sabato 1 aprile 2023

Armageddon time: la nostra recensione del film drammatico di James Gray, un malinconico canto funebre alla adolescenza “strangolata” dagli adulti

Ci troviamo a New York, nel quartiere popolare del Queens, all’inizi degli anni ‘80. Sta per fare il suo ingresso alla Casa Bianca il repubblicano Ronald Reagan e nella casetta dei Graff, una famiglia di immigrati ucraini di origine ebraica, questo può significare solo una cosa: l’avvento dell'Apocalisse. Una sera il clima a tavola si fa subito teso e forse per stemperarlo Paul Graff (Michael Banks Repeta) inizia a fare le boccacce e masticare in modo rumoroso come tutti i ragazzini. Così da perfetto parafulmine si becca subito i rimproveri dal padre, l’idraulico frustrato Irving (Jeremy Strong) i cui discorsi sulla tecnologia dei frigoriferi non hanno colpito troppo i parenti. Paul è l’ideale per sfogare le frustrazioni: è un ragazzino svagato, dallo spiccato talento artistico e non molto portato per la matematica. Per il genitore non combinerà mai niente di concreto nella sua vita, sarà deriso e non “farà i soldi”. A maggior ragione questo status non muterà se Paul continuerà a frequentare quella fatiscente scuola di quartiere da due soldi e non l’istituto privato del fratello Ted (Ryan Sell), dove sono passati anche i Trump. Ma Paul alla scuola pubblica può arrivarci in bici e vuole che le cose vadano lì al meglio anche la sua frustrata mamma Esther (Anne Hathaway), che in quanto rappresentante “ci mette la faccia”. Tuttavia, per complicare le cose e quasi per farle un dispetto, Paul invece di  fraternizzare con i bulletti di buona famiglia che lo tormentano quotidianamente sceglie per nuovo amico un ragazzino di colore di nome Johnny (Jaylin Webb): uno che sogna senza speranza di diventare astronauta e vive con una nonna anziana in una casa ancora più povera della loro. 

Durante la lezione di lettere di Mr. Turkeltaub (Andrew Polk), Paul dimostra di saper realizzare un perfetto ritratto dell’insegnante, un volto quasi fotografico a cui il ragazzo aggiunge giusto per goliardia zampe e piume da “tacchino” per via dell’assonanza del cognome con il termine inglese per il noto volatile. Il professore, senza nemmeno notare la pazzesca capacità tecnica, non apprezza il lavoro e lo manda in punizione. In seguito, dopo una gita al museo d’arte moderna, Paul realizza in classe una riproduzione fedele di un quadro visto per due minuti e si prende comunque una punizione dall’insegnante, perché il compito prevedeva di realizzare un “disegno libero originale”. Fortuna che nel mondo di Paul c’è Johnny che ormai abitualmente lo accompagna nella stanza di punizione, sa apprezzare l’arte dell’amico, gli ha trasmesso la sua passione per la musica e lo ha pure contagiato con la sua mania per lo spazio: al punto da ritenere possibile pensare che nel giro di pochi anni andranno entrambi su Marte. Lo spazio può arrivare alla loro portata magari comprando un biglietto dell’autobus per la stazione spaziale. Una volta lì a Cape Canaveral inizieranno a frequentare qualcuno della base per dei lavoretti presso la mensa locale, magari arriveranno a fare le pulizie all’interno e poi…chissà. Come un adolescente, nello spazio e nel futuro in qualche modo ci crede anche il nonno materno di Paul, Aaron (Anthony Hopkins), che vuole a tutti i costi organizzare il lancio di un piccolo missile giocattolo nel parco insieme al nipote. Nonno Aaron è l’unico che sta volentieri a parlare con Paul del suo mondo e dei suoi sogni, senza guardare al ragazzino come fosse un completo disastro, anche se Irving si ricorda benissimo che da giovane Aaron non era affatto una persona tenera e lui ha dovuto “adeguarsi con fatica” a lui. Anche la spensierata adolescenza di Paul, appesa a un fragile filo sorretto quasi solo dal nonno, dovrà presto adeguarsi a fatica a dei cambiamenti. 


Una “scandalosa” sigaretta fumata di nascosto nel bagno della scuola tra Paul e Johnny scoperta dagli insegnanti, convincono una molto delusa Esther della necessità immediata di una punizione e del trasferimento del figlio nella “cara ma inevitabile” scuola del fratello più grande. Irving decide di brandire la cintura “per il suo bene” e impartire al figlio una lezione durissima su cosa non deve più fare nella sua vita, come continuare a disegnare e vedere Johnny. Esther sente le botte e non interviene. Così Paul già poche ore dopo è costretto ad andare all’istituto amato dalla sua famiglia e dai Trump “anche se non se lo merita, perché poco intelligente”, per assistere già il primo giorno a un discorso motivazionale direttamente dalla voce di Maryanne Trump (Jessica Chastain) che parla di come “tutto è possibile, non bisogna rinunciare ai propri sogni”. Solo per poi scoprire che pure nel lussuoso istituto dove tutti stanno in uniforme e ci sono pure i computer gli studenti comunque fumano sigarette senza problemi e patemi, solo che qui sono tutti bianchi. Mentre nonno Aaron ricorda al nipote gli anni in cui ha dovuto lasciare il suo paese a causa dei nazisti, Paul e Johnny escogitano un modo per partire per lo Spazio senza voltarsi più indietro. Riusciranno a “ribellarsi al sistema”?

Per la sua ultima pellicola il regista James Gray decide di attingere a piene mani da molti dei suoi ricordi più vividi sull’adolescenza, vissuta in prima persona priprio nel quartiere popolare del Queens a New York, per raccontare del grande “furto ai danni della gioventù” della sua generazione, perpetrato da genitori convintissimi di agire per “il loro bene”. L’arrivo alla Casa Bianca di Reagan, da cui partirà “l’edonismo americano degli anni ‘80”, viene visto metaforicamente dagli occhi del regista come la conseguenza di una profonda e inarrestabile crisi già in corso nelle famiglie da anni, dovuta alla sempre più crescente scelta della società di premiare chi appartiene a un ceto sociale “medio-alto”. In questo contesto Paul e Johnny purtroppo partono dalla svantaggiata condizione di appartenere a famiglie del ceto basso, con la differenza che Johnny se la passa peggio in quanto “di colore” in un’epoca in cui il razzismo era ancora una brutta consuetudine. I genitori Graff, che hanno pure “tagliato il loro cognome” per mascherare la loro origine, hanno invece qualche possibilità di compiere un “salto sociale” e vivono nella costante ossessione di farlo. È un salto sociale che, tristemente, si può ritenere efficace e possibile solo omologandosi ad una élite economica, attraverso un percorso di studi e frequentazioni che portino a “solidi lavori concreti”. Ogni forma d’arte o manifestazione di fantasia deve essere severamente punita o svilita, in quanto l’elité non contempla né comprende questo tipo di linguaggio. La percezione della giustizia varia a seconda della “cerchia sociale di appartenenza”, le manifestazioni di affetto ed empatia anche solo tra madre e figlio sono quasi vietate: rendono “deboli” davanti alla crudeltà del mondo. È un sistema che fabbrica uomini come frigoriferi, scartando o cercando di sistemare a martellate i pezzi non omologabili. La rassegnazione di trovarsi in un “sistema truccato” è così introiettata nelle persone più svantaggiate al punto da inibire nel cuore dei più giovani ogni sogno che “le allontani dalla realtà”. Mentre il personaggio del nonno, che ha vissuto gli anni della deportazione, sa che non è l’unico sistema possibile e anzi si può ancora scappare, magari “nello spazio”, i genitori sono paralizzati all’idea di essere marginalizzati, al punto da preferire una vita di costante rabbia e frustrazione “pur di galleggiare”. 


Ma “andare nello spazio” è possibile, anche se qui avviene sono meta-cinematograficamente. Con Armageddon Time James Grey di fatto “torna proprio dallo spazio”, che ci ha raccontato nel fanta-western generazionale Ad Astra, una mega produzione con Brad Pitt (recensito anche su questo blog), film che a sua volta è seguito a un grande “film sulla esplorazione” come La civiltà perduta di Z. È quindi  “con il senno del poi” che Grey ha costruito questo sentito e tormentato film in gran parte biografico, dal sapore agrodolce e simile alla sua prima pellicola sul piccolo mondo degli immigrati ucraini come lui, Little Odessa. Armageddon Time, forse per questo personale coinvolgimento emotivo, non vuole essere un film di cosmonauti ma una piccola storia di adolescenti più simile a un flusso di coscienza che a un romanzo di formazione, anche perché vuole farci riflettere proprio sulla ancestrale “fortunata” difficoltà/impossibilità/incoerenza/inconsistenza di “formare un adolescente” secondo regole socialmente inique. Perché l’adolescenza per sua natura sfugge alle imposizioni, la società può cambiare come di fatto è cambiata, ma i rapporti umani famigliari deteriorati rimangono amaramente per sempre. Grey dimostra pietà per l’inadeguatezza triste e rabbiosa di figure genitoriali come Esther e Irving, ma certo non li assolve per tutto il calore familiare e umano sacrificato per la loro ossessione di “salto sociale”. Cerca di dare una voce da guida morale a nonno Aaron, ma sottolinea più volte la sua appartenenza a una generazione passata, che sta scomparendo e comunque non ha più credito. Lasciando un pietoso velo sulle figure degli insegnanti, rimangono i giovani, che “osano” sognare qualcosa di diverso, pur decretando così la distruzione/fallimento del legame/istituzione familiare. È un film che racconta di momenti molto teneri tra nonni e nipoti, descrive con genuinità sogni e delusioni di coetanei adolescenti, ma per il resto parla di un mondo amaro e privo di una bussola che va via via sempre più delineandosi nella sua distruttiva chiarezza. Un mondo e un modo di pensare  che non sono storicamente a noi troppo lontani e potrebbero ripresentarsi prima o poi. 

La nuova pellicola di Grey, attingendo da sue dolorose esperienze personali, aiuta a riflettere sul ruolo della famiglia all’interno della società e sulla necessità di guardare con maggiore fiducia nei confronti dei propri figli. Nel cast si segnalano i due giovani attori protagonisti, entrambi molto affiatati, divertenti e spontanei nell’impersonare due ragazzini di ceto medio-basso di inizio anni ‘80. Ingrate, rabbiose e dolorose le parti dei genitori, a cui interpreti di eccezione come Anne Hathaway e Jeremy Strong riescono comunque a conferire una tragica umanità. Hopkins costruisce un nonno Aaron nostalgico, lunare ma affettuoso. Jessica Chastain nel piccolo ruolo di Maryanne Trump riesce a essere incisiva quanto enigmatica. 

Molto bella la ricostruzione degli anni ‘80 tra auto, costumi e scenografie dal gusto vintage. Il ritmo della pellicola è sempre di buon livello e alla fine della proiezione di vorrebbe stare ancora un po’ con i protagonisti. Molto curata la colonna sonora, ricca di molti famosi brani d’epoca. 

Non il film più “costruito” del regista, ma il suo più personale, amaro e affettuoso modo di riflettere sulla sua adolescenza. Una pellicola agrodolce, che offre molti punti su cui riflettere. 

Talk0

Nessun commento:

Posta un commento