lunedì 25 aprile 2022

Left behind - la profezia: la nostra recensione di un film pomeridiano tipo “a Casa per Natale” che di colpo diventa disaster movie con Nicolas Cage pilota di aerei infedele

 


Il pilota di linea Rayford Steele (Nicolas Cage) “non c’ha la fede”, nel senso che prima di decollare mette l’anello che lo lega al sacro vincolo del matrimonio nel cassettino dell’auto, che rimane al parcheggio dell’aeroporto. Con l’intento altamente fedifrago di passare il weekend a Londra a fare le cosacce con la hostess gnocca Hattie (Nicky Whelan) durante il concerto degli U2, come un sedicenne. È la prima volta che Ray pensa anche solo lontanamente e ipoteticamente di violare la sacralità del vincolo coniugale e cornificare la moglie, la ultra-cattolica oltranzista Irene (Lea Thompson). Ma per come vanno le cose in questo film sono entrambi, lui potenziale porco e la hostess potenziale sgualdrina, esseri dannati destinati all’inferno anche solo “per il pensiero intrusivo”. Come destinata all’inferno senza passare dal via è anche la figlia di Irene, Chloe (Cassi Thompson), perché ereticamente non sopporta più che la madre parli tutto il giorno “di Dio e apocalisse” da mesi, di fatto (cioè, “come erroneamente penserebbe solo un infedele e sodomita”) distruggendo il suo matrimonio ed esasperando lei e il fratellino. Ma destinato all’inferno è pure Bucky (Chad Michael Murray), un giornalista televisivo che non accetta le pacate e puntualissime critiche costruttive di una fanatica ultra-cattolica, incrociata all’aeroporto, che lo attacca urlando pretendendo che nei telegiornali si parli solo dell’apocalisse e della fine della razza umana. Ma capita anche ogni tanto che non parliamo di inferno e dannazione eterna per qualche minuto: quando il film sembra di fatto tenerci molto a presentarsi anche come una di quelle pellicole del pomeriggio di rete 4 stile Natale in vacanza, in cui sotto le note di una inconfondibile musichetta natalizia i personaggi parlano di buoni sentimenti, di comprensione e amore assoluto. Con la fotografia smarmellata e il glucosio che si accumula sui bordi della pellicola, mentre tutti fanno la fila in libreria per comprare i libri sulla apocalisse da cui il film è tratto. Quando usciamo da quella libreria dal sapore di “messaggio promozionale”, iniziando magari a realizzare che stiamo forse vedendo Una promessa è una promessa, tutto cambia di nuovo, perché il film “deve arrivare al dunque” e dopo aver “cazziato” gli infedeli e i maledetti si deve passare al piatto forte. Quando arriverà l’apocalisse, i credenti più credenti, puri e rispettosi delle sacre scritture, scompariranno di botto, da tutto il mondo, all’unisono, lasciando sul luogo della “smaterializzazione” solo gli indumenti che indossavano, perfettamente stirati e inamidati. Chi non si smaterializzerà in quanto “miscredente o credente non abbastanza convinto” dovrà sopravvivere almeno per sette anni, prima di un possibile “riconteggio” come “fedele che ora ci crede veramente e non potenziale peccatore occasionale“, alla fine del quale chi non scompare salta per aria insieme alla terra, per la gloria del regno dei cieli. 


L’idea della produzione della pellicola, basata sui testi di autori che sembra guidino anche una specie di setta ultra-religiosa oltranzista che produce tutta l’operazione, sarebbe di fare più film su questi “peccatori” che rimangono per sette anni a “giocarsela per la purificazione”. Ma questo “primo capitolo” (di 16 romanzi!!!!!!), con alcune analogie pure con la bella serie tv The leftovers di Damon Lindelof, si limita a illustrare il momento della grande sparizione dei super-super-fedeli, che di fatto avviene con delle conseguenze abbastanza devastanti. Tipo “cosa succede” se qualcuno dei super-super-super fedeli disgraziatamente scompare mente era alla guida di un’auto, un tir carico di carburante o di un aereo o se è addetto alla sicurezza di una centrale atomica in un momento delicato. Left Behind arriva quindi prestissimo ad essere un disaster movie, più alla Asylum che alla Ronald Emmerich, in cui muoiono male un numero imprecisato di maledetti infedeli, in tamponamenti a catena, esplosioni e crisi di panico. Con il nostro Nicolas Cage che deve cercare di far atterrare un aereo come in quei film in cui “cadono gli aerei” tipo Airport ed epigoni, dopo che dallo stesso aereo sono scomparsi per “smaterializzazione” il capitano, parte dell’equipaggio e dei passeggeri. Se nella cabina di pilotaggio, cercando di evitare il peggio, “volano le Madonne” (e ricordiamo che è pure la blasfemia ad aver messo nei cazzi i nostri protagonisti), tra le poltroncine si crea il classico “presepe da disaster movie a tema aereo che cade”. C'é qualcuno che se la prende con il classico ragazzo mediorientale” e per questo sicuro terrorista”, c’è la madre che impazzisce perché le si è smaterializzato il figlio e ora brandisce una pistola se non glielo ridanno, c’è il giornalista che riprende e documenta tutto, c’è la persona di colore con il ruolo comico, c’è Martin Klebba che fa Martin Klebba. Grande stima per Martin Klebba, grande carisma. La figlia di Cage è invece a terra, in un film tutto suo stile L’ombra dello scorpione triste, ma realizzato con il budget di tre happy meal, con l’intento di girare a caso, piangere, cercare di entrare in comunicazione con il padre e infine permettergli un atterraggio stile Die Hard 2 dei poveri. Riusciranno i nostri eroi ecc.ecc.? 


Diretto da Vic Armstrong, di professione stuntman ma saltuariamente director di alcuni episodi di quella serie tv ABOMINEVOLE che si chiamava Le avventure del giovane Indiana Jones, Left Behind è tratto da una serie di romanzi scritti da Tim LaHaye e Jerry B.Jenkins. Dallo stesso libro, nel 2000, è stato tratto pure un terribile film Franco-Canadese con protagonista Kirk "Genitori in Blue Jeans" Cameron, con generati pure ben due terribili seguiti direct to video. Filmetti poco convinti e remunerativi che sono poi il motivo che ha fatto dire agli autori: “fermi tutti, chiamiamo Nicolas Cage e lo stunt-man del giovane Indiana Jones e ripartiamo alla grandissima con un reboot. Magari con Martin Klebba” Come ci finisce Cage in questa roba? Pare per fare contento suo fratello Mark Coppola, prete e ultra-fan dei libri di LaHaye e Jenkins. Cage è fatto così: è un generoso. Se al fratello piacevano i Muppets, Cage con un costume di stoffa sarebbe stato la rana Kermit nel film successivo del franchise, a costo di sequestrare la troupe e Franz Oz per tre giorni vestito e armato da Big Daddy. Klebba invece dopo il Grande e potente Oz stava vivendo un 2014 di alti e bassi in attesa di Jurassic World e davanti alla prospettiva di un film con Cage ha pensato, come farebbe chiunque: “perché no?”. Ma tornando al franchise di Left Behind, anche questo reboot alla fine è stato considerato un mega disastro dalla critica ed è stato totalmente ignorato al botteghino, al pari del film di Cameron. Ma piacque molto agli autori dei libri, che lo hanno subito lodato come “miglior film di sempre sul tema della smaterializzazione del super fedeli”, pure meglio di Facciamola Finita di Seth Rogen e Evan Goldberg e di Segnali dal futuro, sempre guarda caso con protagonista Nicolas Cage. Di pari passo con questo entusiasmo, gli autori per qualche giorno parvero pure convintissimi di girarci altri dodici sequel almeno. Purtroppo ad oggi sembra che non vedremo mai altri capitoli di questa variante ultra-cattolica è un po’ tristanzuola dell’Ombra dello scorpione con Nick Cage. Ma in fondo, per davvero, “chi può dirlo?”. Di fronte alla struggente maldestra bellezza da “disaster movie del pomeriggio di rete 4” che Left Behind irradia, io un altro lo proverei pure a girare, con lo stesso budget. Cage si sente per tutto lo spettacolo abbastanza in palla, rincorrendo da vicino la performance da provetto pilota di linea “dannato” di Denzel Washington, nel Flight di Zemeckis, aggiungendoci quella punta di “paura del misticismo” per cui lo abbiamo adorato ne Il prescelto. Quando il suo personaggio inizia a capire che è la fine del mondo come descritta nelle scritture che leggeva ossessivamente la moglie, reagisce come un ragazzino che si trova a scuola dopo essersi dimenticato che c’era la verifica di matematica e noi siamo con lui, soffriamo con lui. Ed è struggente. Struggente ma anche “tenero”, quando lo vediamo prepararsi per la notte del “peccato” più timida e indecisa di sempre. Cage, che è alla fine l’unico a credere che il film non sia una robetta da pomeriggio con “l’aereo che cade” (quanti film così hanno girato? Possiamo parlare di sotto genere trash vintage?) riesce, con il suo folle e amabile estro, a dare “un senso” ad un cast che Martin Klebba a parte di certo non brilla. È il vero e unico capitano della baracca. Con il povero Chad Michael Murray di One Tree Hill (ma anche della Maschera di cera al fianco di Paris Hilton) che non riesce a stargli dietro nonostante tutto il suo armamentario di faccette corrucciate “impercettibilmente diverse”. Molto carina però alla fine anche Nichy Whelan nel ruolo della “meretrice fedifraga volante” e una menzioncina dobbiamo pure concederla alla sbarellatissima Lea Thompson (la storica “mamma giovane” di Ritorno al futuro) nel ruolo della moglie ultra-ultra fedele. Un po’ incolore Cassi Thomson nel ruolo della figlia di Cage, anche se la scena della sparizione del fratellino davanti a lei, con i “resti” che si tramutano in vestiti perfettamente stirati e inamidati mentre quest’ultimo corre verso di lei per abbracciarla in un centro commerciale, è da antologia del neo trash. Dopo Shyamalan che in E venne il giorno si inventa l’aria killer, i super fedeli che si riducono a vestitini stirati nei momenti più improbabili, per andare immaginiamo nudi e puri verso l’infinito (cosa che un film del genere non ci farebbe vedere di certo), sono un vero must. 

Left Behind è un film amabilmente assurdo e sgangherato, sorretto per lo più dalla performance di un Cage che ci crede tantissimo (e dove non ci crede abbastanza compensa con il mestiere) e da tonnellate di vestiti stirati “nel ruolo di colpo di scena spirituale”. C’è aria di Asylum in ogni inquadratura e questo potrebbe spingere qualcuno a vederlo a ruota con cose tipo il film delle tarantole di lava con il tizio di Scuola di Polizia o il sempre esaltante show degli squali volanti di Ian Ziering. Gustatevelo così: con la voglia di assurdo che vi pulsa in petto, cervello spento e magari ingaggiando con gli amici una gara di shottini alcolici: ogni volta che compaiono vestiti stirati al posto di persone. Buon intervallo. 

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domenica 24 aprile 2022

Le fate ignoranti: la nostra recensione della nuova serie di Ferzan Ozpetek in esclusiva su Disney Plus

 


Gioviale e attraente, premuroso e sorridente, il manager Massimo (Luca Argentero) è un marito perfetto e amorevole per la dottoressa Antonia (Cristina Capotondi), come l’uomo dei sogni per lo scenografo Michele (Eduardo Scarpetta). Questa doppia vita sentimentale, frutto di un amore inaspettato quanto sorprendente, è iniziata da almeno un anno: da quando Michele e Massimo si sono incontrati per caso in una libreria, in cerca dello stesso libro di poesie. I due si sono subito piaciuti, hanno iniziato a frequentarsi e subito Massimo ha deciso di incontrare la famiglia allargata di Michele, piccola tribù segreta che stava per lo più arroccata in un palazzo di periferia gestito da Serra (Serra Yilmaz), la amministratrice unica, portinaia e “sultana” di questo luogo. Tra i singoli appartamenti e l’ampia terrazza, con la concessione di qualche zona periferica, il piccolo mondo colorato di Serra appare da subito composto da persone di ogni età ed etnia, gente concreta e sognatori, matti e innamorati. Tutte persone un po’ curiose e scombinate, qualche volta eccentriche e “sanguigne”, ma in fondo sempre unite, gioiosamente e chiassosamente. Gli abitanti del palazzo sono interessanti al punto da essere costantemente spiati nella loro quotidianità dal gruppo delle pettegole di zona, “le tre Marie”, che non esitano a piantonare il ricco e convulso traffico all’ingresso dello stabile, lanciando battute sarcastiche ad ogni ora del giorno e della notte. Dentro questo palazzo, davanti a  persone così strane ma anche generose, capaci di aprirsi le une con le altre, condividendo le loro storie quando la preparazione del tradizionale pranzo domenicale sulla terrazza (e di ogni festa e compleanno comandati), Massimo piano piano dimentica tutti i tabù che in passato lo fermavano dall’amare un altro uomo. Ma all’esterno è tutta un’altra cosa e il manager non riesce a fare i conti, con il suo matrimonio e con il suo lavoro, nell’accettarsi nel suo cambiamento. Così, dopo un anno di amore condiviso tra Antonia e Michele senza che l’una sappia dell’altro e senza che una venga preferita all’altro, Massimo muore all’improvviso in un incidente d’auto nel pieno centro di Roma. Ma l’amore per Michele, pur nascosto pervicacemente, ha lasciato delle briciole lungo il suo passaggio. Così Antonia scoprirà piano piano, già durante il funerale del marito, la presenza di alcuni misteriosi “amici della palestra”, i primi indizi della sua doppia vita. Indizi che la porteranno sempre più vicino al piccolo mondo segreto di Michele. 


A distanza di 22 anni dall’uscita cinematografica del film omonimo con protagonisti Stefano Accorsi e Margherita Buy e su pressante richiesta da parte del pubblico e delle case di distribuzione, Ferzan Ozpetek insieme allo sceneggiatore Gianni Romoli tornano sul “luogo del delitto”,  alle loro Fate Ignoranti. Per celebrarle, aggiornarle e farci immergere di nuovo nel loro mondo con curiosità, ironia e passione. Dalle parole del regista nelle più recenti interviste, in questi anni sono cambiati i temi e la percezione sociale della omosessualità. C’è meno stigmatizzazione rispetto a 22 anni fa, ma la situazione è ancora in movimento: giovani vivono la sessualità oggi in modo più libero, ma forse le vecchie generazioni si sono un po’ troppo indurite. L’omosessualità rimane ancora un argomento difficile da trattare nella quotidianità e anche per questo, in tutti questi anni, Le fate ignoranti è diventato oltre che un esempio di buon cinema anche uno “strumento utile” da vedere in famiglia, per affrontare il tema alla ricerca di un dialogo e di un confronto. Le fate Ignoranti ieri e oggi rappresenta proprio quel tipo di “cinema dell’inclusione” che oggi ricerca in particolare Disney, che si è prefissa per il 2022 di avere nel suo catalogo streaming molti prodotti in grado di dare voce alle storie e ai contesti sociali prima meno rappresentati nei media. La struttura della serie tv permette inoltre al regista di allargare i temi della pellicola e di dare più voce ai molti personaggi che in origine rimanevano più in ombra, quasi alla stregua di un coro greco. Grazie al certosino lavoro dello sceneggiatore Romoli, a una ciurma di attori e tecnici bene assortita e ad un Ozpetek sempre più bravo dietro la macchina da presa, la serie Le fate Ignoranti del 2022 risulta un prodotto davvero sorprendente. La periferia romana è ricca di colori e magia, tra le terrazze cariche di tavolate allegre e i silenzi dei laboratori scenografici di Cinecittà. Il taglio di montaggio degli episodi li rende particolarmente dinamici e si ha voglia di guardarli uno dietro l’altro, come caramelle. Nella ricca colonna sonora c’è anche il pezzo di Mina, Buttare l’amore.

Il cast è molto ricco e oltre ai bravi Luca Argentero, Cristina Capotondi, Eduardo Scarpetta e Serra Yilmaz, già dalla seconda puntata iniziamo a vedere per più tempo sulla scena anche le brave Ambra Angiolini e Anna Ferzetti, Paola Minaccioni e Carla Signoris. Nelle puntate successive arriverà anche il divo internazionale Burak Deniz, Milena Vukotic. Dopo le prime puntate cambierà anche lo scenario e si tornerà in oriente, in luoghi vicini a quel Bagno Turco tanto caro ai fan di Ozpetek. 

Ma rivelare troppo sarebbe un peccato. la serie va gustata nei suoi otto episodi già disponibili su Disney Plus. Se siete in cerca di una serie molto curata nei dettagli e “calorosa”, in grado di affrontare il tema della omosessualità in modo diretto e senza paranoie, con melodramma ma anche humor, la serie di Ozpetek è una buona scelta. 

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sabato 23 aprile 2022

mercoledì 20 aprile 2022

Sonic 2: la nostra recensione del nuovo film-rollercoster dedicato al porcospino blu dei videogames, diretto da Jeff Fowler

 


Dopo essere stato sconfitto da un temibile alieno super veloce simile ad un porcospino blu di nome Sonic, il baffuto dottor Ivo “Eggman” Robotnik (Jim Carrey) si è trovato catapultato in un mondo interamente fatto di funghi. Vivendo circondato dai funghi, mangiando funghi e respirando continuamene e solo funghi, con un clima molto favorevole alla crescita dei funghi, la scorza e la determinazione del più grande scienziato pazzo della Terra non è cambiata. Nonostante lo sviluppo di una certa dipendenza dai funghi, il genio, che ora è diventato completamente calvo (forse per via dei funghi?), non si è arreso e come Matt Damon in The Martian ha iniziato a cambiare il pianeta a suo vantaggio, cospargendolo di trappole, carrucole e tanto ingegno fino a farne una sorta di super-fortino (o un livello del videogame Sonic a base di trappole ambientali). Ha provato pure a distillare un liquore a base di fungo, anche se con risultati ancora migliorabili, ma questo non lo ha reso felice. Solo e con la sola compagnia di un sasso di nome “Sasso”, che in un mondo di quasi solo funghi può essere un “amico vero”, Eggman sogna ancora, un giorno, di vendicarsi sul porcospino. Quel giorno sembra diventare realtà quando da un portale dimensionale a forma di anello dorato compare davanti a lui l’ultimo degli echidna, Knuckles (doppiato in originale da un convintissimo e spassoso Idris Elba). Sembra anche lui a prima vista un porcospino ma non lo è: perché è un echidna. È rosso, muscoloso e arrabbiatissimo come tutti i guerrieri echidna e cerca Sonic per vendicarsi dì qualcosa. Grazie anche a quei portali dimensionali, per Robotnik è l’alleato ideale per tornare a casa e per pareggiare i conti, scatenando sulla vita del piccolo alieno blu un nuovo esercito di robottini buffi quanto letali.


Se Eggman prepara il suo grande ritorno e inizia a smuovere dallo spazio tecnologia hi-tech che neanche Tony Stark, sulla terra nel frattempo Sonic si annoia. Con il soprannome da supereroe di Blue Justice cerca di combattere il crimine tra le strade, inseguimento e sparatorie. Ma è ancora inesperto, fa più danni collaterali che risultati. Per un porcospino velocista come lui è problematico, ma indispensabile, seguire il terribile mantra che gli suggeriscono i suoi “genitori adottivi terrestri” (interpretati sempre da James Marsden e Tika Sumpter): “Prova ad andare più piano, non avere fretta di crescere”. Il suo papà adottivo lo porta pure in barca per descrivere la maggiore calma con cui deve imparare a vedere il mondo. Ma Sonic non ci sta e cogliendo l’occasione di un matrimonio che porta lontano la coppia di genitori, finisce a loro insaputa a incrociare di nuovo la strada di Robotnik, scontrandosi anche con Knuckles. Ma da una galassia lontana lontana è pronto ad intervenire per supportare il porcospino anche la volpe a due code Tails.


Jeff Fowles torna a dirigere un film dedicato a Sonic, concentrandosi idealmente su Sonic 2 e sulla “saga di Knuckles”, facendo tesoro di tutti i feedback ricevuti dalla prima pellicola. Pellicola certamente indicata per un pubblico molto giovane ma che non era uscita affatto male, da cui non si percepiva però tutta la frizzantina velocità e azione del videogame originale. Se le scene d’azione erano decisamente spassose  e la trasformazione di Jim “Ace Ventura” Carrey in Eggman era già (ed è ancora una volta oggi) l’intuizione cinematografica più giusta dai tempi del Tony Stark di Robert Downey Jr, il mondo in cui il porcospino blu viveva la sua prima avventura riceveva una introduzione fantasy sentimentalosa e una così abbondante e coccolosa sottotrama “familiare” (chi non vorrebbe del resto essere coccolato da Tika Sumpter?) da rendere la storia così carica di melassa che Sonic ci affogava dentro appiccicato. È come poteva correre a perdifiato con le sue Scarpettine rosse, il nostro eroe, se il suo cammino era così tanto cosparso di melassa? Risulta quindi graditissimo che i principali personaggi “umani” della pellicola, James Marsden e Tika  Sumpter,  vivano qui una sottotrama quasi del tutto separata, insieme a Shemar Moore, Natasha Rothwell e Tom Butler. Una sottotrama  che invece che melassosa risulta divertente, sullo stile di alcune commedie romantiche con Ben Stiller, con il plus di Tom Butler ci ricorda quasi il mitico Leslie Nielsen. Con la melassa e il glucosio ritornati sotto il livello di guardia (anche per merito di bravi attori con la commedia tra le loro corde) Sonic è invece libero di sfrecciare altrove su circuiti ipercolorati in computer grafica in una trama autonoma che ha la struttura di una caccia al tesoro, con una azione resa ancora più ricca è spettacolare dalla graditissima aggiunta di personaggi comprimari digitali come Tails e Knuckles. Tails è ingegnoso, timido e spesso alla guida di un aero rosso fuoco come ogni migliore amico dovrebbe essere. Knuckles è un po’ il vegeta della situazione, per dirla alla Dragonball, donando un po’ di pepe e competizione alla trama. Anche Eggman, più matto e più in forma che mai, è libero di scatenarsi al meglio e non si è mai visto così agguerrito e pieno di robottini e robottoni assassini. È uguale uguale ai videogame e in più, se siete un po’ grandicelli, i suoi eserciti di robottini fanno quasi rivivere le atmosfere folli delle battaglie dì Yattaman. La pellicola riesce inoltre nel non facile obiettivo di dare vita a scenari davvero molto simili ai mondi bidimensionali del videogame. Dal mondo dei funghi (da Sonic 3) al tempio sotterraneo è parzialmente inondato d’acqua (da Sonic 1), a un certo “boss stage”, sono tutti una autentica gioia per gli occhi dei fan di vecchia data, fin nei più piccoli dettagli che replicano momenti di gameplay (come il sistema delle bolle per respirare) e pose originali (come quando Sonic è sul ciglio di un baratro). Sul finale l’azione sale esponenzialmente di spettacolarità, tra aerei e robot giganti, portandoci a un climax che chiude bene la storia, ma che come ormai consuetudine dopo i titoli di coda rilancia il tutto ad un terzo episodio. 

Con un ancora bravissimo Jim Carrey e tanta azione colorata, Sonic 2 rilancia e migliora quasi ogni comparto delle primo capitolo, che oggi può essere considerato giusto un buon antipasto a questa pellicola. La trasformazione grazie alla magia del cinema del “mondo videoludico” di Sonic appare sempre più convincente e narrativamente sensata, in un tripudio colorato che sicuramente attirerà i vecchi fan quanto il pubblico dei più piccoli, a cui questa pellicola è principalmente rivolta. 

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lunedì 18 aprile 2022

C’mon c’mon: la nostra recensione del film di Mike Mills

Il giornalista radiofonico Johnny (Joaquin Phoenix) gira l’America per intervistare bambini e ragazzi sulle sensazioni che hanno in merito al futuro. Tra le tappe principali del viaggio, ci sono tre metropoli per Johnny dall’alto contenuto simbolico. La  città del “futuro deluso”: una Detroit che dopo il boom dell’industria automobilistica è calata nella povertà e degrado. La città del “futuro sognato”: una New York che ha accolto da secoli e ancora accoglie i migranti del mondo. La città del “nuovo futuro”: una New Orleans che offre spesso la possibilità di ricominciare una vita, ma si sta con il tempo trasformando in una sequenza infinta di Bed and breakfast. Attraverso le voci e l’energia positiva dei bambini che vivono in questi luoghi, spesso in contesti carichi di degrado, bullismo e malattia, Johnny spera di superare il terribile lutto della recente scomparsa di suo figlio. In questo viaggio sarà presto accompagnato da Jesse (Woody Norman), un ragazzino che un po’ per caso e un po’ per sfortuna gli viene affidato e che inizierà ad affezionarsi a lui, assistendolo nelle interviste. 

Come vede un adulto il futuro, oggi?

Una volta, pensando per esempio al cinema di fantascienza, immaginavamo in positivo astronavi che ci portavano su nuovi pianeti, città in pace e pieno di grattacieli, l’energia pulita, i robot protocollari. Qualche volta immaginavamo pure in negativo, con il mondo mezzo distrutto dalle bombe atomiche e dalla fine delle materie prime. Oppure un mondo con l’umanità ai margini, dove l’empatia si era trasferita sui robot che piangevano per la loro data di scadenza accarezzando colombe. Ogni tanto sognavamo di miniaturizzarci finendo vittime di insetti giganti, ogni tanto sognavamo di tornare indietro nel tempo senza essere in grado di cambiare il mondo in meglio. Oggi non sogniamo più niente attraverso la fantascienza, se non la fuga in qualche mondo fantasy o supereroistico  virtuale, da vivere attaccati costantemente ad una macchina che ci fa da catena/cordone ombelicale: lo specchio di come stiamo attaccati al cellulare già ora, incapaci di spegnerlo anche se siamo davanti a qualcuno con cui stiamo parlando o stiamo giocando a pallone. A questo “chiudersi in se stessi”, tra le braccia della tecnologia o tra le braccia virili di qualche supereroe, può corrispondere una paura davvero maledetta e infinita del domani. Qualcosa di annichilente. È come se il domani per colpa nostra “non ci fosse più” e non possiamo che cullarci con i sogni del passato, come quello di un pianeta di sabbia già immaginato una cinquantina di anni fa. Se avessimo agito diversamente, senza troppo delegato ad altri, forse quello di oggi sarebbe un mondo meno povero, inquinato, violento. Ma questo alla fine è solo un circolo vizioso, un infinito rimpianto che non riusciamo a colmare che ci rende immobili nel presente, pronti solo a piangerci addosso all’idea di mondo che consegniamo ai nostri figli in condizioni davvero impresentabili. Mike Mills con questo suo piccolo ma grande film è come se “resetti” il cinema, riportandolo al bianco e nero, tra luce e buio, tra sogno e stupore. Mette al centro della sua narrazione la  possibilità di “sognare il futuro” in modo semplice quanto concreto, scientifico quanto dimostrabile, attraverso  l’occhio clinico e disincantato del documentario. Un documentario costituito da una serie di interviste vere realizzate da Phoenix stesso insieme a dei bambini comuni, dove il dato confortante, che traspare fin dalle prime battute del film, è che i più piccoli, i “bambini”, seppur fragili in quanto figli di realtà familiari e territoriali difficili, sanno incredibilmente pensare ancora in positivo al futuro. È forse una questione di genetica, ciò che fa scorrere più endorfina nei più piccoli. Oppure è una questione legata a una “giravolta” del processo psicologico di accudimento, in ragione del quale oggi sempre più i figli si fanno “genitori dei loro genitori” per poter sopravvivere. Oppure questa “sorpresa positiva” sul punto di vista dei bambini è la triste conseguenza sociale del fatto che “non ce ne siamo mai accorti”. Perché non dedichiamo abbastanza tempo all’ascolto dei più piccoli e seguendo l’ossessione di essere “bravi genitori” li riempiamo di impegni, compiti e saggi di judo senza curarci di quello che loro davvero pensino o vogliano fare. 


Sta di fatto che è quasi l’uovo d Colombo il fatto di scoprire,  in un mondo di adulti pessimisti, malinconici e sordi, che i bambini sono davvero gli unici, oggi, ancora in grado di sognare e di non mollare. Questo  cinema che si veste di “indagine sociale sul territorio”, ci mette davanti alla richiesta concreta delle nuove generazioni di superare le prigioni mentali invalicabili dei troppi “bla bla bla” degli adulti (come dicono nel film è come direbbe Greta) e rispondere alle paranoie con uno spiccio “c’mon, c’mon!!!”, che possiamo tradurre come un incitamento  quanto un sollecito. Un “forza, andiamo avanti nonostante tutto!!”. Quando a una ragazzina delle intervistate si chiede “quale superpotere vorrebbe avere per vivere meglio”, rispondendo alla moda del momento dei film sui supereroi (e dei quarantenni bambinoni e un po’ nerd), questa risponde “io sono il mio superpotere! Io farò sentire la mia voce!”. 

Mills dà forma a una pellicola che coniuga questa potente struttura documentaristica a un impianto drammatico che non sembra meno autentico, per la grande bravura degli interpreti, raccontandoci l’incontro tra un adulto e un bambino alla pari, da amici e non legati da un rapporto “padre e figlio”. Phoenix ha lo sguardo triste e assonnato di un uomo devastato dal dolore e dal senso di colpa, che per lui è  frutto di un tragico “passato” che lo rende  incapace di vedere una qualsiasi forma di futuro. Woody Norman è un bambino che sta in costante movimento, parla senza sosta e viene da una situazione famigliare complessa, ad un passo dall’affidamento e quindi con un enorme problema legato al “presente”. Ma  nonostante tutto Jesse è in grado di sostenere e motivare l’adulto più di quanto quest’ultimo immagini, donandogli di riflesso un po’ di quella luce positiva che ha forse perso negli anni. Il bambino deve sostenere l’adulto per sopravvivere nel presente e nel futuro. L’adulto deve spostare la sua attenzione dal passato al presente per riuscire a credere nel futuro, rinunciando al suo eterno rimuginare e compiangersi, per garantire la sopravvivenza del bambino. È una specie di legame “simbiotico-generazionale” creato da una situazione di emergenza, che si sviluppa con naturalezza e complicità, sotto la spinta di diecimila domande concrete e diecimila risposte evasive. In un rapporto carico di piedi in faccia, spazzolini per i denti musicali fastidiosissimi, suoni ambientali carpiti con un microfono (come ne Il Postino di Troisi), favole raccontate prima di dormire e una voglia infinita di conoscersi e capirsi reciprocamente. Prove di una reale vicinanza, segno di un sostegno che appare autentico grazie alla “magia del cinema” fatto bene. Un cinema che si presenta forse in una cornice un po’ fredda, tra il bianco e nero e l’accompagnamento sonoro di stampo sinfonico, ma che sa rendere al meglio il cuore emotivo di una storia che potremmo dire universale, attuale quanto urgente. C’mon C’mon è un’opera che se somministrata a una particolare fascia di pubblico, come una medicina, può far “stare bene”. Un film che può valere più di sei ore di un percorso per riprendersi dalla depressione e che per questo oggi è oltremodo positivo che si trovi in sala. Tra il sacrosanto circo escapista di Jackass e un “revival wannabe” di Bud Spencer e Terence  Hill, per farci ancora pensare a quella faccenda un po’ dimenticata del poter sognare un futuro che sia anche per i bambini e insieme ai bambini. Così che in futuro qualcuno riuscirà a immaginare un “dopo”, alla storia dell’uomo dell’era digitale e al suo unico e sterile legame ossessivo/compulsivo con una macchina che lo fa accedere a dei social. C’mon C’mon è un buon motivo per andare al cinema per sentirci parlare dell’importanza di essere umani. 



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sabato 16 aprile 2022

Moon Knight: la nostra recensione della nuova serie tv Marvel in esclusiva su Disney Plus

  


-Sinossi: Steven Grant (Oscar Isaac) lavora nella sezione egizia del museo di Londra, è single e poco apprezzato dai suoi capi, non ha molto successo con le ragazze. Perennemente bistrattato, piuttosto goffo e insicuro, con un “mimo” come unico confidente fedele, Steven ha pure un ENORME problema legato al sonno. Forse è sonnambulo, di quelli gravi. Forse è peggio che sonnambulo e mentre dorme arriva a vivere la vita di un’altra persona, per giorni interi. Per questo, prima di addormentarsi Steven cerca di blindarsi in casa, legandosi una catena alla gamba, chiudendo la porta con combinazioni complicate e ricoprendo di sabbia tutto il pavimento, per cercare di comprendere “cosa fa” quando dorme. Ma spesso questo non basta e il nostro eroe vive dei flash molto realistici in cui fa delle cose pazzesche in qualche località amena del mondo, come fosse un agente segreto. Presto, a complicare la routine, una voce misteriosa (in originale la voce dell’attore Frank Murray Abrams), che dice di essere il dio egizio Khonshu, inizia a perseguitarlo, chiamandolo alla lotta come suo “Avatar”, contro creature misteriose e spaventose che iniziano a perseguitare il povero Steven “per davvero”, mentre lavora nel museo. A partire da uno strano e ultra-realistico sogno, il nostro povero commesso del museo inizierà pure ad incontrare il misterioso “santone” Arthur Harrow (Ethan Hawke). Uno che sembra sentire nella sua testa la voce della dea egizia Ammit e sembra intenzionato a distruggere il mondo per salvarlo dal male. Sembra mettersi male per Steven, ma in suo aiuto arriva una nuova “voce nella testa”. Una voce amica che si prestata come il misterioso Marc Spector. 



-Io e Moon Knight: Vi trovate, forse inconsapevolmente, su un blog. Per questo come corollario alla disamina dei primi episodi di Moon Knight di Disney Plus voglio raccontarvi anche il mio personale approccio e amore per questo personaggio Marvel davvero “unico”. C’è stato un tempo in cui pure io ero “anagraficamente” adolescente. In quella fase, tra le medie e il liceo, passavo da Topolino a Dylan Dog, fino ai primi manga editi da Granata Press, con nel mezzo una bella infornata di fumetto argentino ed europeo grazie a un amico che collezionava Fumo di China ed Eternauta. E poi c’erano i videogame dell’Amiga e quello stile alla Shadow of The Beast, i film di Schwarzenegger e i Barbarians Brothers, l’amore per le Notti Horror presentate dallo zio Tibia. I supereroi “canonici” erano per me all’epoca un ricordo dell’infanzia. I cartoni dei “Superamici” e un Batman di Adam West che animava uno show magari non troppo diverso dalla Melevisione o i Teletubbies in anni più recenti. C’era stato da poco il Batman di Burton al cinema (si contendeva le locandine con Indiana Jones e l’ultima Crociata nei cinema locali, per almeno 3 mesi di programmazione)  e mi ricordo un magnifico special Tv, di Red Ronnie con il compianto Bonvi, che mi  presentava un Batman “di carta” che non conoscevo, citando Killing Joke del 1988 e il nuovissimo ciclo si storie, Year One. Ma quelle perle non si trovavano in tutte le edicole e i supereroi da edicola erano per me generalmente “troppo colorati” e “troppo per bambini”, salvo un paio di meritorie eccezioni. Così i primi che iniziai a seguire furono Lobo (quello di Keith Giffen e Simon Bisley) e Il Punitore. Erano degli anti-eroi a tutti gli effetti, impegnati in storie ad alto tasso di sparatorie, splatter, malavita, temi forti. Erano quello che potevo “accettare” da adolescente anni ‘80, imbevuto di film come Robocop e Terminator, di Nightmare e Demoni di Bava. Poi su quel numero del Punitore con in copertina una camicia hawaiana, di maggio 1991, eccoti la sorpresa: Moon Knight. Fu amore. Storie notturne, l’atmosfera di un jazz club con musicisti simili a quelli disegnati da Sergio Toppi, idee grafiche forti come un numero del fumetto tutto a base di pareti agghindate da inquietanti “graffiti di bambini”, rosso sangue (lo specchio mentale della psicologia di un serial killer contro cui doveva confrontarsi l’eroe), che quasi mi facevano tornare alle atmosfere di Profondo Rosso di Dario Argento. Apparentemente Moon Knight era solo un Batman vestito di Bianco, con tanto di bat-robe varie, vari bat-veicoli e bat-maggiordomo (ma maggiordomo omosessuale, in un’epoca in cui i comics non parlavamo ancora di omosessualità). Ma quell’eroe argentato viveva in un contesto “hot” e amabilmente scorretto, rispetto a quel Batman di Adam West e i superamici che ricordavo da piccolo in tv e sulla cioccolata (e le gelatine). Erano storie di sangue e di pazzia, spesso truci, horror, rese a volte anche più “dure e pulp” dalla stampa in quadricromia. Se Batman lo stavo riscoprendo al cinema e grazie alla nuova serie animata prodotta da Sunrise (con la sigla di Cristina d’Avena davvero letale), rimanendo per lo più affascinato dal grande lavoro sul lato psicologico, archetipico, dei suoi personaggi (il mio amore per la psicologia si è affinato dalle nevrosi di Bruce, dall’indole borderline del Joker, dal narcisismo del collezionista e dai mille altri pazzi di Gotham), sulla carta stampata Moon Knight era il perfetto “corollario”. Un eroe dalla personalità multipla, in grado di declinarsi in storie dall’animo multiplo e contraddittorio, tra onirico e non. Come Batman, ma infinitamente più duttile. Vuoi fare una storia nello spazio? Vuoi i licantropi? Vuoi una detective story a base di vigilanti mascherati? Vuoi una storia sulle leggende egizie? Sull’uomo nero che spaventa i bambini mentre dormono? Una storia sui mercenari e le spie in medio oriente? Storie sulla follia? Sugli attori falliti di Hollywood? Con Moon Knight potevi trovare di tutto, perché è un personaggio creato libero e anticonformista a 360 gradi. Libero e condito con una amabile salsa horror/psico/action. La palestra ideale per ogni disegnatore e autore che voleva farsi conoscere da quegli adolescenti anni ‘80 come me e dagli “adolescenti del futuro” in cerca di emozioni forti. Moon Knight per questo è sempre stato un personaggio “a parte”, salvaguardato in una gestione editoriale fieramente lontana dai supereroi mainstream della Marvel. Nei maxi crossover lui appariva, faceva due battute e ciao, tornava nelle sue storie a base di pazzi, demoni e mercenari. Hanno provato a metterlo negli Avengers della West Coast, ma è durata poco e intelligentemente anche lì le storie hanno alimentato dei dubbi sul personaggio, presentandolo a metà tra il villain e il cialtrone, estremo e poco classificabile. Anni e anni dopo le prime storie scritte dai suoi “papà” Doug Moench e Don Perlin per i fumetti sui lupi mannari, la formula e l’unicità di Moon Knight ha tenuto benissimo, passando alle storie di Dixon e DeMatteis fino ai recenti racconti di Brian Bendis, Warren Ellis, Brian Wood, Jeff Lemire. Moon Knight negli anni è stato guarda caso realizzato da molti dei più grandi (e originali) autori e disegnatori contemporanei. Ogni nuova run a fumetti è tuttora accolta con enorme interesse (almeno quanto sono temuti i crossover che vogliono coinvolgerlo) e l’attesa per questa nuova avventura su Disney Plus era tantissima, per me e molti quasi spasmodica. Una attesa che alla luce delle prime puntate sembra non essere stata vana, regalando (per ora) uno dei più riusciti adattamenti da fumetto di sempre.


-La serie tv: era difficile sintetizzare in un film le molte anime di Moon Knight e l’idea di farne una serie dal super-budget per il canale streaming di Disney Plus si è rivelata davvero vincente. Disney, come dimostrato nelle ultime serie di Star Wars, sceglie una messa in scena in grande stile, che non sfigurerebbe per niente sul grande schermo di un cinema. Il cast è sontuoso, annoverando molti attori di primo piano come Hawke e Murray Abrams, tra cui svetta però un incredibilmente versatile e convincente Oscar Isaac. Se già lo avevamo trovato molto simpatico nel ruolo di “Poe” della nuova serie di Star Wars, Isaac in Moon Knight riesce saldamente a tenere le redini di un personaggio folle quanto complesso. Un anti-eroe che piange, vive nel terrore, sa essere buffo e malinconico, sa essere tragico e autoironico, sa sdoppiarsi e reagire, combattere e inciampare, immaginarsi e reimmaginarsi, farsi vittima o carnefice. Uno, nessuno e centomila tratti e qualità, che coesistono nello stesso corpo, con personalità multiple che dialogano tra di loro, per mezzo di specchi e voci interiori, in una infinita ricerca del “sé“. C’è Belfagor il fantasma del Louvre alla base, naturalmente, ma anche più di un contatto con Un lupo mannaro americano a Londra. C’è Batman e una felice punta di Spawn. C’è il cuore tormentato del personaggio di James McAvoy di Split. Un mix poderoso di suggestioni e input che Isaac riesce a declinare benissimo e fare suoi, scindendosi in più anime e  dando vita a uno dei personaggi più complicati di sempre, anche per merito della sceneggiatura chirurgica imbastita da Jeremy Slater, autore delle recenti serie The Exsorcist e Umbrella Academy, ma anche di horror riusciti come Pet e The Lazarus Effect (gli perdoniamo lo scivolone del Death Note targato Netflix…forse). Una sceneggiatura ricca di azione e  approfondimento psicologico, che bene si unisce a una messa in scena visiva che attinge molto dall’horror moderno, citando a piene mani sequenze di Annabelle e Lights Out, insieme a qualche scena action esagerata dal sapore di Final Destination, integrandole bene ad alcune delle scene più iconiche del fumetto. La fotografia è curata da Gregory Middleton, che si è fatto le ossa sul Trono di Spade, e da Andrew Droz Palermo, che ha lavorato sul bellissimo A Ghost Story, come su You’re next. La colonna sonora del compositore egiziano Hesham Nazeh è molto evocativa, carica di inquietudini e riporta al meglio lo spirito da action/psico/horror che permea le storie di Moon Knight. Non manca l’ironia, ma risulta ben dosata, funzionale e spesso “nera”, come in quel Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, con cui Moon Knight condivide la stessa “location” della capitale inglese: tra strade affollate e colorate che di notte, per contrappasso, possono tramutarsi di colpo in luoghi da incubo, fatti di infinta solitudine e silenzio. La famosa scena della metropolitana del film di Landis, qui sembra riecheggiare dietro a ogni cambio di inquadratura nelle scene più horror, fin dal famoso “specchio” del bagno (scena ultra copiata negli horror è proprio ideata da Landis in quel Film). Che ci troviamo dentro i bagni di un museo egizio dopo l’ora di chiusura o dentro un ascensore che non chiude le sue porte mentre qualcosa di sinistro ci cerca di raggiungere. Nel campo della tensione il lavoro svolto finora, alla luce dei primi tre episodi, è davvero lodevole, come frenetiche e gustosa sono le scene d’azione fisiche e di inseguimento, supportare da una regia molto dinamica e da buoni Stunt-man. Davvero niente male sul lato della effettistica e del trucco, e non era scontato come aspetto, anche il costume di Moon Knight. Un costume a fumetti da cui ha mutuato moltissimo anche lo Spawn di McFarlane e che per questo ci fa anche pensare a come potrebbe venire “bene” al cinema, oggi, un nuovo Spawn. In realtà con c’è un “solo” costume, e la serie riesce bene ad attingere anche da molta della produzione recente del fumetto in questo. Ma non vogliamo rovinarvi troppo la sorpresa, al di là di quanto non abbiano già fatto i trailer per lo meno.  Ogni costume ha un suo “stile di combattimento” e gli scontri che si sono potuti gustare, fino ad ora, sono molto divertenti e originali. 


-Finale, alla luce dei primi tre episodi: da fan di Moon Knight credo a mani basse che questo sia il migliore adattamento di un fumetto supereroistico in live action di sempre. È centrato lo stile, è centrato l’umorismo e la componente horror, gli attori sono in parte e il progetto sembra essere partito sui binari migliori, all’interno di una resa visiva che si sarebbe meritata al 100% la sala cinematografica. Svestendo per un attimo i panni del fan sfegatato, ritengo la nuova serie Disney Plus un’opera adatta a un pubblico più di adolescenti che di bambini, per via delle molte scene che potrebbero spaventare o confondere  i più piccoli. Una serie che è ben avviata, ma che aspettiamo a giudicare più compiutamente una volta che saranno rilasciati tutti gli episodi, specie in riguardo a come verranno sviluppati gli altri personaggi. Fino ad ora è stato un “Oscar Isaac show”, convincente e divertente, ma ci aspettiamo anche uno sviluppo ulteriore del personaggio di Hawke, che qui gigioneggia alla grande, ma come attore sa dare molto di più. Se il buongiorno si vede dal mattino, Moon Knight è partito al meglio.

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domenica 10 aprile 2022

I corrotti (The Trust): la nostra recensione di un film bruttino con protagonista “Frodo” e in un ruolo minore anche Nicolas Cage con i baffi diretti dai registi dei video degli Skillex e di David Guetta

 


Lavorano per la polizia scientifica a Las Vegas (un po’ come fossimo in CSI) da troppo tempo e vogliono fare “il balzo di carriera” e diventare ricchi. Sono i più scalcinati e sottovalutati poliziotti del dipartimento e il massimo che gli fanno gestire è acquistare un tosaerba all’asta giudiziaria per la moglie del comandante. Ma ecco che un misterioso dettaglio su delle scartoffie fa accendere in loro il fiuto del detective e una possibilità concreta di cambiare vita. Così gli stralunati Frodo e Nick Cage con i baffi si incontrano in un locale per adulti a mettere su una specie di piano e a mangiare fette di limone con pucciato sopra il guacamole come alle feste delle medie. L’obiettivo è  fregare degli spacciatori con amici troppo ricchi per essere veri, tipo che hanno una piccola Fort Knox dietro a una lavanderia gestita dai cinesi. Tra ambizioni e paure, tradimenti ed eccessi di zelo e pochissima convinzione in quello che “si dovrebbe fare”, i nostri eroi finiranno in un pasticcio più grande di loro senza sapere bene come uscirne. 

Andiamo dritti al nocciolo: I corrotti è il film che ha reso superamici “Frodo” e Nick Cage, al punto che il primo ha fatto incontrare il più grande attore vivente con il regista greco che lo avrebbe diretto nel capolavoro psichedelico Mandy. Punto. 

Il resto è tutto un thrillerino noiosetto e pazzerello, qualche volta surreale ma spesso tristanzuolo, con Frodo che gira in posti strani stile Grande Lebowski, un paio di tette, locali per adulti, due pistolettate, una colonna sonora “frizzantina” che dopo i primi sei minuti vorreste morire, una trama-insalata poliziesca che è troppo confusa, piena di buchi e non decolla mai. Interessante invece la storia dell’aspetto peculiare di Nick Cage con i baffi. Un giorno faremo sul blog una lettura epistemologica completa dei film di Nicolas Cage “barbuto” suddividendoli tematicamente in base a quanta “quantità di barba” sia presente sulla faccia insieme al numero di capelli. Stiamo già ragionando su dei grafici. Così potremo distinguere al meglio le performance di  “Cage con i baffi” (spesso in riferimento a personaggi “truffaldini o borderline”, in film come Raising Arizona o Kick Ass) da non confondere con la filmografia con “barba e baffi” (sovente legata a personaggi più irrisolti, con “qualche scheletro nell’armadio”, come in Joe, Wiily’s Wonderland e Prisoners in a Ghost Town) o con quella con “barba, baffi e capelli lunghi” (in genere, come Con Air insegna, il capello lungo di Cage corrisponde a personaggi eroici, di film come L’ultimo dei templari, L’apprendista stregone e Pig). Poi ci sarebbe tutto un mondo interpretativo a parte che riguarda ulteriori classificazioni dei suoi personaggi in riferimento al tipo di acconciatura, la presenza o meno di doppio mento, la panza, la presenza di occhiali da sole, giubbetti in pelle e scarpe a punta di serpente e…non vogliamo divagare ma approfondire: sappiamo quanto sia complesso Cage e vogliamo raccontarvelo al meglio. Presto lo faremo. Ma torniamo a questi I corrotti e alla cocente sensazione di trovarsi dentro un film che sbanda troppo dal buffo al grottesco, racconta male e alla fine non fa ridere e non fa piangere. Lo spettatore tipo de I Corrotti, “quando è sveglio”, è solito cadere vittima di un tale senso di confusione generale, dannatamente presente in ogni fotogramma, che può dare la sensazione di aver intrapreso la visione dopo un incidente stradale. Quando capita che lo spettatore “dorma”, perché il film oltre allo stato allucinatorio ha pure questo potere super rilassante da fare invidia al valium, il sonno che consegue è in genere triste, prosciugato di ogni gioia del vivere come un martedì di novembre con la pioggia. Tutto questo accade nonostante un cast se vogliamo pure interessante, che annovera sfruttati malissimo anche Idris Elba e il leggendario comico Jerry Lewis. Tutto questo accade in un film pieno di esplosioni, sparatorie e tette. 93 minuti di durata, tempo impietosamente percepito 16 ore.  Dovrebbero usare la pellicola in quei posti governativi per torturare la gente “che non esistono”, per sedare i detenuti dopo avergli strappato le unghie con una pinza. Funzionerebbe. Ma a parte questa applicazione pratica, I corrotti è una maledetta occasione persa tanto per il protagonista del bellissimo Maniac (perché Frodo è “più Maniac che Frodo” per noi, a livello di skills da attore, al netto di quella volta che fece uno slasher con bambini insieme al ragazzino di Mamma ho perso l’aereo, che è ancora tanta roba) che per il più grande attore vivente e nostro mito Nick Cage. I due si rincorrono e non si trovano, vivono storie troppo distanti e non si capiscono, non si amano. Poca bromance, poco entusiasmo. 


Dopo il nono tentativo di approcciarmi alla materia senza cadere in letargo, iniziare a controllare la posta elettronica e informarmi sulla possibilità concreta di un remake del videogame da sala Forgotten Worlds di Capcom, del 1988 (che per ora non c’è, ma in compenso ho appeso che qualche pazzo sta recuperando il Coin-op Night Slashers), ho provato ad affrontare la visione “a muso duro” con il block notes, la penna e una considerevole dose di caffè in corpo, per raccontarvi almeno le cose belle che mi sono sfuggite. Tutto invano o quasi. Il guaio è che Nick Cage, come arma di distruzione e distrazione di massa, è troppo tempo fuori dalla scena, come in Outcast. Quando i riflettori sono su di lui, Nick riesce a inventarsi la qualunque, come il momento surreale in cui nel Night si mette a rubare le fette di limone o quando fa nel parcheggio una strana danza russa in cui mentre si agita gli balla il parrucchino. Ma quando il nostro eroe e la sua pazzia sono fuori dall’immagine e ci troviamo come in Outcast, soli, con l’attore di Maniac che non fa Maniac, questo filmetto si rivela per il filmetto che è. Un filmetto indeciso nella sua cronica confusione se spostare la trama dalla farsa al dramma o nello stare fermo a fare niente, fingendosi una pianta. 

I registi Alex e Benjamin Brewer, che dopo i video di David Guetta e degli Skillex dirigono e pure scrivono questo pasticcio, si vede che tirano a un certo film di genere action ma sagace, sullo stile di un mestierante onesto come Joe Carnahan o guardando ad alcuni lavori di Shane Black. La direzione è giusta e qualche volta il film imbrocca, insieme a quel pifferino che saltuariamente sottolinea i momenti buffi. Vanno bene pure le telecamere e i droni, che ci rimandano a una Vegas gustosa, colorata, disincantata. Con Jerry Lewis. Serviva maggiore convinzione nel seguire Cage che fa il ballo russo con il parrucchino vibrante. Poteva essere ipnotico dopo i primi sette minuti e fornire pure un biglietto per il Sundance. Invece ci tocca un film con Frodo che per tutto il tempo ha l’aria di uno che non riesce a trovare l’ingresso per la toilet, in uno dei posti più divertenti del mondo. Peccato. 

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venerdì 8 aprile 2022

Spider-Man - no way home - la nostra recensione “presa con calma”

(Premessa) Ormai in sala avete visto tutti il nuovo film di Spider-Man o siete comunque stati colpiti nel cuore della notte dagli spoiler sulla trama, a tradimento, aprendo internet su una pagina qualsiasi in cerca dei buoni sconto di Esselunga. Quindi pace, quello che accade di “misterioso” nella pellicola è ora un po’ il segreto di pulcinella e qui ne parleremo pur allusivamente senza pietà, magari tacendo sulla scena da cinepanettone dei  titoli di coda con Venom ubriaco. 

(Sinossi fatta male) - Peter (Tom Holland), il nostro amichevole uomo ragno di quartiere, è stato infamato e smascherato pubblicamente da Mysterio (Jake Gyllenhaal) e ora tutto il mondo conosce la sua identità segreta. La sua vita è fregata, a partire da una lettera dell’Università che lo ha scartato, a lui e ai suoi amici “complici”, proprio per quel suo hobby strano di fare il supereroe. L’unica soluzione possibile sembra andare dal suo nuovo superamico, lo stregone fighetto Dottor Strange (Benedict Cumberbatch), perché si inventi qualche magia fighetta che riavvolga il tempo o faccia scordare a tutti la sua identità o riporti in vita Mysterio perché neghi tutto o roba simile. Il buon mago supremo del Marvel Universe ha giusto pronto un incantesimo che permette la cancellazione dalla memoria collettiva, pronto a essere pronunciato con parole fighette tutte dorate di una lingua sconosciuta che si imprimono nell’aria, facendo in modo che solo alcune persone ricordino, ma il nostro arrampica-muri è agitato e manda in pappa la concentrazione dello stregone durante il rito. Il risultato è che iniziano ad arrivare da altre dimensioni dei villain che conoscevano il massimo segreto: “Che Peter Parker era Spider-Man”. Come sarà possibile aggiustare le cose?

Si potranno rimandare indietro tutti questi uomini-polpo, uomini-sabbia, uomini-lucertola ecc. senza problemi aprendo nuovi portali inter-dimensionali? Oppure sarà preferibile magari prima provare, in tre comodi giorni, a curare sti tizi fisicamente e spiritualmente per poi affidarli ai sevizi sociali per un reinserimento mirato nella società? Quale delle due soluzioni sarà la più fantasiosa? 



(giusto “due parole” per contestualizzare, se volete andare al succo del film senza questo prolisso ed evitabilissimo approfondimento passate senza indugio al capitolo successivo della recensione) - Spider-Man è un’icona e il cinema ha sempre cercato di corteggiarlo, anche se in passato sembrava un sogno tecnologicamente impossibile vederlo “in carne ed ossa”, fluttuare tra i palazzi, in un film “fatto bene”. Servivano modellini in stop-motion ultra-rifiniti che da soli necessitavano mesi e mesi di test e rifiniture. Servivano telecamere che non pesassero svariate tonnellate e fossero veloci, servivano stunt-man pazzeschi in grado di lanciarsi suo vuoto. Costava comunque troppo. Nel 1977 la Charles Fries Production aveva cercato di provare “qualcosa in controtendenza” e con il budget di un menù medio di McDonald’s, che bastava per assoldare un mimo e colorare un paio di scenografie in falsa prospettiva, aveva dato vita a qualcosa di davvero straniante, grottesco. “Ci avevano provato”, male, confermando la in-riproducibilità in live action dell’eroe di bandiera della Marvel. Ma il cinema si nutre di sfide, così uno degli uomini che più si è battuto per innalzare la tecnologia visiva nel cinema, James Cameron, si appassionò al progetto (si dice) mentre stava iniziando a pasticciare con gli effetti speciali digitali per Abyss. Cameron migliorò il suo “standard accettabile” di computer grafica con Terminator 2 e iniziò a dare forma ad un trattamento imponente per Spider-Man, dalla pianificazione degli effetti visivi fino ad uno sviluppo più “scientificamente corretto” del personaggio originale, seguendo basi scientifiche ibrido-biologiche per rendere plausibile che l’eroe lanciasse ragnatele “organiche”. “Roba da James Cameron” insomma, con il passo successivo che avrebbe comportato la creazione di un reale clone uomo-ragno in provetta da usare come Stunt-Man per integrare meglio la computer grafica, ma poi il buon James “finì sul Titanic”, dimenticandosi del mondo per costruire super telecamere per reggere la pressione oceanica e reali mini-sommergibili-con-arti-robot per esplorare il relitto del vero Titanic. Questo lo avrebbe portato lontano da ogni altra cosa fino al 2009, anno di Avatar, per poi farlo scomparire fino ai giorni nostri. Immagino lo rivedremo tra un paio di anni, dopo che con l’esplorazione spaziale avrà trovato un pianeta abbastanza convincente per girarci Avatar 2. Nel mentre, un regista spericolato e low-budget amato per delle amabili cafonate splatter come Sam Raimi si avvicinò alla causa dell’uomo ragno. I suoi progetti non costavano quanto il pil di una nazione e lui aveva già creato nel 1990, con due lire e Liam Neeson, un magnifico cine-fumetto come Darkman. A solo un anno dal Batman di Tim Burton e con lo stesso compositore delle musiche, Danny Elfman. Se James Cameron prima di girare avrebbe aspettato che la scienza (con il contributo di una sua personale ricerca) creasse un vero mutante uomo-aracnide da usare da stunt-man/cameraman, per Raimi per avere “più o meno” lo stesso risultato visivo bastava conoscere la “grammatica” dei fumetti in fatto di inquadrature e narrativa (dalle frasi ad effetto alle “splash page”) e alla bisogna, giusto per l’effettistica del “volo con le ragnatele”, si poteva legare “come sempre” (come aveva fatto per La casa) una telecamera a una corda, lanciandola poi a caso nel vuoto dalla cima di un palazzo o facendola trascinare da una moto. Qualcosa con un po’ di fortuna si sarebbe ripreso, che tanto poi si aggiustava in post produzione. Se ogni tanto Willem Dafoe sembrava poi Rita Replusa dei Power Rangers si poteva spacciare la cosa come “citazione camp”. Il fatto che il produttore del film fosse il colosso della tecnologia Sony gli permetteva di rompere qualche decina di telecamere extra come sacrificio necessario per la settima arte. E poi ai giapponesi piacevano i Power Rangers. Iperboli surreali a parte, Raimi, cresciuto a fumetti, film Hammer e fantasy in stop motion con i mostri di Ray Harryhausen, ci teneva tanto al cinema di genere. Dopo aver realizzato dei film-fumetto (all’epoca non si diceva ancora cinecomics) come Darkman e L’armata delle tenebre e dopo aver riportato il Fantasy muscolare in tv, con Hercules e Xena, si preparava a tradurre su schermo il “suo” amato Uomo Ragno, quello che amava da ragazzo, disegnato da Steve Ditko e scritto da Stan Lee. Un Peter Parker con i brufoli, ragazzino, timido, bruttarello e sfigato, ma in grado di fare la differenza come supereroe e giovane scienziato. Per Raimi l’iconografia di quelle storie era sacra al punto che non era importante che in un film del 2000 e passa si potessero trovare ancora banche con nelle casseforti i soldi raccolti in sacchetti con il segno del dollaro sopra, come nel deposito di Paperone. Se Ditko disegnava negli anni '60 uno scontro specifico tra Spider-Man e Doc Ock a “sacchettate di dollari” al posto di palle di neve, quella scena funzionava ancora oggi e andava riprodotta. Erano anzi carichi di “simbolismo” e veniva meglio che sostituire i sacchi di Paperone con degli sportelli del bancomat. È interessante che per interpretare Peter Parker venne scelto proprio il timido e lunare Tobey Maguire, attore minuto e gentile che agli inizi del 2000 avrebbe diviso lo schermo con uno sconclusionato e “stunned” Robert Downey Jr, il futuro Iron Man (e futuro Sherlock Holmes per Guy Richie) in un piccolo film di Curtis Hanson con protagonista Michael Douglas: Wonder Boys.



Qualcuno se lo ricorda ancora, quel primo trailer di Spider-Man uscito nell’estate del 2001, con un elicottero che veniva fermato da una ragnatela di Spider-Man che legava le due Torri Gemelle di New York. Dopo gli attacchi dell’11 settembre quella scena colossale è stata rimossa dalla produzione  e la pellicola ha avuto il via libera nelle sale solo nel 2002. Grande successo, merito della produzione, di Maguire ma anche di un villain perfetto come Willem Dafoe in una parte un po’ da Rita Repulsa: lo scienziato pazzo Osborn che diventerà Green Goblin. Nel 2004 fu un grande successo anche Spider-Man 2, per merito anche di un villain perfetto e assolutamente “alla Ditko” come Alfred Molina: lo scienziato pazzo Octavius, che diventerà l’uomo-polpo Doc Ock in una scena a base di motoseghe davvero vicina agli horror splatter di Raimi. Molina e Dafoe davano corpo a personaggi che potevano essere la “proiezione futura” di Peter Parker da adulto come possibile “nuovo Dottor Frankenstein” dello stesso terzetto di mad doctor. Con entrambi i “colleghi scienziati”, che tra una scazzottata in costume e due o tre momenti di delirio megalomane, finivano per costruire con il protagonista un interessante legame di stima o rivalità se non quasi di stampo paterno. Un legame che invece non si è instaurato e non si poteva instaurare con i villain del terzo Spider-Man, quello del 2007, sempre per la regia di Raimi. Dopo il Goblin e Doc Ock, Raimi puntava a Sandman, scegliendo come suo interprete il bravo Thomas Haden Church. Sandman era più il mostro di Frankenstein che il dottor Frankenstein ma era al contempo una creatura enorme, un super effetto speciale continuo e studiato nei dettagli quanto meravigliosamente “vintage”, proprio pure lui dell’era Ditko, che rievocava creature classiche e ancestrali dell’immaginario come il Golem e il Blob. La storia di Sandman si mescolava al meglio con il percorso di Harry Osborn, amico di Peter interpretato da James Franco che nel terzo capitolo si apprestava a diventare anche lui villain e tutto aveva un equilibrio. Ma poi la produzione decise che Sandman e Osborn jr non bastavano più al “pacchetto” e imposero anche la presenza di un terzo villain, Venom. Venom era una “esigenza aziendale” e decisamente fuori dalle corde di Raimi, anche perché figlio di un ciclo di Spider-Man di fine anni ‘80 rivolto ad un pubblico diverso e con protagonista uno Spider-Man anni luce da quello di Ditko che impersonava bene Maguire. Era un Peter Parker di colpo bello, aitante e già professore universitario, Avenger, con alle spalle anche dei drammi mica da ridere (come la storia di Gwen Stacy). Un uomo già adulto e complicato che stava avendo anche come supereroe una mezza sbandata da vigilante rabbioso “all dark”. Una svolta emotiva che era poi la linfa con cui avrebbe compreso e portato alla luce quel suo lato oscuro che avrebbe preso forma in Venom. Venom che concettualmente, prima di essere un alieno, è una  “maschera nichilista di Peter” che prende forma in un “costume di riserva”, nero, per sostituire momentaneamente  il costume classico colorato di rosso e blu, ridotto in pezzi (un po’ come i suoi ideali) durante il ciclo delle guerre segrete. Solo quando poi viene identificato questo simulacro nero come “la parte mostruosa di Peter” il costume “diventa altro”, visivamente ma anche narrativamente, che muta fino a che lui lo espelle. Diventa il simbionte (un po’ come Il grande mago piccolo che espelle junior in Dragon Ball): massa senziente di muscoli e fluidi allungabili, piena di denti e voglia di mangiare carne umana. Una creatura aliena dal poter immenso che finisce per calzare a pennello ad un eroe come Eddie Brock, uno che non ha tanti problemi a prendersi tante responsabilità (per parafrasare una frase a caso). Venom nasce come espressione del karma cattivo e ha un design e brame da mostro di un film horror. Ma ha la tragicità di finire per essere l’antieroe di un fumetto destinato sostanzialmente ai bambini, diventando presto un personaggio buffo-grottesco e sopra le righe stile il “Tazmania” di Warner Bros dei Looney Toons. Un amabile frescone che subito amarono proprio i bambini, con tutto il discorso dell’identità karmika che andò presto in soffitta in favore di un generico patentino da “alieno cattivo ma spiritoso”. Al cinema andava semplificato, introdotto senza la storia del costume di riserva, le guerre segrete, Peter Parker docente con la crisi del vigilante e tutto il resto. Non riuscì benissimo. Quel corpo su carta ipertrofico e carico di denti, “scolpito” da Todd McFarlane come una sorta di Hulk “alternativo”, si riduceva al cinema, per un problema anche di credibilità degli effetti speciali dell’epoca, a una timida tutina nera con due sflilaccetti “senzienti” e un paio di dentini (non che il Venom recente di Tom Hardy sia fatto bene, servono ancora ulteriori passi nella computer grafica del 2022 per avere un Venom decente). C’era l’uomo di sabbia, c’era Osborn Jr e c’era questo Venom che non avendo il tempo di essere sviluppato a dovere doveva cadere letteralmente dal cielo, “come uno… nero”, senza un background serio, sostanzialmente perché “piaceva ai bambini”. Raimi ci provò comunque e Maguire fu molto devoto alla causa aziendale, a costo di auto-parodiarsi per rendere “”””plausibile””” tutto il discorso di Venom. 


Non fu un auto-goal, anche perché il terzo Spider-Man vendette tantissimo, tipo 900 milioni al botteghino, ma il senso di confusione generale bloccò la saga cinematografica per un paio di anni, fino a un nuovo re-start generale sotto la regia di Marc Webb e con interprete Andrew Garfield. Il cambio di regia e narrativa ha tuttora tratti misteriosi, perfino inspiegabili come tutta la linea narrativa involuta dei genitori di Peter che lavoravano in segreto per il mad Doctor Osborn senior. Volevano ripartire e iniziavano a farlo complicando le cose invece che chiarendole, demandando molte risposte a film che non si sarebbero mai girati. Garfield è oggi nel 2022 un bravo attore di Musical, in Tick tick…Boom!, ma nel 2012 è un attore abbastanza tremendo, risibile in ogni sua interpretazione e che quindi ho amato veder torturare in modo orribile (purtroppo solo nella finzione cinematografica) in Silence di Martin Scorsese (naturalmente sto scherzano…forse). Totalmente inespressivo e con l’aria da bulletto, ha trovato però una buona sponda tra il pubblico femminile in quanto belloccio (la stessa fama immeritata di Orlando Bloom e Hayden Christensen ai loro esordi) e tra i fan di Spider-Man per una qualche naturale somiglianza fisionomica alla rappresentazione grafica del personaggio negli anni ‘80/‘90. Assomiglia un po’ allo Spider-Man delineato da Mike Zeck nella miniserie l’Ultima caccia di Kraven o a quello di Mark Bagley per la saga del clone. A tutti gli effetti poteva somigliare a “quello spider-Man” che aveva trovato come villain “karmico” Venom, perché Garfield aveva per lo meno quella “rabbia giusta negli occhi” che avrebbe sviluppato un ottimo Venom. Ma il destino non avrebbe permesso questo incontro-scontro. Questo attore-pacco veniva poi diretto da un regista-pacco e una produzione-pacco. Nessuno del gruppo che ha realizzato “Amazing” aveva mai letto o gli fregava del fumetto di Spider-Man, e si vede! L’approccio visivo sfruttava il meglio della computer grafica del 2012 ma con zero inventiva, uscendo  con le ossa completamente rotte dal confronto con gli effetti speciali inventivo-pionieristici-powerrangereschi usati 12 anni prima da Raimi. Il villain era lo scienziato pazzo Connors (Rhys Ifans, che oggi è al cinema interpretando uno strepitoso Rasputin in The King’s Man - le origini, davvero il clou della pellicola ), alias il coccodrillone Lizard e veniva reso del tutto diverso dalla controparte del fumetto, in cerca di un realismo da ibrido uomo-animale che però anche James Cameron non avrebbe mai approvato, perché “sbagliato alla base”. Connors nei fumetti appare come un coccodrillo-uomo, ossia come un coccodrillo con la faccia e mole di un coccodrillo con in più i muscoli di un uomo e gli abiti da scienziato pazzo, un po’ come uno Street-Sharks. Quello di Amazing è invece un Visitors. Un Visitors nudista. Sempre per fare dispetto a Cameron, Spider-Man ora non secerneva più ragnatele dalle mani ma usava un lancia-ragnatele “con mirino laser”, ma è il meno. La trama, tra il non richiesto spy movie in cui i genitori di Peter erano tipo degli agenti segreti al sevizio di Osborn e il nostro eroe che viveva il non richiesto “dramma del ragazzo difficile e skater” (ossia il classico bullo che avrebbe picchiato Peter Parker in un fumetto..) in cerca di approvazione sociale, era puro delirio. 


Poco “Amazing” per me. Il risultato finale fu un vero orrore, ma che incassò bene (perché ogni cosa che ha il nome Spider-Man sopra vende, anche oggi), al punto che fu messo in cantiere per uscire due anni dopo un Amazing Spider-Man 2. Come villain a questo giro si scelse lo scienziato pazzo Electro (Jamie Foxx), usando un approccio visivo nuovamente orribile e non fedele ai fumetti come quello usato per Lizard. Dal tizio con costume sgargiante che lancia fulmini, Electro viene ridotto a ustionato grave di colore blu. Ustionato grave e nudista. Quel polpettone senza senso della storia dei genitori-spie scomparsi proseguiva, si faceva largo il bruttissimo e svilente personaggio di Rinho di Paul Giamatti (sia per costume che per effetti speciali, battute e tempo su schermo), compariva Osborn Jr in modo poco funzionale, ma per lo meno non era nudo. Tuttavia al centro della narrazione c’era una delle storie a fumetti più famose, controverse e iconiche dell’uomo ragno. E qui non posso fare ironia, perché su questo aspetto ci presero in pieno e fecero davvero bene. Proprio per l’intensità emotiva di quella storia, valorizzata al meglio da una Emma Stone che di fatto è l’unica cosa “Amazing” di questa serie (no Garfield pure qui a recitare è un cagnaccio senza speranza) Amazing Spider-Man 2, nonostante tutto, funzionava proprio bene. Sapeva essere un film tenero, tragico, inaspettato, quasi horror. Un buon film che per il lato narrativo e recitativo si “faceva perdonare” tutto il resto, nemici nudi compresi. Ma non ebbe mai un seguito. Si parlava di un film su folle film tutto incentrato su Zia May. Si parlava di un eccitante film sui sinistri sei, che raccoglieva i principali nemici di Spider-Man e sarebbe stato diretto dal regista di Cabin in the Woods, Drew Goddard. Ma poi tutto si fermò senza che potessimo scoprire quale villain di Spider-Man avrebbe affrontato, ovviamente nudo, zia May. 

Poi il silenzio. Poi “fu Disney”. Poi fu l’inizio di un complicato rapporto tra Sony e Disney per lo sfruttamento di Spider-Man dentro il Marvel Cinematic Universe. 


Quando si fecero vedere i primi trailer di Captain America: Civil War, che sarebbe uscito nel 2016, stavamo per assistere alla nascita di un nuovo Spider-Man. Un tessi-ragnatele interpretato da Tom Holland, attore bravo e versatile (a differenza di Garfield che a stento lo distinguevi da una pianta) e che veniva messo subito a fianco dell’Iron Man di Robert Downey Jr. Dopo Osborn e Doc Ock inuovo scienziato - figura paterna - “anteprima  del futuro da adulto” del nuovo Uomo Ragno, sarebbe stato Tony Stark. Era uno Spider-Man “più piccolo” di quello di Garfield, sembrava l’arrampicamuri disegnato da Mark Bagley per la lunghissima e favolosa run di Ultimate Spider-Man scritta da Michael Brian Bendis, che di fatto voleva essere una reinterpretazione anni 2000 dello Spider-Man originale anni '60 di Ditko. Quello “Ultimate” (frutto principalmente del lavoro di autori come Millar, Ellis, Bandis) era l’universo narrativo che aveva inspirato il Marvel Cinematic Universe e anche lo Spider-Man Miles Morales, quello avrebbe ispirato l’ottimo film animato Sony diretto da Lord e Park Spider-Man: un nuovo universo, che nasceva proprio da una run di Ultimate Spiderman di Bendis successiva a quella disegnata da Bagley, caratterizzata graficamente da Ann Nocenti. In Civil War l’arrampicamuri, da subito per l’effettistica del 2016 realizzato visivamente in modo appropriato (opinione mia personale), con effetti speciali convincenti fin nei dettagli degli “occhi da ragno”, faceva giusto una particina ma ma era “già dentro” all’universo Marvel, con il primo film da solista, Spiderman: Home 
Homecoming diretto da Jon Watts in produzione. Un nuovo film solista che avrebbe parlato del suo rapporto con Iron-Man saltandoci tutta la parte della origin story, del “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, zio Ben ecc. E andava benissimo così, perché questa storia classica la avevamo già sentita due volte in meno di 20 anni e di tutti i retroscena dei genitori di Garfield super spie non importava davvero a nessuno al mondo. Ancora una volta il villain era una specie di super scienziato, l’avvoltoio, interpretato (molto bene) da Michael Keaton e sarebbe stato una “specie di scienziato” pure il villain del film successivo, Spider-Man Far From Home, con l’attore Jake Gyllenhaal che si sarebbe trasformato in Mysterio. L’avvoltoio e Mysterio non sarebbero andati in giro nudi, ma in costumi più vicini ad Iron-Man. Perché il futuro dei cinecomics con sarebbe più stato appannaggio di villain nudisti. 

Ma proviamo per un attimo a legare tutto, dal primo film di Raimi allo Spider-Man del dicembre  2021. 


Di fatto tutti questi film sull’uomo ragno hanno avuto rimandi e punti nodali in comune, pur cambiando sceneggiatori, registi, interpreti. Peter incontra sempre una ragazza di nome Mary Jane: interpretata da Kristen Dunst nella saga di Raimi, interpretata da Shailene Woodley ma tagliata nel montaggio finale nei due “Amazing” con Garfield o interpretata da Zendaya nella saga corrente. Il nuovo Peter è ancora giovane ma potrebbe incontrare presto sul suo cammino una ragazza di nome Gwen Stacy, personaggio che era stato interpretato da Bryce Dallas Howard nella saga di Raimi, da Emma Stone in Amazing e di recente Hailee Steinfeld nei film animati con protagonista Miles Morales. Potrebbe avere un amico di nome Harry Osborn (già James Franco per Raimi o Dane DeHaan per Amazing), ha sempre un compagno di scuola un po’ spaccone di nome Flash Thompson (Joe Manganiello per Raimi, Chris Zylka per Amazing, Tony Revolori nella nuova saga) ha sicuramente una zia May (Rosemary Harris per Raimi o Sally Field per Amazing o Marisa Tomei nella nuova serie), un professore di scuola di nome Connors (Dylan Baker per Raimi, Rhyn Ifans in Amazing), può avere a che fare con un giornalista cinico con i baffi di nome J.Jonah Jameson (interpretato più volte per più Spider-Man dal solo e unico J.K. Simmons). E abbiamo parlato poco o niente o forse “fin troppo” di Venom (lo faremo altrove, parlando anche della possibilità dello “Scorpione”, visto nei titoli di coda di Home-Coming di usare il simbionte), non abbiamo parlato dei personaggi futuri (e già pluri-rimandati) come Morbius e Kraven e di tutto quello che potrebbe fare per lo spider-verso Nicolas Cage che ha interpretato e in futuro interpreterà “vocalmente” (nella saga di Tray e Park) ancora Spider-Noir. 

Sta di fatto che il personaggio di Connors viene introdotto nella saga di Raimi e “continua” nella saga di Amazing. Anche Gwen Stacy la conosciamo in Spider-Man 3 e diventa centrale in Amazing. Ci sono agganci anche tra Homecoming e Spider-Man un nuovo universo, come il personaggio di Prowler che compare nel primo (interpretato da Donald Glover) per poi svilupparsi nel secondo (interpretato da Mahershala Ali). E tutto risulta coerente e coesiste in una realtà dai molti multiversi, con questo Spider-Man no way home

Mettendo tutto insieme, Spider-Man è dal 2002 una saga con già 9 film propri, 3 film corali-condivisi (ho saltato i due Avengers contro Thanos), 1 film animato (presto 2), 2 film spin-off su Venom (presto 3). 14 film in 20 anni, che già diventano 15 (e presto 17) se alla saga aggiungiamo Morbius nelle sale in questi giorni. E questo ultimo film è niente meno che la celebrazione di tutto quanto accaduto finora, il fan film finale che raccoglie tutto, in termini di trama e personaggi in un unico caleidoscopio. Un mega tributo. Ma come è stato fatto alla fine, questo tributo? 

 


(il nuovo film in due parole) il nuovo film di Spider-Man con protagonista Tom Holland consolida il magnifico team artistico che ha caratterizzato la gestione dell’arrampicamuri di Jon Watts. Gli attori più giovani (Holland, Zendaya, Batalon e Revolori) sono affiatatissimi, Favreu e Marisa Tomei funzionano ancora molto bene e le guest star del Marvel Cinematic Universe, Cumberbatch e Wong, si integrano alla grande. A questa compagine già affiatata si aggiungono molti volti noti provenienti dalle passate pellicole di Spider-Man (come Jamie Foxx, Willem Dafoe, Alfred Molina e J.K. Simmons, senza rovinare “altre” sorprese ma che non si desumono dai trailer) ed è una vera sorpresa come questi vecchi personaggi riescano bene a essere riproposti oggi anche a un nuovo pubblico, che sicuramente correrà a recuperare tutti i “pezzi mancanti” della loro raccolta di film sull’uomo ragno dal 2002 a oggi. L’ampia coralità con cui si muove narrativamente la pellicola riesce a essere ben gestita e quasi ogni protagonista può godere di scene che lo mettano in luce, quanto di simpatici botta e risposta con il resto del gruppo. Ci sono molti momenti di “commozione generale” che trasformano la pellicola quasi in un film natalizio, come sono frequenti scene d’azione gigantesche ricche di effetti speciali e che fanno sentire tutti sulle montagne russe. Non manca a tutto questo spettacolo  l’ironia, un po’ innaffiata ovunque, ma Watts ha anche la capacità di portarci di colpo in territori ben diversi, tragici, non esitando nel giocare la carta della malinconia e con pure il coraggio estremo di “regalarci” un finale amarissimo, quasi crudele. Un finale che quasi ci porta a volere un po’ più bene al piccolo uomo ragno di quartiere e che rende l’esperienza finale davvero completa, appagante. 

 


(Conclusione) “Non si torna a casa” e si va avanti, verso l’infinito e oltre, appesi a una ragnatela tra i palazzi, sopra le strade di una New York che era fantastica ancora prima di incontrare gli Avengers. Sony con il suo arrampicanuri dichiara “Marvel c’est moi” e apre a un futuro “con sempre più Spider-Man”, in cui un multi-verso ormai sdoganato potrà dare luogo non solo a film su nuovi comprimari e nuove storie, ma anche a dei seguiti cinematografici delle storie di Raimi e Webb. Spider-Man no way home ha letteralmente sbancato il botteghino in poco meno di un mese, entrando pure in pandemia nella classifica dei film più visti di sempre, ma soprattutto ha eccitato i vecchi e nuovi fan a volerne ancora e ancora. Sul web partono petizioni per far incontrare in un multiverso il Venom di Tom Hardy con lo Spider-Man di Garfield e un paio di giorni fa Garfield risponde: “Pronto! Sto già in macchina con il costume. Dove si gira, a che ora?!”. Nel nuovo cartone animato su Miles Morales saranno co-protagonisti anche Spider-Gwen e la versione futuristica Spider-Man 2099 e noi già stiamo fibrillando all’idea di una serie tv in bianco e nero di trentamila puntate su Spider-Noir interpretato da Nicolas Cage. Non l’hanno ancora annunciata e non so se lo faranno mai, ma noi del blog vedremmo tutte le puntate di sicuro.

Non si può che dire “avanti così bravi tutti”, al netto di una prima mezz’ora che magari sa di melassa la missione è riuscita. Speriamo magari che tutti i soldi che frutta e frutterà il franchise permetteranno di portare su schermo anche un Venom meno surreale di quello attuale. Per me James Cameron è l’unico che potrebbe farlo bene, ricreandolo magari in laboratorio, e una volta tornato da Marte per le riprese di Avatar 2, chissà mai che renda il simbionte un personaggio interessante. 

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