lunedì 28 marzo 2016

The revenant - un oscar a Di Caprio giusto perché viene picchiato tanto e duro.



America, più o meno ai tempi di Ken Parker. Di Caprio è pure lui un "trapper", un esperto di sopravvivenza che guida una carovana carica di pelli pregiate per anguste distese innevate in una regione d'America dal nome impronunciabile. Fa affidamento sul suo intuito e sul supporto del figlio pellerossa e il viaggio prosegue bene, tra campeggi intorno al fuoco e geloni ai piedi. Tuttavia il gruppo si imbatte in terribili predoni e in una scena che pare la versione western dello Sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan ne escono tutti malconcissimi. Come se non bastasse Di Caprio poco dopo affronta a mani nude un orso e siccome non siamo né in Vento di Passioni né in Backcountry il nostro eroe, pur malconcissimo elevato al quadrato, si salva. Ma la carovana gli vuole bene, al punto che gli assegna un pugno di uomini per riportarlo a casa, sano e salvo, con una barella di fortuna. Peccato che tra il gruppo dei lettighieri ci sia il bastardissimo Tom Hardy che, smessa la museruola di Mad Max e la museruola di Bane, gioca a fare il cattivone sopra le righe, tanto ignorante quanto scoordinato nei movimenti, un po' goffo e un po' bullo, ma parecchio fortunato. Ha la classica "fortuna degli stronzi", per intenderci. La sua idea di mollare Di Caprio nei boschi innevati, dopo averlo ridotto malconcissimo di quarto livello, con la ricompensa del salvataggio già in tasca, si fa subito concreta. Già che ci sta, impallina pure il figlio del nostro trapper. Madornale errore. Di Caprio resuscita come Terminator, si cura in modi che pure Rambo troverebbe ridicoli, si crea appartamenti di fortuna dentro le interiora di qualche animale per sopravvivere la notte come suggerito da Bear Grills. E a Tom Hardy gliela giura. Lo inseguirà per tutto il pianeta fino a che lo impallinerà.


The Revenant è maestoso. I paesaggi sono bellissimi, reali, vividi, la luce colpisce diritta nell'iride. Sembra di sentire fisicamente il freddo dell'America innevata e il caldo soffocante, il puzzo, delle carcasse di cavallo appena uccise . Insomma, mi capite, chi di voi non ha ancora dormito all'aperto in Alaska nelle interiora di un cavallo morto? In fondo facevano anche in Star Wars qualcosa di simile. Che fan di Star Wars siete? Ma torniamo al film. E l'uomo è piccolo e indifeso di fronte alla natura, la pelle si tira e si rompe insieme alle ossa e ogni passo conduce a una morte potenziale, sia un burrone o un animale a caccia o una tormenta di neve. Non meno letali, se si mettono di impegno, sono gli uomini. Pronti a scannarsi, squartarsi, sminuzzarsi e decervellarsi tra di loro per due o tre pellicce puzzolenti. Le distese innevate sono ottime per riempirsi di sangue come nel leggendario The Raid 2. La macchina da presa, come nel precedente film di Inarritu, è una entità metafisica che ci porta sull'azione in modi inimmaginabili, sembra montata sulle ali di un calabrone e crea visioni sempre impossibili, uniche, suggestive e vertiginose. La musica è avvolgente ma sono gli effetti sonori a farla da padrone, a farci aggiustare il cappotto in platea. Se avete i soldi per andare a vedere un solo film al cinema quest'anno fatevi un favore e scegliete questo, nella sala più grande, con il mega schermo e con il sonoro più spettacolare che trovate. Questo è cinema, anche se non amate il western, anche se non sopportare Di Caprio, anche se sono tre ore di pellicola, "esserci", vivere di pancia lo spettacolo di una natura così madre quanto matrigna, è un piacere sensoriale di cui non dovreste privarvi. Peccato però che il film alla seconda visione, a mente lucida e privati dello stretto abbraccio emotivo della prima volta mostri i suoi limiti. Anzi, "IL" suo limite, che piccolo quanto volete, rimane. Che ovviamente è lui, Di Caprio. Uno degli attori più mono-espressivi della piazza, uno che considera il recitare "urlare fortissimo". Reduce da una serie di pellicole in cui faceva sostanzialmente sempre il pazzo in overacting sotto effetto della cocaina (ed era sempre monotono, solo che urlava un sacco) con questa pellicola prova la carta del Deadman, il sopravvissuto, quello che vive per la vendetta, a metà tra il Gladiatore di Russell Crowe, il Danzel Washibgton di Man of Fire e il Corvo di Brandon Lee, spiriti, zombie immortali che si muovono unicamente spinti dall'amore perduto per i suoi cari, destinati a morire a vendetta compiuta, tornare alla terra. E Di Caprio senza gli stupefacenti a "giustificare" gli strilli è molto, molto meno divertente del solito e sbaglia clamorosamente. Sbaglia alla radice stessa del personaggio, non instaurando la minima empatia con quello che dovrebbe essere suo figlio. 


Il Deadman si muovo per amore, ricordiamolo. Non ci sono momenti in cui il legame si palesi, non una lacrima, non una carezza. Solo una scena onirica che ha del fasullo, del superficiale. E' vero, il film è tratto da una storia vera in cui l'elemento del figlio non c'era. Ma a questo punto perché metterlo, se il protagonista non è in grado di provare qualcosa per lui? Possiamo dire che prima c'è la vendetta e poi arriveranno le lacrime, ma questa prospettiva non ci soddisfa in pieno e anzi ci fa trovare sempre più antipatico e monocorde un Di Caprio che privato dell'overacting cocainomane scorsesiamo  non ha davvero nulla da dire se non digrignare i denti per tre ore. Apro parentesi: ma quanto era più bravo di lui Ray Liotta? Perché Scorsese si è fissato con questo brutto e ormai vecchio bambolotto? E allora sale l'odio e ci si rende conto che i film, tutti i film di Di Caprio ci piacciono, ma giusto per quel momento, assai frequente nelle sue produzioni, in cui il suo personaggio muore, in genere male (pur nella finzione, non vogliamo davvero male a Di Caprio come "essere umano". E' solo che come attore ci fa cagare...). E' quella stessa sensazione liberatoria che accade con Silvio Muccino ne Il Cartaio di Dario Argento: quando l'attore, che recita atrocemente male (sottolineiamolo col pennarello, che il punto è questo e nulla più) muore, il pubblico si alza in piedi in tutto il cinema in una standing ovation. Il film di ambientazione storica "aiuta" il nostro personale odio generalizzato "dicapriesco": se è ambientato nel far west il suo personaggio oggi sarà sicuramente "morto" e si parte già bene. E questo deve saperlo bene pure Inarritu, che in fondo deve essere mastro segreto del culto "anti dicapriesco", perché, con una gioia quasi inarrivabile per ogni fiero adepto, decide meccanicamente ogni tre minuti del film di far picchiare malissimo Di Caprio da qualcuno. Sia la mano della natura o quella dell'uomo, troveremo sempre durante la pellicola qualcuno che lo picchia male. Di Caprio sbava per febbre e convulsioni, ha il corpo sempre più tumefatto, cade da ogni burrone e in ogni lago gelato, finisce plurisparato e pluriaccoltellato. Si rialza sempre, cacchio. Ma poi viene picchiato di nuovo e con più gusto da qualcosa di nuovo e inatteso. Il nostro eroe personale per questo non poteva che essere l'orso. Quanto sarebbe stato bello se fosse stato un orso vero (ripeto, stiamo scherzando...) o per lo meno "l'orso squartatore" del film "Backcountry". Però anche questo bastardo figlio digitale di Winnie the Pooh sa picchiare bene e maciulla il nostro eroe con il dovuto gusto. E dietro a tutti i graffi, lividi, escoriazioni, mocci congelati, proiettili conficcati, lame putrescenti e carni abrase da esplosivo c'è tutto un team di truccatori ed effettisti da standing ovation. Ogni tanto coprono pure il volto di Di Caprio con una coltre di capelli congelati, sudaticci e forforosi. E la recitazione ne guadagna, anche se, sommate tumefazioni ed effetti vari, Di Caprio è quasi più truccato del Barbalbero del Signore Degli Anelli. Certo che se l'oscar volevano darlo al Gollum, la cosa ai giorni nostri "ci sta". 


L'altro nostro eroe personale, per motivi diversi, è poi ovviamente Tom Hardy, qui ultra grezzo, bofonchiante, sgradevole e vigliacco. Rappresenta "il male e lo schifo", ma lo fa talmente bene che la sua nomination all'Oscar se la merita tutta e non riusciamo a volergli davvero male. Come antagonista di Di Caprio si fa apprezzare quanto Daniel Day Lewis in Gangs of New York e Matt Damon in The Departed. Hardy è grosso, è estremo, recita non limitandosi a rifare sempre se stesso (come invece fa qualcun altro..) e si è inventato pure una camminata da bifolco stupratore di anatre che sicuramente il protagonista di Wolf Creek gli invidia. Hardy riesce a salvare ugualmente la baracca emotiva della pellicola, quanto truccatori ed effettisti hanno reso credibile la sfiga cosmica di Di Caprio. E questo perché quando c'è un grande cattivo, si bada meno al "buono", che diventa quasi funzionale a lui, una statistica per "ribilanciare", perché ci mettiamo a contatto con il dramma del protagonista più facilmente, empatizzando, senza che lui debba trasmettercelo con le "sue" doti recitative .
Il resto del cast è abbastanza funzionale, ma bisogna aggiungere che, purtroppo, anche il figlio di Di Caprio non riesce a esprimere a pieno il suo potenziale. Ma in fondo quello che conta è qui il viaggio visivo, che non delude mai è si fa apprezzare sulla distanza. Credo che molti rivedranno il film unicamente per rivedere i suoi bellissimi paesaggi.
E quindi il film si salva, e alla grande, nonostante Di Caprio o forse anche per merito suo: perché vederlo malmenato (e parliamo sempre di finzione cinematografica, bene inteso) così spesso e così profondamente, ci rende, a noi sadici odiatori antidicapristi, parecchio felici. Insomma, guardatelo tutti e se ve lo perdete al cinema guardatelo vicinissimo alla tv e in cuffia, al buio. Anzi no, che poi vi fate male alla vista.., compratevi magari un home theatre o andate a vedere il film da un vostro amico che ce l'ha. Questo film è davvero un bel viaggio. Nonostante Di Caprio. O questo l'ho già detto? Talk0

venerdì 25 marzo 2016

Dylan Dog n. 353: Il generale inquisitore


Esiste un film misterioso ed esiste per "davvero"! Si chiama "Il generale inquisitore" e racconta la storia di un molto oscuro cacciatore di streghe realmente esistito e realmente tremendo, al punto da aver ucciso qualcosa come trecento donne supposte streghe. Il film fa parte della fin troppo breve filmografia di Micheal Reeves, regista di sole tre pellicole, prematuramente e tragicamente scomparso a soli 25 anni a causa di una forte depressione e di un letale cocktail di barbiturici. 
Durante una visione de "Il generale inquisitore" dei giorni nostri, Dylan incontra per caso uno degli attori della pellicola, Ian Ogilvy, ai tempi molto amico di Reeves e che ancora oggi non si dà pace. L'attore infatti racconta a Dylan di come il regista in seguito all'uscita del film fosse turbato e perseguitato da un uomo misterioso, James Trevanian, che potrebbe averlo fatto uscire pazzo come potrebbe, forse, essere stato soggettista, sceneggiatore e finanziatore occulto de "Il grande inquisitore". Riuscirà Dylan, a distanza di anni, dal 1969, a sbrogliare la matassa e dare un senso alla fine di Michael Reeves? 


Davvero molto, molto interessante. Accatino pesca a piene mani nella storia dell'horror cinematografico inglese e scova un mistero irrisolto che diviene il soggetto alla base di questo numero. Ma che dico, questo numero, per quanto possa essere fruito autonomamente, rappresenta quasi un seguito, un making off, una recensione e un documentario legato alla pellicola e una riflessione sulla vita del suo regista. A questo punto dovrebbe partire spontanea (e spero vivamente succeda perché sarebbe un peccato non farla) la caccia alla pellicola de "Il generale inquisitore", omaggiata e pure riprodotta in alcuni fotogrammi dal bravissimo Casalanguida su questo numero 353. Ma si trova questo film? Ci sta il dvd? Sì, si trova sotto il nome de "Il grande inquisitore" e in rete viaggia sui 7-13 euro in dvd, non è fuori catalogo. In ogni caso il film è bello, tetro e ancora divertente per gli spettatori più giovani (testato). E poi ci sta in mezzo alla scena un gigantesco Vincent Price tutto matto a cui si sono ispirati per me anche il mitico F.Murray Abraham (Bernardo Gui ne Il nome della Rosa, pellicola che tristemente ricordiamo in questi giorni) e il  buon Gary Oldman (l'unica cosa bella di Cappuccetto Rosso Sangue). L'ho già detto per "In fondo al Male", quando Dylan ci spinge a guardare, ascoltare e leggere qualcosa di bello, non dobbiamo essere troppo timidi e dobbiamo cogliamo l'occasione:  potrebbe anche valerne la pena. Mi ricordo che da piccino (nell'era dei pc 286 che andavano a disconi quadrati di cartone, secoli prima di internet...) leggevo avidamente i libricini sui film horror allegati al Dylan speciale, li distruggevo letteralmente a furia di sfogliarli e poi in estasi andavo a saccheggiare la videoteca di fiducia. Ugualmente andavo a caccia delle canzoni citate negli albi, spulciando in luoghi che oggi sono quasi estinti, i leggendari "negozi di dischi". E' bello che anche gli autori di oggi tengano a preservare questo "filo rosso multimediale". Quindi lo spunto è bello e da lì si dipana una trama interessante, molto citazionista, ovviamente "meta-cinematografica", più horror che investigativa, più biografica che fantastica, sul senso del bene e del male alla base della visione dell'opera di Reeves. Un intreccio spumeggiante, volutamente a "puzzle senza pezzi" nella ricostruzione del "materiale narrativo" e anche sorprendente nell'epilogo, quasi Faustiano. Per un verso apre a dubbi trascendenti, irrisolti e gustosi allo stesso tempo, propri  di una pellicola sempre troppo poco citata come "Frailty" di Bill Paxton. Per un altro esplora la "mostruosità nella normalità" alla maniera delle opere più belle di Polanski. Per un altro ancora deflagra in derive degne del Jason Voorhees targato Ronny Yu. E poi c'è Groucho. Un Groucho XXL come non lo si vedeva da tempo, carico a pallettoni e intenzionato a riempire pagine e pagine fitte fitte di barzellette tremende, prendendo soprattutto di mira (ma mai con cattiveria) la nuova fiamma del capo, che in questo caso è rea di essere vegana. E anche qui mi ricordo i Dylan speciali, quelli con allegati i libricini delle barzellette di Groucho, stupendi! Quanto sono vecchio. Quindi una lettura divertente, parecchio citazionista ma non in tono negativo, resa ancora più gradevole dagli ottimi disegni di Casalanguida. La trama prevede salti temporali, filmati, digressioni storiche e mille media diversi di lettura e per questo Casalanguida sceglie stili e sfumature diverse per sottolineare i diversi "livelli" narrativi (almeno 4 ). Il risultato finale è sempre chiaro e preciso. I disegni delle figure umane appaiono sempre morbidi ed espressivi, le sue donne sono bellissime e i suoi mostri terribili, i paesaggi sono dettagliati e in genere la tavola risulta molto bella nella composizione dei chiaro scuri. Ogni tanto mi ha felicemente ricordato il 100 Bullets di Azzarello. 
Un numero decisamente promosso. Datecene altri così. 
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sabato 19 marzo 2016

Zootropolis - lo abbiamo visto anche noi!


Siamo in un mondo di animali evoluti, pucciosissimi, pelouchosi, morbidosi. Animali che camminano a due zampe, parlano un linguaggio condiviso, vestono come esseri umani, abitano in appartamenti per cui pagano un affitto. Sono membri attivi di un'unica società organizzata e pluri-integrata, una conquista frutto della progressiva esclusione degli istinti animali partendo dal più profondo: la classificazione tra predatori e prede. Mi piace pensare che sia lo stesso mondo del Robin Hood della Disney o del Fiuto di Sherlock Holmes di Pagot-Miyazaki, solo che declinato in un'epoca contemporanea, moderna se non futuristica. Zootropolis è al centro di questo mondo e di questa filosofia, è la mega-città dove "chiunque può essere ciò che vuole ", dove tutti, a prescindere da specie animale, sesso e ceto sociale può realizzarsi e aspirare a qualunque lavoro. Una specie di Philadelphia,  per tolleranza e multiculturalità, giusto con qualche imperfezione. E Zootropolis oltre a essere il polo più "moderno" di questo mondo è anche un autentico prodigio architettonico-fantascientifico in chi tutto è fatto "a scale" per adeguarsi alle diverse "taglie" degli animali e integrarli insieme nei contesti sociali e lavorativi. Tutto, dagli edifici ai mezzi pubblici, dalle strade ai ristoranti, ha porte e sedie, porzioni di cibo, contenitori e strumenti tecnologici differentemente standardizzati per adattarsi alle esigenze diverse grandezze dei cittadini. Macchine microscopiche per animali piccoli ma anche macchine enormi, da elefanti, con comandi adattabili ad animali piccoli. Quartieri mono-scala riservati, per avere legami con la propria comunità di appartenenza, edifici con funzioni pubbliche plurilivello - pluriscala. Perfino servizi sanitari pluridimensionali!! Ma non da tutte le parti, purtroppo. 


Ci sono persino delle zone, ricreate con complicati sistemi di ventilazione - riscaldamento che utilizzano vulcani artificiali quanto sistemi refrigeranti per la creazione di zone ghiacciate, deserti o piogge equatoriali. Una riproduzione in scala organizzata, che taglia Zootropolis a raggiera, comprendente tutte le tipologie di clima mondiali, collegate da mezzi di trasporto veloci, zone che riproducono climi e flora diversi per andare incontro alle esigenze naturali delle varie razze negli ambienti più residenziali. Zootropolis ha la sua cultura, i sui giornali, la sua tecnologia i-Phone (non con mela ma con carota), il suo museo storico, la televisione, i politici, le sue pop star (tra cui Shakira in versione stambecco), perfino l'intelligence, le comunità per gli animali "nudisti" (qualcosa di scandaloso anche per i nostri occhi abituati alla animalità evoluta da mezz'ora scarsa, con una lasciva elefantessa nuda e tatuata... pur di anatomia "disneiana"). E ovviamente ha la sua criminalità, che sfrutta occasioni di "spaccio" di merci tra le diverse comunità e zone cittadine, la mafia locale (di impostazione ovviamente italiana, almeno quella vista finora...) e persino la creazione chimica e distribuzione di sostanze psicotrope (c'è pure una citazione da Breaking Bad!). Ma tutti gli animali sono uguali o certi animali sono (Orwell docet) più uguali di altri? Per esempio, la nostra protagonista è una coniglietta che viene dalla periferia, una specie di Kansas. Rimanendo in famiglia assecondando la sua "natura" dovrebbe occuparsi del business dei conigli, l'agricoltura e prepararsi a una vita sessuale che, se seguisse alla lettera l'esempio della madre, sarebbe sfrenatissima, implicando poi l'allevamento di centinaia di figli. Ma la nostra coniglietta, nonostante il suo altissimo grado di coccolosità (e dirlo a un coniglio è segno di razzismo... Perché sì, in Zootropolis c'è pure tanto razzismo e pure locali in cui certi animali non sono graditi) ha anche un forte spirito di giustizia, motivo che la spinge a dare il massimo impegno nell'accademia di polizia (luogo dove non ci sono i servizi sanitari graduati di cui sopra) fino a diventare il primo coniglio in uniforme di Zootropolis.


Piccola ma tosta, veloce come un ninja, un avversario degno anche per un orso. Ma avrà vita facile? Di fatto pur nella modernissima e "opened-mind" Zotropolis tutte le maggiori cariche di comando sono ricoperte, guarda tu proprio gli "scherzi della natura", dai cosiddetti "predatori", mentre le "prede", in rapporto il 90% della popolazione, svolgono solo mansioni da piccoli salarymen e burocrati. I Lemmings sembrano piccoli impiegati tutti uguali e tutti impersonali, i bradipi infestano gli uffici rivolti al pubblico, i canidi sono nei ruoli più "action",  il sindaco è guarda caso un leone e gli agenti medi della polizia sono tori giganteschi, elefanti e animali in genere enormi. La nostra coniglietta sembra destinata a non fare troppa carriera, relegata a fare multe (multe "mono scala" grandi come cartelli autostradali per macchinine dei criceti quindi)  alle vetture in divieto di sosta, per tutta la vita, senza avere mai l'opportunità di entrare in azione. Ma ecco che arriva un grande caso. Dei cittadini di Zootropolis stanno scomparendo, di punto in bianco,  senza lasciare traccia. L'intero dipartimento brancola nel buio. Ma la nostra coniglietta ha una pista e conosce una volpe (e le volpi sono così unanimemente ritenute criminali che non si compra lo spray al pepe antiscippo ma "anti-volpe"... Ripeto, siamo in un mondo razzista...), un tipo mezzo losco che potrebbe aiutarla a sbrogliare la matassa, immanicato come è con le persone più losche del sottobosco criminale.


Zootropolis è un film divertente, è quasi di fantascienza sociologica (tipo THX di Lucas),  è un buddy movie poliziesco, è un film sull'integrazione, è un film sugli "infetti" stile 28 giorni dopo. Quindi prendete un film con protagonista un dinamico duo poliziotto - lestofante stile 48 ore, con Eddie Murphy e Nick Nolte. Poi frullatelo con gli inseguimenti in autostrade impossibili alla Minority Report e aggiungete una punta di "monster movie", perché se anche solo un coniglio arriva a fare a botte con un procione in un quartiere in cui ci sono solo palazzine per talpe è come vedere mostri giganti che abbattono New York o Tokyo palazzo dopo palazzo. Aggiungete alla miscela una sconsiderata componente horror-dark commedy e una sorprendente e inaspettata razione di Tom Clancy, un pizzico di Ellroy, non dimenticate una buona dose di commedia, pretendete Shakira che si sente alla radio al posto di gente che inizia a cantare senza un perché come nel classico Disney. E infine innaffiate con una lotta di classe sul modello de La fattoria degli animali di Orwell. Zootropolis è GROSSO. Le animazioni degli animali sono meravigliose, sanno essere morbidi quanto aggressivi, peluche quanto belve giganti cariche di muscoli tesi, ultra dinamici nei movimenti. E scenografie e la progettazione di tutto il mondo visivo è qualcosa di "fuori scala", puro orgasmo visivo. Le musiche sono di Shakira. Zootropolis  tira fuori le unghie, il vero potenziale, nella trama pregna di così tante e diverse chiavi di lettura da sorprendere e affascinare lo spettatore senza dargli l'effetto "peperonata". Ogni luogo diverso è un posto che non si vede l'ora di scoprire, ogni personaggio dona più spessore e divertimento all'intreccio. E' incredibile il modo in cui, pur con una tale mole di informazioni il film risulti sempre gradevole, leggero, vitale. Tempi comici perfetti, azione avvolgente (ricorda pure Speed in alcuni frangenti), coccolosità infinite e certosine trovate visive. Nel contempo questa girandola riesce a intrattenere tanto i bambini che gli adulti. I primi si perdono in una girandola infinita di colori, si innamorano presto della combattiva coniglietta e del suo non troppo cattivo collega volpe e imparano l'importanza di non discriminare gli altri. Una lezione di vita che non sono in molti cartoni animati a offrire. Ugualmente felici nel post visione sono gli adulti, che magari si aspettano una palla sdolcinata cantarellina seda-marmocchi e tornano invece  a casa con la gioia di aver visto un Die Hard 2.0, una nuova prospettiva per i film d'azione animati. 


Gli autori coinvolti alla regia sono nomi tanto presenti nella bella rinascita delle favole Disney, con Rapunzel e Frozen, quanto in pellicole interessanti come Bolt, Ralph Spaccatutto e Big Hero Six. Pellicole che mi affascinano perché stanno cercando un modo nuovo di intendere l'animazione Disney, una via alternativa che contamina sempre più l'animazione con il cinema di genere, specialmente l'action.  Mi piacciono questo autori e mi è piaciuto, un casino, questo Zootropolis. Non solo a me. Al punto che ho dovuto penare su internet a cercare qualcuno che proprio non lo abbia digerito, per vedere punti di vista differenti da "wow!!!!!!!!". Una critica plausibile tra quelle scovate è che in Zootropolis si respiri un po' troppo aria da poliziesco e quindi non entusiasmi quanti hanno una sincera avversione per questo genere. E vAbbeh. Una ulteriore critica è che nell'infinito gioco citazionista e nella gargantuesca, ipnotica, sterminata complessità della architettura cittadina su cui si dipana un action frenetico multi-livello si possano divertire più gli adulti che i bambini, che magari si incastrano in alcuni passaggi di trama. Insomma, questo cartone animato sarebbe "più film" che "favola" e non certo il classico musical da "depositarci davanti i bambini" finché non dormono. In parte è vero, il film è veloce da seguire e gioiosamente complicato, ma spesso riesce a essere anche deliziosamente semplice e immediato anche per i più piccini. La scena dei "ghiaccioli" è straordinaria in questo e fa seguire al pubblico un ragionamento complicato ma gioiosamente intuitivo, che per un bambino è interessantissimo e nuovo. E il film è pieno di perle come queste, momenti in cui tutti diventiamo detective osservando la scena. Forse quindi per i bambini piccoli, come ninna nanna pomeridiana, non è l'intrattenimento migliore, anche perché tra inseguimenti infiniti e musica action riposeranno poco. Ma per i più grandicelli, dai 5 ai 99 anni, rimane per me uno spasso. Davvero consigliatissimo. E poi dannatamente vero nel parodiare una società che sotto pellicce buffe e architetture vertiginose, stringi stringi, è la nostra. Bradipi inclusi. 
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mercoledì 16 marzo 2016

Sherlock - la sposa abominevole: we are all "sherlocked".



Londra, diciannovesimo secolo. Una donna dal viso spettrale vestita da sposa spara da un balcone del centro sulla folla, servendosi di due pistole, mente canta una nenia inquietante. Poi si ferma, si infila una pistola in bocca e si suicida, finendo presto distesa sul tavolo dell'obitorio. Ma il giorno dopo la stessa donna incredibilmente abbandona il tavolo operatorio e torna in vita, come fantasma, ancora con il cranio spappolato, percorrendo le vie di Londra, fino a trovare e poi uccidere, con un colpo di fucile il suo ex marito. La donna poi scompare tra la nebbia e riappare all'obitorio, dove la salma viene ricoperta da pesanti catene.  Come ha fatto il cadavere a muoversi? Il mistero non verrà risolto fino a che, anni dopo, sembra che il fantasma della sposa sia tornato in attività e abbia una nuova lunga lista di omicidi. Chi riuscirà a fermarla?
Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, dopo essere stati sul grande schermo per Peter Jackson una strana coppia Drago- Hobbit, Smaug e Bilbo, tornano a essere la ugualmente strana coppia "bromance" Sherlock e John, per quella che a tutti gli effetti è, compressa in un solo film, la quarta stagione dello sfavillante serial sull'investigatore del 221b di Baker Street a firma Moffat e Gatiss. E' stata una attesa lunga anche perché i due attori che dal 2010 danno vita a questo serial sono nel tempo davvero esplosi a livello internazionale. Faccio una predizione. Prima o poi si incroceranno di nuovo insieme, magari in un film Marvel, visto che sono per ora stati già "precettati" per Civil War e Doctor Strange, pellicole che la Casa delle Idee ha deciso di far debuttare proprio in questo 2016. Ma torniamo a Baker Street, per rispondere a una domanda che magari qualcuno si starà facendo.
Si può guardare questo film senza aver visto le tre serie precedenti di Sherlock? Per me, è meglio di no. Anche se l'ambientazione pare a prima vista non considerarlo possibile, gli eventi e i legami tra i personaggi rispecchiamo la situazione che si prospettava alla fine della terza stagione. Uomo avvisato, tiriamo innanzi o meglio, indietro, oppure, come recitava il Rocky Horror Pictures Show, "lasciamo che inizi il time warp". 


Abbandonato lo skyline del London Eye e del "Megafallo@", i cieli e le vie  del nostro serial del cuore diventano quelli della Londra vittoriana presa dritta dritta dalle pagine di Sir Arthur Conan Doyle. Tanti costumi d'epoca, interni elaboratissimi e una poco invasiva cgi. Scenografie e fotografie, pur con un gusto moderno che strizza l'occhio alla serie, richiamandola in mille dettagli, sono realizzati, in pieno omaggio e orgoglio inglese, con riferimento alla serie tv del 1964, quella con Holmes e Watson interpretati da Peter Cushing e Nigel Stock. Ma non basta, a impepare il tutto ci sono pure dei richiami soprannaturali ai fantasmi velati della inglesissima e recentemente di nuovo in auge (the woman in black) casa di produzione di film horror Hammer (che annovera film dove peraltro era facile trovare Cushing). Bello, non "vecchio" ma vintage,  di impatto. Già quando sono circolati i primi trailer con Cumberbatch con pipa e cappello con bottoni, i fan hanno apprezzato, hanno pianto felici e hanno scolato due birre scure. L'operazione ancora solo "nell'aria" era piaciuta. Ma come si poteva renderla possibile? Come contestualizzare questo strano viaggio nel tempo senza farlo apparire come uno spinoff "tanto per"? E qui arriva il genio di Moffat, non a caso frontrunner del Doctor Who, che se ne esce con una trovata geniale e soprattutto sensata che sta a voi scoprire. Tutto il cast è presente e al top, la scrittura è sempre divertente e accorta, dettagliata, squisitamente sopra le righe quanto chirurgica. I nostri eroi si scambiano continui battibecchi con una scioltezza inarrivabile, giocando a interpretare versioni "alternative" dei loro ruoli. Ne esce un Holmes più sadico che mai che non vede l'ora di assistere ad una decapitazione. Un Watson vittima della moglie, ma sempre amabile e sfigato, che fa la voce grossa con la servitù da signorotto benestante. Gatiss, come sempre anche sceneggiatore, dà al suo Mycroft, ricoperto da trucco pesante, una stazza pachidermica degna del ciccione "in esplosione" de Il senso della vita dei Monty Python, un surreale, grottesco creaturo che pur di vincere una scommessa con il fratello è in grado di accorciarsi la vita. C'è poi una scena "silenziosa", altro omaggio ai Python che fa sbellicare. Altri dettagli non ve li dico o temo di rovinarvi qualcosa. L'investigazione, come sempre nel serial, è da seguire con un po' di attenzione ma non è troppo tortuosa La nuova "vecchia" Londra con calessi al posto delle auto è intrigante, quanto i suoi cupi sotterranei e la nebbia onnipresente, con candele che non si spengono mai di Hammeriana memoria. Parte come un horror, mischia con la commedia, con intrigo e forse col sovrannaturale, con l'onirico.  La trama non conosco sosta e regala pure un paio di momenti epici niente male. Le strizzatine d'occhio ai fan si sprecano e rendono felici. E voglio ricordare per chi non lo fosse, che non è difficile, anche in ragione a questioni di tempo,  diventare fan di questo Sherlock. In fondo tutta la serie è divisa in nove film (tre a stagione) lunghi come questo e non occorre fare il mutuo per mettersi in pari, basta prendersi una unica raccolta di dvd (le tre stagioni complete insieme ) che sta oggi intorno ai 15 euro.  


Questo film, sarà perché amiamo gli attori e i loro personaggi, sarà perché Londra ce l'abbiamo sempre nel cuore, ci è piaciuto e tanto, facendoci crescere una voglia matta di nuovi capitoli del serial BBC. Certo non è una mega produzione come il dittico di Guy Ritchie, non aspettatevi una Londra gigantesca digitalizzata, quanto una ottima puntata di un telefilm ad alto budget. A cercare un difetto nella sceneggiatura c'è forse un passaggio di trama un po' brusco e "troppo risolutivo" che riguarda una certa entrata in scena della signora Watson. Ma è un neo che ci può stare. Bentornato Sherlock. Ora vi saluto e mi faccio una mini maratona. 
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lunedì 14 marzo 2016

Hardcore Henry - trailer


E se la modalità campagna di un gioco alla Call of Duty diventasse un film? Non dico un film generico su Call of Duty, che prima o poi è inevitabile, ma proprio la campagna, "giocata in prima persona" che si trasforma forse nell'evoluzione più estrema del found foutage movie. Via quella cacchio di telecamera a mano, spesso ingiustificabile con questioni di logica e sopravvivenza più primordiali, e benvenuta visione direttamente dalle palle degli occhi del protagonista, in un'estetica da proto first person shooter cinematografico. Certo non è la prima volta che si tenta qualcosa di simile, ci sono stato film d'autore che ci hanno provato e alcuni frammenti di film che hanno fatto ricorso a questa tecnica "telecamera free". Mi vengono in mente le scene di "possessione" di Essere John Malkovich, le soggettive di Lo Scafandro e la farfalla, molte scene di Robocop di Verhoeven, a cui questo Hardcore Hanry sembra ispirarsi in più di un punto, cybernizzazione compresa del protagonista. Ma il referente immediato che per primo mi è balenato alla mente dopo la visione del trailer è il finale di Doom, film del 2005 di Andrzej Bartkowiak ispirato a Doom 3, in cui per un attimo vedevano gli occhi dalla prospettiva dell'attore Karl Urban. Il film, bruttino a dirla tutta, per un istante si impennava trasformandosi esattamente in un livello del videogame.


All'epoca per un videogiocatore questo rappresentava un orgasmo multiplo. Da allora, come una profezia, mi convinsi che per vedere nuovamente qualcosa di simile avrei dovuto fare affidamento solo su un regista dall'altrettanto nome impronunciabile. Ed è arrivata quindi Ilya Naishuller. Naturalmente dietro la supervisione di quel geniaccio di Timur Bekmambetov, il massimo regista russo dell'action, con all'attivo bombette come I guardiani della notte, il film "bello e non palloso" su Lincoln e Wanted. Il progetto è stato supportato da una campagna di crown founding e il protagonista della pellicola, quello che non vediamo perché è in prima persona e l'unico a non avere il cognome in russo è l'attore feticcio di Blomkamp, Sharlto Copley, l'uomo chiamato Chappie. 


Dalle prime immagini sembra che il tasso di spettacolarità della pellicola sia alto. Il contesto fantascientifico -splatter poi ci ricorda , oltre a Robocop, pure cose di questo tipo



L'incognita è se il film riuscirà a tenere alta l'attenzione degli spettatori per tutto il tempo, soprattutto per coloro che non sono soliti guardare su youtube o twich ore di videogiochi giocati da altri. Ma l'operazione ci piace, sembra divertente e sopra le righe quanto basta a diventare un piccolo cult. E se va bene sono stra-convinto che film di questo tipo ne vedremo parecchi. 
Talk0

sabato 5 marzo 2016

Ghostbusters - il trailer ufficiale


Trent'anni sono passati, come ci ricorda la prima frase del nuovo trailer, dalla magia voluta, pensata e creata in sinergia da quei geniacci di Aykroyd, Ramis e Reitman. Mille difficoltà, ridimensionamenti di budget, ma alla fine ne uscì un miracolo di film, entrato diretto tra i cult e idolatrato dai milioni di fan di tutto il mondo, poi parzialmente delusi da un seguito non all'altezza (pur essendo un gran bel film...).
Il resto della storia è nota, più volte ne abbiamo parlato anche su queste pagine... Ramis continua a scrivere sceneggiature cercando di accontentare l'amico Murray, che in segno di profondo rispetto le accumulava sul comodino sotto i volantini di Pizza Hut e i vecchi occhiali bifocali ormai inutili. Ramis ci lascia le penne e giustamente Murray accetta un cameo nel nuovo Ghostbusters.
Nuovo Ghostbusters... non Ghostbusters 3, almeno questo l'hanno evitato, perché questa "cosa" nulla ha a che vedere con il classico del 1984. Trattasi di reboot, come si usa dire oggi, in sostanza "un punto a capo e si ricomincia", in linea con quanto è stato fatto per altri grandi classici del passato, da Star Trek (venuto molto bene e  trattato con grande senso logico) al recente Star Wars. In sostanza un omaggio a ciò che è stato fatto e una sorta di passaggio del testimone a una nuova generazione di protagonisti.


Nel caso del nuovo Ghostbusters è stata scelta una linea femminile con totale ribaltamento dei ruoli, quindi Janine, la telefonista, ora sarà Kevin (Chris Hemsworth) e i quattro acchiappafantasmi saranno tutte donne, che nel look comunque ricordano il mitico quartetto originale.
Detto questo per completezza non vi resta che guardare il trailer... potete tranquillamente spegnere al primo conato. Io non l'ho fatto sperando in una piccola apparizione anche solo di uno dei vecchi personaggi, che però non è arrivata.
Ok, ci sono un sacco di fantasmi, grandi piccoli, simpatici o molesti. C'è la Ecto 2 che ora è un ex carro funebre, ci sono le tute e gli zaini protonici rivisitati. E va tutto bene, non sono uno di quei fan che urlano perché la Ecto non è un'ambulanza. Ma è l'atmosfera che si respira che non funziona. Sembra di assistere a  una puntata di "Una mamma per amica" con degli effetti speciali, in cui le protagoniste urlano e cercano di essere simpatiche facendo cose buffe. Magari poi il film funzionerà, ma per ora è semplicemente "triste".
Gianluca