicidi rappresentati qualche volta anche in modo particolarmente sinistro e cruento, con una messa in scena dai contorni anche orrorifici, ma che non riescono comunque a mettere in secondo piano le altrettanto spietate strategie investigative del nostro baffuto detective. Il Poirot di Branagh quando mette in funzione la sua mente logica durante un interrogatorio, sembra agire come un vero tritacarne, calpestando con la sua razionalità ogni logica emotiva di chi lo ha di fronte, fino quasi ad apparirci come un mostro. Poi ce lo vediamo magari dormire con sugli occhi una buffa mascherina che riproduce il disegno dei suoi baffoni, ma “mentre lavora” Poirot è un autentico Terminator, umanamente assente quanto implacabile più di un’arma da fuoco. 


Alla fine, come per Assassinio sull’Orient Express, è il mondo interiore del detective il vero “effetto speciale” della pellicola e Branagh costruisce una narrazione visiva che ci permette in pieno di calarci nel “detective” Poirot, facendoci sentire arguti nell’individuare indizi sapientemente evidenziati quanto cinici nel trarre le conclusioni su un possibile assassino. Senza aver già letto il giallo è possibile dalla visione della pellicola andare piuttosto vicino alla soluzione della matassa e questo è un indubbio merito della regia di Branagh.

Il nuovo film sulle avventure di Poirot fa sfoggio di un ottimo e variegato cast di interpreti, scenari da cartolina e una costruzione narrativa appagante sia sul piano della narrazione investigativa che dell’approfondimento psicologico dei personaggi. Il film ha una durata che sia attesta sulle due ore ma il ritmo non viene mai a mancare, anche grazie a molto riusciti e dinamici artifici di regia. Non vediamo l’ora di vedere nuove avventure del baffuto Poirot.  Talk0

martedì 1 febbraio 2022

Nightmare alley - La fiera delle illusioni: la nostra recensione del film diretto da Guillermo del Toro

(la verità è un’illusione, gli incubi sono reali)

(Sinossi) Siamo alle porte della seconda guerra mondiale, in una provincia americana umida e rurale concreta e disincantata che staziona nei pressi della ruota panoramica di una fiera itinerante con annesso “freak show”. Arriva da lontano con il viso nascosto sotto un capello, è avvolto in un lungo impermeabile e ha l’aria di uno in fuga. Ha spalle grosse, fisico asciutto e occhi azzurri, lo straniero da poco arrivato sotto i tendoni del circo in cerca di lavoro che si fa chiamare “Stan” (Bradley Cooper). Non è “forzuto” come il capo della baracca, Bruno (Ron Perlman), o carismatico quanto “Major Mosquito” (Mark Povinelli), l’uomo-mosca più piccolo del mondo. Non è  un ballerino snodato quanto l’uomo-serpente e non ha certo la verve della donna ragno o il fascino misterioso della creatura infante a tre occhi rinchiusa in un barattolo di nome Enoch. Ma lo straniero riesce subito ad affascinare tutti, compresa la sensuale chiromante Zeena (Tony Collette) che immediatamente si prodiga per offrirgli un bagno caldo a 10centesimi (in una scena che farà felice il pubblico femminile più birichino). Stan accetta come accetterebbe ogni uomo sulla terra in quelle circostanze, però non è troppo preso dalle dolci attenzioni della donna. Rincorre piuttosto il sorriso triste e il fare impacciato dalla timida donna-elettrica Molly (Rooney Mara). Ama passare ore e ore ad ascoltare e imparare dal mentalista Pete (David Strathairn) e soprattutto non si tira indietro quando c’è da entrare in azione per il bene di tutto il gruppo, se capita di inseguire nella casa degli orrori il pericoloso uomo-bestia (il Geek), evaso dalla sua gabbia di ferro, paglia e polli vivi. Stan è un uomo curioso, ricettivo, ambizioso e sembra davvero credere a tutta la “magia” che scaturisce da quel piccolo rifugio al di fuori del mondo, abitato da donne barbute, ladri matti e disperati. Giorno dopo giorno scopre di poter somigliare ancora di più a loro, essendo in qualche modo portato per diventare anche lui un mago. È una vera svolta, ma l’uomo si fa presto sedurre fatalmente dalla possibilità di usare le tecniche apprese dal libro di Pete per ingannare il prossimo, inscenando degli spettacoli di spiritismo. In preda dell’ambizione, Stan lascerà tutto alle spalle, diventerà un veggente famoso e  troverà sulla sua strada una bionda dark lady (Cate Blanchett), di professione psicologa, che presto sarà sua complice e lo condurrà in una tortuosa spirale di potere ed ebbrezza. A un passo dalla grandezza come dall’autodistruzione. 

 


(Dal libro al film una diversa idea di “magia”) Il noir con venature “magiche” La fiera delle illusioni, scritto nel 1946 da William Lindsey Gresham e che potete leggere oggi in italiano grazie alla Sellerio, ricevette subito un enorme successo in patria e subito una trasposizione cinematografica. L’autore nel suo libro mette in scena una storia abbastanza classica per il genere a base di truffe, manipolazioni e mentalismo, ma più volte sposta la nostra attenzione sul mistero, raccontandoci lo stupore con cui un uomo comune scopre la possibilità di percepire il mondo e le persone in modo più ampio. C’è il mondo del circo con i suoi rituali e segreti, ma anche con la sua profonda umanità. C’è un aldilà muto, da cui le persone più impensabili sono disposte a pagare pur di avere delle risposte. C’è il mondo interiore di ognuno, che può essere messo a nudo dalla psicologia quanto, drammaticamente, da delle banali ricerche statistiche/probabilistiche che poi diventano il pane per manipolare le persone. Sono tre mondi vicini al reale ma per il nostro protagonista nuovi, seppur tutti dipendenti da un mondo ulteriore, il “destino”, che in ogni noir e poliziesco che si rispetti sembra seguire la massima legge di Murphy: “se qualcosa deve andare male, ci andrà”. 

Guillermo del Toro è forse uno dei massimi cantori cinematografici dell’immaginario narrativo di Lovecraft, al pari di John Carpenter e del compianto Stuart Gordon. C’è l’inconfondibile ombra del genio di Providence nella sua trasposizione cinematografica dell’Hellboy di Mignola, come tra i mostri abissali di Pacific Rim e gli uomini-anfibi de La forma dell’acqua. Lovecraft, nei suoi racconti, immaginava non solo “mondi”, ma interi universi “oltre il reale e il comprensibile”, mettendo in scena soprattutto il tormento ed estasi di non poter mai decifrare fino in fondo la realtà. Lovecraft non scovava dietro la magia (solo) un “trucco”, quanto una consapevolezza non ancora alla portata della ragione. Per questo motivo, quando ci approcciamo di solito a un nuovo film di Del Toro, in qualche modo pregustiamo il dischiudersi di una precisa finestra sul fantastico, dietro cui ci possiamo aspettare folletti, fantasmi, diavoli senza occhi e creature gigantesche dagli infiniti tentacoli. Creature da sogno e da incubo che proprio per il loro essere “oltre il reale”, spesso trovano cittadinanza in un vicino mondo parallelo: interiore, emotivo oppure onirico. Un luogo di confine “conosciuto e condiviso” anche dalla Fiera delle illusioni Gresham, dove forse non è sempre possibile una via di fuga dalle molte prigioni esistenziali del “reale” (come quelle de Il labirinto del Fauno), ma da cui si può forse ottenere delle risposte più poetiche sul “perché stiamo al mondo”. Non occorre che i mostri siano “mostri reali”, perché non ci sono diverse realtà in contrapposizione. C’è nel libro di Gresham una “boccata di magia” in senso positivo, ma questa si avverte solo all’inizio, al primo contatto di Stan con le tecniche mentaliste, prima che si riveli il “trucco” e su questo aspetto Del Toro cerca di sparigliare il romanzo e farlo suo. 


Il regista non è molto interessato alle fughe e inseguimenti con cui si sviluppa in divenire il libro di Gresham, preferisce legare la pellicola a doppia corda tanto con la sua idea di “magico lovecraftiano” che alla sua passione per il romanticismo gotico (visto anche di recente in Crimson Peak). Del Toro certo esprime un particolare occhio di riguardo anche per il lavoro di pregio svolto nel primo adattamento dell’opera al cinema, quello con la regia di Edmund Goulding, realizzato nel 1947 a solo un anno dal libro. Era anche quello una semplificazione del lavoro di Gresham, di certo dall’aria più “accomodante” del lavoro di Del Toro, ma si faceva soprattutto notare per una rappresentazione del mondo circense apprezzata da alcuni critici come sullo stesso livello del classico Freak di Tod Browning. Sul piano estetico Del Toro punta a ricreare una simile impostazione visiva, vintage fin nella scelta di una fotografia pensata per avere fascino anche alla proiezione della pellicola in bianco e nero (evento per ora solo previsto in America in un piccolo circuito). Sul piano poi della caratterizzazione dei personaggi, Del Toro dona allo Stan di Bradley Cooper l’eleganza, la canottiera che mostra i muscoli e la sigaretta sempre in bocca, da vero “duro”, di Tyron Power. Fa sì che la diva Cate Blanchett abbia lo stesso charme della diva Helen Walker. Coerentemente come nei film del passato e in contrapposizione alle regole moderne, che per questo chiedono delle restrizioni di pubblico, nella Fiera delle Illusioni “tutti fumano”, continuamente, in qualche modo per alimentare (come l’espediente originale si imponeva nei noir classici) l’alone di mistero e “vizio” dei personaggi. Per caratterizzare lo Stan di Cooper, Del Toro sceglie poi di “giocare in casa”, facendo convivere in lui i tratti del personaggio interpretato da Rupert Evans nel suo primo Hellboy, quanto i tratti del Michael Shannon de La forma dell’acqua. Il personaggio di Evans era il “pesce fuor d’acqua”, l’uomo razionale che scopre di colpo che nel mondo esiste il “magico” e cerca di adattarsi. Il personaggio di Shannon era l’uomo senza scrupoli che cercava di controllare l’elemento magico per il proprio interesse, in modo cinico, a costo di distruggerlo. Del Toro sceglie di far vivere il personaggio di Bradley Cooper tra questi due estremi e per questo cambia la struttura del libro per mettere in scena uno spettacolo di stampo più “contemplativo/esistenziale”. Lo rimodella  in una struttura in due atti più un breve finale e sacrifica tutta la meccanica “dai risvolti action” (oggi diremmo alla Final Destination) legata a come la lettura dei tarocchi potesse aiutare a predire il futuro aiutando il protagonista nella sua lunga fuga. 

 


(La messa in scene) 

La fiera delle illusioni è un film visivamente affascinate, che per molti versi nella sua prima parte non si discosta dalla tavolozza di colori che Guillermo Del Toro predilige per molte delle suo opere. 

La prima parte del film è quasi “zen”: parla della coesistenza di Stan con il piccolo mondo degli artisti dei tendoni, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra se stesso e il mondo che lo circonda. Qui Del Toro ha afflati vicini al malinconico Il più grande spettacolo dei mondo di Cecil B. DeMille. Trovando poi perno nell’amorevole burbero di Ron Perlman e nel solare e fragile personaggio interpretato da Rooney Mara, il regista sembra strizzare l’occhio anche a La Strada di Fellini. Al di fuori di questi possibili omaggi, c’è “puro Del Toro” nelle scene che descrivono la vita quotidiana tra i tendoni dei freak. Sia sul lato delle atmosfere “quotidiane” del mercato dei mostri di Hellboy - The golden Army, quanto della rappresentazione di un degrado umano (nella figura del Geek) che si sviluppa in un modo non dissimile dall’ultima pellicola prodotta da Del Toro, Antlers

La seconda parte del film ci mostra un luogo diverso e uno Stan diverso, che baratta la canottiera per i completi firmati e dei baffetti curati alla Clarke Gable. La pellicola diventa a tutti gli effetti un film noir dai contorni psicologici, pieno di ricconi eccentrici, delitti e inseguimenti e con una femme fatale, interpretata magistralmente da Cate Blanchett, che diviene speculare alle ambizioni del protagonista: un personaggio come lui fragile e irrisolto, con cui competere “nell’ebbrezza”. 

Visivamente siamo lontani anni luce dai colori del circo e sembra quasi di trovarsi in una detective story di stampo molto classico, particolarmente carica di dialoghi e atmosfere rarefatte. Il ritmo cambia, cambiano i personaggi in scena e quasi per un istante il film si ferma. In un momento quasi “dissacrante”, ma sublime, che apre al finale. La storia assume contorni molto meno favolistici, ma grazie alla mano di Del Toro c’è sempre un alone di soprannaturale a permeare il tutto. 

Le due metà della pellicola rimangono così  in tensione tra di loro, al pari della lotta interiore di Stan per la sua identità, conteso tra due destini e due donne, in un ciclo continuo di stupore e delusione, manipolazione e contro-manipolazione, “magia” e “trucco”, cartomanzia/mentalismo  e psicanalisi. Nella seconda parte lo stupore e il “dolore” del perdersi nel fantastico, come ne Il Labirinto del Fauno, offrono sensazioni particolarmente forti, che riescono a sposarsi con un certo gusto per il grottesco che pervade in tutte le “imprese” di cui si fa protagonista il torbido personaggio (secondario ma non troppo) interpretato da Willem Dafoe. 


 

(Finale)

La pellicola parte travolgente, con una narrazione corale avvolgente che deve molto al personaggio di Tony Collette (che per qualcuno potrebbe anche omaggiare un simile personaggio presente in Fun House di Tobe Hooper). La seconda parte è stimolante anche se si presenta forse un po’ lunga, ma il film riesce a riprendersi e armonizzarsi nella parte finale. Molto dolce il personaggio di Rooney Mana, complessa e altera Cate Blanchett. Bradley Cooper dà corpo a un antieroe tragico quanto sensuale, che fin dalle prime scene riesce a infiammare il pubblico femminile in una scena dall’alto tasso erotico. 

Nightmare Alley è una pellicola molto ben costruita, tanto sul piano visivo che narrativo, probabilmente destinata a fare incetta di premi e riconoscimenti in giro per il mondo a partire dal suo affascinate reparto artistico, tra la fotografia a luci soffuse di Dan Laustsen alle musiche di Nathan Johnson (alla sua prima collaborazione con Del Toro) ai costumi di Luis Sequeira. Quando il “tocco magico“ di Del Toro trasporta questo noir nel territorio della favola, seppur centellinando questi passaggi, il film riesce a stupire e qualche volta davvero a incantare. 

Le due ore e mezza di durata passano velocemente, anche se si può riscontrare un calo del ritmo nella seconda parte. Un nuovo grande film da gustare al cinema, con lo charme dei grandi classici del passato. Dopo Freaks Out di Mainetti, presto in home video, un tendone del circo dei primi del ‘900 e il suo mondo di donne barbute, maghi e forzuti, tornano ad essere lo scenario ideale per ritornare a contatto con la sala cinematografica dopo il triste periodo del covid 19. 

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