venerdì 30 luglio 2021

Ghostbusters afterlife: il trailer

 


Allora: reazione a caldo. 

C’è aria di guardia di porta e mastro di chiavi... speriamo non sia solo materiale copia-incolla in salsa Strangers Things del primo film. Le “brutte inclinazioni” potrebbero essere dietro l’angolo... ma voglio essere positivo, non guardare da quella parte, almeno per ora. 

A ogni nuovo trailer poi mi viene un piccolo brivido (wow la battuta finale di Ray nel negozio dell’occulto!!!)  e credo che stiano andando nella direzione giusta, che è un po’ quella dei film di IT. Paura e divertimento messi bene insieme, in una cornice amarcord. Ora comprendo che ci sono anche persone a cui i film di IT non è che siano piaciuti “di brutto”, aspetto di cui bisogna tenere ugualmente conto. Come non posso negare che c’è Paul Rudd, pure in una deliziosa scenetta con gli omini di mashmallow, che in Friends faceva quel personaggio insignificante in modo molesto. Nonostante Ant Man, non riesco a farmelo piacere come attore... ma pure di questo non voglio occuparmi adesso.

Per lo meno vedo di nuovo in un film dei Ghostbusters (per quanto siamo solo nel trailer) dei fantasmi che “fanno paura”. Creature da affrontare sì con l’ironia, tra una smerdata verde e un “pigliala”, ma anche creature da trattare con la dovuta riverenza e timore. Con tutta quell’epica del confronto tra “uomini e dei” che il film “delle ghostbusters” aveva dimenticato esistesse. Come fosse solo una roba di balletti e luci colorate. Come se i fantasmi non fossero più “spiriti” ma oggetti da videogame da distruggere... mamma mia, anche solo a ripensare a quel film sul piano della rappresentazione e uso dei fantasmi mi viene da vomitare... ma non voglio ora pensare a quello, voglio prenderla con filosofia e positiva a attesa.  

È un “buon inizio” questo nuovo trailer e quindi in attesa del debutto in sala di novembre, mi sento appagato. Speriamo bene e che non si debbano incrociare i flussi. 

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giovedì 29 luglio 2021

Jungle Cruise - la nostra recensione del nuovo film Disney con Dwayne “The Rock” Johnson ed Emily Blunt

 


Siamo all’inizio del 1900 quando nel cuore dell’Africa sembra essere nascosto un incredibile tesoro, tra le acque del grande fiume. Si parla dell’albero della vita e sembra che chi ne possieda le foglie possa diventare immortale, ma non è così semplice realizzare questa impresa. Da secoli avventori e conquistatori da tutto il mondo lo cercano, non arrivando alla meta o finendo vittime di terribili maledizioni. Una giovane avventuriera (Emily Blunt) venuta in possesso di un antico manufatto che indica il luogo del tesoro, parte all’avventura. Troverà ad aiutarla nella ricerca il capitano di una nave turistica dall’aria misteriosa (Dwayne Johnson) che sembra conoscere molto bene la leggenda, ma non sarà la sola “predatrice della pianta perduta. A breve distanza, segue le sue orme, con il suo sommergibile da combattimento e il suo piccolo esercito (Jesse Plemons), un giovane e spietato barone austriaco. Chi scoprirà per primo il tesoro? E chi sarà in grado di affrontare i temibili conquistadores maledetti che da secoli infestano la zona? 

Sulla stessa onda della fortunata saga dei Pirati dei Caraibi, Disney confeziona un nuovo adattamento cinematografico basandosi su una celebre attrazione del suo parco di divertimenti. Lo stile visivo ha il medesimo impatto, dalle sontuose scenografe ai roboanti effetti speciali. La storia, ancora una deliziosa avventura esotica dal sapore vintage sul modello della prima Hollywood (quella di Errol Flynn), replica la scelta vincente, e la adatta a tutte le età fondendo ironia e azione a rotta di collo, e permettendo agli attori di muoversi e comportarsi come versioni “umanizzate” di un cartone animato. Anche la durata “extra-large” della proiezione conferma in tutto e per tutto il “canone” e la portata da colossal dell’operazione. 


C’è molto dell’Indiana Jones di Lucas e Spielberg, specie nel look generale delle ambientazioni, negli “enigmi” e nella scelta dei “cattivi”. C’è un tocco della Mummia di Sommers nella scrittura dei personaggi (interessante che Dwayne Johnson anni fa abbia esordito “al blockbuster” proprio con la Mummia 2, impersonando il Re Scorpione), non mancano ovviamente suggestioni dei Tales Spin di Disney e abbiamo come co-protagonista una magnifica e divertente tigre digitale (frutto della tecnologia propria degli ultimi live action Disney). Dwayne Johnson si conferma eroe di grandi e piccini, sfoggiando il consueto sorriso infinito e il fisico scultoreo. Il suo personaggio, che si esibisce in continue acrobazie e spericolati combattimenti ed inseguimenti, riesce a trovare il tempo per essere autoironico, perfino tentando venature “drammatiche”. Emily Blunt dopo essere stata per Disney Mary Poppins non rinuncia nel nuovo personaggio ad apparire come una donna energica ed indipendente. Una avventuriera “femminista”, intelligente ed atletica, che indossa per fregio dei pantaloni con stivali al posto di gonne e corsetti, in un mondo di inizio '900 che le sta troppo stretto, che la vorrebbe “in cucina o in silenzio”. I due personaggi funzionano singolarmente, ma forse come coppia “non scatta la scintilla”. Funzionano molto bene e sono di sicuro proiettati a un grande successo i giovani Jake Whitehall e Jesse Plemons. Il primo interpreta un giovane dandy, il fratello del personaggio della Blunt. Per leggerezza e ironia ricorda il grande John Hannah della Mummia e i suoi momenti in scena sono molto spassosi. Jesse Plemons allo stesso modo è impressionante per quanto sembri un giovane Philip Seymour Hoffman. Il suo “villain” è imprevedibile per ferocia quando per eccentricità. Paul Giamatti ed Edgar Ramires costituiscono dei comprimari davvero di lusso. 

Interessante ma non “iconica”, forse un po’ “trattenuta”, la colonna sonora di James Newton Howard. 



Jungle Cruise è un film divertente, il perfetto ottovolante da guardare al cinema, su uno schermo gigante. con un chilo di popcorn, insieme ai più piccoli. Se volete gli inseguimenti e i duelli più spericolati, conditi da tanta ironia ed effetti speciali, siete nel posto giusto. Se siete nostalgici dei film alla Indiana Jones, un giro di giostra su questo Jungle Cruise dovete farvelo. Ma lo stesso può valere se avete amato cartoni animati come il Tarzan della Disney e gli ultimi Live Action sul Libro della Giungla e Il re leone. Poi naturalmente, se siete orfani di Jack Sparrow, qui vi sentirete un po’ a casa e ogni tanto quasi spererete di scorgere il pirata in una o due inquadrature. Volendo per “magia” e ambientazioni quello di Jungle Cruise potrebbe essere lo stesso mondo dei Pirati dei Caraibi e chi può dire che in futuro, forse, non potrebbe diventarlo? C’è una scena a inizio film che pare, in scala ridotta, il cavou dell’Arca dell’Alleanza di Indiana Jones, quella dell’area 51 del Teschio di cristallo. Vi confesso che per un attimo ho cercato le monete di Barbossa, pur non trovandole. 

Jaume Collet- Serra è un regista interessante con alle spalle dei thriller niente male come Orphan, il divertente The Shallows con squali e la bellissima Blake Livey, molti film con Liam Neeson. È lanciato a dirigere ancora Dwane Johnson in Black Adam e sembra aver compreso bene il modo giusto per lavorare al meglio con la star, usando la giusta leggerezza. Forse però serviva alla formula di Jungle Cruise un po’ di “romanticismo”, come era stato nella Mummia tra Raquel Weisz e Brendan Fraser, come era stato tra Orlando Bloom e Keira Knightley nei Pirati dei Caraibi. The Rock sembra oggi incarnare il ragazzino in corpo da uomo del suo ultimo Jumanji e sembra quasi “strano” vederlo in effusioni. Parimenti anche la Blunt, come in Mary Poppins o nel recente A quiet place 2, sta incarnando prevalentemente ruoli materni, protettivi. Forse anche per questo, da spettatori, facciamo fatica a vederli come una coppia, preferendo i momenti in cui i due puntano più a instaurare un clima giocoso e complice. Ma questo credo sia più un mio punto di vista, che comunque non inficia la godibilità generale. Il pubblico più giovane non ci farà probabilmente caso. 

Jungle Cruise è il grande filmone da vedere al cinema con tutta la famiglia per una serata scaccia pensieri. Una bella occasione per tornare in sala. 

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giovedì 15 luglio 2021

Black Widow - la nostra recensione del nuovo film Marvel/Disney


 

C’era una volta Natasha Romanoff (Scarlett Johannson), la “vedova nera”. Prima una super spia russa forgiata alle arti seduttive e belliche nella misteriosa “Stanza rossa”, poi membro di punta “sul campo di battaglia” dello S.H.I.E.L.D., poi comandante in capo degli Avengers durante il “pensionamento” di Iron Man. Senza possedere dei “superpoteri”, come  il sodale amico Occhio di falco, Natasha ha affrontato minacce di tutti i tipi, dagli alieni invasori alle divinità norrene, dai robot impazziti ai distruttori di universi. Una supereroina senza superpoteri, fino alla fine. Fino a quando (in Avengers: End Game) ha dato tutta se stessa per salvare il mondo in un estremo gesto di altruismo.

Come spettatori dei film Marvel/Disney conoscevamo la Vedova nera da quando era entrata in scena per la prima volta, nel secondo film di Iron Man. Sapevamo ancora poco del suo passato, se non per alcuni flashback in Avengers Age of Ultron, e non sapevamo di certo ancora nulla della strana “famiglia” in cui Natasha aveva passato alcuni degli anni più felici della sua infanzia. Così, per la prima volta, oggi in Black Widow la vediamo quando era piccola, quando era una ragazzina apparentemente spensierata dai capelli blu (interpretata da Ever Anderson). Una ragazzina che giocava nei pressi di un bosco all’imbrunire, nella provincia americana degli anni ‘90, insieme alla sorella Yelena (Violet McGraw), di qualche anno più piccola, imitando con braccia e gambe i movimenti dei ragni, muovendosi di schiena e a testa in giù. Le due sorelle avevano una mamma dolce e timida, Melina (Rachel Weisz), probabilmente di origine russa per via del suo strano accento. Melina parlava come una insegnante di scienze, ma metteva un po’ di magia nel  raccontare alle piccole la strana forma luminosa delle lucciole. Il padre, Alexei (David Harbour), forte come un toro e con la macchina piena di merendine strepitose, è pronto a travolgerle con una sorpresa, la promessa di straordinarie avventure in una casa nuova. La famiglia doveva fare spesso degli spostamenti per lavoro, ma era unita, felice. Fino a che quell’ultimo trasferimento è stato interrotto e la vita di questa famiglia si è scontrata con gli orrori della Stanza rossa. Il nuovo luogo in cui le ragazzine sarebbero state cresciute, con crudeltà militare, per diventare assassine prive di sentimenti. Creature private e prive per sempre di una famiglia, a partire dall'asportazione  forzata degli organi riproduttivi. 



Ci spostiamo più in là nel tempo, temporalmente siamo prima degli eventi di Avengers: Infinity War. Natasha, in fuga dopo essersi schierata con Captain America contro l’atto di registrazione dei supereroi (eventi raccontati in Captain America Civil War) finisce per essere coinvolta in una storia che riguarda proprio Yelena (da adulta interpretata da Florence Pugh) e il vecchio capo della Stanza Rossa (Rey Winston). Un ritorno al passato che potrebbe avere come chiave la visita di un vecchio “covo di spie”, situato a Budapest. Yelena si trova in un grande pasticcio. Potrebbe essere un’occasione per riunire la vecchia famiglia segreta, per salvare tutti insieme la sorellina più piccola, ma sulla strada di Natasha si frappone da subito il letale supersoldato conosciuto come Taskmaster.

Doveva uscire a maggio 2020, ma dopo la pandemia il primo film da solista della Vedova Nera, amatissimo personaggio del pantheon Marvel, giunge in sala solo dal 7 luglio 2021. È un film fresco, veloce. Uno spy Movie sulla scia dei migliori Mission Impossible, pieno di inseguimenti roboanti, combattimenti che sfidano le leggi di gravità, grandi intrighi e cospirazioni che operano nell’ombra. Ci sono i supereroi e i superpoteri, come è giusto e lecito che sia in un film Marvel, fatto per il quale tutto diventa più “grosso”, ipertrofico, in un processo esponenziale che parte fin dalla sequenza che apre ai titoli di testa. Ma tra super-salti, acrobazie da funamboli e scudi rotanti, “la famiglia” (per dirla alla Vin Diesel) è il vero superpotere della pellicola, diretto dalla (brava) australiana Cate Shortland e scritta da Ned Benson (La scomparsa di Eleanor Rigby) e Jacqueline Schaeffer (Captain Marvel, Wandavision). La Johansson da sempre, da Iron Man 2, ha compreso che per faci amare la Vedova Nera doveva infondere nel personaggio cuore e gentilezza, sensualità e umorismo. Natasha è ben più di una guerriera del KGB dai capelli rossi  armata di dardi esplosivi e tutine aderenti. Da ammiccante femme fatale a fumetti è subito diventava una donna complessa, dolce quanto matura. Una donna in grado di giocare con la sua sensualità senza tabù, come quando si finge debole e impaurita davanti a dei criminali “mezze tacche” che la “imprigionano” nel primo Avengers. Ma anche una donna in grado di commuoversi e innamorarsi dell’uomo dietro a Hulk (in Avengers Age of Ultron), una stratega riflessiva (In Avengers: Infinity War). È bello scorgere questa complessità emotiva anche nella nuova “famiglia” della Vedova Nera, dove tutti i componenti sono ugualmente ben scritti e interpretati. C’è un ottimo amalgama tra gli attori e subito la Weisz diventa una mamma da cui aspettarsi abbracci e di cui preoccuparsi quando non risponde al telefono. Harbour come super-padre sembra ruvido e distaccato, ma travolge con un solo abbraccio. La Pugh diventa una credibile “sorellina piccola”, che vuole fare tutto a “suo modo”, rimanere indipendente, non ascoltare critiche e tirare frecciatine alla sorella più grande, ma è pronta a intervenire nei momenti difficili. E poi ovviamente c’è la Johansson, che si riesce a calare in questa meccanica di gruppo in modo spontaneo, avvolgente, generoso, senza fare la prima donna. Dal mio punto di vista le scene famigliari di Black Widow, con i loro dialoghi quotidiani, le prese in giro del papà e le raccomandazioni materne, nascondono di fatto la più grande magia della pellicola. Si crea tutto un leggiadro balletto emotivo tra frasi non dette, tempi sospesi, gesti che valgono più di mille parole e tendono tutti ad autenticare e colmare l’inestinguibile bisogno di un pur piccolo, pur “surreale”, incontro emotivo tra i personaggi. Spie che interpretano un ruolo “da persone comuni”, per scopi bellici, finendo per innamorarsi di quella funzione e crederla autentica. Crederla reale. Poi se volete e preferite c’è tutta l’azione a rotta di collo e il film trasuda divertimento, diventa presto un ottovolante. Ma il lato emotivo dei personaggi è per me il pezzo forte. Adeguato per cattiveria il villain. Sfuggente, ambiguo, compiaciuto e inesorabile specchio di un potere assoluto e  cieco, che si spera seppellito con la guerra fredda, è un personaggio davvero glaciale. Taskmaster non è lo stesso personaggio “stralunato” dei fumetti, che sembrava un po’ in certe incarnazioni quasi un Deadpool depresso e autoironico (con la maschera sul volto sempre mobile e scheletrica, quasi un fratello buffo di Skeletor dei Masters of The Universe). Il nuovo Taskmaster è silenzioso come un Terminator, ma non rinuncia alla sua cifra “supereroistica” di riuscire a replicare ogni movimento e colpo segreto dei supereroi più noti. Vederlo in azione è uno spettacolo. Molto bello l’inseguimento sulle strade di Budapest, la sequenza della prigione e il vertiginoso confronto finale. 



Black Widow è un film divertente e ben recitato, ideale per una serata spensierata. L’amalgama che si crea tra gli attori è molto forte, al punto che sembrano davvero una famiglia credibile e unita. L’azione che si vede su schermo resta nella linea di uno spy movie ad alto budget, molto “fumettoso” ma bello adrenalinico. Non innoverà il genere ma Black Widow è una pellicola piacevolissima e gli Stunt sono realizzati ad arte. Poco incisivi i cattivi, ma funzionali.

I supereroi sono tornati al cinema. 

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lunedì 12 luglio 2021

Dressing - una antologia a fumetti spiazzante e divertente di Michael Deforge


Di cosa “ci veste” la nostra esistenza, plasmandoci come esseri umani? Qualche volta cerchiamo di spogliarci di tutto (come nel racconto Disegni dell’influenza), rinunciare ai nostri mille confini fisici e psicologici (come nel racconto Marte è la mia ultima speranza), per fonderci nell’amore e nel mondo. Qualche volta pensiamo che è invece il mondo a scegliere per noi una forma e un vestito, condannandoci all’infelicità (il racconto Siti Web) o all’ignoranza (Dot Com), a volte senza lasciarci vie di fuga che non siano stordirsi (Guai seri)  o rinunciare al nostro personale modo di percepirci (Elfi). Ogni tanto, se non è il “mondo cattivo”, c’è comunque una vocina interiore che ci frena dall’essere felici (Il piccolo Oftalmologo), come un genitore che non ci ascolta e forse ci trascinerà in un modo distorto di vedere il mondo (La mia interessante madre, un miliardo di miglia). Sempre più persi e indecisi su cosa fare e diventare, finiamo per credere (e “credere” è sempre un “abito mentale”), ai complotti (Gatti armati) o a cercare partner che ci fanno del male (Animali umidi). Non sono cose che si risolvono: sono cose con chi dobbiamo convivere. Per sopravvivere a questa “prova vestiti”, il disegnatore canadese Deforge (cresciuto nella grande palestra di Adventure Time come Jesse Jacobs, altro autore spesso pubblicato in Italia da Eris Edizioni), sfodera l’ironia. Una ironia spiazzante e sulfurea con cui ammanta ogni dialogo e gran parte dei disegni. Perché se molti sono gli omini buffi soliti popolare le storie di Deforge, spesso l’autore predilige incubi organici, omuncoli emozionali, microcosmi fatti di cellule e batteri. Dalla lettura dei piccoli e fulminanti racconti contenuti in Dressing, deriva al lettore una esperienza che ne risveglia i sensi (sollecitando sensazioni tattili), lo lancia dentro all’interpretazione dei disegni più arditi (astratti ma forse “erotici”), lo sollazza con il non-sense di gattini armati di pistola e biscotti natalizi manipolatori. Ogni racconto è completamente diverso per stile visivo e narrativo, quanto collegato funzionalmente al tema del “confine” dell’uomo con la sua percezione del mondo. Spesso si finisce nello psicanalitico e per chi ama la materia Dressing è particolarmente appagante, ricco, intelligente. 

Non è una lettura per tutti. Spesso risulta criptico, sovente malinconico, in qualche caso crudele. Per qualcuno il tratto sarà eccessivamente stilizzato e astratto. Ma proprio per questo Dressing è un fumetto “vivo”, affascinante, che riesce a trasmettere emozioni “nuove” a chi le sa cogliere. 

Un plauso a Eris Edizioni per la scelta editoriale coraggiosa e per la cura dell’edizione. 

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lunedì 5 luglio 2021

La felicità degli altri - la nuova commedia francese di Daniel Cohen, con Vincent Cassel, Berenice Bejo, Florence Foresti e Francois Damiens

 


Léa (Berenice Bejo) lavora in un outlet come commessa di un negozio di abbigliamento. Ama osservare le persone e cerca con l’empatia di entrare nei loro piccoli mondi, anche solo per aiutarle a scegliere un vestito appropriato. Vive di creatività scrivendo dei racconti su chi incontra ogni giorno, è sempre gentile con gli altri e si sente appagata della sua vita “così come è”. Marc (Vincent Cassel), il ragazzo di Léa, lavora nel campo dell’alluminio e sogna di arrivare sempre più in alto nella gerarchia aziendale. Ogni traguardo lo rende insoddisfatto nella prospettiva che un traguardo più ambizioso è davanti, al punto che la sua vita diventa una sfida continua verso il nuovo livello di affermazione personale. Per Marc è inconcepibile che Léa non si impegni nel fare carriera e “passare di livello”. Per questo si arrabbia quando la vede titubante alla prospettiva di una promozione lavorativa che lei ha già in tasca, per un ruolo da dirigente. Ma Léa quella promozione non la vuole, perché vede quello scatto solo come un doloroso distacco dalle persone che quotidianamente incontra all’outlet, per andare a svolgere “a vita” montagne di scartoffie burocratiche per cui non si sente per nulla portata. L’indecisione sul futuro della donna diviene ancora più asfissiante anche per via della coppia di amici che abitualmente Marc e Léa frequentano, Karine (Florence Foresti) e Francis (Francois Damiens). Una coppia con figli schiacciata dalla routine familiare che ha smesso di vivere con entusiasmo. Il “disastro” e massimo biasimo del gruppo nei confronti dell’indecisa Léa arriva una sera al ristorante, davanti all’improvvida offerta di un cameriere del più rinomato dolce della casa, le “Ile flottante” (che è poi il titolo originale della piece teatrale da cui Cohen ha tratto la sceneggiatura del film). 



Conosciute anche come “Uova alla neve” o le “spumose galleggianti”, un po’ concettualmente a metà tra la meringa e la creme brûlé, sono un dolce al cucchiaio piuttosto (apparentemente) semplice da realizzare, calorico quanto godurioso, appagante. Un dolce “facile da realizzare e poco appariscente” che Léa vorrebbe provare, ma che non prenderà se a prendere il dessert sarà “da sola”. Il dolce è un piacere che vuole condividere, senza sentirsi privilegiata in quello “sgarro”. Dal nulla, nasce una specie di guerra psicologica in cui il gruppo continua a cambiare idea sminuendo le scelte individuali. Tra una opposizione di Marc all’Ile flottante in ragione di una più “elaborata” torta millefoglie alle fisse alimentari di Karine, passando per le richieste di Francois circa un numero sempre variabile di cucchiaini per dividere i dolci, il gruppo, incapace di trovare una soluzione intermedia più che altro sul tema del “condividere”, trasforma piano piano la cena in una specie di isterico atto di accusa all’indecisione di Léa nell’accettare la promozione. Un atto che diventa quasi legittimo, quando la ragazza confessa di pensare, invece che alla promozione, a scrivere un libro. Dopo essere venuta in contatto su facebook con un autore famoso (interpretato dal regista Cohen), Léa gli aveva fatto leggere dei suoi manoscritti, che gli erano piaciuti e ora voleva metterla alla prova con la possibilità di scrivere un libro. Gli amici pensano più o meno: “Léa la sognatrice che pensa a un hobby, al posto di concentrarsi su una promozione sul lavoro. Magari lo scrittore famoso vuole solo provarci con lei”. Così la sanguinosa “guerra del dolce“ si colora di “significati morali” e diventa a fine serata una “guerra dell’hobby”. Se “Léa l’indecisa“ vuole scrivere, Katrine scriverà un libro anche lei per dimostrarle che “non ci vuole niente” e lei fin dalle scuole era più portata di Léa per lo scrivere, essendo anche più divertente e originale. Allo stesso modo Francis tornerà a suonare musica dance con una pianola come ai tempi del liceo, perché per lui sarà “facilissimo farlo”. Marc non partecipa alla gara perché deve occuparsi di “Cose serie”, come un contratto internazionale importante e ovviamente la conseguente possibile e auspicatissima promozione successiva nella sua azienda che si occupa di alluminio. 



Poi succede che Léa finisce il libro e diventa famosa, molla il lavoro di commessa e va a vivere in un appartamento lussuoso nel centro. Mentre Karine ha mollato il “suo” libro dalla prima pagina, copiando per lo più l’idea di un libro già letto, per poi passare ad altri hobby, con pari sogni di gloria ma esiti sempre più deprimenti, nello specifico concentrandosi sulle prove di resistenza ginniche. Allo stesso modo il marito Francis molla la musica dopo aver copiato male qualcosa che aveva già sentito, per poi passare ad altri hobby strampalati e totalmente improvvisati, dalla scultura alla composizione di sonetti medievali, fino alle pratiche meditative orientali. Marc intanto ha “perso la promozione” e non se la sente di frequentare nessuno senza poter essere riconosciuto come leader anche solo dei suoi amici. Non c’è nulla da fare o discutere: “Léa è cambiata e ha fatto del male ai suoi amici”. Il libro che l'ha resa famosa Marc ha deciso di non leggerlo, dopo averla pure minacciata di cancellare un personaggio pensando che quello fosse stato scritto ispirandosi a lui per burlarlo. Karine lo ha letto giudicandolo “niente di che“. A Francis è piaciuto, ma quando l’ha dichiarato è stato fulminato dalla moglie. Nessuno vuole più vedere Léa. Nel frattempo Léa vorrebbe invece tornare a vedere i suoi amici.


Cohen mette in scena una commedia intelligente, brillante quanto sulfurea, su un tema tanto centrale nella società moderna quanto sapientemente messo in disparte (i complottisti direbbero “dai poteri forti”) per la sua “scomodità intellettuale”: la condivisione della felicità altrui. Viviamo oggi in una società di stampo spintamente liberista, dove la competizione e il successo personale sono diventati dei dogmi individualistici. Questo avviene a discapito di una natura umana che alcuni analisti considerano, dal filosofo Platone fino ai sociologi coniugi Erickson, come “costituita originariamente da un gruppo sociale armonico di pari”, generando per contrasto autentiche patologie del pensiero. Di fatto molte persone soffrono per via delle regole del mondo in cui si trovano invischiate. Per qualcuno dei più “colpiti” da questa “divisione del mondo in fasce sociali di reddito”, come per il personaggio di Marc, questo si traduce in una inestinguibile fame di potere e nella necessità di autoaffermazione come maschio alfa, che deve essere totale e incondizionata. Infatti Marc si lamenta spesso con Léa perché immagina paranoicamente che lei cerchi continue occasioni per sminuirlo davanti agli altri, anche se lei si limita ad avere diversi gusti cinematografici! Addirittura Marc si arrabbia se Léa contraddice in pubblico la “visione che ha Marc di come ragioni psicologicamente Léa“! Per Karine e Francis lo stesso atteggiamento psicologico innesca meccanismi di “competizione compulsiva”, dove ci si sente portati a intraprendere qualsiasi “sfida contro gli altri“, che sia artistica quanto ginnica, in ragione di una supposta attitudine morale superiore, motivata dal considerarsi “persone concrete”. Un uomo (che si presume) concreto, leader o competitore compulsivo, deve comunque poter battere un sognatore anche nei sogni, perché in fondo è un uomo forte che può battere un debole, in ogni campo. Ma il paradosso triste è che queste persone, così concentrate sulla competizione personale, di fatto “non sognano”. Perché le loro energie sono concentrate sul premio più che sulla gara o sull’arte. Essere vincenti è più centrale che essere felici. Sono prospettive fallimentari, come sapientemente e ironicamente sottolinea la pellicola, rese ancora più indigeste al piccolo gruppo di amici protagonisti dal personaggio di Léa. Quella “stronza” di Léa, per essere “tecnicamente precisi”. Léa si astrae dalla logica della “gara della vita” per riempirli di cure e frasi gentili, ricordargli continuamente quanto sono unici e straordinari (cosa che non serve perché loro già lo sanno..), per vedere un “mondo bello e a cuoricini che non esiste”. Gli amici non riescono proprio a  comprendere che Léa può vivere con successo nel loro “stesso mondo” in questo la vedono piuttosto come una persona debole con cui sentirsi “almeno più forti di lei” se la vita gira male. Possono essere i suoi “fratelli maggiori” ed essere contenti di questo ruolo, che gli permette di ripetersi quanto la vita faccia schifo e quanto Léa dovrebbe essere onorata di avere amici come loro. Ma se Léa ha successo, loro non sono più i “penultimi” nella classifica degli sfigati del mondo, non possono più dire “beh, a Léa va comunque peggio”. 


È tutto un tragico dramma esistenziale di cavie da laboratorio che lottano per affermarsi in piccole gabbiette emotive. L’ironia straordinaria e surreale che riesce a generare “per contrasto” il quartetto di attori, tra cui si segnala un Cassel “scornato e dimesso”, grigio e magrolino quanto lontanissimo dal bel tenebroso dei suoi esordi cinematografici, è il vero speso specifico della pellicola di Cohen. Florence Foresti, con ottimi tempi comici e occhietti fiammeggianti, da corpo a una donnina buffamente perfida, che parla come una mitragliatrice e che lotta titanicamente per intestarsi le vittorie degli altri. Fancois Damiens è surreale quanto un Homer Simpson o un Peter Griffin, muovendosi con leggiadria tra le  sue granitiche convinzioni di poter essere un artista esistenziale. La Leéa di Berenice Bejo ha gli occhi immensi e il sorriso dolce di una Amelie Poulain. È impossibile volerle male e questo rende ancora più assurda la narrativa dell’operazione. 

La felicità degli altri diverte molto e forse farà un po’ arrabbiare qualcuno. Ma questa è la caratura delle migliori commedie, quelle che davvero riescono a guardare al nocciolo dei problemi della vita per riderci sopra. Forse anche grazie a questo film il mondo potrà diventare un giorno un luogo con più scrittori felici e sottopagati e meno dirigenti infelici di acciaierie. Un plauso a Cohen per l’ottima regia e sceneggiatura. Un buon inizio. 

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sabato 3 luglio 2021

Ip-Man 4: The finale - la nostra recensione


Premessa: Ci troviamo “nell’Ip Man-verso”, ossia nel filone cinematografico che esplora la vita, tra sogno, storia e leggenda, del maestro di arti marziali, tecnica Wing Chun, conosciuto come in tutta la Cina come Ip Man. La sua vita, tra le difficoltà di farsi posto tra i grandi maestri, passando per la guerra, l’impegno sociale, l’addestramento di Bruce Lee fino al famoso video in super otto in cui si allena con il manichino di legno, è roba che è così nota e aneddotica che se si è appassionati di arti marziali è nei compiti in classe del primo anno. Un percorso umano, etico e tecnico che pur romanzato nelle varie espressioni artistiche dedicate al mito del maestro, tra libri, fumetti, canzoni, videogame e serie tv, rimane solido. Credo che ci siamo milioni di film su di lui, io come molti conosco giusto quelli arrivati in italiano, ma sono pronto a immaginare che sia solo la punta dell’iceberg. Esistono film sulle “gesta” di un  Ip Man molto giovane, come Ip Man - The Legend is born del 2010, interpretato da Yuen Biao per la regia di Herman Yau. È uscito nel recente Ip Man - Kung Fu Master, del 2019, con al centro un  Ip Man “giovane medio” interpretato da Dennis To, per la regia di Li Liming.  Esiste un film su un Ip Man ormai anziano, con il volto di Eric Tsang, per la regia sempre di Herman Yau, ossia Ip Man The Last Fight, del 2013. C’è pure un film su Ip Man “d’autore”, confezionato dal genio di Hong Kar-Way, interpretato dal divo Tony Leung, dal titolo The Grand Master, uscito pure lui nel 2013 per un gioco del destino (e i tempi biblici di lavorazione di Hong Kar-Way). Ma i più noti e amati sono i film sul maestro diretti da Wilson Yip, talento impostosi alla platea occidentale con l’action Bullets over summer del 1999 (grazie al festival FarEast di Udine), che come interprete hanno Donnie Yen. Sono film che dal 2008 ad oggi ripercorrono un po’ tutta la vita dell’artista marziale senza variare attore, con una messa in scena che è un po’ l’equivalente della saga di Rocky di Stallone. Ip Man è un eroe simbolico e patriottico sempre calato “sul territorio” e “nella storia”. Vive sovente in contesti sociali “difficili”, dove in ogni periodo e luogo affronta sfide sociali diverse. Dalla  guerra alla povertà, dalla convivenza con la malavita all’integrazione in una cultura straniera. C’è poi come tema il valore del Kung Fu come nobile arte, etica e filosofica, che si declina in scontri tra Ip Man e altri artisti marziali ed esponenti di altre discipline di combattimento. C’è infine il lato biografico di Ip Man, spesso raccontato in una trama di stampo melò, intervallata da pochi momenti di “leggerezza”, centrata sui drammi personali, le sconfitte a livello umano, i lutti familiari a causa delle malattie. Tra i combattimenti spettacolari, gli spaccati sociali e il melodramma, siamo arrivati al capitolo 4 di questa formula che pur con alti e bassi riscuote ancora parecchio successo. Dopo i primi tre film, l’amatissimo coreografo dei combattimenti  Sammo Hung saluta e per il quarto cede il testimone al notissimo Yuen Woo-Ping, artista che a cavallo del nuovo secolo è diventato noto grazie a prodotti come Once upon a time in China, Matrix, La tigre e il Dragone, Charlie’s Angeles con la Diaz. Come sarà venuto?

 


Il contesto di Ip Man 4: Dopo aver combattuto contro i giapponesi nella seconda guerra mondiale (Ip Man 1), aver riunificato il Kung Fu (Ip Man 2), battuto il villain con la faccia di Mike Tyson (Ip Man 3) e aver motivato un lupo solitario a percorrere la strada del bene (Ip Man 3 più lo “spin-off” Master Z) è tempo che il maestro, sempre interpretato da Donnie Yen, passato alla storia per aver insegnato a Bruce Lee, arrivi a incontrare finalmente, per qualcosa che superi i dieci secondi, il mitico Bruce Lee. Ricordiamo che TUTTI i film su Ip Man si concludono con un disclamer prima dei titoli di coda in cui si dice “...poi Ip Man incontrò Bruce Lee e lo allenò“, ma questo non accade tipo “mai” su pellicola. Che detto così pare una cosa ridicola, ma non lo è. Il culto di Bruce Lee è a tali livelli di santità in Terra che farlo interpretare da qualcuno che non può essere Bruce Lee è quasi un sacrilegio. Tanto che  ai tempi della produzione di Ip Man 3 si parlava di usare un Bruce Lee in digitale, ma alla fine è venuta una sfida così irrealizzabile che la trama di punto in bianco era stata cambiata e ci avevano messo al centro Tyson. Era stato scelto per “decenza” un attore che interpretasse Lee, ma alla fine lo si è fatto stare per lo più fermo con il volto coperto da enormi occhialoni. La bella notizia è che effettivamente in Ip Man 4 c’è come personaggio Bruce Lee adesso. Sempre interpretato da Danny Chan Kwok-kwan, già “interprete di Bruce Lee” nei pochi secondi di Ip Man 3 del 2015 (immobile e con gli occhialoni come scritto sopra), ma anche nelle serie tv The legend of Bruce Lee del 2008. La brutta notizia è che il nostro Kwok-Kwan non va oltre a due pose da cosplayer di buon livello, mentre e a livello di tecnica marziale semplicemente “non regge” né con Donnie Yen né tanto meno con il Bruce Lee originale... cosa che da comuni esseri umani come lui comprendiamo. Così il nostro Bruce apparirà giusto per dieci minuti, all’interno di una trama che porterà Ip Man in visita negli USA (scritto tutto maiuscolo) per lo più ad occuparsi di altro. Bruce se ne starà assente dalla scena anche  quando succederanno le classiche cose pazzesche e romanzate tipiche dei film di Ip Man, tipo terremoti e rastrellamenti dei quartieri etnici, che sfoceranno in un confronto del maestro con un villain tostissimo, capitalistissimo, americanissimo e razzistissimo interpretato da Scott Adkins. “Dov’è Bruce?” ci diciamo noi fans in coro per tutto il tempo, e poi ce lo troviamo per tre minuti a fare cose ininfluenti come picchiare un sacco in una palestra mentre all’esterno c’è tipo “l’apocalisse”. Ovviamente è un peccato quasi mortale che non arriviamo mai a godere su questa pellicola, oggi che in sala c’è Godzilla vs Kong, di mega-risse ultra-romanzate in cui Ip Man e Bruce Lee affrontano migliaia di avversari, facendo cose folli come distruggere palazzi a mani nude, per salvare e diffondere  i valori dell’estremo oriente contro il capitalismo a stelle e strisce.  



Ma torniamo all’incedibile trama di Ip Man 4, che affronta per lo più il tema del “bullismo”, prima nel contesto scolastico americano e poi nel contesto dell’insegnamento nei corsi di preparazione dell’esercito. 

Il figlio di Ip Man si mena per i fumetti e viene espulso da scuola, il babbo decide di mandarlo a studiare negli USA, dove risiede il suo allievo Bruce Lee. Solo che prima di portarselo dietro Ip Man parte da solo, affidando il pupattolo ribelle all’amico di sempre Fatso (il buffo Kent Cheng). In USA Ip Man fa amicizia con una ragazzina bullizzata perché cinese (Vanda Margraf) e con un soldato di origini asiatiche di nome Hartman (Vanness Wu), stesso nome del Sergente Hartman di Full Metal Jacket (nell’interpretazione del mai troppo compianto R.Lee Ermey), che vuole portare, con un po’ di difficoltà, nell’esercito statunitense il Wing Chun. La cosa divertente è che Adkins, che interpreta il superiore di Hartman, fa in pratica e in tutti i sensi nel film la parodia del sergente Hartman di Full Metal Jacket, con tanto di cappello e occhi da pazzo, eloquio brutale e movenze ingessate, detestando per tutto il tempo l’idea del kung Fu negli USA tanto quanto ogni minoranza etnica. Noi amiamo Scott Adkins, forse il più grande artista marziale occidentale di oggi, così gli perdoniamo senza riserve questa parodia, al netto della prestanza atletica eccellente che sfoggia con sapienza in tutta questa pellicola. Ora, la ragazzina è figlia di un maestro di arti marziali (Yue Wu), rappresentante di spicco della comunità cinese locale, deluso dagli USA in quanto minoranza etnica non tutelata nonostante i cinesi abbiano contribuito a costruire gli USA fin dai tempi delle Ferrovie del Far West ecc. ecc. Per questo non vede di buon occhio neanche Bruce Lee, che fa tanto l’amico degli “ammmerrigani” e diffonde a questi “ingrati” le perle di cultura orientale marziale tramandate per secoli e secoli nella gloriosa cultura del Sol Levante. Tutto questo si traduce a danno di Ip Man, con il politico che si rifiuta di scrivere una lettera di raccomandazione per la scuola USA per il  figlio di Ip Man, a meno che lui non vieti a Bruce Lee di insegnare le arti marziali ai non-cinesi. O in alternativa lo vinca in un duello lungo e ultra-coreografato. Per i classici incroci del destino i bulli che infastidisco la ragazzina e il sergente (non)Hartman finiscono per costituirsi in un un esercito del male contro la comunità cinese di turno, un po’ come accade in tutti i film di Ip Man di Yip e Yen. La trama è più o meno tutta qui!! 

 


Ma “come sono le mazzate?”: è questo “il succo del discorso” che invocheranno i miei piccoli lettori, persone coerenti che da un film di arti marziali aspettano soprattutto di giudicare “le arti marziali”. Allora parliamo un po’ delle coreografie di combattimento.

Yuen Woo Ping, noto per la sua mania dei combattimenti “svolazzanti” a base di cavi e poco rispetto della gravità, un po’ lo temevo. Lo temevo specie dopo l’ottimo lavoro di stampo analogico/realistico (pur se spettacolare) svolto da Sammo Hung nei precedenti capitoli. Devo dire che avevo ragione a temere, qui ci sono tanti svolazzi e non sempre sono di impatto, specie nelle proiezioni, pur riconoscendo a Yuen Woo Ping di aver planato più basso del solito, focalizzandosi su Wing Chun più che sui movimenti dei Power Rangers. Donnie Yen è al cento per cento, “così Ip Man” che ormai ne riproduce i colpi più noti con una naturalezza unica, compresa la “raffica di pugni” amata da grandi e piccini. Il sosia moscio di Bruce Lee è moscio come si poteva temere, i suoi ingressi in scena che cercano di scimmiottare modi e tecniche note di Bruce Lee sono momenti da face palm degradanti. Scott Adkins è invece straordinariamente bravo, velocissimo e molto dialogante con Donnie Yen, confermando il mostruoso talento per cui lo amiamo incondizionatamente.z Come in Wolf Soldier, Adkins sembra un orco gigante che affronta un bambino, accentuando con eleganza e imponenza ogni suo gesto. Donnie Yen lo affronta come si cercherebbe di abbattere a cazzotti un muro di cemento: facendosi un male cane che serve alla fine a poco. C’è una bella drammatizzazione dello scontro. Le proiezioni aeree a base di cavi qui messe da Yuen Woo Ping stonano un po’, ma il risultato finale rimane più che valido. Molto bello è anche lo scontro in più fasi tra Donnie Yen e Yuri Wu. Il primo “incontro“ ha luogo intorno a un tavolo rotondo coperto da una lastra di vetro che viene mossa dai due attori come fosse una rappresentazione del mondo. Sembra quasi una partita a flipper su due lati ed è estremamente affascinante, ricorda per certi versi il mitico scontro sui tavoli di Donnie Yen contro Sammo Hung in Ip Man2. Il secondo scontro è quasi un handicap match. Ip Man, in uno dei momenti drammatici della pellicola, si è quasi rotto un braccio, facendoselo tritare da un bulletto contro un cancello per difendere la ragazzina. Il suo avversario rinuncia a usare una mano per mettersi al suo livello e assistiamo a uno stile di lotta “A mano in tasca” che ricorda Jet Li in Kiss From The Dragon. Mooolto brava, davvero pazzesca, l’attrice marziale Xiaofei Zhou, non a caso presente anche in The Grandmaster, dove Ip Man era Tony Leung. Affronta con lo stile del serpente Chris Collins, che abbiamo già apprezzato contro Tony Yaa in Kill Zone Paradox, una montagna umana quasi pari ad Adkins. Dura pochi minuti ma è intenso, davvero Davide contro Golia, molto eccitante. 

Finale: Se quindi ci si diverte molto per i combattimenti, al netto  di una certa inconsistenza della trama, la stanchezza di Yip e Yen nel riprendere per l’ennesima volta la storia di Ip Man è palese fin da quel sottotitolo legato alla locandina, “The final”, che appare come una promessa molto realistica. 

C’è il rimpianto di non aver visto “Ip Man vs Bruce Lee“, ossia la versione cinematografica di tutta la parte di “storia del Kung fu” su come sono andati gli allenamenti tra i due, poi il viaggio in America, ecc. ecc. Ma chissà che questa storia non troverà presto un proprio allestimento in un futuro film su Ip Man.

Sarà l’ultimo Ip Man di Yen e Yip? Per ora ringraziamo di questo ultimo viaggio nel Kung fu, imperfetto ma comunque gustoso. 

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giovedì 1 luglio 2021

Sexify - la nuova serie polacca di Netflix sulla scoperta della dimensione sessuale


Tre studentesse universitarie polacche arrivano, per strade diverse, a confrontarsi con la propria sessualità. Natalia (Aleksandra Skraba) è una cervellona che scientemente non ha mai affrontato la sua sfera sessuale/affettiva, vivendo da vergine introversa e non appariscente,  per dedicarsi allo studio e alla ricerca di un successo personale nella vita, che iniziano a prendere forma in un concorso con in palio una borsa di studio per innovazioni tecnologiche. Lei vorrebbe creare una app per cellulare su come gestire il sonno in modo più funzionale al rendimento, ma visto che non sembra un argomento amato da un pubblico-campione decide di riversare le sue ricerche su una app sull’argomento più gettonato di tutti: il sesso. Paulina (Maria Sobocinska), la compagna di stanza all’ostello universitario di Natalia, è intrappolata in una relazione seria e semi-definitiva con un soldato, per la quale è prossima a diventare moglie casalinga e devota rinunciando a ogni ambizione personale. Situazione che casualmente ha ricadute sul sesso di coppia, che viene affrontato da poco in ragione di conservarsi quanto “più pura possibile” in vista dell’imminente matrimonio. Monika (Sandra Drzymalska) è la nuova vicina di camera di Anastasia ed  è stata “buttata fuori di casa” dal padre per le sue sregolatezze, specie per il suo circondarsi continuo di uomini a scopo sessuale. Finirà che tutte collaboreranno all’app di Natalia, che avrà come focus esplorare una tematica importante quanto poco dibattuta, e quindi originale, l’orgasmo femminile. Ma come raccogliere i dati? Le ragazze decidono di adibire la stanza 69 dell’ostello a “inseminatoio”, affittandola a ore a coppie di studenti “in cerca di intimità” che alla fine dell’uso dovranno compilare dei questionari su cosa li fa eccitare. Il progetto sembra promettente, ma le tre ragazze dovranno fare i conti anche con gli altri concorrenti alla borsa di studio, con le questioni morali di porre in essere questo tipo di esperimento, con la possibile reazione dell’Università circa la “raccolta dati” (che rimane pertanto non concordata). Ma più che altro le tre dovranno venire a patti con loro e con il modo in cui dovranno integrare/ripensare/accettare  “a fini di studio scientifico” la sessualità nella propria vita.

La prendo un po’ larga...



Forse da qualche parte vi ho parlato della versione australiana di Lol, condotta da Rebel Wilson. I miei comici preferiti sono stati, oltre allo straordinario e poliedrico Frank Woodley, Anne Edmonds e Sam Simmons. Anne e Sam fanno qualcosa che in Italia è culturalmente “off limits” negli spettacoli comici: parlano di sesso e disturbi mentali. Sam entra in scena con una giacca piena di peni in lattice per poi spogliarsi nudo in una piscina per bambini per farsi il bagno nell’aranciata. Anne si butta per terra impersonando una donna con problemi alcolici che parla male di tutti. Quello che trovo interessante, delle performance di Anne e Sam, è il modo con cui reagiscono alle stesse gli altri comici presenti nello show e la conduttrice. Perché nello show  il sesso e la fragilità non vengono “prese in giro”, stigmatizzate o guardate con distacco, ma al contrario avviene una sorta di coinvolgimento empatico. Gli attori non “nascondono un tema scomodo“ preferendo parlare di argomenti più leggeri, ma usano l’arte per rappresentare una questione sociale/mentale “percepita come problematica“ ed esorcizzarla, normalizzarla e comprenderla. È così che “un problema” diventa “una consapevolezza” e quando uno spettatore dello show si trova nel mondo reale davanti a quella situazione può capire che esiste davvero e va affrontata, non limitandosi a “scappare via” o, in assenza e paura della stessa, “deriderla”. La sessualità, così come viene proposta da Sexify, allo stesso modo non dovrebbe essere per il pubblico italiano “un tabù“, in qualche modo attribuito alla sfera delle questioni “vaghe e negative” perché “ce lo dicono” i mass media, le religioni o la legge. È anzi un tema di rilevanza umana che la cultura deve affrontare, per lo meno per permetterci di parlarne e confrontarci in un modo costruttivo, sollevando i dubbi legittimi che chiunque può avere sulla materia. Anastasia rinuncia al sesso, ma così rinuncia anche a qualunque legame e alla sua stessa femminilità. Paulina vede il sesso come un peccato che può essere accettato e compreso solo in una sfera matrimoniale, con conseguente “patentino di moglie” (non a caso il suo compagno è un soldato sempre ricoperto da una divisa), che per lei però ha la forma di una assenza di libertà. Monika è una “drogata di sesso” e questo è conseguenza di una sua fragilità emotiva, che andrà a riorganizzarsi quando lei inizierà a ragionare sulle motivazioni che la spingono a ricercare un contatto affettivo. Detta così, la serie pare uno studio comparato sulla percezione disfunzionale del sesso, con un occhio di critica ai maschietti e al loro modo “troppo veloce e poco partecipe” di arrivare al piacere. Ma in realtà Sexify ha una scrittura ultra-leggera, presenta temi chiari quanto profondi, si guarda per la sua enorme dose di ironia, un uso creativo della colonna sonora e per la vitalità delle interpreti. Le protagoniste, una volta che i personaggi vengono esplorati a dovere, sono tutte irresistibili, amabili per il loro modo goffo, brusco, umorale ma sincero di porsi. Non sono solo la rappresentazione schematica del loro rapportarsi al sesso, riescono a essere figure complesse, in evoluzione continua grazie a meccaniche positive di confronto e scontro. Ci sono belle dinamiche di gruppo. La colonna sonora, aspetto molto originale, interagisce in modo costante con la trama, attraverso delle strofe e “gemiti” che diventano i pensieri interiori dei personaggi. C’è un filone della trama legato al successo professionale dopo la scuola che risulta non banale. C’è molto sesso. Niente di pornografico, ma ci sono dei nudi che rispondono a una genuina “normalità” umana e alla filosofia della body positive oggi raccontata anche da trasmissioni come Naked Attraction su Real Time. Non c’è l’ostentazione di una bellezza plastica, quando una comprensione e accettazione funzionale del proprio corpo. Ed è proprio dalla accettazione del proprio corpo, dei suoi bisogni e dai messaggi che ci invia, sembra dirci la serie, che parte una migliore comprensione di se stessi e un modo più felice di vivere. Sexify offre una tesi interessante sulla capacità di sentire la sfera fisica e poi emotiva di se stessi, per poi riuscire da questa a connettersi con gli altri. Non è solo una esposizione delle impellenti ragioni idrauliche e chimiche dello “scopare”. Gioca pertanto nello stesso campionato di Sex and The city o del più recente Sex Education con Gillian Anderson. Ma proponendoci una realtà culturale “polacca” che trova sue peculiarità rispetto alla solita massa di prodotti tv, per lo più americani, di cui ci cibiamo quotidianamente. Otto episodi, letteralmente divorati. Aspetto la nuova serie. 

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