domenica 30 aprile 2023

Beau ha paura: la nostra recensione del nuovo film thriller psicanalitico/surreale di Ari Aster, con protagonista uno straordinario Joaquin Phoenix

Il mondo in cui vive Beau (Joaquin Phoenix) è un luogo inospitale perennemente invaso, insicuro e scivoloso. Grandi e piccoli rumori ronzano costantemente nella sua testa, per lo più articolando parole di odio nei suoi confronti. Le pareti della piccola stanza in cui vive brulicano di creature appese al soffitto che lo osservano, sbavano e progettano attacchi. Ogni volta che Beau lascia aperta la porta di ingresso una folla sempre più consistente di persone sinistre penetra nella casa per devastarla e ridurre in rottami e rifiuti i suoi pochi averi. Per le strade c’è sempre qualcuno che lo fissa e ride di lui, pronto a scagliarsi contro armato di un coltello. La televisione trasmette solo notizie su assassini a piede libero nella sua zona, ogni suo bancomat o documento risulta più volte invalido a una verifica anche se deve fare un acquisto del valore insignificante. Chiunque Beau incontri decide senza farsi scrupolo di mentirgli o imprigionarlo e in fondo lo “odia”, nel modo genuino e primitivo con cui si disprezzano le persone che si affacciano nella vita altrui da “intrusi”, non invitati e non graditi. Forse sono solo voci che escono dalla testa. Immagini elaborate da un forte ma clinicamente documentato disturbo paranoide: ci si può pur convivere, con tante medicine. Beau è in cura e va puntuale agli appuntamenti (il medico è interpretato da un pacioso ma sinistramente lynchano Stephen McKinley), non sgarra con le pillole e l’ultima volta che ha inghiottito il collutorio era in qualche modo sereno sul fatto che quel giorno, razionalizzando l’evento, non sarebbe di sicuro morto di avvelenamento. Si può sopravvivere a tutto, forse, ma arriva il grande giorno del compleanno di sua madre: bisogna fare un regalo, la valigia e prendere un aereo. All’improvviso tutte quelle immagini sinistre, suoni insinuanti e pensieri ostili partono insieme all’assalto della salute mentale dell’uomo, trasformando ogni istante della sua giornata in un prolungato incubo dal quale è impossible scappare. Una corsa ad ostacoli sempre più ardui che si pone tra lui e l’incontro con la persona che più di tutte ha avuto un peso determinante nella vita di Beau. Anche se non ci è nota la natura del particolare legame tra Beau con la madre, il suo stesso medico curante spesso gli insinua: “Dillo, non avere paura: dillo che la odi, che odi lei più di ogni altra cosa”. I prossimi giorni saranno difficilissimi per lui, ma anche magici. Potrà per una volta sognare, tra un incubo e l’altro. 


Ari Aster torna al cinema in una grande produzione della etichetta indipendente A24, dopo il folgorante esordio con l’horror polanskiano Hereditary e la conferma di un talento davvero inconsueto offerta dalla sua opera seconda: quel folle folk movie di Midsommar, a metà strada tra Asher Lewis e Robin Hardy. In questo percorso Aster si sta sempre più specializzando come intessitore di incubi e narratore della pura paranoia, ma piano piano si affaccia un Aster diverso, quasi “sognatore”. Continua ad amare far brancolare nel buio (e nella paura) i suoi personaggi e insieme a loro tutto il pubblico. Gioca quasi sadicamente con le “regole narrative” del film di genere per sovvertirle, disorientare e accumulare situazioni surreali spesso arricchite da uno humor nerissimo. Il suo scopo sembra essere creare suggestioni più che narrazioni, puntando a comporre castelli di carte sempre più elaborati e illusori in cui invischiare l’immaginazione e “l’aspettativa” dello spettatore, per poi tradirlo e deriderlo. È amabilmente scorrettissimo, quasi alla maniera del Michael Haneke di Funny Games (quello che faceva “riavvolgere la pellicola” pur di cambiare il destino dei “cattivi”), ma al terzo film offre anche qualcosa di diverso. C’è una punta di quella inaspettata “satira metafisica” che anche l’ultimo Lars Von Trier non aveva problemi a solcare sul finale di La casa di Jack. L’ironia e la malinconia si fanno progressivamente sempre più largo nella composizione dell’opera, che si arricchisce pure di una lunga e struggente sequenza sognante quasi a cartoni animati. Nelle prime opere era solito partire da toni profondamente drammatici per poi passare di colpo allo splatter e alla commedia nera, facendo sobbalzare sulla sedia, sorridere e inorridire a comando. Beau ha paura inizia questa volta a tutti gli effetti nel territorio della commedia. È la storia di un uomo che soffre di paranoia, un po’ come il sognatore Walter Mitty raccontatoci da Ben Stiller e Paolo Villaggio (in Sogni mostruosamente proibiti), un po’ come il Bill Murray protagonista di Tutte le manie di Bob di Frank Oz. Anche lo stralunato e tenerissimo Beau di Joaquin Phoenix deve essere tranquillizzato nella possibilità di riuscire a vivere la sua esistenza un passo piccolo alla volta, allontanando con la razionalità le fantasie più estreme. Fantasie terribili che poi attingono a piene mani dal cinema più sinceramene horror e thriller, tra cui la più forte e sinistra è la sensazione di trovarsi in un sadico Truman Show super-organizzato. Bill Murray procedeva sulla strada dell'indipendenza e guarigione compiendo i lenti e sicuri “passi di bimbo” suggeritigli dal suo terapeuta (interpretato da uno straordinario Richard Dreyfuss), Joaquin Phoenix per tutte le quasi tre ore della pellicola deve invece correre come un disperato senza un solo appiglio esterno a cui aggrapparsi. Deve affrontare tragedie di ogni tipo, manipolazioni affettive e anaffettive, attacchi fisici e incidenti stradali, sparatorie terroristiche, il surreale, i fantasmi, gli alieni, le multinazionali del male, Freud e i rettiliani, perfino dei mostri degni del filmacci mutanti di Lloyd Kauffman. Non c’è tempo di metabolizzare una situazione già di per sé estrema, che già siamo con lui piombati in un nuovo incubo del tutto diverso, che ci porta fortemente a dubitare di tutto quello che abbiamo visto fino a un minuto prima, alla ricerca di un nodo di trama che non può strutturalmente esistere. Esattamente come accade negli incubi veri, da spettatori inermi “subiamo”. Subiamo magari sperando/temendo che a spegnere lo sguardo ingenuo e mite del Beau di Phoenix appaia di colpo il “ghigno del Joker”. Un Joker che l’attore ha oggi per forza “dentro”, mentre sta per tornare nelle sale con il nuovo capitolo della saga di Todd Phillips, questa volta a fianco di Lady Gaga. Beau per la sua vita e i suoi trascorsi potrebbe in fondo essere quasi “fratello” dell’Arthur Fleck di Joker e siccome Ari Aster parla di dannazioni più che di redenzioni, il confine verso il lato più oscuro di questo personaggio fragile è molto sottile, costantemente stimolato e pronto a rompere quel poco di umanità che rende Beau tanto speciale e umano.


Tanto Aster quanto Phoenix dimostrano però di avere molto a cuore il “loro” Beau ed è sul candore del personaggio che infine questo incubo paranoide trova la sua vera “forma”, la sua guida nelle tenebre della follia. È un personaggio che ha paura del mondo ma lo affronta, è un uomo che pur deluso e “tradito” continua comunque ad amare e a sognare un futuro impossibile proprio come Walther Mitty. In controtendenza al titolo, le scene più appassionanti della pellicola vedono Phoenix in balia di “emozioni positive” e sono per molti versi qualcosa di “nuovo” nel cinema di Aster, che a questo punto potrebbe pure stupirci con un musical, magari “rigorosamente tetro” come il Dancing in the dark di Von Trier. Con tutto il “bene e la simpatia” che siamo tenuti a provare per Beau il film può colpirlo ripetutamente con dosi massicce di surreale, deriderlo e umiliarlo, ma il pubblico sarà sempre con lui fino alla fine. Fino a che Aster rivelerà la “paranoia finale”, avventurandosi in una possibile quanto spericolata e particolarmente originale lettura unitaria quasi “psicanalitica” dell’opera. Troverà quindi una forma concreta il viaggio dell’(anti)eroe e infine… Aster deciderà comunque per sfizio di farci perdere la strada di nuovo, alla luce di un paio di colpi di scena decisamente “fuori come un balcone”. Forse è proprio in questa voglia di “assimilare o meno”, il massiccio carico di assurdo servitoci dalle tante e surreali scene di Beau ha paura, che il pubblico in sala può unirsi, scremarsi, forse dividersi. Chi già ama Ari Aster tout court, nel suo confezionare film “strani in senso positivo”, può comprendere i benefici del “lasciarsi andare”, godere dello spettacolo come se si fosse su delle montagne russe emotive, stupirsi di una messa in scena sempre più ricca ed elaborata sul piano fisico quanto onirico, ironico quanto orrorifico. Beau ha paura è il suo film più eterogeneo, più sfarzoso e forse ambizioso. Chi non apprezza il fatto di sentirsi “sballottato emotivamente” da un film, nella condizione perenne di ridere, piangere e essere atterriti solo un minuto dopo dalla comparsa di qualcosa di stranissimo, può invece trovare la pellicola parecchio “strano in senso negativo”, magari coltivando un malcelato senso di spaesamento. Ma come ripetiamo spesso su questo blog “è bello anche sentirsi spaesati”, specie quando a “spaesarci” è un cinema ricco di suggestioni e idee visive originalissime come quello di Ari Aster. Il cinema deve essere anche “stupore disorientante”, specie in un momento storico in cui troppo cinema appare pre-confezionato, super prevedibile per esigenze di mercato, così “politicamente corretto” da avere paura di affrontare un qualsiasi argomento per la paura di scontentare qualcuno. Ari Aster va oltre a questo schema moderno di fare film, pure se è l’opera che lo vede più consapevole della sua cifra stilistica, in cui ama con spontaneità auto-citarsi e non ha paura di esprimere la sua fantasia in modi nuovi e sempre più arditi, quasi sfiorando oltre alla commedia pure lo schema della favola. 


Joaquin Phoenix è l’attore perfetto per un film di questo tipo, come Toni Collette era l’interprete perfetta per Hereditary: sono artisti in grado di infondere una incredibile umanità anche in personaggi che giocoforza si trovano a vivere su un “piano della realtà quasi inclinato”, dove ogni incubo può inghiottirli e dove “razionalizzare” un problema è purtroppo poco più che una perdita di tempo. Sono loro ad “agganciare” i sogni e incubi di Aster con il pubblico e a Phoenix viene concesso per questo uno “spazio espressivo” quasi sterminato, che rende possibile raggiungere in pieno questo intento, dando prova di una bravura ed empatia che negli anni si affinano sempre di più. Beau non è solo un personaggio buffo e disperato, ma anche un eroe tragico, profondamente combattuto, sognatore e per niente passivo. 

Beau ha paura è un viaggio surreale ma irresistibile, divertente e movimentato fin dal primo momento. Un tour de force di quasi tre ore che volano veloci come una mezz’ora, grazie all’incredibile mole di idee visive e narrative che arricchiscono ogni istante di immagini surreali quanto emozionanti. Si ride, ci si commuove e ci si spaventa un po’, spesso a distanza di meno di un minuto. Se vi piacciono le montagne russe di Ari Aster, questa è la vostra occasione per farci un terzo giro, ma anche chi ha particolarmente apprezzato il Phoenix del Joker di Todd Phillips potrà sentirsi a casa e in genere tutti gli amanti del cinema in cerca di emozioni forti ed originali sono invitati a partecipare alla festa. Chi ha sinceramene paura di perdersi in un film surreale della durata di quasi tre ore, in cui succede in pratica “tutto”, potrebbe voler desistere dalla visione, ma si perderebbe sicuramente qualcosa di bello. Il cinema moderno ha bisogno della vitalità delle opere di Aster e questa terza pellicola non fa altro che confermare la regola. 

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sabato 29 aprile 2023

Mon Crime - La colpevole sono io: la nostra recensione del divertente “giallo giudiziario” di Francois Ozon, con protagoniste principali Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder e Isabelle Huppert

Parigi, 1935. La giovane e avvenente attrice bionda Madeleine (Nadia Tereszkiewicz) e la giovane e avvertente avvocatessa mora Pauline (Rebecca Marder),  vivono insieme e squattrinate in un fatiscente appartamento in affitto, con già alcune mensilità non pagate sul groppone. Per le strade c’è la crisi economica e i clienti dello studio legale sono soliti pagare con cibo e non con banconote, anche perché “chi ha il soldi” non si rivolge a un “avvocato donna”. Di contro non c’è lavoro in qualche produzione cinematografica di spicco nemmeno per Madeleine, a cui arrivano solo proposte da “intrattenitrice per locali notturni”, se non proprio proposte oscene fatte e finite. La bionda torna giusto in mattinata dalla ennesima proposta indecente, presentatale da un arzillo produttore che ha anche allungato le mani costringendola a scappare dalla sua abitazione anzitempo. Madeleine è così depressa e indignata che vorrebbe usare la sua vecchia pistola “per difesa personale” per spararsi un colpo e farla finita con questa grama vita, ma Pauline la tira su con la proposta di una serata insieme al cinema che risolleva il morale generale. Nei giorni che seguono gli inquirenti riportano ai giornali che proprio quel produttore cinematografico è morto con un colpo della stessa pistola dell'attrice e nella sua abitazione non c’era all’epoca nessun altro al di fuori di Madeleine. Anche perché il giudice istruttore (Fabrice Luchini) ha in quei giorni già scientificamente escluso dalle dinamiche dell’omicidio tutti i facoltosi “amici sospettabili” che ha in comune con il produttore, depennando dalla lista persone che i testimoni avevano visto letteralmente andare e venire più volte dal luogo del crimine. La giovane attrice, del tutto estranea ai fatti ma già “colpevole perfetta”, rischia decisamente grosso. Ma con un brillante e ardito piano della sua amica avvocatessa Pauline può anche “rischiare grosso di diventare famosa”. La strategia difensiva comporta il riconoscere al cento per cento il reato come legittima difesa all’abuso sessuale del produttore, trasformando Madeleine nel dibattimento in una specie di eroina dai solidi principi e dal cristallino talento artistico: una innocente che si è ribellata a un sistema di potere maschilista ormai degradato e corrotto da abusi e nepotismi. Male che vada, a Chicago le “donne assassine” in quei giorni stanno diventando più famose delle star del cinema, con i loro processi che sono più seguiti dei più esclusivi eventi mondani. Potrebbe succedere con un po’ di fortuna anche con il “pubblico di Parigi”, magari. Madeleine si farà in previsione forse qualche anno di carcere, arriverà quasi sicuramente una riduzione di pena per buona condotta e poi giungerà in ogni modo il sicuro successo come star del cinema. Una Madeleine già nel ruolo di “femme fatale” accetta il piano. Si aprono le danze giudiziarie, l’avvocatessa fa le sue arringhe, l’attrice commuove la giuria e il pubblico, il pubblico ministero compare arcigno e dozzinale. Siamo solo all’inizio e già arrivano sulla vicenda le prime pagine delle testate giornalistiche e fioccano per l’attrice le proposte di lavoro, tra cui diventare la star incontrastata della nuova stagione teatrale. Le due amiche in breve tempo, al netto di qualche momento di tensione, diventano famosissime e ricercate. Possono ora comprare una casa più grande con i domestici tutta per loro e avere contratti e clienti che non pagano più con il pesce. Ma qualcuno rimasto nell’ombra (Isabelle Huppert) e che ha invidiato tutto questo “repentino successo” ha deciso di farsi vivo, rivendicando l’assoluta paternità dell’omicidio del produttore. Chi sarà il vero colpevole e vero idolo del gossip per via di un omicidio? 


Francois Ozon, uno dei registi più originali, prolifici e interessanti del cinema francese, a qualche anno da 8 donne per un delitto torna al suo cinema più disimpegnato e leggero, “ludico” quanto teatrale. Mon Crime è un film con attori brillanti e una narrazione “frizzantina” che gioca con divertimento sul fascino ambiguo con cui da sempre la  “cronaca nera” seduce il grande pubblico, rendendo nell’immaginario gli imputati non dissimili a degli attori protagonisti di un film thriller. Ozon gioca tra realtà e finzione e coglie l’occasione della cornice storica anche per parlare di come venivano affrontati nel passato temi a lui cari come la parità dei diritti e l’uguaglianza di genere, più volte esplorati anche di recente nella sua filmografia più “drammatica”. Lo fa sempre con estrema leggerezza e sorniona “complicità” nei riguardi delle due “trasgressive” protagoniste, che emblematicamente capovolgono la loro situazione sociale proprio “accettando proficuamente” una ingiustizia alla quale non potevano forse opporsi. Fabrice Luchini nel ruolo del “parzialissimo”, altero e goffo giudice istruttore “a salvaguardia della morale e degli amici” è davvero esilarante mentre si esibisce in alcune delle sue più caricaturali “facce sconvolte e pensose”. Il processo diventa a tutti gli effetti un palco teatrale in cui anche gli spettatori assurgono al ruolo di un coro greco. Un coro che va poi a sdoppiarsi e duplicarsi in uno gioco di specchi, quando vicende simili a quella giudiziaria diventano oggetto di una successiva rappresentazione teatrale con interprete principale sempre Nadia Tereszkiewicz. All’improvviso entra in scena anche il personaggio di Isabelle Huppert e Ozon le costruisce intorno un riuscito alone simile alla Gloria Swanson di Viale del Tramonto. Le carte si mischiano ulteriormente e la “realtà dei fatti” si ricostruisce di nuovo, in modo sarcastico quanto divertente. L’atmosfera generale si mantiene sempre su un registro gioioso, accostandosi stilisticamente a un film “sugli equivoci-reinterpretati” come Oscar, un fidanzato per due figlie di John Landis. 

Il nuovo film di Francois Ozon è una pellicola leggera leggera, dalla forti influenze teatrali, ideale per una serata rilassante nel segno dell’ironia e della satira di costume. Bravi tutti gli interpreti, interessante il modo in cui la trama con in esercizio di stile si sposti dal piano reale al piano processuale, fino ad arrivare al piano della rappresentazione “artistica dei fatti” per poi tornare a “riscrivere tutto facendo il giro”. Ozon conferma il suo grande talento nell’intrattenere il pubblico in modo sempre versatile quanto interessante: un cinema qui in grado di sposare la leggerezza ai temi sociali di attualità. 

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venerdì 28 aprile 2023

Creature di Dio (God’s creatures): la nostra recensione del film drammatico di Saela Davis e Anna Rose Holmer, distribuito per l’etichetta A24, che assomiglia incredibilmente a una novella di Verga

Ci troviamo in un paesino di pescatori sulla costa irlandese in un tempo quasi sospeso, forse ai giorni nostri o forse 50 anni fa. La vita e la morte viaggiano a filo doppio ai ritmi di una natura “matrigna” che lega quegli uomini al volume di pesce pescato. Tutti si conoscono, tutti vanno in chiesa, tutti lavorano alla stessa catena di sfilettatura e stoccaggio di un'unica impresa. Tutti coltivano il sogno che il personale allevamento di vongole di ogni singola famiglia abbia successo sugli altri, con il benestare di quelle acque limacciose e pericolose. Coltivare vongole significa entrare in acqua con la bassa marea e depositare a mano delle cassette metalliche da fissare in una lunga procedura fino a che le onde salgono, si rimane quasi inghiottiti in un terreno simile a sabbie mobili e per tornare a riva si deve poter salire su una barca con un grande sforzo, rischiando la vita. Gli incidenti sono una circostanza accettata e tutto è giustificato per poter avere qualche soldo in più da spendere onestamente al pub, l’unico pub di quel “piccolo mondo”, alla faccia dei maledetti pescatori di frodo che agendo di nascosto rubano il pesce a tutta la filiera e alla comunità, suggellandone la miseria. È un “paese per vecchi” e forse maledetto, con i pochi giovani che appena possono fuggono lontano senza voltarsi indietro, mentre quelli che rimangono sembrano incattivirsi e “marcire”. Gli abusi sessuali ai danni di ragazze poco più che bambine si ripetono nell’indifferenza generale, come una specie di “sfogo” tollerato. L’alcol scorre a fiumi e la tentazione di fare i “banditi” per avere qualche soldo in più diventa fortissima. Chi arriva a diventare anziano vive di ricordi gioiosi, dimenticandosi delle troppe cose brutte che gli accadono intorno, fissandosi nella mente solo un’immagine di una famiglia felice che forse non è mai esistita. In fondo è la natura a comandare e i pescatori sono solo suoi “ospiti”, non possono fare altro che adeguarsi a lei e ai suoi ritmi, venerarla con cura e amore, difenderla da chi ne viola l’equilibrio. 


Un urlo nella notte e le acque limacciose inghiottono un altro giovane pescatore. Il giudizio morale è unanime: era un bravo ragazzo ma anche un pescatore di frodo, uno che non rispettava le regole. 

La comunità piange, si celebra un funerale e poi vanno tutti al pub. Dove però  scoprono che un altro figlio di quella comunità ha fatto improvvisamente e provvidenzialmente ritorno. È Brian (Paul Mescal) il figlio della addetta alla supervisione della sfilettatura Aileen O’Hara (Emily Watson). Un ragazzo forse sulla trentina, che dopo sette anni in Australia ha deciso di tornare alla sua famiglia proprio nel momento del bisogno, quando il padre Nigel (Sean T.O’Meallaigh) è troppo vecchio per curare da solo la difficile coltura delle vongole e la madre deve badare oltre che all’azienda al vecchio Puddy (Lalor Roddy). Brian è perfettamente in forma e sorride sempre, sembra che la comunità abbia trovato braccia forti per il duro lavoro quotidiano e un nuovo insperato “equilibrio”. Tutti in paese sono contenti e il ragazzo sembra intenzionato a restare anche per via di Sarah Murphy (Aisling Franciosi), il suo grande amore fin da quando era bambino, quando erano inseparabili e lei passava anche la notte nella casetta degli O’Hara, nella camera di sua sorella. Aileen è felice, almeno fino a quando non iniziano a correre voci e sospetti sul fatto che Brian sia un pescatore di frodo che pure abbia rubato materiali dall’azienda comune. Fino a quando Sarah, da alcuni giorni scomparsa dalla catena del pesce, sembra aver denunciato il ragazzo per violenza sessuale. La famiglia O’Hara allora sarà chiamata a prendere una posizione: schierarsi al fianco dei propri cari o al fianco della comunità e di una “natura” che regola ogni cosa. Intanto Aileen viene retrocessa, dalla supervisione alla pulizia del pesce. 


Ci sono persone “arroccate pervicacemente” allo scoglio su cui sono nate e c’è una “provvidenza” che tarda ad arrivare, proprio come nei racconti di Giovanni Verga e nel recente Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh. C’è un piccolo luogo isolato chiuso al resto del mondo tanto legato a riti millenari che coinvolgono la natura da portare quasi alla paranoia, come in Dagon e La Maschera di Innsmouth di H.P.Lovecraft, ma anche come in The Lighthouse di Robert Eggers. C’è tutta la disperazione esistenziale di una donna che si trova rinchiusa in una vita che offre poche certezze e tanto dolore: un personaggio femminile interpretato da Emily Watson che per molti versi “aggiorna e ricorda” il suo ruolo di esordio del 1995, ne Le onde del destino di Lars Von Trier. Proprio tirando in causa Von Trier, Creature di Dio sembra rispondere a molte delle famose regole del decalogo del movimento cinematografico “dogma95” sulla costruzione realistica e non “spettacolarizzata” o artefatta di un racconto umano: riprese in ambienti reali, luci e suoni naturali, uso del tempo presente, assenza della rappresentazione diretta o “compiaciuta” della violenza. Il rigetto dell’idea che un film si affianchi alla esposizione di un “genere cinematografico definito”, di fatto “etichettando” la complessità umana. Il film diretto da Saela Davis e Anna Rose Holmer ci fa così “sbirciare” nell’animo dei suoi personaggi senza offrirci chiavi facili per leggere il loro carattere. Ci nasconde la descrizione di alcuni dei momenti-chiave del racconto in quanto “privati”. Svela con un occhio reale e presente, quasi documentaristico, i piccoli e grandi gesti con cui i pescatori con umiltà meccanicamente ripetono con fatica e impegno una routine di lavoro sfiancante. Ci fa affogare nei dubbi morali quanto nelle limacciose acque della costa irlandese, magari nell’attesa “salvifica” (e ovviamente vana) che qualcosa di visivamente eclatante o “liberatorio” sovverta le regole. In Creature di Dio le rivoluzioni avvengono, ma tutte intimamente sono custodite dentro l’interiorità di personaggi non messi nelle condizioni di esprimerle, anche perché spesso non riescono a comunicare tra loro. Brian e Aileen parlano del loro passato ma non del presente. Brian e Rose si osservano fugacemente dalla distanza. Aileen e Ross non possono parlare tra di loro perché difendono dei rispettivi muri invisibili imposti dall’esterno che “le definiscono”. La natura è l’unica forza che come un’onda (sempre citando Von Trier) davvero sposta il destino di personaggi tanto aggrapparti ad essa, scompigliando schemi e dinamiche. È una natura che distrugge le aspettative materiali e che (forse…un “forse” sempre enigmatico nelle opere del dogma95) al contempo guida moralmente le scelte umane. In alternativa c’è per i giovani solo una “fuga”, dai luoghi o dalle regole. Una fuga che gli abitanti più anziani del villaggio dei pescatori non possono metabolizzare perché fanno troppo intimamente parte del ciclo naturale, in quanto membri dello stesso ingranaggio economico/sociale del territorio. Il film esplora la profondità del solco tra le generazioni che viene sempre più a delinearsi anche attraverso il personaggio del vecchio Puddy. Come in una sorta di cortocircuito, il nipote Brian sembra essere la sola persona in grado di capire ancora il linguaggio sempre più frammentario dell’anziano e questo sconcerta, fa temere qualcosa di malevolo, confonde le acque più della marea. 

Non è un film “facile” Creature di Dio, ma è un film carico di spunti di riflessione. Una lettera d’amore nei confronti di una tradizione marinara e stile di vita che stanno sempre più scomparendo, insieme a un equilibrio tra uomo e natura che si è fatto con gli anni sempre più difficile. Straordinaria come sempre Emily Watson. Davvero da tenere sotto osservazione le due registe che qui esordiscono con un opera di grande fascino e suggestione, proponendo un modo di fare cinema ben ancorato nel passato (qualcuno potrebbe citare il Dogma95 ma qualcuno potrebbe rintracciare anche suggestioni del cinema Olmi o il Neorealismo) ma che sta tornando felicemente  di moda. 

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mercoledì 26 aprile 2023

Cane che abbaia non morde (Barking dogs never bite): la nostra recensione del film di esordio del regista di Parasite, Bong Joon-Ho, oggi nelle sale per la prima volta in italiano


Corea del Sud di inizio 2000, tra le mura di un enorme complesso abitativo su più piani al cui interno vive ogni tipo di variegata umanità, dai ricchi degli attici ai senza dimora del locale caldaia. Il giovane assistente universitario Yoon-Ju (Lee Sung-Jae), attualmente privi di occupazione, è certo di vivere in un sistema “truccato”. Il sadico preside della sua facoltà gode nell’umiliare pubblicamente i suoi sottoposti, deridendoli e facendoli ubriacare. Se oggi si parla per Yoon-Ju di un nuovo possibile posto di lavoro nell’ateneo è solo perché l’ultimo collaboratore era così ubriaco dopo l’ultima umiliazione che è finito sotto le rotaie della metropolitana. Il mondo è cattivo, sua moglie “ci tiene a dire” che porta a casa più soldi di lui e ha in pancia il loro primo figlio e l’uomo è frustrato, cerca disperatamente qualcuno con cui prendersela per non prendersela con se stesso. Poi arriva la salvezza: l’irritante odiosissimo suono di un maledetto cagnolino rompicoglioni. Yoon-Ju detesta i cani e i loro padroni, perché secondo lui un uomo medio come lui non potrebbe mai permettersi i soldi per tenere un cane: è “roba da ricchi” che stanno bene anche da anziani. Non solo, è roba da “ricchi e bastardi”, perché in quel condominio è espressamente vietato tenere degli animali: specie quelli che tutto il giorno abbaiano disturbando il flusso dei pensieri di un uomo già distrutto. Yoon-Ju in una mattinata già abbastanza agitata si scaglia così fuori di casa, in cerca dell’intruso piccolo e peloso. A pochi metri trova un cagnolino probabilmente scappato, con ancora il guinzaglio rosa che si trascina dietro. Lo raccoglie e decide di eliminarlo, prima cercando di gettarlo nel vuoto dall’ultimo piano, dall’attico dei ricchi al marciapiede dei poveracci. Poi cerca di impiccarlo alla corda del suo stesso ricco padrone, infine davvero non ce la fa e decide di chiuderlo in un armadio rotto e abbandonato nel sottoscala. 

Nel frattempo una bambina con la mantellina da pioggia gialla che ha perso il suo cagnolino si trova negli uffici della amministrazione locale, dove l’impiegata Hyun-Nam (Bae Don-Na) la aiuta a fotocopiare e vidimare con un timbro i volantini da affiggere per la ricerca, per poi continuare per tutto il giorno a parlarne al megafono. I volantini finiscono ovunque, anche davanti agli occhi di un incredulo Yoon-Ju che si sente subito terribilmente in colpa non appena legge di un particolare dettaglio: quel cane che ha cercato di spiaccicare e poi impiccare e poi soffocare in un armadio era “afono”. Problemi alle corde vocali, impossibilità ad abbaiare neanche volendo: non era lui il suo ancestrale “disturbatore maledetto”. L’uomo corre a cercare di salvare il salvabile ma è forse troppo tardi. Il cane nell’armadio abbandonato non c’è e il torvo custode del palazzo si sta recando proprio in quella stanza per la passione segreta che condivide con un suo amico: mangiare cani. Yoon-Ju non sapendo cosa fare si nasconde nell’armadio ora vuoto e ascolta così il custode raccontare la storia di “Boiler-Kim” un idraulico vittima di alcuni speculatori edilizi che sarebbe sepolto ancora nel palazzo. Un’altra vittima del sistema.  Quando i due uomini se ne vanno, Yoon-Ju sembra avere un incontro ravvicinato proprio con Boiler-Kim e riesce a scappare solo per un soffio dal l’aggressione del fantasma. Deciso a cambiare vita, l’uomo sente però di nuovo la voce dello stesso cane che gli aveva rovinato l’esistenza e subito lo trova. È il cane di una vecchia signora del palazzo. Si veste di rosso con un cappello rosso in testa ed esce di casa. L’impiegata Hyun-Nam sta ancora indagando sulla scomparsa del cane della bambina con la mantellina gialla, quando vede con il binocolo all’ultimo piano di un palazzo vicino un uomo vestito di rosso con un cappello in testa che sta per lanciare nel vuoto un cane di piccola taglia. È per lei il momento di intervenire attivamente e si lancia nell’inseguimento. 


C’era una volta Bong Joon-Ho, oggi diventato uno dei più grandi e ricercati registi coreani grazie a film come Parasite, Snowpiercer, The Host, Memorie di un assassino. Esordiva alla regia nel 2000 con questa piccola Black-Commedy surreale e grottesca in cui sono disseminate molte delle suggestioni dei suoi futuri lavori, ma che è anche quasi un “body horror estremo” per gli amanti dei cani (ci viene precisato fin dai titoli di testa che nessun cane è stato in alcuna misura maltrattato durate le riprese, è solo finzione cinematografica). I cani diventano oggetto della “ossessione sociale” del complessato e un po’ torvo assistente universitario Yoon-Ju, all’interno di un possibile “percorso di alienazione” simile a quello di molti serial killer, che proprio dagli animali di piccola taglia sono passati poi agli esseri umani. C’è l’odio paranoico per la corruzione del sistema in cui vive, il senso di inadeguatezza nei confronti della moglie, l’impotenza economica, in vivere all’interno di una gabbia sociale rumorosa e degradante e tutto il resto del “pacchetto completo per il profiling” ad uso dei tanti criminologi di una serie Tv americana. Solo che Yoon-Ju, impersonato dal buffo e bravo Lee Sung-Jae, è una creatura del “mondo di Bong Joon-Ho”, se non il suo “primo abitante in senso stretto”. Vive in un mondo condominiale tentacolare osservato a vista “tipo Grande Fratello”, costruito verticalmente  per gerarchie sociali crescenti come le “classi” del treno Snowpiercer. Entra in contatto con “uomini invisibili” di una realtà sociale-satellite, se vogliamo quasi “primitiva”, come quelli di Parasite. Si trova sempre sul punto di poter “cambiare percorso di vita con successo” grazie all’incontro con personaggi “positivi ma perdenti” come la “detective per caso” Hyun-Nam (della simpatica e combattiva  Bae Don-Na), non dissimile dagli scombinati poliziotti di provincia di Memorie di un assassino. I cani diventano per il protagonista una ineluttabile manifestazione del “potere della natura sul suo destino”, metaforicamente non troppo lontani dall’enorme mostro marino “modificato” di The Host, che continua a incedere e ingrandirsi lungo l’ordinato paesaggio urbano che affianca il fiume Han. C’è in Cane che abbaia non morde, in piccolo, già tutto il cinema che verrà di Bong Joon-ho, con tutto il suo potenziale satirico e malinconico. Personaggi che con “leggerezza titanica” affrontano un mondo inesorabilmente cinico, quanto costrutti sociali che per essere davvero vivibili vanno smontati o stravolti nell’essenza (si pensi in particolare al percorso narrativo del personaggio del senzatetto). È un cinema che racconta di come con entusiasmo si può tenere insieme una società di cui si possono contano una per una le crepe, a patto di scegliere di rimanere per sempre ai suoi margini. L’alternativa alla miseria è “la morte dell’eroe”, come il fantomatico idraulico Boiler Kim che vuole denunciare i corrotti e finisce cadavere tra le fondamenta del palazzo, oppure “diventare corrotti” che forse non è una scelta tanto desiderabile. Già nel 2000 Bong-Joon-Ho parlava di una realtà attualissima e non solo limitata ai confini coreani, attraverso “il cinema di genere”, con questa commedia nera. Avrebbe continuato a parlare di attualità attraverso Crime story “irrisolte”, la fantascienza ecologista tratta dai fumetti europei, i mostri giganti e il suo ultimo cinema più surreale e “sociale” di Parasite. Lo attendiamo già per il 2024 per la sua prossima impresa già annunciata, che sarà ancora nel nome della fantascienza.


Cane che abbaia non morde forse non possiede la compostezza nella costruzione visiva e narrativa dei lavori successivi, sposandosi quasi più felicemente con l’animo “punk sovversivo” di alcuni lavori di Takashi Miike come Gozu se non con la commedia “brutta e cattiva” dei fratelli Farrelly. Ma c’è davvero “in asprezza e poetica” già tutto il “regista che verrà” ed è oltremodo interessante che questa sua opera prima arrivi oggi nelle sale, specie dopo il successo di Parasite, per apprezzare al meglio anche le “vitali note stonate” di quando era poco più che un esuberante trentenne. La costruzione dei personaggi è già sfiziosa e carica di Black/humor, c’è già la chiarezza nella costruzione delle scene d’azione, il gusto per un ritmo narrativo concitato ma non caotico, c’è la malinconia e il “titanismo del perdente”, ci sono i paesaggi claustrofobici e l’urgenza della critica sociale. Cane che abbaia non morde è una pellicola amabilmente surreale e “cattiva”, carica di sarcasmo e malinconia, che ci fa conoscere com’era il regista di Parasite all’inizio del nuovo secolo. È un viaggio intrigante, non solo per i suoi cultori, anche se pervaso di un humor nero che oggi (per quanto solo figurato) per qualcuno può forse risultare “troppo forte”. Un’ottima occasione di recupero. 

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lunedì 24 aprile 2023

November - i cinque giorni dopo il Bataclan: la nostra recensione del frenetico action movie scritto e diretto da Cedric Jimenez sulla caccia agli attentatori della strage del novembre 2015, con protagonisti la star Jean Dujardin, Anais Demoustier e Lyna Khoudri

Grecia, dieci mesi prima dell’attentato al Bataclan in una delle notti più tragiche della recente storia francese. In un palazzo fatiscente e poco illuminato le truppe speciali entrano pesantemente armate e blindate, sparano, bloccano tutti i terroristi presenti e chiamano sul posto “il francese”. Il francese è blindato e armato come il resto dei militari, ma svela il suo volto agli astanti togliendosi il passamontagna. È Fred (Jean Dujardin, l’attore di The Artist che di recente in tv è a fianco di George Clooney nella pubblicità del caffè di una nota marca ), il secondo in comando dell’antiterrorismo francese. Cerca “qualcuno”, qualcuno che il terrorista bloccato in terra gli dice essere “sul tetto”. Tutti corrono sul tetto ma il bersaglio è sparito, l’antiterrorismo è stata troppo lenta. La caccia è fallita. Dieci mesi dopo, Parigi, 13 novembre. Una sera di festa per la partita di calcio della nazionale in un centro cittadino dal clima mite, pieno di personale che fanno ancora jogging come il capitano Ines (l’attrice Anais Demoustier, di cui sul blog abbiamo recensito Gli amori di Anais e La ragazza con il braccialetto). Tutto tace nella sede dell’antiterrorismo presieduta dall’ufficiale Marco (Jeremie Renier), fino a che i telefoni iniziano a squillare uno dopo l’altro. Saranno a fine bilancio 130 morti e 450 feriti. Il comandante, la bionda Heloise (Sandrine Kibelain, attrice brillante in Sogno di una notte di mezza età al fianco di Daniel Auteuil e Gerard Depardieu), richiama tutti, compresi Fred e Ines, con tutto l’antiterrorismo francese che dopo aver guardato ai telegiornali quello che sta accadendo a Parigi parte per una nuova caccia all’uomo contro il tempo. Aerei da combattimento che prendono il volo in direzione di centri d’addestramento in medio oriente, posti di blocco ovunque, perquisizioni più o meno autorizzate, pedinamenti di ogni sospettato, tracciamenti di telecamere di sorveglianza e spostamenti di denaro da fonti vicine al terrorismo, visite in carcere a informatori e trafficanti d’armi, identikit da far girare e numero verde per cittadini che vogliano offrire qualsiasi informazione possibile: Parigi parte per il contrattacco. Fred è certo che dietro ci sia il suo bersaglio mancato in Grecia e inizia a volare di luogo in luogo per avere conferma che il suo uomo sia vivo e dove possa nascondersi, magari supportato da una cellula con base in Belgio. Ines dalle telecamere di sorveglianza è sulle tracce di un uomo dalle vistose scarpe arancioni che è stato riprese mentre scappava con un enorme borsone e forse può darle una mano Samia (Lyna Khoudri), una ragazza di origine islamica che studia a Parigi insieme a un'amica. C’è tanto casino nelle strade che la catena di comando ogni tanto salta, vengono bruciati agenti sotto copertura in azioni individuali non coordinate e alcune piste vanno in fumo. Ma l’antiterrorismo continua a correre, cambia solo il fatto che la loro corsa sia diventata ora una corsa a ostacoli, nella quale comunque ogni tanto dei piccoli traguardi si raggiungono e i pezzi del puzzle iniziano a combaciare. Di giorno tutti corrono, pedinano, sparano, incrociano dati, ascoltano vittime e testimoni, commemorano i caduti e interrogano terroristi “troppo allegri” per essere stati catturati. Di notte si fa strategia. Come i classici super poliziotti dei film americani, il duro Fred sulla parete del suo studio traccia linee e croci su immagini di sospettati e annotazioni di avvenimenti, legati tra loro da fili rossi. Più sensuale, Heloise sposta le foto e informazioni in suo possesso sul pavimento in moquette davanti allo skyline parigino, a pieni nudi dopo essersi tolta le scarpe con il tacco. Sono tutti insonni e Ines non si rilassa nemmeno sotto la doccia, meditando sul nuovo fallimento e la nuova opportunità che porterà il giorno successivo. C’è la prospettiva di bruciare altre risorse interne e civili, ma pure la possibilità di crivellare con migliaia di proiettili il possibile covo dove si nasconde uno degli attentatori. 


Muscolare, frenetico e “crudo”. November è un film che mette in primo piano, in molte scene d’azione concitate e ben sviluppate, “uomini e armi” come li abbiamo visto ritratti in Zero Dark Thirty della Bigelow e Black Hawk down di Scott. Parigi diventa l’epicentro di azioni coordinate su vasta scala in cui si riesce quasi a respirare la necessità di una rapida “rivincita” contro il terrorismo internazionale. Ma oltre a questo Cedric Jimenez (sul blog abbiamo recensito il suo ottimo L’uomo dal cuore di ferro del 2017), che scrive e dirige il film, decide di spostare una struttura narrativa/ investigativa complessa, interessata anche allo sviluppo del “lato umano sei personaggi”, seguendo una formula non dissimile al Traffic di Soderbergh. I poliziotti sono ritratti come un “braccio armato ben addestrato”, perfetti atleti del tutto concentrati sul loro sforzo agonistico, solo fugacemente e quasi con fastidio (ma con gusto) descritti sul piano più intimo, come se si temesse di aprire un varco sul loro senso di invincibilità. Sono passati diversi anni dai tempi di The Artist e oggi Dujardin, con un considerevole numero di muscoli e disillusione in più, sembra sempre più simile al suo amico Clooney o a Jean Reno, quando incarna questo super poliziotto dai modi spicci ma dalla compassata esperienza e assoluta affidabilità. Del resto Jimenez lo aveva già diretto in un ruolo simile nel poliziesco French Connection del 2014. La sempre bella Sandrine Kibelain con la sua chioma bionda fluente riesce a sprigionare fascino anche rinchiusa nel severo abito lungo e nero del suo algido e pensoso comandante, con gli occhi costantemente concentrati sul suo lavoro, sulle strategie e la situazione geopolitica. I terroristi sono descritti agli antipodi, con i nervi perennemente tesi, “sgualciti” se non proprio “invisibili”, nascosti per sempre dietro a una porta chiusa. Il conflitto tra le due fazioni è un muro contro muro, senza nessuna possibilità di dialogo che non siano bombe o proiettili elargiti con una magniloquenza “liberatoria”, quasi che la vittoria di una parte sia possibile solo per catarsi “riducendo in atomi” l’avversario, laddove tutte le alternative a questa formula non possano piacere. I “civili” come la Samia di Lyna Khoudri e il capitano Ines, della splendida di  Anais Demoustier, sono invece gli unici personaggi che possono “permettersi” di esternare in qualche misura le proprie emozioni sulla scena, aiutandoci ad esplorare il ricco “lato umano” dietro alla vicenda, così carico di contraddizioni, paure e speranze infrante. Un lato umano attraverso cui Jimenez mette in evidenza come gli sbagli nella comunicazione e integrazione tra culture diverse di fatto arrivino da entrambe le parti, con flussi che tendono a reiterarsi costantemente, quasi indifferenti allo status quo. Una situazione così fragile per cui “basto poco” per far saltare alleanze proficue spesso in virtù di una sorta di giustizialismo a senso unico che non è stato ancora superato dai tempi delle crociate. Il film di  Cedric Jimenez riesce così a raccontare la caccia senza sosta agli attentatori del Bataclan in modo “epicamente hollywoodiano”, con una messinscena davvero appagante sul piano dello spettacolo action da quanto risulta “sovraccarica” di combattimenti, armi e bombe e inseguimenti. Uno spettacolo che nella visione in sala su grande schermo può essere ancora più avvolgente e coinvolgente. Tuttavia November riesce a conservare nella sua narrazione una punta di riflessione sul “fattore umano dietro al conflitto” preziosa quanto interessante da esplorare ed espandere in un futuro discorso più articolato. Potrebbe essere interessante in questo senso un film sul personaggio di Samia che riprenda il discorso proprio da dove November finisce, muovendosi in una direzione diversa, in grado di spiegare tanto le strategie di gestione della sicurezza interna quanto il rispetto delle relazioni umane tra le parti coinvolte. Molto bravi tutti gli interpreti, adrenalinico e quasi sincopato il ritmo generale della azione, malinconico e ben strutturato lo sviluppo dei personaggi meno coinvolti nelle scene action. Cedric Jimenez si conferma un ottimo regista del cinema d’azione, ma in grado di andare anche al di là della formula con intuizioni interessanti . 

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domenica 23 aprile 2023

Cocainorso (Cocaine Bear): la nostra recensione della commedia horror di Elizabeth Banks, basata su una tragica storia vera da cui è nata una assurda leggenda urbana

America degli anni Ottanta. Sul piccolo aereo illegale che trasporta una montagna di panetti di cocaina per conto del criminale Jay White (Ray Liotta, nella sua ultima e autoironica interpretazione di un gangster prima della scomparsa) succede qualcosa di inaspettato. Qualcuno ha fatto il doppio gioco ha deliberatamente gettato in volo la cocaina, dentro a delle borse, sopra un parco naturale della Georgia. Ma alla fine il piano gli è riuscito a metà, perché il suo paracadute non si è proprio aperto e lui si è schiantato sul pianerottolo di qualche vecchietto, tra lo stupore e l’ilarità generale. La notizia finisce anche in tv e presto girerà voce, in “certi ambienti”, anche il dettaglio dei 300 kg di cocaina che ora giacciono dentro un parco naturale qua e là. I “legittimi proprietari del carico” decidono quindi di far partire subito una operazione di recupero, prima che si scateni una autentica “caccia al tesoro tra narcotrafficanti”. Ma la natura ha un piano tutto suo per quella polvere bianca e infatti il primo ad avvicinarsi alla droga smarrita è solo un timido, svagato ed enorme orso nero. Poco dopo aver annusato il primo pacchetto caduto dal cielo, l’orso finisce sotto l’obiettivo bonario della macchina fotografica di Olaf ed Elsa (con Kristocer  Hivju e Hannah Hoekstra che sembrano la parodia degli Abba), due vecchie rockstar finlandesi tutte contente di aver immortalato un orso dal vivo. Ma più i due guardano con preoccupazione l’animale e più lui inizia a comportarsi in modo innaturale, quasi “eccitato”. Si struscia sconciamente contro gli alberi, cammina sulla schiena stile lombrico, “fa l’angelo tra le foglie cadute”. È sotto sballo, ma al contempo sta “mutando”, trasformandosi in una specie di super predatore aggressivo (cosa singolare per orsi neri) quanto dalla forza inarrestabile, dalla fame di cocaina inestinguibile. Una creatura rapida, letale quanto incredibile silenziosa disposta a tutto, pur di assaggiare ancora e ancora quella polvere bianca. Sarà tutta sua, anche se dovrà cercarla in un nuovo panetto o anche solo vagamente sui vestiti, nell’organismo o “nelle intenzioni predatorie” di chiunque si trovi nei pressi del parco per fregargliela. Le due vecchie rockstar vengono attaccate ferocemente mentre gli sgherri di Jay White (il “gigante sensibile” interpretato da O’Shea Jackson Jr e il depresso cronico interpretato da Alden Ehrenreich) iniziano a muoversi in direzione del parco prima dei concorrenti portoricani. Sulla strada della polvere bianca c’è anche il corpulento vecchio detective Bob (il veterano caratterista Isiah Whitlock Jr), che li segue a pochi chilometri, mentre nell’oasi verde, per lo più inconsapevoli di tutta la storia, il gruppo di teppistelli locali (tra cui il simpatico e stralunato personaggio con il capello decolorato del bravo Aaron Hollyday) hanno già collezionato casualmente qualche panetto. In procinto di addentrasi nel bosco ci sono anche due Ranger un po’ sovrappeso (i buffissimi personaggi “superambientalisti” e “superecologisti” impersonati da Jesse Tyler Ferguson e Margo Martindale), alla ricerca di due ragazzini che hanno marinato la scuola (i monelli in cerca di “esperienze da grandi” interpretati da  Brooklynn Prince e Christian Convery), debitamente allertati da una mamma preoccupata (la super preoccupata Sari, interpretata dalla sempre bellissima Keri Russell) . 

Nel bosco accadrà di tutto, con parecchio spargimento di sangue e polvere bianca.


Ogni tanto mi tocca fare una piccola premessa prima di addentrarmi in una recensione, specie quando dei fatti di cronaca vanno in cortocircuito con un’opera di finzione pianificata decenni prima, insinuando false credenze sul valore intrinseco di quella che è per lo più una innocente e super esagerata pellicola di puro intrattenimento da guardare in una classica serata “a rutto libero” tra amici. 

Il cinema horror, anche nel caso “si concretizzi” in una horror/commedy super leggera come questa, spesso trova spunti creativi sul senso di colpa che l’uomo prova nei confronti di se stesso, della società in cui vive e della natura che abita. Ogni tanto negli horror la natura “fa pagare il conto all’uomo” per essersi spinto troppo “nel suo territorio” o aver distrutto deliberatamente l’ambiente e la salute collettiva. Di conseguenza il cinema per sottolineare il “senso di colpa nei confronti della natura” in modo sagace, divertente e “spiazzante”, risponde dando vita a creature che diventano “metafore di questo conflitto”: roba come l’uomo lupo, Godzilla, i Gremlins, le tarantole-laviche, gli scoiattoli-zombie, piranha mutanti e dinosauri geneticamente modificati, coccodrilli che abitano le fogne. Tra le fila di queste creature più o meno da incubo, “molto liberamente tratte da storie realmente accadute”, militano poi intere flotte di ragni, squali e orsi, tutti debitamente e opportunamente più grossi, più aggressivi e più eccessivi delle rispettive controparti reali. Loro sono un po’  i massimi “guardiani della natura” contro il logorio dell’uomo moderno. Tutti tesserati virtualmente nelle principali associazioni ambientaliste esistenti. I film che vedono protagoniste queste creature sono semplici e diretti, mirano alla “giusta punizione dell’uomo nel modo più brutto e catartico possibile” e  metaforicamente urlano forte tutto il tempo messaggi inequivocabili come “non si va a inquinare il mare o ridurre le riserve marine per fare spiagge extra”, oppure “non si riempie di centrali atomiche o rifiuti industriali e tossici un corso d’acqua a cui attingono ogni giorno migliaia di persone e animali”. Oppure, come nel nostro caso del Cocainorso, “non si deve riempire ogni bosco o boschetto di droga e spacciatori della medesima, oppure (e qui intervenire la creatura) può essere che la natura decida lei di sniffarsela tutta, debitamente attaccando chiunque la detenga o ne faccia uso”. Il Cocainorso prende spunto da un fatto di cronaca vera su un orso che ha assunto della cocaina lasciata nei boschi da degli spacciatori, finendo male e nel mentre non facendo male a nessuno. Da quella storia ha preso piede la “leggenda urbana basata sulla storia vera” del Cocainorso, per gli amici di questa variante soprannominato “Pablo Escobar”, che in seguito alla assunzione della polverina qui diventa una super forte macchina di morte stile Jason di Venerdì 13 e inizia a far fuori tutti gli spacciatori o possibili utilizzatori della polverina “che non siano lui”. Se qualcuno vi dice che questi film sono creati per farvi credere che gli orsi o gli squali o i ragni o Godzilla o gli scoiattoli zombie sono “cattivi e nocivi all’uomo”, ditegli con tutta l’eloquenza che possedete che “può essere in malafede” per le ragioni di cui sopra. Ogni vero fan dei film su squali e orsi assassini ha in casa il peluche di uno squalo e di un orso, è consapevole che gli animali reali non sono inarrestabili macchine di morte (se non debitamente provocati o spostati dall’uomo forzosamente in un habitat che non è il loro ), si è sincerato che nessun animale reale sia stato istigato, sfruttato o maltrattato nella realizzazione di queste pellicole. Se poi ci fosse in giro davvero, come la leggenda urbana vuole (e che differisce moltissimo dalla realtà dei fatti), un orso che assalta gli spacciatori nei boschi facendoli morire malissimo, può essere che abbiamo quasi risolto il problema dello spaccio di droga nel mondo e salvato gli orsi dall’estinzione con un piano di ripopolamento su scala globale. Ovviamente però, questa è solo una esagerazione a uso ridere di una commedia splatter del 2023. Fine della premessa, torniamo a noi. 


Terza regia cinematografica per la bellissima autrice, attrice e produttrice Elizabeth Banks, dopo la commedia canora Pitch Perfect 2 del 2015 e la commedia action Charlie’s Angels del 2018. La sceneggiatura è del 2019 e di Jimmy Warden, scelto dopo il suo lavoro alla commedia/horror La babysitter - Killer queen. I produttori sono quei pazzerelli di Lego The Movie e 21 Jump Street, Phil Lord e Christopher Miller e il film inizialmente doveva essere diretto dagli esperti horror-maniaci “Radio Silence” (al secolo Matt Bettini-Olpin e Tyrell Gillet) che però stavano lavoro nottetempo al rilancio della serie Scream. L’idea è stata fin da subito concentrarsi sulla leggenda urbana più che sui fatti reali. La produzione del film è passata tramite Universal alla Banks, alla sua primissima prova con un genere così “estremo ed escapista” come la horror Commedy, ma non certo digiuna dalle opere dotate di grande ironia, sarcasmo e lieve Black humor, considerando tra i suoi lavori anche la regia televisiva di molte puntate della serie Scrubs. Le riprese si sono svolte per quattro mesi in Irlanda, l’orso è ovviamente stato realizzato digitalmente in post produzione per non assomigliare neanche un istante a un orso vero. Nel cast figura la star della serie tv Felicity, Keri Russell, che prima del Cocainorso abbiamo visto già scontrarsi “con qualcosa di simile”, ossia con il celebre cervo-mannaro leggendario “wendigo”, in Antlers di Scott Cooper. Ad affiancarla c’è Alden Caleb Ehrenreich, che proprio Phil Lord e Christopher Miller avevano inizialmente diretto in Solo - A Star Wars movie, prima che il progetto passasse con pesanti modifiche e riscritture a Ron Howard. Ehrenreich ha già partecipato a degli horror come Stoker di Park Chan-wook e di fatto anche lui in Solo si è scontrato inizialmente con qualcosa di simile a un orso enorme, anche se in questo caso si parla di quell’amabile orso-peluche di Chewbecca. L’attore O’Shea Jackson Jr, nonché figlio più grande del rapper Ice Cube a cui assomiglia in tutto e per tutto, non teme rivali in fatto di esperienza cinematografica con creature enormi e spesso pelose di tutti i tipi, avendo preso parte a quella royal Rumble filmica in salsa Kaiju che prende il nome di Godzilla: King of the MonstersAndy Garcia nella sua sterminata carriera deve aver per forza incontrato sul set qualche creatura pelosa potenzialmente minacciosa, ma ha sicuramente diviso lo schermo con l’orso  Fozzie del Muppets Show, in più di una occasione. Anche spulciando il curriculum del resto del cast si trovano pellicole che li vendono protagonisti al fianco di creature a vario titolo “enormi o pelose” e questa è un po’ la riprova del grande amore dei produttori di Cocainorso per il mai troppo celebrato “cinema orsesco (e affini) ”. 


Un cinema che parla dell’incontro tra creature pelose e non e che spesso aiuta chi fa film a sfondare al botteghino ma pure a conseguire importati obiettivi di carriera. Del resto è proprio grazie alla sua burrascosa “relazione” con un orso sul grande schermo, tra affettuosi scambi di bava e “coccole” un po’ troppo “passionali”, che Leonardo Di Caprio ha vinto il suo primo oscar da protagonista per Revenant. È grazie alla espressività dell’orso protagonista di L’orso, nomen omen, che Jean Jaqueline Annaud dopo i diecimila dialoghi anche in latino de Il Nome della Rosa ha potuto realizzare un film avvincente anche se completamente muto, se non parlato nell’universale “orsesco”. È l’orso che appare per 6 minuti nell’horror-minimal/romantico Backcoutry a rendere favolosa la pellicola di Adam McDonald, tanto da prendersi pure tutta la locandina principale e diventare simbolo della campagna marketing. È grazie a un orso se il personaggio di Brad Pitt in Vento di Passioni ha potuto sfoggiare la sua folta bionda e vaporosa chioma al meglio, al vento e con passione, dando vita a uno scontro iconico che ha ammaliato e fatto innamorare più generazioni di fans, mandando alle stelle anche le vendite del balsamo per capelli per uomo. È andata male all’orso con la voce di Russel Crowe nel film fantasy con la Kidman La bussola d’oro, ma è un po’ l’eccezione che conferma la regola e Russell Crowe è tornato ad avere successo dopo il covid grazie proprio alla sua personale reinterpretazione di un grosso e peloso “automobilista-orso” in Il giorno sbagliato. L’attesa per ogni nuovo orso cinematografico è sempre alta e andiamo quindi più nel dettaglio di questo nuovo “orso mutante cinematografico”, tra realtà e leggenda urbana, partendo da un indispensabile rigore da Discovery Channel: perché i film “su ogni creatura reale o di finzione”, diventano “speciali” proprio nel fornire una rappresentazione interessante del carattere e abitudini delle stesse, compresa la loro attitudine o meno di diventare amiche dell’uomo. È proprio su questo legame tra uomo e creatura che spesso può quasi definirsi il “genere cinematografico della pellicola” e il Cocainorso, con una intuizione felice, riesce in modo interessante e originale a diventare quasi “un film diverso”, a seconda dei rapporti che il gigante coccoloso intrattiene con i vari personaggi.  


Il Cocainorso è tecnicamente un orso “nero” o “orso americano”, le cui caratteristiche principali e attitudini ci vengono presentate nella primissima scena citando come fonte più attendibile “Wikipedia”. Ne esistono per le stime intorno ai 600.000 esemplari sulla zona continentale che va dal Canada al Messico. Vive anche a Yellowstone, facendo compagnia all’orso Yoghi. In genere vive 10 anni ma può arrivare ai 30 se è particolarmente solitario. In genere è altro 200cm per 700 kg di peso. Con un solo colpo è stimato possa uccidere un cervo adulto, ma ha un tipo di alimentazione quasi completamente vegetariana. Non va al 100% in letargo e questo lo rende molto reattivo agli attacchi, ma ama “autoaddormentarsi” secernendo un ormone che funge da sonnifero la sera sul presto. Trascorre l’intero inverno senza mangiare, bere, urinare e defecare, perché ci tiene che nella sua grotta tutto sia pulito e ordinato. Può correre i 50km orari con le sue quattro “zampe motrici”, ma lo fa raramente, al punto che le zampe posteriori sono più sviluppate sulla lunghezza “tipo scarpe”, dal tanto che lui preferisce camminare piano con la postura eretta, “passeggiando”. Ogni tanto l’orso nero ha una colorazione più castana e prende così il nome di “cinnamon bear”. La Asylum dopo aver realizzato un instant-remake come il Cocaine Shark sta già ragionando sulla possibilità di un Cinnamon Shark. L’orso nero ha poi muscoli dorsali forti che gli permettono di scalare gli alberi, ma che usa per lo più per fuggire dai coyote e dagli altri animali. Non vede in genere un granché, ma compensa in parte con olfatto e udito. Non è un animale particolarmente aggressivo “per scelta”, predilige la calma e la vita appartata nelle grotte alla movida della foresta. La sua principale causa di mortalità è tragicamente l’investimento con le automobili, per lo più dovuto al progressivo restringimento delle aree verdi a favore delle autostrade. Le statistiche parlano di 20 attacchi all’uomo da parte dell’orso nero in tutto il ventesimo secolo, che hanno avvalorato la bizzarra teoria (a cui crede fermamente anche un personaggio del film) in base a cui “se un orso bruno attacca bisogna stare fermi, mentre se un orso nero si avvicina si deve attaccarlo, che tanto lui alla fine scappa”.  

Poi però c’è lo stato “Stunned”, la variabile imprevista. Oltre a una insolita libido che gli fa desiderare grattare con il corpo ogni superficie e ad una ipnotica passione per il volo delle farfalle dai colori “psichedelici”, il Cocainorso inizia a vederci benissimo, corre a quattro zampe a 100 km orari, si lancia silenzioso come un ninja su qualunque cosa che odori o stia vicino alla cocaina, possiede una forza che non si vergogna più ad usare ed acquisisce una insensibilità ai colpi di pistola pari a un giubbetto antiproiettile in kevlar. Quando sbrana qualcuno, in genere non lesinando frattaglie e interiora che volano con esageratissimi effetti splatter, il Cocainorso ha un “vezzo”: la curiosa predilezione per amputare una gamba alla preda prima di compiere qualsiasi altra azione. 


Veniamo quindi alle relazione umane che questo enorme peluche intrattiene durante la pellicola. Che sia un “bonaccione” lo credono fermamente i buffi “simil- Abba” interpretati da Kristocer Hivju e Hannah Hoekstra e gli ancora più buffi Ranger interpretati da Jesse Tyler Ferguson e Margo Martindale, con inevitabili conseguenze tragicomiche dovute al fatto che tutto questa “bonacciosità” valeva prima che il nostro eroe inizi ad essere “Stunned”, ovviamente. È con in scena questi personaggi che il film diventa una commedia surreale splatter carica di Black humor dove nel caos generale le persone si sparano tra di loro e l’equipaggio di una ambulanza viene inseguito come in una scena di Terminator 2

L’unico modo per guadagnare tempo è riempirlo di polvere bianca e darsi alla fuga, ma è una scelta così profondamente anticapitalistica che il trafficante medio preferisce non esplorare anche quando è in gioco la vita. E veniamo così alla seconda tipologia di amici del Cocainorso.

Proprio quando entrano in scena il “boss” di Ray Liotta e la sua cricca, la pellicola diventa tutta una “caciara” alla Robert Rodriguez, ripiena di dialoghi alla Pulp Fiction e proiettili che fanno esplodere persone per sbaglio come hamburger. Qui il Cocainorso si fa “orso serio” e inizia a sfoggiare anche  pose degne dello Scarface di Al Pacino. O’Shea Jackson Jr,  Alden Ehrenreich e Aaron Hollyday formano un simpaticissimo trio di “bad guys” sconclusionati, che finiscono inevitabilmente schiacciati “nell’ego” da un orso che letteralmente decide di sottometterli “dormendoci sopra”. Ray Liotta sembra riprendere malinconicamente il suo gangster di Quei Bravi Ragazzi ed è commovente vedere il celebre attore così autoironico nella sua ultima interpretazione ad affrontare un orso come Di Caprio in Revenant. Ma ecco che parallelamente al gangster movie si sviluppa pure la svolta “Disneyana” in ragione della terza tipologia di amici dell’orso. Non è che all’improvviso un film che si chiama “il  Cocainorso“ si trasformi in Bambi o Il re leone, ma quando di fatto entrano in scena i “monelli” ci arriviamo vicini. La mamma super preoccupata di Keri Russell e la costante pubblicità “contro i pericoli della droga” che viene costantemente trasmessa nel suo televisore degli anni '80, spingono i due irresistibili piccoli monelli interpretati da Brooklynn Prince e Christian Convery alle azioni più ardite e “non adatte alla loro età”, e pare davvero l’incipit di una favola esilarante per scorrettezza. Una favola dove al posto della casetta di marzapane con la strega c’è il Cocainorso e i monelli diventano di colpo esploratori del “regno animale“ come Ricciolidoro.

Decisamente un bel mix di trame e suggestioni, che la Banks gestisce con mano leggera e tanta ironia, sia nelle scene più smaccatamente comiche (quasi da Looney Toons le “fughe sugli alberi”) che nelle scene “orrorifiche”, quanto nelle molte sparatorie/inseguimenti/scazzottate da film action. Il Cocainorso è il perfetto film di genere senza pretese che vadano oltre il far divertire il pubblico per una serata particolarmente ridanciana “a grana grossa”, seppure presenti finezze che lo rendono un prodotto più interessante della media sotto molti aspetti. Tutti gli attori riescono a trovare tra loro una buona intesa che amplifica il potenziale comico dei personaggi. Le variazioni di registro, dell’action alla commedia all’horror, rendono la visione sempre frizzante e divertente. Gli effetti speciali digitali che muovono tanto i balletti quanto gli attacchi dell’orso, così come gli “effettacci” più esageratamente splatter che a piene mani cercano sempre più di invadere lo schermo, sono realizzati in un modo così divertito e convincente, nel loro “ricercato irrealismo”, da andare incontro ai gusti di tutti i cultori di questo genere di pellicola. 

Il Cocainorso è un film divertente che non ambisce a fare qualcosa di diverso dall’offrire uno show carico di battutacce, tanto splatter e personaggi stralunati. È un film da affrontare gioiosamente a mente sgombra, come anti-stress dai veri orrori della vita di tutti i giorni. Per evadere dalla realtà è immaginare un mondo con meno trafficanti di droga e con più orsi felici. 

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sabato 22 aprile 2023

L’appuntamento: la nostra recensione del film di Teona Strugal Mitevska, la regista di Dio è donna e si chiama Petrunya


Nella grigia Sarajevo dei giorni nostri, che ancora non ha dimenticato la guerra fratricida di oltre vent’anni fa, in un grande Hotel che organizzava eventi si tiene un particolarissimo “speed-date”. I partecipati devono tutti indossare dei camicioni rosa e una grossa spilla con sopra un cuore, mentre le organizzatrici vestono con vistosi abiti “tigrati”. Le coppie sono state preselezionate e si sono brevemente conosciute online e la giornata è strutturata su più fasi che puntano a rafforzare la conoscenza reciproca. Un lavoro sulle affinità dove le coppie risponderanno alle domande di un questionario letto dal vivo, premendo un tasto per indicare la consensualità o meno ai vari argomenti. Un lungo momento di convivialità dedicato al pranzo in una sala comune. Nel pomeriggio ginnastica meditativa-motivazionale-relazionale di gruppo, seguita da possibili balli a due e confronto finale. Sono eventi periodici creati dalle associazioni del territorio per promuovere la socialità tra le persone molto sole, si presentano uomini e donne di tutte le età. C’è chi è già più volte venuto agli incontri ed è quasi diventato un abituè. Constatata la “fisiologica” impossibilità di trovare il vero amore, molti scelgono per lo più di partecipare per ammazzare il tempo nel fine settimana, chiacchierare, divertirsi e godere del sempre ricercato pranzo offerto dal ristorante. Asja (Jelena Kordic Kuret) è una ragazza bionda sui quarant’anni, lavoratrice e “di solito” dall’animo solare, anche se arriva all’incontro molto agitata e sconfortata dalla “messa in scena”, fin dal momento in cui deve indossare il terribile camicione rosa e lo spillotto a cuore. Lei sceglie così di indossare in abbinato a “tanto romanticismo” una personale risata tirata, sperando che il tutto si svolga molto velocemente. In fondo è la sua prima volta. È la prima volta anche per Zoran (Adnan Omerovic) il compagno scelto per lei dal destino. Un uomo dallo sguardo dolce ma più vecchio, troppo alto e troppo spettinato, un po’ allampanato, sicuramente depresso e deprimente, a tratti decisamente inquietante. Mentre tutte le coppie in qualche modo scoprono dalle domande “del gioco” di avere qualcosa in comune, diventano complici e ridono per superare l’imbarazzo sotto la guida delle tigrate organizzatrici, tra Asja e Zoran aleggia una impenetrabile coltre di disagio, che peggiora minuto dopo minuto. Fino a che l’uomo di punto in bianco inizia a guardare Asja con uno sguardo indagatore e dichiara subito dopo di averla già incontrata in passato. Poi si alza dal loro tavolo e sparisce nel nulla. Asja rimane sola e in attesa. Nessuno si avvicina a dirle qualcosa su come si gestisca in questi casi la situazione e presto si rassegna sulla totale impossibilità delle “tigrate” di supportarla psicologicamente, farla accedere a un diverso pretendente o fare una qualsiasi altra azione risolutiva. Zoran ritorna, è più calmo dopo essersi rinfrescato in bagno e racconta ad Asja di come in lei abbia riconosciuto dalle domande una bambina di venti anni prima. Una bambina a cui lui ha distrutto la casa e la famiglia vent’anni prima, mentre militava in un gruppo armato serbo-bosniaco contro i suoi stessi concittadini. Era giovane e non poteva ribellarsi a quegli ordini. Quel giorno aveva quasi sparato a caso per paura di ritorsioni. Gli avrebbero forse sparato i suoi stessi compagni se si fosse rifiutato e da allora non ha mai superato l’angoscia e il senso di colpa di quel giorno. È tutto vero e Asja non può non ricordarselo, perché è da quel giorno che anche una parte di lei, la più giovane e spensierata, è inevitabilmente morta. È da allora che ha enormi problemi con le relazioni umane ed è forse per questo, come ultima spiaggia, che si trova in quel posto eccentrico, vestita di rosa, per rispondere a domande su quale sia il suo colore o film preferito, in un incontro al buio con uno sconosciuto. La ragazza non sa bene cosa fare o pensare, quando arriva l’ora di pranzo e uomini e donne si siedono sparsi nella zona ristorante, per lo più divisi in gruppetti dello stesso sesso. C’è chi si lamenta del livello più basso del cibo rispetto al solito standard, chi si informa sulle faccende di gossip legate alle organizzatrici tigrate e chi se ne sta per lo più in silenzio a fissare il nulla, come Asja e Zoran. Al rientro l’attività prevede che tutti si aiutino insieme in un salone a sorreggere delle palle riempite d’aria, come se con l’aiuto di tutti si potesse sostenere il mondo e provare ad amarlo. Asja immagina Zoran armato che abbatte tutti i partecipanti dello speed-date e cerca sempre più un confronto diretto con lui. Fino a che propone un gioco di ruolo, nella assoluta riluttanza delle organizzatrici che si ribellano da subito, ma sostenuta dalla “curiosità” dagli altri partecipanti. Pone Zoran su una seria al centro della sala, davanti a tutti, mettergli un sacchetto in testa e rivelando agli astanti che è uno degli assassini che hanno insanguinato le strade di Sarajevo. Scoppia il caos. 


Teona Strugal Mitevska ama creare un cinema che si pone delle domande esistenziali, sempre a tinte forti. Usando un tono spiazzante quanto surreale, ironico ma profondamente satirico, la Mitevska seziona con il suo bisturi analitico i paradossi della quotidianità, spesso portando alla luce l’essenza profondamente tragica delle cose. È un cinema che spinge il pubblico a ridere della “normalizzazione” delle situazioni psicologiche più assurde, ma che in realtà vengono costruite con cesellata cura per un intrinseco significato filosofico e simbolico.  L’appuntamento parla di un popolo ancora sotto stress post traumatico, su cui brucia ancora una profonda ferita, che il resto del mondo ha già dimenticato e archiviato, che riverbera ancora sul territorio e sugli sguardi delle persone. Il forse ingenuo speed-date della storia cerca di mascherare sotto i camicioni rosa e i vestiti tigrati queste ferite, con l’hotel che ospita l’evento che ha stanze che rievocano nei nomi capitali estere e gli stessi saloni che nascondono il paesaggio di Sarajevo dietro pesanti tende rosse, anche se è ancora giorno. Tutto è strutturato per far concentrare i partecipanti “sul presente” e sulla loro necessità di poter trovare qualcuno che gli stia accanto nella vita facendo sentire meno soli. Ridere insieme, giocare insieme, mangiare qualcosa di buono insieme e ballare, alla ricerca di una felicità forse infantile ma “pura”. Tuttavia i “fantasmi del passato” sono ancora incredibilmente presenti e coriacei. Alcuni richiedono a forza il riconoscimento della supremazia del proprio dolore, su chi si è schierato nel conflitto dalla “parte sbagliata”. Altri reclamano di avere di nuovo la “possibilità, impossibile” di rivivere la propria giovinezza, strappata anzitempo da una guerra che li ha fatti crescere a forza. Altri spingono a essere rassegnati in partenza, ma il pranzo è gratis. È un incontro che diventa inevitabilmente scontro, alla ricerca di una fisicità che si presenta “ambivalente” tra il desiderio di avvicinarsi all’altro “di cuore” e quello di dargli un pugno. Jelena Kordic Kuret e Adnan Omerovic riescono a cogliere a pieno la complicata quanto umana fragilità dei loro personaggi, ugualmente sfuggenti quanto bisognosi del reciproco affetto. Ogni dialogo tra i due riaccende tra i personaggi ferite antiche, che Asja in genere cerca di affrontare con una positività totalmente fasulla e disperata mentre Zoran si chiude nel più totale pessimismo cosmico. Nella “tragicità della leggerezza”, condizione indispensabile per affrontare un incontro al buio, i due personaggi sono amabilmente inadeguati. Però, di ferita in ferita e di zuffa in zuffa, “qualcosa tra i due succede”. Qualcosa di positivo e per una volta non distruttivo. Forse in questo la Mitevska vuole darci la piccola ma decisiva speranza che anche nelle situazioni più disparate alla fine l’amore, come in tutte le favole, possa trionfare. Con le dovute dosi di ironia e urla a supportarlo un po’, come la Nietzschiana “stella danzante che si genera dal caos”. L’appuntamento è un film dallo spirito leggero ma dalla interiorità profonda e sfaccettata, carico di commedia e tragedia umana. È un film divertente e tragico, sognante quanto brutalmente concreto. Tutto trova un particolare equilibrio grazie alla bravura degli interpreti e alla messa in scena “spericolata” di Teona Strugal Mitevska, che si conferma una delle registe più interessanti degli ultimi anni. 

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venerdì 21 aprile 2023

Bigger then us: la nostra recensione del documentario di Flore Vasseur sui giovani attivisti impegnati nella difesa dell’ambiente e dei diritti umani - evento speciale al cinema dal 22 al 26 aprile

Melati Wijsen, 23 anni, in parte indonesiana e in parte tedesca. Un viso angelico che incornicia un sorriso infinito e occhi che risplendono, un portamento raffinato, modi gentili, una voce cristallina con tanta voglia di raccontare e condividere esperienze di vita, specie per “motivare le persone” a cambiare il mondo. Potrebbe concorrere per Miss Universo e vincere facile, intraprendere la carriera di cantante o di attrice o pubblicizzare un profumo, invece Melati è una delle principali attiviste climatiche dei giorni nostri e non è per questo meno famosa di una rockstar. Ha iniziato a 11 anni insieme alla sorella a sensibilizzare sul problema del riciclaggio della plastica e da allora non si è più fermata. Se Greta, oggi ancora più coinvolta nelle “vie diplomatiche” con i grandi della Terra, esprime il sempre più pragmatico sconcerto per l’immobilismo dei governi e degli “adulti in genere” nell’intraprendere una qualsiasi, pur piccola, ““rivoluzione”” sociale o ambientale (ma Greta è ancora giovane e la sua battaglia è solo all’inizio), Melati bypassa del tutto il mondo degli adulti e spinge fortemente sulla costruzione di una migliore rete di supporto al pianeta, creata attraverso l’entusiasmo dei soli giovani, oggi aiutati oltre che dalla solidarietà anche dalla pubblicità e risonanza che i canali social sono in grado di generare. Melati con questo film vuole trasmetterci non solo quanto sia importante e appagante, ma anche quanto possa essere “non di nicchia”, carico di entusiasmo e positività il lavoro di un social worker. Incontra così la scrittrice, produttrice e imprenditrice francese Flore Vasseur, ex campionessa di snowboard, classe 1973, regista attiva e riconosciuta nel mondo del documentario grazie al film Meeting Snowden del 2017. Flore nel 2009 esordiva alla regia proprio con un lavoro sulle corde di Melati, un Ted dal titolo 18 minutes pour changer le monde. Flore e Melati scrivono insieme questo Bigger than us, co-prodotto dalla attrice Marion Cotillard, che viene presentato alla 74esima edizione del festival di Cannes, nella sezione Cinema for the climate. È un film che racconta l’incontro di Melati con altri giovani attivisti, che insieme stanno cercando “nel loro piccolo” di cambiare la realtà del loro territorio, impegnandosi tanto sul lato climatico che in quello sociale. Tutti hanno iniziato a “protestare e costruire” fin da giovanissimi qualcosa di nuovo e più funzionale per “aggiustare il mondo”, partendo dall’osservazione dai bisogni più vicini delle persone con cui erano in contatto. 


Mohamed vive in Libano, è fuggito dalla Siria a soli 12 anni e oggi ha costruito una scuola per bambini siriani. Il 58% dei rifugiati siriani in Libano sono bambini e come Mohamed si sono spesso trovati da soli a vivere isolati nei campi in ripari di fortuna, dopo essere stati “sradicati” dalla loro patria, perdendo ogni cognizione del tempo e di un proprio scopo. Molti bambini prima di arrivare in Libano sono inoltre stati soldati o vittime di violenza, hanno bisogno di “dimenticare e tornare bambini” o finiranno nelle maglie della malavita. Mohammed, un po’ come un fratello maggiore, ha cercato di ridargli una voce, un luogo dove tornare da chiamare "famiglia" e la dignità di cui dovrebbe godere ogni persona, partendo del diritto all’istruzione. Sono partiti da 2 volontari e 4 studenti, sono arrivati a 150 bambini, trovando anche il supporto del volontariato locale e dei media. Mohamed con l’aiuto di Melati vorrebbe che quei bambini ora si sentissero parte di qualcosa di più grande del popolo libanese che li ha “adottati”: dei veri cittadini del mondo. Il viaggio di Melati prosegue insieme a Melody in Malawi, dove il 42% delle ragazze si sposano a meno di 18 anni. Quando sono incinte abbandonano la scuola e non è una circostanza infrequente, perché per tradizione si sposano a 11 anni in matrimoni combinati che costituiscono una importante e spesso indispensabile fonte di guadagno per le famiglie. È successo anche alla sorella di Melody, che per tradizione prima del matrimonio è stata portata nei “campi di iniziazione” a cui bambine e bambini accedono intorno ai 10 anni per “diventare adulti”. Qui viene insegnato ai ragazzini il modo corretto di sottomettere le donne e alle donne il non ribellarsi mai a ogni tipo di abuso, di fatto rinunciando ad una vita che non sia di madri e casalinghe. Melody ha fondato un “club delle ragazze” per combattere la dispersione scolastica. Le ragazze si incontrano per condividere i costosi libri scolastici, parlare dei loro problemi personali e viaggiare insieme nel tragitto dal villaggio a scuola, dove purtroppo non è infrequente subire abusi sessuali. Melody, supportata per il suo sforzo dalle famiglie della comunità, è riuscita nel suo piccolo a far chiudere i campi di iniziazione della sua zona e da qui sembra che stia cambiando qualcosa anche a livello politico, con l’avvento dei primi capi tribù donna. Melati accompagna Wendy al suo primo incontro con il presidente del Malawi. C’è aria di cambiamento anche in Brasile, dove nella successiva tappa Melati incontra René, cresciuto nel costante pericolo di finire in mezzo a una sparatoria tra polizia e criminali nel suo tragitto da casa a scuola nelle Favelas di Rio. Nel 2011 da quelle parti all’insaputa del resto del mondo  è avvenuta una vera e propria guerra civile. Le Favelas erano isolate e separate quasi in trincee, con autobus e mezzi pubblici dati alle fiamme per impedire l’accesso alle strade e alle comunicazioni: nessuno poteva uscire di casa anche solo per il cibo e la tv non forniva alcun resoconto reale dei fatti. Da un gruppo di Twitter gestito da ragazzini locali, René con i suoi amici crea così il “giornale della comunità”, una fonte diretta sul campo che racconta la realtà di quel conflitto direttamente dalla voce dei testimoni oculari, zona per zona, fornendo anche informazioni utili per aiutare e coordinare la cittadinanza. Il social di René diventa strumento di difesa, informazione e cambiamento: non solo con la cronaca puntuale dei fatti ma anche raccontando una vita possibile per i ragazzi diversa dal sogno comune di “diventare spacciatori”. Si dà voce così allo sport, alle scuole di ballo e alle iniziative culturali. Il giornale cresce e si protrae come esperienza libera e indipendente fino a oggi, accogliendo tra le sue fila sempre più ragazzi e diventando anche megafono di manifestazioni pubbliche in supporto a politiche attive. La “rete sociale” di René, con il suo nuovo modo di fare giornalismo si aggancia così alla rete ambientalista di Melati, coordinandosi per la creazione di eventi a tutela del clima da portare all’attenzione della politica. 


Negli Stati Uniti “del vecchio West” il discendente dei nativi americani Xiuhtezcatl usa il rap per denunciare l’estrazione di gas naturale attraverso la pratica del “fracking”, che rende irrespirabile l’aria di chi vive sul territorio. Per “dimostrare sensibilità” le imprese del fracking hanno costruito scuole per le persone più povere proprio sui margini dei fumi mefitici delle loro aziende, luoghi destinati a rimanere deserti in quanti invivibili. La sua è una lotta contro le multinazionali che appare persa in partenza, ma non per questo rinuncia a fare concerti il cui ricavato va a sostegno della causa ambientalista. Sente che è nello spirito di un pellerossa preoccuparsi della salvaguardia del suo mondo.  

Nell’isola greca di Lesbo Melati incontra Rune e i ragazzi che si occupano del salvataggio in mare dei migranti. Oltre ai gommoni e ai barchini con cui sempre più spesso vengono organizzati dalla malavita questi “viaggi della speranza”, viene denunciato l’uso di giubbetti di salvataggio finti, che all’interno invece di materiale galleggiante contengono una specie di pluriball per imballaggio-pacchi. Quando i trafficanti di uomini scappano e i migranti vengono lasciati in mare con il gommone sotto la tempesta in attesa di soccorsi, questi si affidano per sopravvivere a questi giubbetti che alla fine affondano. I soccorritori hanno creato una autentica montagna usando solo i giubbetti di salvataggio rotti recuperati in mare. Si può fare ben poco senza un impegno internazionale coordinato in questi casi, ma i giovani di Lesbo che ogni giorno accorrono a salvare i naufraghi sentono che è la cosa giusta da fare, qualcosa di “naturale” per la loro cultura di marinai. 

Winnie, in Uganda, cerca invece di integrare con le esigenze agricole del suo territorio le persone che sempre più stanno arrivando dalla costa come migranti. Nel suo paese sono in genere le donne a occuparsi del lavoro della terra, ma con l’arrivo di queste nuove forze si sta creando una nuova sinergia, che se supportata da politiche ambientaliste potrebbe sottrarre alle multinazionali lo sfruttamento sempre più automatizzato della loro terra, in ragione di una gestione più sostenibile e meno invasiva delle risorse legate all’agricoltura. La chiave per Winnie è supportare, proprio attraverso il coordinamento delle donne ugandesi, la creazione di “comunità di rifugiati” raccolti per singola etnia, a cui oltre che un lavoro viene così offerta una scuola e un luogo pacifico in cui vivere integrati sul territorio. Con tanta mano d’opera sempre più qualificata e integrata, la terra potrebbe offrire prodotti di massima qualità da esportare nel mondo.  


C’è chi salva la vita al prossimo o ha cura per l’ambiente come se fosse qualcosa di scritto nel dna, come i figli dei marinai greci o dei nativi americani. C’è chi “per vocazione” sente di dover sovvertire le regole più inique della tradizione o si sostituisce a uno stato che ignora di affrontare i problemi della gente o “non può farlo”. Ma Melati è come se ci dicesse che dietro a ogni problema sociale c’è quasi sempre un problema ambientale. Tutto è connesso. 

In alternativa c’è la costruzione di nuove industrie e nuovi schiavi, il perpetrarsi tanto delle ingiustizie sociali che della plastica. Cumuli e cumuli di plastica che diventano il grottesco paesaggio dantesco della discarica di Giacarta, una delle più grandi e spaventose al mondo. Un mostro ecologico che sta contribuendo giorno dopo giorno a inghiottire tutta la città di Melati, che si avvia per gradi a essere sommersa dall’innalzamento delle acque come una nuova Atlantide. Difesa solo da muretti di contenimento in cemento non più alti di un metro: la battaglia già persa in partenza. 

L’eco-mostro è un autentico monumento alla (auto)distruzione della natura e dell’uomo e diventa più di mille parole un monito, un’immagine da imprimersi nella testa prima di andare a dormire giusto per ricordarsi che esiste e può ancora espandersi fino a inghiottire tutto.  Per Melati viviamo completamente nudi davanti a quello che accadrà: stiamo camminando sospesi sul baratro in attesa di un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra l’uomo e l’ambiente che se non accade ci porterà sempre di più alla fine. Ma la sua rete di supporto può funzionare, i giovani possono fare qualcosa, mettersi in contatto tra loro, realizzare progetti ascoltando i bisogni del territorio e le forze del volontariato, cercare magari di scuotere i governi anche solo con il loro contagioso entusiasmo. 


Il documentario di Melati e Flore è un’occasione per raccontare ai giovani di oggi di realtà che magari nemmeno immaginano, portandoli in luoghi incredibili che non esistono neanche nei videogame come la discarica di Giacarta e la montagna dei giubbetti di salvataggio rotti di Lesbo, ma anche portandoli a conoscere persone della loro età che si stanno opponendo a questo tipo di futuro. Si è sempre parlato di ambiente nella storia e forse lo si è fatto sempre con il linguaggio sbagliato: spesso accusando la controparte politica di fare troppo poco senza però rispondere con qualcosa di concreto, spesso guardando dall’altra parte quando i problemi vanno oltre il nostro pianerottolo, spesso sbandierando bandiere solo quando può essere una scusa per saltare la scuola, spesso piangendo e poi tre minuti dopo dimenticandosi di tutto. Bigger than Us parla delle opportunità concrete che si possono trovare in giro per il mondo per cambiarlo in meglio, se qualcuno se la sente davvero di aiutare il prossimo e il pianeta. Fornisce esempi concreti in cui alla sacrosanta protesta sono seguiti progetti, interventi, piccole rivoluzioni. È un film che invita il pubblico più ricettivo a partecipare a una rete di aiuto, mettendo anche qualche indirizzo utile dove informarsi, nel caso si voglia fare qualcosa ma “non si sa che cosa”. È un buon modo con cui il cinema ci permette ancora di guardare a un futuro possibile.

Per questo la visione di Bigger than Us è assolutamente consigliata a tutte le scuole, specie se di indirizzo umanistico, ma non solo. Girato con telecamere digitali in alta risoluzione la pellicola ci porta in giro per il mondo, tra scorci paesaggistici anche molto suggestivi, con una particolare predilezione per una fotografia calda e avvolgente. Il linguaggio semplice e diretto con cui vengono affrontate  le varie tematiche aiuta nella comprensione dei temi anche un pubblico di ragazzi delle scuole medie. La passione e “solarità” degli interpreti nel parlare dei loro progetti e traguardi è contagiosa. Bigger than us è un ottimo strumento didattico, quasi un “film motivazionale”, forse con il problema per qualcuno di dipingere dei giovani “troppo belli per essere veri”, troppo distanti da come si “immaginano i giovani d’oggi”.  Però  chi crede che il cinema possa fare ancora oggi qualcosa di concreto per smuovere le coscienze verso le cause sociali e ambientali non dovrebbe proprio mancare questa pellicola. 

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