domenica 30 aprile 2023

Beau ha paura: la nostra recensione del nuovo film thriller psicanalitico/surreale di Ari Aster, con protagonista uno straordinario Joaquin Phoenix

Il mondo in cui vive Beau (Joaquin Phoenix) è un luogo inospitale perennemente invaso, insicuro e scivoloso. Grandi e piccoli rumori ronzano costantemente nella sua testa, per lo più articolando parole di odio nei suoi confronti. Le pareti della piccola stanza in cui vive brulicano di creature appese al soffitto che lo osservano, sbavano e progettano attacchi. Ogni volta che Beau lascia aperta la porta di ingresso una folla sempre più consistente di persone sinistre penetra nella casa per devastarla e ridurre in rottami e rifiuti i suoi pochi averi. Per le strade c’è sempre qualcuno che lo fissa e ride di lui, pronto a scagliarsi contro armato di un coltello. La televisione trasmette solo notizie su assassini a piede libero nella sua zona, ogni suo bancomat o documento risulta più volte invalido a una verifica anche se deve fare un acquisto del valore insignificante. Chiunque Beau incontri decide senza farsi scrupolo di mentirgli o imprigionarlo e in fondo lo “odia”, nel modo genuino e primitivo con cui si disprezzano le persone che si affacciano nella vita altrui da “intrusi”, non invitati e non graditi. Forse sono solo voci che escono dalla testa. Immagini elaborate da un forte ma clinicamente documentato disturbo paranoide: ci si può pur convivere, con tante medicine. Beau è in cura e va puntuale agli appuntamenti (il medico è interpretato da un pacioso ma sinistramente lynchano Stephen McKinley), non sgarra con le pillole e l’ultima volta che ha inghiottito il collutorio era in qualche modo sereno sul fatto che quel giorno, razionalizzando l’evento, non sarebbe di sicuro morto di avvelenamento. Si può sopravvivere a tutto, forse, ma arriva il grande giorno del compleanno di sua madre: bisogna fare un regalo, la valigia e prendere un aereo. All’improvviso tutte quelle immagini sinistre, suoni insinuanti e pensieri ostili partono insieme all’assalto della salute mentale dell’uomo, trasformando ogni istante della sua giornata in un prolungato incubo dal quale è impossible scappare. Una corsa ad ostacoli sempre più ardui che si pone tra lui e l’incontro con la persona che più di tutte ha avuto un peso determinante nella vita di Beau. Anche se non ci è nota la natura del particolare legame tra Beau con la madre, il suo stesso medico curante spesso gli insinua: “Dillo, non avere paura: dillo che la odi, che odi lei più di ogni altra cosa”. I prossimi giorni saranno difficilissimi per lui, ma anche magici. Potrà per una volta sognare, tra un incubo e l’altro. 


Ari Aster torna al cinema in una grande produzione della etichetta indipendente A24, dopo il folgorante esordio con l’horror polanskiano Hereditary e la conferma di un talento davvero inconsueto offerta dalla sua opera seconda: quel folle folk movie di Midsommar, a metà strada tra Asher Lewis e Robin Hardy. In questo percorso Aster si sta sempre più specializzando come intessitore di incubi e narratore della pura paranoia, ma piano piano si affaccia un Aster diverso, quasi “sognatore”. Continua ad amare far brancolare nel buio (e nella paura) i suoi personaggi e insieme a loro tutto il pubblico. Gioca quasi sadicamente con le “regole narrative” del film di genere per sovvertirle, disorientare e accumulare situazioni surreali spesso arricchite da uno humor nerissimo. Il suo scopo sembra essere creare suggestioni più che narrazioni, puntando a comporre castelli di carte sempre più elaborati e illusori in cui invischiare l’immaginazione e “l’aspettativa” dello spettatore, per poi tradirlo e deriderlo. È amabilmente scorrettissimo, quasi alla maniera del Michael Haneke di Funny Games (quello che faceva “riavvolgere la pellicola” pur di cambiare il destino dei “cattivi”), ma al terzo film offre anche qualcosa di diverso. C’è una punta di quella inaspettata “satira metafisica” che anche l’ultimo Lars Von Trier non aveva problemi a solcare sul finale di La casa di Jack. L’ironia e la malinconia si fanno progressivamente sempre più largo nella composizione dell’opera, che si arricchisce pure di una lunga e struggente sequenza sognante quasi a cartoni animati. Nelle prime opere era solito partire da toni profondamente drammatici per poi passare di colpo allo splatter e alla commedia nera, facendo sobbalzare sulla sedia, sorridere e inorridire a comando. Beau ha paura inizia questa volta a tutti gli effetti nel territorio della commedia. È la storia di un uomo che soffre di paranoia, un po’ come il sognatore Walter Mitty raccontatoci da Ben Stiller e Paolo Villaggio (in Sogni mostruosamente proibiti), un po’ come il Bill Murray protagonista di Tutte le manie di Bob di Frank Oz. Anche lo stralunato e tenerissimo Beau di Joaquin Phoenix deve essere tranquillizzato nella possibilità di riuscire a vivere la sua esistenza un passo piccolo alla volta, allontanando con la razionalità le fantasie più estreme. Fantasie terribili che poi attingono a piene mani dal cinema più sinceramene horror e thriller, tra cui la più forte e sinistra è la sensazione di trovarsi in un sadico Truman Show super-organizzato. Bill Murray procedeva sulla strada dell'indipendenza e guarigione compiendo i lenti e sicuri “passi di bimbo” suggeritigli dal suo terapeuta (interpretato da uno straordinario Richard Dreyfuss), Joaquin Phoenix per tutte le quasi tre ore della pellicola deve invece correre come un disperato senza un solo appiglio esterno a cui aggrapparsi. Deve affrontare tragedie di ogni tipo, manipolazioni affettive e anaffettive, attacchi fisici e incidenti stradali, sparatorie terroristiche, il surreale, i fantasmi, gli alieni, le multinazionali del male, Freud e i rettiliani, perfino dei mostri degni del filmacci mutanti di Lloyd Kauffman. Non c’è tempo di metabolizzare una situazione già di per sé estrema, che già siamo con lui piombati in un nuovo incubo del tutto diverso, che ci porta fortemente a dubitare di tutto quello che abbiamo visto fino a un minuto prima, alla ricerca di un nodo di trama che non può strutturalmente esistere. Esattamente come accade negli incubi veri, da spettatori inermi “subiamo”. Subiamo magari sperando/temendo che a spegnere lo sguardo ingenuo e mite del Beau di Phoenix appaia di colpo il “ghigno del Joker”. Un Joker che l’attore ha oggi per forza “dentro”, mentre sta per tornare nelle sale con il nuovo capitolo della saga di Todd Phillips, questa volta a fianco di Lady Gaga. Beau per la sua vita e i suoi trascorsi potrebbe in fondo essere quasi “fratello” dell’Arthur Fleck di Joker e siccome Ari Aster parla di dannazioni più che di redenzioni, il confine verso il lato più oscuro di questo personaggio fragile è molto sottile, costantemente stimolato e pronto a rompere quel poco di umanità che rende Beau tanto speciale e umano.


Tanto Aster quanto Phoenix dimostrano però di avere molto a cuore il “loro” Beau ed è sul candore del personaggio che infine questo incubo paranoide trova la sua vera “forma”, la sua guida nelle tenebre della follia. È un personaggio che ha paura del mondo ma lo affronta, è un uomo che pur deluso e “tradito” continua comunque ad amare e a sognare un futuro impossibile proprio come Walther Mitty. In controtendenza al titolo, le scene più appassionanti della pellicola vedono Phoenix in balia di “emozioni positive” e sono per molti versi qualcosa di “nuovo” nel cinema di Aster, che a questo punto potrebbe pure stupirci con un musical, magari “rigorosamente tetro” come il Dancing in the dark di Von Trier. Con tutto il “bene e la simpatia” che siamo tenuti a provare per Beau il film può colpirlo ripetutamente con dosi massicce di surreale, deriderlo e umiliarlo, ma il pubblico sarà sempre con lui fino alla fine. Fino a che Aster rivelerà la “paranoia finale”, avventurandosi in una possibile quanto spericolata e particolarmente originale lettura unitaria quasi “psicanalitica” dell’opera. Troverà quindi una forma concreta il viaggio dell’(anti)eroe e infine… Aster deciderà comunque per sfizio di farci perdere la strada di nuovo, alla luce di un paio di colpi di scena decisamente “fuori come un balcone”. Forse è proprio in questa voglia di “assimilare o meno”, il massiccio carico di assurdo servitoci dalle tante e surreali scene di Beau ha paura, che il pubblico in sala può unirsi, scremarsi, forse dividersi. Chi già ama Ari Aster tout court, nel suo confezionare film “strani in senso positivo”, può comprendere i benefici del “lasciarsi andare”, godere dello spettacolo come se si fosse su delle montagne russe emotive, stupirsi di una messa in scena sempre più ricca ed elaborata sul piano fisico quanto onirico, ironico quanto orrorifico. Beau ha paura è il suo film più eterogeneo, più sfarzoso e forse ambizioso. Chi non apprezza il fatto di sentirsi “sballottato emotivamente” da un film, nella condizione perenne di ridere, piangere e essere atterriti solo un minuto dopo dalla comparsa di qualcosa di stranissimo, può invece trovare la pellicola parecchio “strano in senso negativo”, magari coltivando un malcelato senso di spaesamento. Ma come ripetiamo spesso su questo blog “è bello anche sentirsi spaesati”, specie quando a “spaesarci” è un cinema ricco di suggestioni e idee visive originalissime come quello di Ari Aster. Il cinema deve essere anche “stupore disorientante”, specie in un momento storico in cui troppo cinema appare pre-confezionato, super prevedibile per esigenze di mercato, così “politicamente corretto” da avere paura di affrontare un qualsiasi argomento per la paura di scontentare qualcuno. Ari Aster va oltre a questo schema moderno di fare film, pure se è l’opera che lo vede più consapevole della sua cifra stilistica, in cui ama con spontaneità auto-citarsi e non ha paura di esprimere la sua fantasia in modi nuovi e sempre più arditi, quasi sfiorando oltre alla commedia pure lo schema della favola. 


Joaquin Phoenix è l’attore perfetto per un film di questo tipo, come Toni Collette era l’interprete perfetta per Hereditary: sono artisti in grado di infondere una incredibile umanità anche in personaggi che giocoforza si trovano a vivere su un “piano della realtà quasi inclinato”, dove ogni incubo può inghiottirli e dove “razionalizzare” un problema è purtroppo poco più che una perdita di tempo. Sono loro ad “agganciare” i sogni e incubi di Aster con il pubblico e a Phoenix viene concesso per questo uno “spazio espressivo” quasi sterminato, che rende possibile raggiungere in pieno questo intento, dando prova di una bravura ed empatia che negli anni si affinano sempre di più. Beau non è solo un personaggio buffo e disperato, ma anche un eroe tragico, profondamente combattuto, sognatore e per niente passivo. 

Beau ha paura è un viaggio surreale ma irresistibile, divertente e movimentato fin dal primo momento. Un tour de force di quasi tre ore che volano veloci come una mezz’ora, grazie all’incredibile mole di idee visive e narrative che arricchiscono ogni istante di immagini surreali quanto emozionanti. Si ride, ci si commuove e ci si spaventa un po’, spesso a distanza di meno di un minuto. Se vi piacciono le montagne russe di Ari Aster, questa è la vostra occasione per farci un terzo giro, ma anche chi ha particolarmente apprezzato il Phoenix del Joker di Todd Phillips potrà sentirsi a casa e in genere tutti gli amanti del cinema in cerca di emozioni forti ed originali sono invitati a partecipare alla festa. Chi ha sinceramene paura di perdersi in un film surreale della durata di quasi tre ore, in cui succede in pratica “tutto”, potrebbe voler desistere dalla visione, ma si perderebbe sicuramente qualcosa di bello. Il cinema moderno ha bisogno della vitalità delle opere di Aster e questa terza pellicola non fa altro che confermare la regola. 

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