giovedì 25 maggio 2023

Campioni: la nostra recensione della commedia sportiva di Bobby Farrelly su una squadra di giocatori di basket molto speciale

America dei giorni nostri, Stato dell’Iowa. Il cinquantenne ma ancora affascinante Marcus (Woody Harrelson) è un allenatore pieno di talento delle basse divisioni, che sogna la prima serie, l’NBA. Legge libri che insegnano a essere “vincenti nella vita”, non è per le relazioni stabili e per gli amici “troppo stretti”, ha il giusto istinto per interpretare il basket e conosce le strategie vincenti. Purtroppo, a causa della sua continua tendenza a “voler avere ragione”, dimostra scarsa empatia nei confronti dei giocatori ed entra in continui conflitti pure con gli allenatori più pacifici, che spesso deflagrano in vere e proprie zuffe in diretta tv. Dopo aver girato mezzo mondo insieme al suo caratteraccio, per Marc si prospetta la definitiva fine della carriera dopo avere steso il mite Phil Peretti (Ernie Hudson) per una sostituzione negata in una partita già persa. Marcus è particolarmente depresso e piuttosto ubriaco, quando finisce con la sua auto dritto su delle volanti della polizia parcheggiate. A tirarlo fuori di prigione è proprio Phil, che gli comunica contestualmente con gentilezza il suo licenziamento, mentre una terribile giudice, soprannominata “Bloody Mary” per il suo pugno di ferro nei confronti di chi guida ubriaco, lo condanna a tre mesi di servizi sociali, da “scontare” come allenatore di una squadra di atleti con disabilità. In alternativa il carcere. Marc accetta anche se non sa niente di niente in tema di disabilità, perché è convinto di poter essere comunque un allenatore valido per chiunque. È così pronto a fare il suo ingresso in una palestra un po’ fatiscente, per le ristrettezze del “budget legato al sociale”, per conoscere la squadra di basket dei “Friends”, l’ultima tra le ultime nella classifica dei para-atleti. C’è Johnny (Kevin Jannucci), che si occupa di un rifugio di animali, ama il karaoke senza musica di sottofondo, ha una strana paura per l’acqua e una bellissima sorella. Sarebbe in campo una buona “guardia”, ma quando gli si dice di fare un pick and roll si blocca a metà azione. Darius è un buon lavoratore, un figlio devoto e sarebbe pure un vero fuoriclasse come playmaker, ma a ogni richiesta dell’allenatore dice “no”, qualsiasi sia l’argomento o la circostanza, “no” e si rifiuta praticamente di giocare in ogni occasione, per colpa di un brutto trauma. Marlon (Casey Metcalfe) parla un numero spropositato di lingue, sa fare al volo calcoli complessi sulle traiettorie aeree, ama le “longitudini” e ha un corpo molto fragile, che per giocare copre di ginocchiere e parastinchi. È un buon centrale perché sa buttarsi a testa bassa in ogni scontro, ma per lo stesso motivo qualche volta ne esce con qualche arto contuso. Benny (James Day Keith) è un'ottima ala, con un buon intuito e abile sotto canestro, ma lavora come uno schiavo in un ristorante che ampiamente abusa del suo spirito di sacrificio riempiendolo di straordinari, quindi non c’è mai. “Showtime” (Bradley Edens) conosce ogni ballo della vittoria di ogni giocatore della NBA, ma è fissato con i tiri alla cieca all’indietro, che sono quasi impossibili anche per i professionisti. Craig (Matthew von der Ahe) è versatile ma troppo fissato con il sesso, Cosentino (Madison Tevlin) è una prima donna ma sa farsi rispettare e segnare, Arthur (Alex Hintz) è veloce nei passaggi ma tira a caso. Sono tutti speciali a loro modo e tutti ampiamente “affinabili” e così Marc, che prima faticava anche solo a parlare con i giocatori per qualcosa che non fossero gli schemi di gioco, dovrà qui per forza imparare a conoscerli uno a uno per la prima volta, sbagliando e riprovando più volte. Sarà aiutato dell’esperto allenatore in seconda Julio (Cheech Martin) e della sorella di Johnny, Alex (Kaitilin Olsen), attrice Shakespeariana per spettacoli scolastici del dopopranzo e autista improvvisata della squadra, in mancanza di fondi pubblici per un vero bus. Ma soprattutto sarà aiutato da quei ragazzi. Marc si sentirà all’inizio come un pesce fuor d’acqua, ma con il tempo e la loro conoscenza l’idea di arrivare al campionato regionale inizierà a concretizzarsi. A torto di un'apparenza fragile, i suoi giocatori sono di fatto una squadra molto affiatata e il basket riesce a tirare fuori il loro talento. Forse il rissoso allenatore ha trovato il suo posto nel mondo al di fuori della sognata NBA.


Bobby Farrelly insieme al fratello Peter nel 1994 esordiva alla regia con Scemo e + Scemo e avrebbe trovato di lì a poco il grande successo con Tutti Pazzi per Mary, diventando tra il novanta e il duemila un vero autore di riferimento per il cinema comico e demenziale. Un cinema che ha portato in scena situazioni e personaggi sempre stralunati e sopra le righe, che hanno reso celebri interpreti come Jim Carrey, Ben Stiller e Jack Black, ma al contempo un cinema che ha saputo parlare in modo non banale di famiglia, diversità e disabilità, usando un linguaggio semplice quando inclusivo, affettuoso e rispettoso. Nel vortice di gag visive e doppi sensi in cui ogni personaggio viene coinvolto durante queste commedie, la goliardia “più dura” (che porta a risvolti di pena quasi “danteschi”) dei Farrelly è un’arma sempre indirizzata ai “cattivi della storia”: a chi pecca di insensibilità, imbroglia o esercita il potere in modo cinico e arbitrario. L’empatia invece diventa un valore autentico, la cui consapevolezza e sviluppo è in grado di orientare le scelte dei protagonisti fino a modificarne il karma e il loro rapporto con il mondo, che si fa “gentile” più loro riescono a essere gentili. I film dei Farrelly sono quindi film comici esagerati ma racchiudono tante sfumature interessanti, spesso satirici, che li fanno leggere quasi come delle favole moderne. La struttura di Campioni, che è l’adattamento di un film spagnolo ad opera di Mark Rizzo (che come autore ha lavorato ai dialoghi della serie tv Gravity Falls), ricorda per molti aspetti un altro film del 2005 prodotto da Bobby Farrelly, The Ringer, con Johnny Knoxville. Sono qui ancora in scena degli atleti con disabilità con la “missione” di cambiare il karma di un “uomo molto arrabbiato con il mondo”. La storia è come in quel caso semplice e leggera, con una struttura molto classica, ma l’attenzione data allo sviluppo dei personaggi con disabilità non è per nulla scontata e rende l’opera qualcosa di speciale. 

“Campioni” sono per la lunga italiana coloro che “scendono in campo”, mettendosi in gioco con le loro forze e i loro sogni al servizio di una comunità (o un lord, essendo la parola inizialmente di uso cavalleresco, ma non andiamo fuori tema). Un vero “giocatore”, come invece ne cantava le qualità De Gregori nella celebre La leva calcistica della classe ‘68, “lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. I para-atleti di Bobby Farrelly, tutti interpretati da bravissimi attori con disabilità, sintetizzano al meglio questi due concetti, in queste due specifiche accezioni. Vengono descritti come persone che si mettono in gioco a tempo pieno, nel lavoro come nello sport, non volendo giustamente essere trattate con condiscendenza o superficialità per i loro problemi di salute. Sono persone che aspirano a un'indipendenza, nonostante i timori dei loro familiari, qui incarnati dallo sfaccettato personaggio di Alex, che li vedono sempre troppo indifesi nei confronti del mondo e temono di non poter continuare a proteggerli h24. L’impegno di questi atleti nello sport è prima di tutto un'occasione di incontro e sostegno reciproco, con l’atmosfera delle partite che è più simile a una festa che a una guerra, dove nelle squadre non ci sono davvero vincitori e vinti. Tutto questo è felicemente anni luce dai “canoni della competitività” imposti dal mondo moderno e di cui è “malato” il personaggio di Marc, del bravo Woody Harrelson. L’allenatore dovrà imparare non senza sforzo che giocare una partita non è per forza sinonimo di “vincere”, quanto di “stare su quel campo”, essere altruisti, fantasiosi e coraggiosi, come fanno gli autentici campioni. È questo lo “sguardo positivo sul mondo”, che attraversa tutta la visione di un film che vuole essere da sprono per guardare alla disabilità con occhi diversi, scoprendo l’incredibile forza e l’entusiasmo dei giocatori della “Friends”. Woody Harrelson si fa “trascinare dentro” questo mondo con un particolare occhio di riguardo e affetto per tutti i bravi attori con disabilità coinvolti: sul set è nata una bella sinergia e complicità che ha portato a scene molto divertenti e stravaganti, ma anche a contestuali scene piene di affetto e sensibilità come vuole il marchio di fabbrica ormai storico dei fratelli Farrelly. Kaitilin Olsen, Matt Cook (che interpretata “l’aspirante amico” di quell’orso di Matt), Ernie Hudson e Cheech Martin costituiscono un ottimo cast di supporto, nel ruolo di personaggi che in qualche modo “guidano verso la sensibilità” (e la conseguente “farrelliana armonia Kamica”) il personaggio di Marc.  Molto colorata la fotografia, appropriata la colonna sonora a base di pezzi ritmati e divertenti (con nei titoli di coda di una bella sorpresa). Il montaggio rispetta alla perfezione i ritmi della commedia e diventa giustamente più concitato durante le partite, ben descritte nelle varie fasi e ruoli. Un plauso anche al doppiaggio italiano, per il quale sono state scelte le voci dei nostri atleti para-oliminci, che si sono prestati alla sfida con entusiasmo e passione. 


Campioni è un film sullo sport visto come luogo di incontro, gioia, inclusività e solidarietà. È un film dedicato alle persone con disabilità e ai loro familiari, leggero e divertente, carico di momenti emozionanti, di gioco e di risate, ma anche pieno di piccoli spunti interessanti sui bisogni di autonomia nell’età adulta, sulla sessualità e sulla gestione della dimensione lavorativa (dove il personaggio di Benny piacerebbe magari pure a Ken Loach). È una pellicola che quindi può fare anche riflettere, ma soprattutto un film per chi ama il basket o vuole semplicemente passare un paio d’ore in serenità e uscire dalla sala con un bel sorriso. 

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mercoledì 24 maggio 2023

Fast X: la nostra recensione del decimo capitolo della saga con protagonista Vin Diesel, diretto questa volta dallo specialista Louis Leterrier

Nel “Fast’n’Furious-verso” dei giorni nostri è arrivato Dante (Jason Momoa) ed è intenzionato a portare Dom Toretto (Vin Diesel) e soci all’inferno. Dante Reyes è un signore del crimine di Rio, grosso come un armadio e spesso vestito di completi rosa sgargianti. Ama giocherellare con i sui lunghi capelli raccogliendoli in treccine colorate, sa pronunciare le parolacce in tutte le lingue con una ottima dizione, ride e ammazza gente in continuazione come il Joker di Batman, non si tira mai indietro se c’è da menare, correre in auto o in moto, sparare o accoltellare: è una gioiosa macchina di morte. Dom, l’asso delle corse clandestine ora promosso a super agente segreto del governo, è altrettanto grosso e temibile con le sue canottiere attillate, l’incredibile istinto nella guida di ogni tipo di mezzo conosciuto e sconosciuto, la dimestichezza con armi da fuoco, armi bianche, frasi da macho ad effetto. Ma ormai è padre, la sua “famiglia” è troppo grande e ricattabile e i muscoli, i motori e i giochini psicologici per cui è sempre risultato il più “cattivo del vialetto” non gli riescono più come in passato. Ed è proprio da quel passato (dagli eventi raccontati in Fast 5) fatto di rapine, sparatorie e inseguimenti impossibili che arriva Dante, uno a cui Toretto ha fatto dei torti senza nemmeno accorgersene. Il succo è che Dom ha cambiato la vita di Dante in peggio e per questo Dom ora non solo “deve morire”, ma deve proprio provare il massimo dolore possibile. Deve sentirsi defraudato, povero, solo e distrutto, dimostrando a mani basse che Dante è più veloce e furioso di lui. 

La “caccia a Toretto e soci” parte da Roma, dove Dante ha personalmente allestito la più grande e spettacolare trappola esplosiva di sempre, fregando anche gli scienziati pazzi del gruppo di Dom, Tej (Ludacris) e Ramsey (Nathalie Emmanuel). Una trappola che trasformerà agli occhi del mondo i nostri eroi in terroristi, ricercati con taglie da più zeri con il bancomat bloccato. Il tirchissimo Roman (Tyrese Gibson) proverà per la prima volta la sgradita sensazione di dover prestare dei soldi ai suoi amici, ora che sono tutti in bolletta. Il silenzioso Han (Sung Kang) forse dovrà fare a meno dei suoi inseparabili pacchetti di patatine. Anche il figlio di Toretto (Leo Abelo Perry) sarà un obiettivo dei piani di Dante, ma a soccorrerlo e proteggerlo in giro per il mondo interverrà un muscoloso quanto tenero zio Jacob (John Cena).


Il direttore dell'“agenzia” Mister Nessuno (Kurt Russell) risulta ancora scomparso, Hobbs (Dwayne Johnson) sembra altrove, ma Dom potrà avere il supporto di sua figlia Tess, novella “Miss Nessuno” (Brie Larson) e forse anche di un nuovo muscoloso quanto molto diffidente comandante (Alan Ritchson). Un insperato aiuto potrebbe arrivare pure dalla signora del crimine Cipher (Charlize Theron), ma solo dopo che Letty (Michelle Rodriguez) l'avrà trovata e finito di vendicarsi su di lei a cazzottoni per tutti i casini che ha procurato alla sua famiglia. Qualcuno sta allertando il super 007 Shaw (Jason Statham), ma forse la cavalleria non arriverà in tempo perché Dante picchia durissimo, ha contatti nelle sfere più alte, ha sottratto a Toretto la super arma “Occhio di Dio” e ora sta sempre dieci mosse avanti a tutti. Questa volta si gioca davvero pesante e forse correre a tutta velocità trascinando elicotteri o percorrendo dighe che esplodono in verticale non basterà per salvare la situazione. 


Lo specialista Louis Leterrier, regista di action come Danny The Dog, Transporter: Extreme e Now you see me: i maghi del crimine (ma anche di Incredibile Hulk con Norton e di Scontro tra titani) approda al franchise di Fast And Furious per una storia, ancora scritta da Justin Lin (da Tokyo Drift insieme a Diesel i veri plasmatori della saga), che negli ultimissimi giorni è stato confermato essere la “prima parte” di un trittico il cui capitolo due arriverà nel 2024 in sala. Una trilogia che secondo le intenzioni chiuderà tutti i rami narrativi aperti e culminerà con il passaggio di testimone a una nuova generazione di interpreti veloci e furiosi, sullo stile di Avengers: End Game. Dopo il film con i sottomarini e le super calamite (l’8) e il film in cui i nostri eroi andavano pure con un’auto munita di razzi nello spazio (il 9), sembrava che la saga dovesse percorrere ancora con più forza la via che la stava avvicinando, più che al cinema “action solido” di Frankenheimer, ai cartoni animati anni’80 come M.A.S.K. e G.I.Joe. Così di fatto avviene, anche se la mano esperta di Leterrier, al netto delle “doverose esagerazioni”, riesce ancora a mascherarlo, soprattutto in alcune macro-sequenze memorabili, come la lunga e magnifica “gita a Roma”. Qui a tratti si avverte ancora la “gravitas” di un inseguimento tra traffico e strade strette, incastonato tra cose che esplodono e si incendiano, dove un incidente può non risolversi per forza con qualche piccolo graffietto come nei film dei supereroi. È una pur piccolissima “dose di realismo”, ma che basta in molti casi per farci appassionare un po’ di più al destino del personaggio e renderceli per questo motivo anche più simpatici. Non è forse un caso se una delle parti più riuscite del film è il viaggio del “piccolo Toretto” Brian Jr al fianco dello zio Jacob: quasi un film a parte stile pellicola per ragazzi anni ‘80, dove si avverte un certo senso di fragilità e ignoto, al netto della simpatia e complicità che entrambi gli interpreti riescono a infondere nei loro personaggi. Davvero bravissimi sia John Cena che Perry.  Molto riuscito quanto esageratissimo è anche il villain di Momoa, Dante, il più cattivo di tutti i cattivi finora apparsi nella saga, ma anche il più divertente e sopra le righe, in grado con la sua simpatia ed eccentricità di rubare sempre la scena. Momoa sembra essersi divertito un mondo nell’interpretarlo e trasmette a pieno la carica incendiaria e anarchica di questo personaggio. Convincente anche Vin Diesel, il cui personaggio spesso qui si trova a percorrere vie solitarie, circondato da persone che nella maggior parte dei casi gli sono nemiche o hanno nei suoi confronti un comportamento ambiguo. È un Toretto che incassa colpi durissimi, si sente spesso davvero fragile e impotente, cerca di andare avanti più con la disperazione che con la strategia. È un Toretto per molti versi “cucito addosso” al Vin Diesel di oggi, che a monte di una carriera straordinaria ha anche avuto molti alti e bassi e forse è un po’ vittima dei suoi personaggi. Come accade in tutti gli ultimi film della serie Fast, per stare sulla scena tra un inseguimento e l’altro la maggior parte dei personaggi deve invece fare un po’ a gomitate, sperando di avere almeno qualche sequenza in grado di svilupparli con più precisione. È il classico problema di overbooking e Leterrier cerca di risolverlo in vari modi. “Pacchettizza” il gruppo di Roman, Taj, Ramsey e Han in un modo divertente, sempre pronti a sprigionarsi quasi in linea comica. Ma alcune delle sequenze action più belle riguardano proprio il loro gruppo, con menzione speciale per Han che guida a Roma con maestria una Alfa dei tempi d’oro. Il regista riesce alla grande anche nella non facile sfida di far interagire insieme le sue prime donne Letty con Chiper, impastate in una relazione forzata che da subito esplode come un continuo catfight. Sono entrambe sempre bellissime e tostissime. Poco spazio per la bella Brie Larson, del cui personaggio sabbiamo che sa menare alla grande e che ha una certa passione per le scarpe da dominatrice sexy piene di borchie. Pochissimo spazio per Statham, che compare e scompare più o meno nella stessa scena che già compariva nei titoli di coda di Hobbs & Shaw. È chiaro che sono personaggi che troveranno una migliore collocazione nella parte due o tre di questa mini-saga e un po’ dispiace, ma succedono davvero tante cose in questa pellicola, compresi alcuni colpi di scena inaspettati.

Il nuovo film di Leterrier scritto da Justin Lin incarna a pieno i dettami della serie Fast and Furious, nel suo essere un po’ tamarra e forse pure un po’ melodrammatica, genuinamente “semplice”, con zero pretese drammaturgiche e tanta azione matta, consapevole di essere divertente essenzialmente come stare a giocare con le macchinine sulla spiaggia quando avevamo otto anni. Un mega-fumettone, un ottovolante stilizzato e colorato costruito solo per divertire i bambinoni di tutte le età amanti delle macchinine. 


Il “playset di Roma” è esagerato e affascinante quanto il playset dello squalo-parco delle Hot-Wheels. John Cena e Jason Momoa sono enormi e divertenti come lo era Schwarzenegger negli anni ‘80. Vin Diesel continua a seguire la via dell’eroe malinconico come lo era Stallone negli anni ’80. Ci sono Charlize Theron, Michelle Rodriguez, Brie Larson nella stessa pellicola e sono tutte bellissime e agguerritissime. Ci sono ovviamente il meglio delle muscle car, delle macchine d’epoca e pure dei veicoli militari pieni di razzi e missili. 

La colonna sonora è sempre potente e adrenalinica, la fotografia calda vi porterà dalla città eterna a Rio passando per feste notturne, basi segrete sotterranee, dighe vertiginose e canyon. Fast X è il giocattolone che prometteva di essere, divertente per tutte le sue quasi due ore e trenta di durata. Ha un finale volutamente aperto verso un film che uscirà nel 2024 e forse questo un po’ può dispiacere, ma se amate questo genere di film e vi siete già visti 10 Fast And Furious (contando lo spin-off) non abbiate remore ad andare in sala e tornare un po’ bambini. 

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lunedì 22 maggio 2023

Le proprietà dei metalli: la nostra recensione del film di esordio al lungometraggio di Antonio Bigini su un bambino con il potere di piegare i metalli

Siamo negli anni ‘70, in un paesino di contadini del Appennino Tosco-Emiliano di nome Cava. Pietro (Martino Zaccara) è un ragazzino di una decina d’anni con uno strano dono per il quale tutti in paese lo definiscono “mago”, anche se lui vorrebbe solo essere guardato come un semplice bambino. Pietro maneggia come nessuno chiavi, cucciai e altri piccoli oggetti metallici,  percependolo intimamente la singolare natura di ogni materiale e saldatura. Ci sono oggetti caldi, morbidi e che emanano quasi uno strano colore verde. Altri sono frizzanti, colore blu intenso e al tatto simili ai gatti. Altri ancora sono freddi, bianchi ma anche un po’ neri, con l’odore del bruciato. Poi arriva la magia. Chiude gli occhi, c’è come una luce bianca che gli appare e Pietro riesce a piegare questi oggetti in un attimo, come l’illusionista israeliano Uri Geller. Il suo fratellino Simone lo adora e spera di riuscirci anche lui prima o poi. Gli amichetti lo stimolano a piegare più roba possibile a comando, ma Pietro non si sente “uno che esegue a comando”, come una specie di foca ammaestrata. Anzi, se “lo guardano” mentre ci prova lui non riesce a piegare un bel niente e la cosa è di fatto problematica. Il padre (Antonio Buil Pueyo) lavora nei campi e ha i suoi brutti impicci: la roba dei cucchiaini non lo tocca, basta che Pietro aiuti la nonna e per il resto il bambino è per lui del tutto invisibile. È più infastidito che interessato, quando uno strano professore americano dell’Università di Bologna, David (David Pasquesi) viene a cercare Pietro per studiare questa capacità di piegare gli oggetti. David è un uomo brizzolato di mezza età dallo sguardo curioso, calmo e gentile nell’ascoltare ogni sfumatura della vita di Pietro per cercare di capire il suo modo di pensare e vedere il mondo. Un po’ scienziato e un po’ psicologo, ma soprattutto un amico, David è qualcuno che lo guarda e ascolta senza indifferenza o come un mostro strano. Anche davanti a David però Pietro non piega un bel niente, gli serve almeno un minimo privacy come “mettersi di spalle”, ma i risultati sembrano comunque esserci. Un giorno però tutto cambia, dopo che i test sono così incoraggianti che si inizia a ventilare la possibilità che una commissione dia un premio a Pietro. Se riuscirà a dimostrare le sue doti in un esperimento condotto secondo parametri scientifici certi, Pietro riceverà 20.000 dollari: quasi 13 milioni di Lire. Per David si può fare, perché le capacità di Pietro sono subito misurabili grazie alla fisica e le giuste apparecchiature. Allo stesso modo anche il padre “di colpo” inizia così a interessarsi di Pietro. Gli fa i regali che non gli ha mai fatto prima, è sempre più presente nella sua vita e per la prima volta è come se lo vedesse davvero. Il dubbio del ragazzo è che lo “veda troppo” e solo per il premio. Più che contento, Pietro inizia a sentirsi “non compreso” in tutte le sue “qualità di bambino”, con la sua magia che inizia ad andare fuori controllo e “l’animo del metalli” che gli appare sempre più misterioso.


Durante gli anni '70 l’Italia di provincia era pervasa da storie incredibili che portavamo alla luce delle realtà misteriose quanto magiche. Ci sono stati gli UFO sulla Liguria, con tanti avvistamenti, prove documentate e testimonianze (la più famosa è quella di Fortunato Zanfretta) da guadagnarsi le prime pagine dei quotidiani e dei libri. Ci sono stati un po’ in tutta Italia anche i casi dei cosiddetti “mini - Geller”: ragazzini che si scoprivano con il potere di piegare il metallo, diventati effettivamente oggetto di studio di alcuni scienziati. Non sono ancora stati chiariti (e forse mai lo saranno) i motivi reali per cui questi fenomeni accadessero proprio lontano dalle grandi città, riguardando per lo più persone umili e bambini. Era come se, nel momento di maggiore progresso scientifico e “materialismo” del secolo, dovessero nascere “suggestivamente”, per contrasto, storie di magia e misteri legate a una realtà spirituale e fantastica sempre più repressa e negata, divenuta in senso lato “periferica”. Potremmo definirla una piccola rivincita del mondo dell’invisibile sul mondo “misurabile” e in fondo è questo il tema principale del film di Bigini. Un pezzo di ferro della cascina di Pietro, proveniente da qualcosa di “rotto”, può avere proprietà musicali se preso dal bambino e usato come l'improvvisata bacchetta di una batteria. Uno specchio può “giocare” con noi riflettendo la luce. Un anello di poco valore economico per un rigattiere può ricordare una persona scomparsa e amata. Lo scienziato David studia parimenti Pietro cercando di afferrare il segreto della sua forza dalla sua interiorità, leggendo oltre gli strumenti di misurazione come se il ragazzino fosse una specie di caldaia. In un cinema che oggi sempre più punta alla semplificazione dei temi e delle storie e alla geometria dei sentimenti, Bigini gioca con la complessità di significato, non ha paura a mettere in scena personaggi irrisolti che portano con sé più domande che certezze, sollecita l’immaginazione preservando il magico. È un cinema per molti versi vicino alla provincia fantastica più volte raccontata da Pupi Avati: un luogo bisognoso di relazioni umane quanto avaro di parole e gesti di affetto. Un luogo ruvido e fuori dal tempo, ma sempre romantico più che malinconico. Molto bravi tutti gli interpreti, tra cui si segnala il giovanissimo Martino Zaccara per la sua capacità espressiva sempre spontanea e convincente. Bella la ricostruzione storica di un paesino dell’Appennino tosco Emiliano di ormai quasi cinquanta anni fa, con la tv che trasmette le avventure di Sandokan e le cucine in cui scorrazzano le galline. Quasi da film horror la sequenza del test di Pietro, carica di geometrie rigide e sguardi crudeli: soffocante, come un piano sequenza “argentiano”. È un film che dopo la prima parte cambia pelle, ci porta in un mondo anche inquietante, dove c’è anche un pizzico di Fenomeni paranormali incontrollati e di Scanner, anche se rimangono sottotraccia, come piccola lettera d’amore al cinema di genere. 


Le proprietà dei metalli ama giocare con le suggestioni, farsi prima racconto di formazione per poi trovare i colori del thriller, quasi dribblare l’horror per poi andare sul dramma familiare, ma può essere inteso prima di tutto come un film sul cosiddetto “pensiero laterale”: un film che stimola a guardare il mondo nella sua totalità senza “ansie da etichettamento”, dove accettare di non poter comprendere ogni cosa è una vittoria e mai una sconfitta. Un buon film d’esordio per Bigini, forse con la necessità di trovare una migliore sintesi alla narrazione generale e una chiusura più efficace, magari riducendo di una decina di minuti il prodotto finito. Ma c’è davvero poco altro da segnalare per una pellicola che sa essere sempre intelligente e piena di cuore. 

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domenica 21 maggio 2023

Il respiro della foresta: la nostra recensione del suggestivo documentario di Jin Huaqing su quelle che furono le 10.000 donne del monastero buddista di Yarchen Garm, dal 22 al 24 maggio al cinema

Siamo nel 2017 e ci troviamo in Tibet, nei cento giorni più freddi dell’anno. È in questo periodo che le monache più forti del monastero Yarchen sono tenute a vivere a più stretto contatto con la montagna, in solitudine, sparpagliate in piccolissime casette di legno, in silenziosa meditazione accompagnate dal suono di piccoli tamburi e campanelle. Le loro casette non più grandi di tre metri sono disposte lungo il promontorio, che la sera si illumina tutto alla luce delle torce e delle candele come un’unica grande casa dalle molte finestre, illuminata sotto la neve e il gelo. Per cercare di ripararsi dal freddo nei momenti comuni di preghiera all’aperto, le monache sopra le tonache rosse si coprono di sacchi di plastica trasparente. Ci sono per tutti i controlli medici più tradizionali, ma anche le flebo e le medicine. Ci sono coperte più pesanti e abiti più coprenti, ma i 100 giorni rimangono un momento di spiritualità molto duro. Alcune delle più fragili muoiono e negli stessi sacchi di plastica sono disposte in una zona comune simile a un altare, dove il loro corpo può tornare alla natura divorato degli uccelli (ricordiamo questo rituale raccontato nel film Le otto montagne), mentre alcune consorelle assistono e pregano per loro. I cibi vengono portati di casetta in casetta attraverso secchi di metallo che arrivano dalla grande cucina centrale. Qui almeno trenta persone tutto il tempo impastano a mano tagliolini che vengono poi cotti in brodo acqua calda in  pentoloni grandi come delle vasche, riscaldati da una fumosa stanza sottostante che funge da enorme forno a legna. Ogni tanto questo piccolo popolo torna al monastero per le preghiere comuni nella grande sala centrale, accompagnate dai canti, gli strumenti  musicali e i tamburi rituali. Dopo le grandi cerimonie si mettono ordinatamente in fila davanti alle guide spirituali, per ricevere un incontro personale per raccontare come stanno vivendo la loro fede e il loro percorso di vita. C’è chi ringrazia, riporta i suoi problemi di salute e chiede conferma sul fatto che stia vivendo la sua fede nel modo più corretto. C’è chi è parecchio confusa sulla dottrina, chi troppo taciturna o chi solo un po’ spaesata, ma ognuna di loro viene spronata con delle caramelle e un sorriso nel fare meglio i compiti, credere in se stessa e nella fede e non scoraggiarsi. Ci sono le anziane che chiedono il permesso per ricevere un rosario o due per la loro famiglia: magari “otto” se ce ne sono, per aiutare più persone possibili. C’è chi vuole pregare per chi ha fatto loro del male e allontanare sentimenti come la rabbia e vendetta, chiedendo il permesso per realizzare dei riti di purificazione. Le guide assecondano, confortano, qualche volta bonariamente sgridano ma tengono con tutte le donne un dialogo intimo e affettuoso, dalla mattina alla sera. Finiti i 100 giorni dell’isolamento le casette in legno vengono piegate e smantellate, la città ritorna a vivere con i suoi riti e giungono le feste della primavera fatte di balli, canti, preghiere e decorazioni colorate. Le attività di studio si fanno più intense, con le monache più giovani che vengono messe davanti a una specie di microfono per raccontare a degli uditori la loro conoscenze e il loro entusiasmo nell’affrontare il loro cammino spirituale. C’è chi è impacciata e perde il filo, chi mastica troppe parole difficili e si incespica, chi parla troppo veloce o esagera con i dettagli: ma la voglia di apprendere è molta e nessuna vuole tornare a una casa che neanche più si ricorda com'era. Una casa che forse dopo l’arrivo della Cina non c’è più. Si sta avvicinando di nuovo il periodo dei 100 giorni ma le cose non saranno più come prima. Le attività del monastero, per legge, sono ora tenute a ridursi e le luci che illuminavano la montagna come una grande casa sono ora molte di meno.      


C’era una volta il Tibet e negli ultimi anni, per volere della Cina, sta scomparendo. Tra paesaggi naturali fuori dal tempo che hanno da sempre affascinato amanti della montagna, della cultura e dello studio delle religioni, compaiono oggi enormi cartelloni che inneggiano alla “nuova grande nazione che unita avanza”. I monasteri vengono letteralmente schiacciati dalle ruspe (non dissimile dalle “ruspe della modernità” del capolavoro Terra e Polvere di Rui Jiun Li), uno dopo l’altro, con le monache costrette forzosamente a essere “ricollocate nella società”, per lo più in attività agresti, con l’obbligo di sposarsi e “dimenticare”. È in questo mondo che c’è stato da sempre e oggi quasi non c’è più esiste anche il grande monastero di Yarchen, che ospitava al suo interno 10.000 monache, già ridotte per legge a meno di 4000. Un luogo misterioso tra la foresta e la montagna dove le donne arrivavano bambine con i capelli rasati, gli zainetti e le scarpine da ginnastica rosa per pregare Buddha e rimanervi fino alla fine, con il loro corpo ormai immobile offerto infine alla natura e agli uccelli (dei condor enormi), in un infinito riequilibrio tra uomo e natura. Il regista Jin Huaqing ha cercato per anni “le chiavi” per accedere a questo mondo e a queste persone (si dice dal 2014), per raccontarlo con il dovuto rispetto, umanità e amore delle tradizioni. Ma tristemente arriva con questa pellicola solo a testimoniarne gli ultimi giorni, quando le monache più giovani vengono costrette ad abbandonarlo di fatto decretandone lo smantellamento, con le più anziane che rimangono sempre più sole e isolate in questa grande città/università/santuario ormai vuoto, in attesa della definitiva demolizione o del “miracolo”: dell’intervento delle Nazioni Unite e dei Diritti Umani. È in questo senso interessante che la produzione della pellicola sia cinese, come a testimoniare oltre alla scomparsa di questo piccolo mondo antico anche la volontà di parte della stessa Cina di “fermarsi”: di ragionare su quale effettiva minaccia queste suore che vivono sulle montagne oggi davvero esercitino, per la loro unità nazionale. 

Il film di Jin Huaqing racconta le piccole storie di questo piccolo popolo di monache, non troppo diverso da quello che si trova in altri monasteri della zona che stanno vivendo uno stesso tipo di decimazione. Persone pacifiche che vivono tra paesaggi, suoni e riti davvero unici, affascinanti, quasi da favola. La grande cucina sembra uscire dalla Città Incantata di Hayao Miyazaki. La descrizione di una quotidianità scandita dal trascorrere delle stagioni riporta a Kim Ki-Duk e al suo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. C’è la maestosità delle più alte e celebrate montagne al mondo, ci sono i suoni della natura che si intrecciano ai corni e ai tamburi in un modo che sarebbe piaciuto anche a Battiato, grande estimatore di quei luoghi. Ci si affeziona presto alle piccole storie di queste donne sorridenti anche sotto il gelo e coperte di plastica. Donne profondamente umili nel loro raccontarsi, gentili nel prendersi cura le une delle altre fino alla fine, rispettose e in assoluta armonia con la natura che le circonda mentre lavorano la terra, pregano e allevano animali. L’esempio perfetto di come dovrebbe essere una comunità pacifica e virtuosa dei giorni nostri: non a caso un posto che amaramente andrà distrutto a breve.

Il film di Jin Huaqing ci porta in un mondo che molti occidentali non pensavano esistesse e che infatti potrebbe scomparire di colpo. Jin Huaqing confeziona un film bellissimo, fatto di luoghi, persone, suoni e colori unici. Una pellicola realizzata con tanto amore e impegno civile, in grado di far riflettere, commuovere e magari, tra tanta bellezza, trovare l’armonia interiore. 

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venerdì 19 maggio 2023

L’amore secondo Dalva: la nostra recensione del film drammatico diretto da Emmanuelle Nicot, ispirato a una tragica storia vera, con protagonista una straordinaria Zelda Samson

È notte fonda quando irrompono nella sua casa sfondando la porta. Dalva (Zelda Samson) urla, chiama Jacques (Jean-Louis Coulloc’h) ma i poliziotti lo portano via, mentre lei si ritrova prima in strada e poi su un’altra auto senza capire cosa stia succedendo, diretta verso un ospedale. Una donna le chiede di togliersi i vestiti e poi di riporli in buste di plastica. Quando la ragazza è solo coperta da un camice bianco la invita ad allargare le gambe come fanno le rane: un esame ginecologico. Dalva continua a chiedere a tutti cosa sia successo di tanto grave, mentre il giorno dopo viene accompagnata in una specie di casa famiglia per adolescenti, sotto la supervisione e custodia di un assistente sociale severo e taciturno di nome Jayden (Alexis Manenti). La sua nuova compagna di stanza, Samia (Fanta Giurassy), è quasi inorridita per gli abiti troppo appariscenti e sensuali e per il trucco e make-up molto vistoso di Dalva, che quasi le danno venti anni in più. Samia la definisce una “Barbie”, ma gli altri ragazzi e ragazze sono molto meno teneri e la trattano alla stregua di una prostituta. Quei vestiti, che tanto piacevano a Jacques, sono inadatti anche per la nuova scuola dove Dalva dovrà andare, così Jayden si preoccupa di andare con lei a comprare abiti più consoni alla sua età. Sono giorni confusi e difficili, Dalva cerca sempre di trovare qualche modo parlare con Jacques, anche fuggendo dalla finestra della sua stanza con la classica corda fatta di lenzuoli. Ma il suo amore le è costantemente negato: dicono che nel posto dove Jacques si trova è escluso che lei possa entrare senza una autorizzazione del giudice, che è ancora prematuro chiedere. È qualcosa di davvero incomprensibile per Dalva, perché Jacques non si era mai comportato male con lei, lo ricambiava in pieno in tutto il suo affetto e la loro relazione si era sviluppata in modo naturale, erano felici e appagati. Lei con a fianco Jacques da bambina era già da tempo diventata una donna adulta e non aveva alcun senso che dovesse ancora andare a scuola o essere protetta da qualcuno. Perché si trovava lì, tra i banchi di scuola e persone che la insultavano, e non insieme all’uomo che amava ed era suo padre? 


La regista Emanuelle Nicot scrive un film basato su una storia vera particolarmente complessa quanto tragica, in cui la parola “amore” assume i tratti più oscuri e confusivi. Il taglio è quasi documentaristico, asciutto e quasi minimale, crudo nella messa in scena, ma dai dialoghi di Dalva emerge tutta l’inquietudine e la sensualità dei lavori più controversi dei collaboratori alla sceneggiatura: Jacques Akchoti autore di Titane e Bulle Decarpentries, autore di Carnivores. Dalva parla di una ragazzina inconsapevole di essere stata manipolata e abusata da un genitore “che le vuole bene” dopo un rapimento. È una ragazza il cui equilibrio psicologico negli anni è sempre più stato “messo alla prova” da ricatti affettivi fino quasi a riplasmarla nel corpo e nella mente, violandone del tutto l’innocenza. Dalva è al contempo una bambina e una donna, una ragazza fragile e insicura quanto quasi una predatrice sessuale. Perennemente fuori posto, perennemente derisa dal mondo. La straordinaria Zelda Samson riesce perfettamente a cogliere questo dualismo, dando vita a un personaggio nel corpo e anima in continua “mutazione e sottrazione” , simile per molti versi alla Isabelle Fuhrman di Orphan, celebre thriller di Jaume Collet-Serra. Dalva “è così” perché non le è stato insegnato un modo diverso di guadare all’amore e ricerca per il suo comportamento solo una approvazione esterna: quella un padre-carnefice che Jean-Louis Coulloc’h rende al contempo gelido e assente, quanto incapace di alzare anche solo gli occhi verso la figlia. Al di fuori di questa figura, che la Nicot tiene quanto più possibile lontano dalla trama, per non dargli troppa forza e parlarci di Dalva e non del suo aguzzino, la protagonista vive la sua vita quotidiana e giocoforza affettiva come sulle montagne russe, privata di ogni punto di riferimento e alla ricerca di nuove persone importanti nella sua vita verso le quali non sa più se è giusto o meno “concedersi”. Farla ritornare “all’innocenza perduta” è un procedimento difficile e frustrante anche perché parte da subito nel modo più traumatico possibile: la necessità di “smontare l’immagine adultizzata” impostale dal genitore da anni. È idealmente come se fosse richiesto a una ragazza di 28 anni di tornare a fare la scuola media con dei 13enni ed è percepito come qualcosa di tragico, ingiusto. Ed è un lavoro che nel film come nella quotidianità può portare a risultati positivi solo dopo tanto tempo, grazie alla volontà delle ragazze quanto alla capacità degli operatori di settore (qui rappresentati  dal personaggio del bravo Jayden di Alexis Manenti) e dal sostegno degli altri ragazzi delle case famiglia (come la Samia di Fanta Giurassy). Il film della Nicot descrive al meglio come si sviluppano le dinamiche di gruppo in parallelo al percorso di sostegno, puntando a mettere in scena personaggi sempre credibili e dall’evoluzione non banale, anche in relazione alla natura complessa di questi contesti sul piano umano quanto “meramente burocratico.” Una “burocrazia degli affetti” a monte della “uccisione dell’innocenza” (negata e quindi “non rappresentata sullo schermo”) che in alcuni frangenti richiama L’Enfant-Una storia d’amore, dei fratelli Dardenne (che ultimamente sul blog abbiamo “citato” con piacere anche nella recensione di Ritorno A Seoul).


Emanuelle Nicot dirige un film intenso su uno degli argomenti più complessi e crudeli che si possano immaginare, la psicologia di una persona abusata. Lo fa con garbo, con un taglio quasi documentaristico e con interpreti molto bravi, descrivendo un percorso di sostegno credibile quanto onesto. La pellicola scorre veloce senza momenti di intoppo, beneficiando anche di dialoghi particolarmente forti quando ben contestualizzati. Ma in tutto questo ad emergere più di ogni altra cosa è Zelda Samson, che prende un ruolo difficilissimo e lo indossa con estrema eleganza e umanità, come solo le migliori attrici possono fare. La sua Dalva commuove e conquista dal primo all’ultimo minuto, di metamorfosi in metamorfosi, alla ricerca di carezze che non sa più quanto sia opportuno dare o ricevere. Siamo già sicuri che sentiremo molto parlare di Zelda Samson in futuro. 

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giovedì 18 maggio 2023

Ritorno a Seoul: la nostra recensione del film di Davy Chou sui misteriosi legami tra i figli e i loro genitori biologici

A venticinque anni Freddie (Ji-Min Park), senza dire niente alla sua famiglia adottiva lascia la Francia e prende con la scusa di un “disguido dell’aeroporto” un volo per la Corea del Sud, alla ricerca dei suoi genitori naturali. È una ragazza allegra e intraprendente, che ama fare festa e bere qualche bicchiere. Si ritrova in una Seoul in cui risuonano delle canzoni che lei non ha mai sentito ma che sembrano familiari. Tra persone che assomigliano più a lei che agli europei, ma con hanno abitudini diversissime e pure strane agli occhi degli occidentali. Trova presto nella albergatrice Tena (Guka Han) una confidente e amica, qualcuna che riesce almeno all’inizio a comprendere il suo francese ammantato dalle prime parole di coreano. Le viene consigliato di provare a cercare i genitori a un programma tv tipo Chi l’ha visto, ma Freddie decide prima di affrontare il lento, complesso e frustrante sistema burocratico della Hammond, la società che si è occupata dell'adozione a distanza. La ragazza può inoltrare tramite l’agenzia delle comunicazioni ai suoi genitori naturali, ma può farlo solo con tempistiche particolarmente lunghe tra le varie richieste, con la spada di Damocle che se i genitori si rifiutano non potrà più contattarli per non lederne la privacy. Non c’è per lei alcuna possibilità di un altro tipo di contatto con loro ed è impossibile chiederne l’indirizzo. Scopre che i suoi genitori si sono separati e quindi vivono ora in luoghi diversi. Il padre (Oh Kwang-rok, visto in Mr. Vendetta, Old Boy e altri celebri film coreani) risponde subito alla chiamata e una Freddie di colpo riluttante, accompagnata da Tena, parte per il piccolo villaggio di pescatori dove incontra tutta la sua famiglia. Il padre all’inizio è timido e ossequioso, ci tiene a comprarle qualcosa in un mercatino, si scusa mille volte di averla dovuta lasciare perché era troppo giovane, le fa conoscere i nonni e ci tiene che rimanga a dormire almeno qualche giorno da lui. Quando Tena non può restare, c’è un’insegnante di francese che può tradurre per lei anche a casa del padre. Sono passate poche ore e già il padre cambia registro e parla della necessità che lei torni a vivere lì, che sposi un ragazzo coreano, che impari meglio la lingua. Quando non sono insieme, il padre le invia al telefono infiniti messaggi per lei ancora incomprensibili, spesso scritti mentre è ubriaco. In breve tempo la ragazza si sente soffocare e torna a Seoul, alla ricerca della madre che ancora non risponde alle sue chiamate tramite la Hammond. Ci starà per tanto tempo a Seoul, diventando prima tatuatrice e poi accompagnatrice di lusso, fino a diventare venditrice d’armi per conto di una società francese. Poi un giorno la madre biologica deciderà di farsi infine viva, ma nel frattempo Freddie si sente “cambiata”. È come se riconoscesse sempre più nel suo carattere i tratti quasi “prepotenti” del padre biologico, compresa la sua attitudine al bere. È come se nella prolungata assenza di risposte da parte della madre inizi ad avvertire in lei una sorta di cinismo e assenza di empatia. 


Viaggio a Seul è stato premiato nel 2022 a Cannes nella sezione Un Certan Reguard e ora giunge finalmente in Italia dopo aver conseguito molti riconoscimenti internazionali. Il regista Franco-Cambogiano Davy Chou si è ispirato per la realizzazione della pellicola al suo documentario del 2011, Golden Slumbers, dove accompagnava una sua amica francese di origini coreane in un viaggio molto simile a quello della protagonista Freddie, tra continue barriere linguistiche, culturali e sociali da superare, alla ricerca di “radici” misteriose quanto ritenute da lei importanti per la sua crescita personale. “Adozione” è una parola il cui significato più comune è “scelta”, che nel linguaggio giuridico dall’ottocento a oggi è associata alla pratica di adottare dei bambini senza genitori, ma che fin dai tempi dei romani suggellava anche il legame tra persone adulte e coetanee dello stesso sesso. Il termine adozione nel linguaggio della botanica assume anche la suggestiva sfumatura di “innesto”, indicando in questo  il procedimento mediante il quale si può creare un legame vitale nuovo tra due piante, congiungendole sulla base di una unica radice. Giocando con questo “termine botanico”, possiamo dire che anche i bambini adottati possiedano di fatto “due radici”: quella prima radice originaria dalla quale solo stati separati con dolore a un certo momento della loro vita e una ulteriore, quella con cui si legano alla nuova famiglia in un percorso del tutto nuovo e a volte anche “diversissimo” nel caso delle adozioni internazionali. Quel “primo pezzettino” di vita legato alla famiglia di origine, secondo molte ricerche basate su testimonianze dirette, costituisce un territorio di indagine scientifica e sociale oggi particolarmente affascinante e sorprendente. Secondo studi i bambini ricordano delle melodie ascoltate da piccolissimi come hanno familiarità con luoghi e sapori mai visti. Qualche volta possiedono nel loro bagaglio genetico, oltre agli occhi e alla carnagione, anche il modo di sorridere dei genitori biologici, addirittura alcune sfumature caratteriali. Sono “tratti unici” che quando non si ricavano nella famiglia adottiva spingono una certa percentuale di chi è stato adottato, specie attraverso i canali internazionali (in genere dopo l’adolescenza), a ricercare le loro “prime radici”, in viaggi spesso organizzati dagli stessi enti di adozioni a cui partecipano anche i genitori adottivi (nella prospettiva di “allargare la loro storia comune” con esperienze condivise). Qualche volta, come nel caso del documentario del 2011 del regista che ha ispirato il film, sono invece viaggi realizzati in autonomia o con amici, magari perché i ragazzi temono di ferire i sentimenti degli attuali genitori per questa “curiosità” o vogliono (magari anche in contrasto con gli adottivi ma non solo) dare un senso diverso e più autonomo alla loro storia personale. Il tutto nel rispetto delle regole sul rapporto tra genitori biologici e figli in vigore nei vari ordinamenti, che qualche volta rendono le ricerche quasi impossibili. Le storie legate a questi viaggi hanno quindi offerto spesso molto materiale di studio interessante per psicologi e sociologi (ecc.) come per novelli genitori  sui molti misteri, generici e non, legati alle origini. Nel film sembra di assistere a una specie di “ri-costruzione del carattere” della protagonista (tra conscio e inconscio), sulla base della “percezione” di assomigliare maggiormente (o non voler assomigliare per niente) ai genitori biologici. È un caos emotivo che il regista riesce a rendere al meglio sulla base della sua esperienza diretta del 2011 quanto grazie all'ottima interpretazione dell’esordiente Ji-Min Park, un'attrice con un consolidato passato nella musica che dona a Freddie un animo particolarmente complesso, ribelle ed estroverso. Il taglio della regia è quasi documentaristico, con una progressione lenta che guarda alla quotidianità e una particolare analisi dei dettagli burocratici legati alle “regole di incontro” tra genitori e figli. Siamo molto vicini al cinema sociale dei fratelli Dardenne, al punto che si può consigliare la visione di questo Ritorno a Seoul in abbinato a Il ragazzo con la bicicletta del 2011 per scoprire lo stesso senso di ribellione e smarrimento di Freddie.


Ritorno a Seoul è un film crudo e complesso sui legami famigliari “negati”, dove vanno in scena le mille difficoltà e traumi legati alla volontà di ricostruire le radici più intime delle persone. È un film sull'identità molto attento alla sviluppo emotivo dei personaggi, documentaristico e privo di voli pindarici, spesso crudo e malinconico. Da un ulteriore punto di vista, il volto e l’interpretazione di Ji-Min Park (quanto la biografia di Chou), ci parlano in senso lato (specie nella seconda parte) anche di una Corea del Sud “per adozione” sempre più vicina all’Occidente, ma ancora coinvolta nella fruttuosa (pur difficile) ricerca di “linguaggi comuni” per conciliare tradizione e modernità. Un percorso che oggi è sempre più veicolato proprio dall’arte cinematografica (e dalle serie tv in streaming) che nei prossimi anni potrebbe portare a ulteriori linee di avvicinamento. 

Il film di Davy Chou è una pellicola profonda e sfaccettata che grazie a un'ottima interprete riesce a offrire uno squarcio nella complessa interiorità dei ragazzi adottati in cerca di radici. È un film indirizzato a chi ama il bel cinema ma anche agli operatori sociali e a chi è intenzionato a intraprendere un percorso di adozione, ricco di spunti di riflessione interessanti, basati su esperienze dirette raccolte anche dallo stesso regista. 

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lunedì 15 maggio 2023

Book Club - il capitolo successivo : la nostra recensione della nuova commedia di Bill Holderman con Jane Fonda e Diane Keaton, in cui le amiche del Book Club si fanno un bel giro in Italia per un addio al nubilato


Il club del libro della casalinga Diane (Diane Keaton), dell’imprenditrice Vivian (Jane Fonda), del giudice Sharon (Candice Bergman) e della cuoca Carol (Mary Steenburgen) copie 45 anni. 

Le ragazze in occasione del quarantesimo anno del piccolo club avevano scoperto insieme, per caso, la lettura trasgressiva delle Cinquanta sfumature di Grigio e seguiti. Seguendo nella vita reale le suggestioni dei personaggi di E.L.James si erano sentite di nuovo “sfrontate”, attraenti, complici e amiche. Dopo l’era covid e il triste confinamento sociale (che ha ritardato anche la produzione della pellicola, inizialmente prevista per il 2019) gli incontri del gruppo dovevano infine tornare ad essere più calorosi, andare oltre la telecamera di Zoom, magari condividendo una grande avventura come suggerito dal nuovo libro del mese che le 4 stanno scoprendo: L’Alchimista di Paolo Coelho. La meta prescelta è l’Italia, l’occasione l’addio al celibato di Viv che sta per convolare a nozze con Arthur (Don Johnson). Sembra difficile smuovere le ragazze da casa, tra mariti troppo spaventati o timorosi di restare da soli (il Bruce ipocondriaco di Craig T. Nelson), gatti e traslochi dei figli vari, ma alla fine la quadra si trova e tutte e quattro si trovano in volo, verso un luogo non troppo diverso dalla favola cinematografica di Vacanze Romane. Prima tappa, la capitale d’Italia: luogo di gente cordiale che canta e sorride, monumenti da sogno da visitare eccezionalmente senza fare coda, negozietti in cui trovare abiti di alta moda e commessi poliglotti, tramonti che si riflettono sul Tevere e ristoranti dove degustare vini all’aperto, magari facendosi ritrarre in un quarto da un giovane artista di strada compreso nel menù. Un artista che poi propone: “se vi piace Roma, adorerete Venezia, il vero tesoro dell’Italia”. Anche Coelho nel libro parla della scoperta di un tesoro e il giorno dopo il gruppo è già in viaggio sui treni Frecciarossa con il massimo di comfort in direzione del ponte dei sospiri, pronto a varcare le acque della laguna sulle gondole, incontrare vecchie fiamme di gioventù diventate ora cuochi famosi e con una passione quasi erotica nell’antica arte di tirare la sfoglia della pasta a mano (Vincent Riotta). Lì le amiche possono guardare i fuochi d’artificio ripensando all’amicizia, confrontarsi sui “problemi di casa” e sul fatto che Diane si è portata dietro le ceneri del defunto marito, magari concedersi un’avventura clandestina con un misterioso sconosciuto professore (Hugh  Quarshie) che canta malissimo al Karaoke e poi ripartire ancora, in direzione della Toscana. Non è che tutto vada bene, ci sono piccoli imprevisti e uomini troppo focosi ovunque, ma a vegliare su di loro ci sono le forze dell’ordine italiche, con un comandante gentile e dotato di un fascino di altri tempi (Giancarlo Giannini). 


Di nuovo per la regia di Bill Holderman, il club del libro torna gioiosamente a riunirsi, con già la prospettiva di farlo ancora almeno per un terzo film, secondo alcune indiscrezioni ambientando nel festival degli “spiriti liberi” del Burning Man. Meta invece di questo secondo viaggio è l’Italia, luogo ideale per gustare buon cibo, visitare tutte le principali piazze, ristoranti, hotel in perfette giornate da cartolina, riflettere sul passato e sul futuro, piangere e divertirsi insieme come solo sanno fare le buone amiche. Si parla di figli diventati ormai troppo grandi, della difficoltà di innamorarsi a 70 anni anche se oggi sono considerati “i nuovi 40”. Si parla di treni persi e corsi di cucina fatti in gioventù che potevano cambiare la vita, si parla anche di come superare i lutti e concedersi di sorridere ancora. Poi ovviamente il tutto accade nella buffissima e surreale “Italia vista dai turisti”, un luogo misterioso quanto per il sottoscritto divertentissimo. 

Se dovessi sintetizzare in una parola quella che per me è la percezione del nostro paese da parte degli stranieri, userei senza remore: “lampredotto”. Già mi immagino una selva di “tu quoque, lambredotto” o “lampredotto, chi era costui?” e quindi contestualizzo. Dan Brown, saga del professor Langdon, libro dal titolo: Inferno. Prime pagine, descrizione della Firenze dei giorni nostri alle prime luci del giorno: “ovunque si respira il profumo dell’espresso e del lampredotto”. Il lampredotto per inciso è una particolare trippa che si ricava da solo una componente dello stomaco del bovino, l’abomaso, conosciuto regionalmente anche come “lampredotto”. È un discreto esponente dello Street food fiorentino, ma vi sfido a trovare un italiano medio a inzuppare un “espresso” nella trippa alle otto di mattina. Se non nell’immaginazione di Dan Brown, che forse sotto il suo hotel a nove stelle aveva un “tipico carinissimo furgoncino di trippe”, ha fatto “uno più uno” e concepito il teorema del caffè con trippa. Ogni opera che racconta l’Italia vista dall’estero è tragicomicamente così: una serie di deduzioni eccentriche innervate di luoghi di interesse della proloco a base di pasta, pizza, mandolino, Papa e Pavarotti. Il “weird” che incontra il “tipico da cartolina” e fa cortocircuito. Roba che si può trovare in proporzioni quasi devastanti in film come Oggi sposi, niente sesso o Letters From Juliet e ovviamente qui, in Book Club. Prepariamoci quindi ad assistere a innocue avventure vacanziere e momenti di amicizia e solidarietà femminile perfettamente in linea al film precedente accompagnati da degustazioni, shopping e visite d’arte da depliant, il tutto musicalmente sottolineato dall’imprescindibile  Mambo Italiano di Bette Midler, Felicità di Albano e Romina e Volare di Mudugno. Poi arriva il momento in cui Diane Keaton viene coinvolta su una terrazza di Venezia in una festa privata “improvvisata” quanto il matrimonio della Ferragni, a fare il karaoke di Gloria di Umberto Tozzi dopo aver bevuto un “”tipico limoncello locale”” (che a Venezia è quasi una bestemmia)… e io mi trovo in sala a urlare “Lampredotto”. Book Club 2 è pieno di magnifici “momenti lampredotto”, fin dal momento in cui le quattro protagoniste arrivano alla stazione ferroviaria di Roma, che in realtà “”per la magia del cinema”” assomiglia tantissimo alla stazione di Venezia Santa Lucia. Tutti gli autoctoni girano in Vespa o su una 500 o su Frecciarossa, fanno il dribbling tra il product placement e le suggestioni italiche più felliniane, le forze dell’ordine sono quelle di Pane, Amore e Fantasia con un Giancarlo Giannini che si presta benissimo a “vestire panni e divisa” di Vittorio De Sica “da solo”, unico poliziotto in campo che ci si trovi a Roma, Firenze o Venezia, come fosse l’unico comandante sul territorio nazionale. Alla bisogna pure comandante della polizia ferroviaria, vigile, elicotterista.  Per le quattro protagoniste è tutto un incredibile parco giochi, un po’ sinistramente rovinato dai classici problemi nostri locali in fatto di: trasporti poco sicuri, auto a noleggio che si perdono nel nulla per navigatori non aggiornati, forze dell’ordine “medie” che non spiccicano una sola parola in inglese, focosi latin lover un po’ invadenti dal vivo come sui social, disorganizzazione negli eventi. E poi lampredotti come se piovessero, con Don Johnson che in più scene sembra sostituirsi  a Tullio Solenghi, la “giacca della polizia di Giannini” utilizzata dalla Bergman in un “lambredotto quasi fantascientifico”. Da Andy Garcia ci si aspetterebbe a un certo punto una cover di Gelato al cioccolato di Pupo/Margioglio con accompagnamento di un'orchestra dal vivo ma purtroppo per un pelo non succede e manca un po’ la ciliegina sulla torta.


Come successo a Rildey Scott e Russell Crowe in Un’ottima annata, dove la lavorazione di un film in Provenza si è trasformata in un viaggio enogastronomico infinito quanto il tour psichedelico di Coppola per Apocalypse Now, tutti gli attori-vacanzieri di Book Club 2 sembrano essersi divertiti un sacco sul set e questa leggerezza ci viene trasmessa bene, ci sentiamo parte della festa anche se da Italiani magari un’Italia così non la abbiamo mai vista. Al secondo capitolo delle loro avventure, la Keaton, la Fonda, la Bergman e la Steenburger sono ancora più affiatata e divertite, alla maniera delle protagonista di Sex and The City nel loro ultimo film parimenti “vacanziero”. 

Book Club - Il capitolo successivo è un film sulla terza età colorato, divertente e con una punta di malinconia, indirizzato a un pubblico femminile in cerca di una pellicola leggerissima e frizzantina, che in qualche modo può ritrovarsi nelle esperienze, umorismo e avventure delle protagoniste. Il tipo di umorismo è simile agli ultimi Sex and The city

Se avete amato il primo film, questo vi divertirà altrettanto, proponendo alcune variazioni alla formula ma lo stesso ritmo e complicità tra le interpreti. Se siete nuovi del franchise è consigliabile partire con la visione del primo film, essendo molti i collegamenti tra le due pellicole dati per scontati. Vade retro se la comicità della precedente pellicola non vi ha convinto e se in genere l’Italia vista dai turisti è qualcosa per voi di troppo avanguardista. Se invece questa “Italia turistica stranissima” vi affascina, preparatevi a vedere al cinema pure la Roma di Fast X, la  Napoli di Equalizer 3 e il Vaticano de L’Esorcista del Papa. Giannini che quasi reinterpreta De Sica come sornione uomo delle forze dell’ordine italiche ci rimanda affettuosamente a un cinema leggero e sognante che non c’è più, ma che qualche “turista straniero” potrebbe oggi voler rivedere. Speriamo che il cinema italiano dei “drammi da tinello” lasci quindi maggiore spazio a produzioni di “lampredotto”, amore e fantasia. 

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domenica 14 maggio 2023

Peter Von Kant: la nostra recensione di un film ironico quanto drammatico liberamente ispirato alle opere e alla personalità di Rainer Werner Fassbinder

Siamo nella Colonia degli anni ‘70, in un appartamento del centro dalle pareti rosse, arredato con arazzi rinascimentali, poster cinematografici e mobili eccentrici, dove risuonano canzoni francesi deprimenti che raccontano di amori traditi e amanti ingrati.  Il corpulento e baffuto Peter Von Kant (Denis Menochet), considerato un autentico genio della macchina da presa, si crogiola lì per la stragrande parte del tempo, a bere gin tonic, fumare e deprimersi. Si strugge per il destino infausto che ha allontanato da lui il suo ultimo grande ma “ampiamente sopravvalutato” amore, insultando in malo modo ogni essere umano che si avvicini a lui oltre tre metri. Come il suo inappuntabile cameriere/assistente/tuttofare Karl (Stefan Crepon), un giovane ometto baffuto che veste maglioni con ricami geometrici e fa fronte, con risoluzione e ossequioso silenzio, a ogni sua sempre sgarbata, perentoria quanto ripetuta richiesta. Verso mezzogiorno il grande artista si alza dal suo lettone rosa e cerca disperatamente di ritornare al successo dopo un periodo di “stanca”, inseguendo con lettere e comunicati vari produttori amici e attrici come Romy Shneider, rimaneggiando vecchie sceneggiature o riguardando i suoi vecchi successi su pellicola nella stanza che funge da studio e da cinema. In genere a chiamarlo al telefono è però solo la madre Rosemarie (Hanna Schygulla). Poi all’improvviso l’attrice che più di tutte gli è vicina e amata, Sidonie (Isabelle Adjani), anche se ovviamente pure lei è “ingrata e sopravvalutata”, si presenta a casa di Peter con un ragazzo sulla ventina, Amir (Khalil Ben Gharbia). È aitante e riccioluto, dal fascino mediorientale (quasi “pasolinano”) e gli occhi scuri. Bellissimo e misterioso, con un passato tragico e un sorriso sognante, zero esperienza da attore e tanta voglia di viaggiare e amare: la persona perfetta di cui innamorarsi e al contempo “rimodellare la vita attraverso l’arte”, aggrappandosi a tanto dolore, purezza e ricerca di un rifugio sicuro. Le cose sono così coinvolgenti e fulminanti che Peter sfoggia per lui tanti occhi languidi e le sue migliori giacchette in pelle. In breve tempo nell’appartamento appaiono su tutti i muri foto gigantesche del ragazzo e sue “reinterpretazioni artistiche, come un quadro sul celebre Martirio di San Sebastiano, con Amir che vi compare santo, nudo e ferito nel costato. È per Peter decisamente amore, con Karl che assiste a questa “fase felice” del suo principale con un pizzico di rammarico, essendo tenuto ad assistere pure alle effusioni dei due innamorati per poter elargire loro bicchieri di champagne a raffica. In breve tempo Amir diventa famosissimo come attore e la carriera di Peter riparte, ma la coppia presto non funziona. Il ragazzo lo comanda a bacchetta, diserta le lezioni di recitazione, è sempre “impegnato e altrove” e forse ha pure qualcun altro. Ferito e sempre più iracondo con il resto del mondo, Peter si appresta a celebrare il suo compleanno. 


Arriva al cinema uno dei più riusciti e divertenti film di Francois Ozon, la seconda opera che il cineasta francese dedica all’adattamento di un lavoro del grande Rainer Werner Fassbinder. Un autore che è stato scrittore, drammaturgo e come regista uno dei massimi esponenti del “nuovo cinema tedesco” degli anni '70/'80. Peter Von Kant è liberamente tratto da Le lacrime amare di Petra Von Kant e mette al centro della scena un buffo, divertente e malinconico Denis Menochet che a tutti gli effetti ricorda tantissimo (e affettuosamente) Fassbinder stesso: per stazza, pose, abbigliamento e indole vulcanica quanto “ruvida”. Un uomo geniale e sensibile quanto tragicamente incapace di amare qualcuno, senza poterlo idealizzare e infine “possedere come un oggetto”. Un uomo che si sente solo anche quando circondato dai suoi affetti più cari, perché costantemente travolto da passioni passeggere quanto sfrenate, nei confronti di partner troppo giovani, bellissimi e impossibili da “contenere e addomesticare” come lui (inopinatamente) vorrebbe. Genio artistico e quotidiana sregolatezza che nel film spesso si confondono e sovrappongono, in un “one man show tragicomico”, con Peter assoluto primo attore e “unico sovrano del suo appartamento”, che cerca costantemente di rubare i riflettori agli altri personaggi sulla scena, in modo eccentrico e quasi dispettoso. L’arredo e lo stile dell’appartamento dove è ambientata la storia, che uno spettatore giovane potrebbe “”scambiare”” benissimo per lo scenario di un film di Wes Anderson, è di fatto per Peter tutto il suo mondo interiore, dove tutti gli altri sono ospiti, servitori o intrusi. Tutti ben etichettabili e funzionali alle sue aspettative. Il suo assistente tuttofare Karl, interpretato dall’ottimo Stefan Crepon, è un personaggio che per le complicate circostanze in cui si trova a lavorare preferisce essere “muto”. Si muove tra le stanze dell’appartamento-scenario con la grazia e compostezza di un mimo, con lo sguardo sempre attento e lo stile inappuntabile, lasciando trasparire dalle sue azioni (più precise o frettolose), quale sia il suo reale umore del momento. Finezze che l’occhio “passionale e distratto” di Peter non è mai in grado di cogliere, anche quando il disappunto è più evidente, con la posta che viene buttata in malo modo sul tavolo o le bottiglie servite riverse di lato su piatti d’argento. Amir, per contrasto, in quello stesso mondo è un personaggio totalmente libero di esprimersi, anche avversando in tutto il volere di Peter e facendo “i capricci”. È però un personaggio idealizzato, le cui asprezze di carattere sono accettabili in quanto fasi di un già accettato lungo processo di “arrivo all’idealizzazione”. Consegue che non c’è in Peter un vero interesse per le passioni e il carattere di Amir, che viene inteso più come una tela bianca da dipingere o marmo grezzo da scolpire. Quando Amir si ritrae a Peter, di fatto il regista sembra soffrirne in quanto perdita/furto di una sua espressione artistica. Amir può esercitare così il suo potere su Peter, magari facendo il bullo o girando nudo per casa. Sodonie è un personaggio percepito “non più di proprietà di Peter” e questo apre a dinamiche da principio strettamente utilitaristiche. Questa è se vogliamo la “base emotiva”, perché tutti i personaggi nel corso dell’opera evolvono, mettono in dubbio il loro punto di vista e diventano sempre più autonomi: alla ricerca di relazioni più (impossibilmente) paritarie. Ozon in Peter Von Kant usa un approccio quasi psicanalitico nella rappresentazione di ogni personaggio, molto sfaccettato ma al contempo sempre godibile, che apre a sfumature comiche quanto drammatiche. Allo spettacolo, grazie alle ottime interpretazioni e mimica di tutti gli attori, si accompagna anche una particolare leggerezza narrativa e un ritmo sempre interessante, che rimanda la sensazione positiva di essere arrivati ai titoli di coda quasi troppo in fretta: come se si volesse passare ancora un po’ di tempo con tutti i personaggi. 


Peter Von Kant è una commedia godibile e ricca di interessanti sfumature. I personaggi grazie al lavoro di un ottimo cast di interpreti sono divertenti ma al contempo sanno diventare profondi, gioiosamente complicati e umani. La regia di Ozon è come sempre impeccabile e questo film possiamo di sicuro annoverarlo tra i suoi lavori più riusciti. Per i fan di Ozon e per tutti quelli che cercano un film divertente e ben recitato da gustare in sala. 

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sabato 13 maggio 2023

Guardiani della galassia Vol.3: la nostra recensione del nuovo capitolo della dissacrante saga super-eroistica di James Gunn

Ci troviamo sulla scalcinata “Ovunque”, la base spaziale costruita all’intero della enorme testa recisa di un essere Celestiale, dove i guardiani della galassia hanno inaugurato la loro nuova base (è avvenuto nell’Holiday Special su Disney+). Sembra una giornata come tante, in cui lo stralunato Kraglin (Sean Gunn, fratello del regista) cerca di padroneggiare senza successo la freccia di Yondu (Michael Rooker), mentre la cagnolina spaziale e telepate Cosmo (Maria Bakalova) lo prende in giro e Howard il papero gironzola nei paraggi del tavolo da poker. Le cose non vanno invece “benissimo” per i nostri eroi, specialmente da quando non c’è più Thor nelle ciurma (è avvenuto in Thor: Love and Thunder). Invece di qualche canzone allegra, come Come and get your love dei Redbone, la Awesome Mix, la raccolta  di canzoni terrestri che da sempre accompagnano “emotivamente” le gesta di Star Lord e soci, si apre con la tristissima versione acustica di Creep dei Radiohead. Il mezzo-terrestre Peter/Star Lord (Chris Pratt) passa tutto il giorno al bar, per lo più ubriaco. Cerca di ricordare la “sua” Gamora (Zoe Saldana), dopo che il destino e la guerra contro Thanos (in Avengers End Game) lo hanno costretto a dividere l’universo con una “altra versione di  Gamora”, che non lo ha mai amato e non lo ama e vive con i Ravagers di Starhawk (Sylvester Stallone). Il gigantesco Drax (Dave Bautista) e l’antennuta Mantis (Pom Klementieff) si trovano a quel punto della relazione in cui scoprono che non si va da nessuna parte, se uno è un “simpatico” monolite emotivo e l’altra una preoccupata super-empatica. La telepate più che discutere con Drax preferisce così cancellare metodicamente la memoria all’amico ogni volta che vede che una discussione lo ha turbato troppo. La ex spietata macchina assassina cyborg Nebula (Karen Gillan) non ha ancora chiaro il suo nuovo posto nel mondo e in genere urla come una furia con tutti (ma poi si scusa), mentre almeno la pianta vivente Groot (Vin Diesel), dopo essere stato adulto e tornato bambino dopo “la potatura”, è ora un ragazzone tranquillo, un “arbusto robusto”. Solo la “nuova Gamora” non sembra capire le infinite sfumature emotive di quando lui ripete “Io sono Groot”, ma c’è di peggio. 


Poi c’è Rocket (Bradley Cooper), che tutti chiamano ancora “procione” senza che lui abbia mai visto in vita sua un procione, con la cosa che sembra sempre un po’ offensiva. Rocket si sente particolarmente giù di morale, non sembra nemmeno più interessato a raccogliere a caso occhi finti e protesi da poveri malcapitati, è pensoso, incazzato con Peter che sta buttando via la sua esistenza. Gira mezzo nudo e con il pelo arruffato e incastrato ai suoi congegni cibernetici e in fondo Creep dei Radiohead sembra essere davvero “tutta per lui”, mentre riflette su cosa davvero ci stia a fare al mondo, in una base spaziale ricavata dalla testa di un dio morto. Poi gli arriva in pancia un superuomo dorato: Adam Warlock (Will Poulter), nato da un uovo ingegnerizzato dalla alta sacerdotessa dorata Ayesha (Elizabeth Debicki) e “sparatogli contro” per risolvere il “vecchio torto” che hanno fatto i guardiani al popolo dei Sovereing. Warlock è poco più di un ragazzone, forse un po’ fesso, ma in pancia fa malissimo. Prima di colpire Rocket ha devastato mezza base spaziale e tutti gli altri guardiani in pochi secondi sono ko o quasi. Tutto si fa ora buio intorno al “procione”, con lui che torna bambino, in una gabbia che divide con altri animaletti pieni di innesti di metallo come lui: le cavie di un megalomane creatore di specie nuove come di “interi mondi” (sullo stile della Guida galattica per autostoppisti) chiamato l’Alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji). Un tizio dal look eccentrico che Peter con la sua cultura nerd definirebbe come un incrocio tra Robocop e Sketelor dei Masters. Tra questi animaletti modificati un po’ buffi e un po’ inquietanti (che rimandano quasi al fumetto WE3 di Frank Quitely e Grant Morrison) c’è la lontra Lylla (in originale Linda Cardellini), un tricheco dagli occhi laser e un coniglio simile a un carro armato. Nessuno di loro ha un nome, solo un numero. Tutti sognano il momento in cui lasceranno quella gabbia per un mondo migliore. Rocket “starà con loro” mentre Star-Lord e soci cercheranno di salvargli la vita, spostandosi freneticamente tra planetoidi scientifici fatti di sostanze organiche ricche di sangue e occhi e strani posti simili alla Terra, ma abitati da creature zoomorfe. Per salvare Rocket è necessario prima sbloccare nel suo corpo un congegno di protezione coperto da password, inserito dall’Alto Evoluzionario stesso nel procione per “copyright”; ma è difficile risalire a chi può essere in possesso di quella password. Così i Guardiani decidono di  mettere da parte tutti i loro malumori e correre in giro per i pianeti per salvare l’amico. Sulle loro tracce troveranno presto Warlock e l’Alto Evoluzionario, ma non è la prima volta che questo gruppo di improvvisati eroi cosmici ha la meglio sui nemici potenti, tronfi ed enormi come un pianeta. 


C’erano una volta i Guardiani della Galassia. Non il fumetto Marvel più conosciuto, appartenente al gruppo dei già misconosciti fumetti sui “personaggi cosmici”, ma comunque un’opera amatissima dai fan e in grande “spolvero” dopo la maxi-saga a fumetti Annihilation del 2006/7. In quel contesto i Guardiani vennero “riscritti e aggiornati”, ma la successiva “grande rinascita” avvenne qualche anno dopo sullo schermo, nel Marvel Cinematic Universe di Disney, quando il progetto di un film su di loro venne assegnato al giovane e talentuoso James Gunn. 

Gunn, cresce artisticamente nella folle e dissacrante etichetta indipendente Troma di Lloyd Kauffman, dove co-dirige non accreditato e sceneggia, tra il 1996 e il 1998, Tromeo e Juliet e Terror Firmer. All’inizio del 2000 è autore di due dissacranti sceneggiature per i film di Scooby Doo con Sarah “Buffy” Michelle Geller e Matthew Lillard, nel 2006 rivoluziona l’horror cosmico/Lovecraftiano a base di mostri tentacolari e alieni scrivendo e dirigendo Slither (co-protagonista al fianco di un immenso e tentacolare Michael Rooker era Nathan Fillon, il capitano della astronave Firefly della seria tv omonima…un personaggio che assomigliava tantissimo all’idea del fumetto del 2006 per il nuovo Star Lord) e nel 2010 “brevetta” la sua idea di supereroi -superperdenti con Super-Attento al crimine!!!, nello stesso periodo in cui Millar plasma i suoi Kick-ass. È una vera scommessa fare nel 2014 un film ad alto budget su personaggi poco conosciuti come i Guardiani della Galassia,  ma Disney imbrocca la campagna marketing e Gunn non sbaglia niente, dalla sceneggiatura al casting, dagli effetti speciali alla regia, impacchettando tutto con un accompagnamento sonoro da urlo costituito quasi interamente da brani rock anni '70-'80. Dave Bautista, il futuro Drax, veniva dal Wrestling e come “attore grosso” si era già  visto ne Il re scorpione 3, L’uomo dai pugni di ferro e Riddick, anche se prima aveva partecipato in una piccola parte in un film di Werner Herzog. Se già aveva tirato fuori “qualcosa del suo Drax” ne L’uomo dai pugni di ferro, con Gunn e il suo personaggio dei guardiani inizia a diventare un attore davvero a tutto tondo, capace di trasmettere un'ampia gamma di emozioni e adatto anche ai ruoli più drammatici. Il suo Drax è grosso e grezzo ma anche incredibilmente sensibile alla emozioni sotto la sua mole di infiniti tatuaggi sanguigni (in qualche modo è un “vendicatore tossico” gentile). Zoe Saldana dopo molte parti in musical e commedie ha trovato il successo con la fantascienza, coperta di “blu” e grafica digitale, nell’Avatar di James Cameron. Ha poi interpretato con successo una donna dello spazio negli Star Trek di Abrams ed è diventata con Gunn una donna spaziale di ancora più successo, questa volta con la pelle di colore verde smeraldo. La sua Gamora, anche se sarebbe più corretto dire “le sue” Gamora, è un personaggio sempre in equilibrio tra senso del dovere e la pulsione inconscia di voler vivere liberamente la sua vita, una anti-eroina che diviene eroina. C’è il bravo attore e sex symbol Bradley Cooper, che riesce a diventare per Gunn un convincentissimo procione umanoide tutto in digitale, buffissimo ma incredibilmente serio, dal passato drammatico e dal carisma inarrivabile. C’è Vin Diesel che fa un uomo-albero digitale che può dire solo “Io sono Groot”, ed è uno tra i personaggi più profondi che si possono incontrare nel cinema degli ultimi anni. C’è la bellissima Karen Gillan, fidanzatina d’Inghilterra dai tempi del Doctor Who, che riesce a essere dolce anche in un personaggio spigolosissimo, crudele e visivamente “cattivo” come Nebula. Anche la modella Pom Klementieff viene in qualche modo trasformata in una donna-insetto per il personaggio della sua Mantis, ma rimane a dispetto degli occhi dalle orbite nere un personaggio tenero e gentile. Infine e per primo c’è Peter Quill, l’autodefinitosi “Star-Lord”, di Chris Pratt. Un eroe spavaldo e spericolato che cela (non troppo bene a dire il vero) l’animo di un bambino che ha dovuto crescere troppo in fretta, quando da piccolo è stato “rapito” da un pirata spaziale diventando quasi un moderno Peter Pan (caratterizzazione che fa di Star-Lord proprio Gunn, innovando sul fumetto). Chris Pratt incarna al meglio l’eterno bambino rinchiuso in un corpo adulto anche nel suo personaggio dì Jurassic World, anticipando in qualche modo la caratterizzazione dello Shazam di Zachary Levi. “Sono tutti personaggi dalle caratteristiche “polarizzate”, forti all’esterno ma fragili dentro, improbabili tanto come eroi che come antieroi, sempre fuori posto quanto in grado di adattarsi a ogni sfida, da vivere rigorosamente in modo scanzonato, con un grande carico di umorismo e divertimento (e passione per le armi da fuoco enormi). A “tenerli insieme” è la voglia di sostenersi l’uno con l’altro e questo li rende più simili a una famiglia-acquisita/improvvisata che a un super gruppo. Una famiglia di “bambinoni perduti” (citando sempre Peter Pan) che permette a ognuno, in ogni nuova avventura, di crescere e “diventare più adulto” o “sbagliare tutto” e tornare un perdente a vita, con la certezza che sarà sempre e comunque “accettato” dai suoi amici. Gunn crea i supereroi più umani di sempre e porterà questa formula vincente anche sulla sua Suicide Squad del 2021, con la futura prospettiva di fare qualcosa di simile anche per Superman. I guardiani della galassia vol.3 è in qualche modo il film di addio di Gunn ai suoi guardiani, la fine di un percorso felice che ha portato questi eroi improbabili a diventare amatissimi dal pubblico. Nel primo film abbiamo visto costruirsi il gruppo e intraprendere la prima roboante e scombinata grande avventura che li ha quasi visti sfidare Thanos. Li abbiamo visti inseguirsi e mettersi le dita negli occhi come improbabili pirati, prima di decidere che si poteva benissimo fare fronte comune. Nel secondo film Gunn aveva già cambiato tutto l’approccio, andando a realizzare un film quasi intimo, dove si indagava proprio sui limiti della struttura familiare del gruppo; dove si iniziavano ad affrontare i veri e falsi “padri putativi” di ogni personaggio alla ricerca di radici familiari che dessero un senso più “profondo” a quella strana famiglia-in-costruzione. La ricerca e confronto con la figura paterna è un tema che nel secondo film travolge Star-Lord e un “improvvisamente più giovane” Groot (che diventa un po’ il figlio del gruppo), ma che si in Avengers Infinity War ed End Game tocca Gamora e Nebula e che in questa pellicola numero tre arriva a influenzare Rocket e in una certa misura anche Drax e Mantis. Da notare che molte di queste “figure paterne” hanno un ego grande come un pianeta, sono in grado di cambiare il destino dell’universo con uno schiocco di dita e trattano i loro figli come vere estensione delle loro proprietà, da tenere gelosamente per sé o in alternativa distruggere. Come anche Star Wars insegna, alla base delle più mastodontiche guerre spaziali ci sono spesso delle grosse beghe familiari e i Guardiani in questo non fanno eccezione. Proprio nel descriverci il rapporto tra Rocket e l’Alto Evoluzionario Vol.3 è in larga parte una origin story, raccontata attraverso dei teneri quanto crudi flashback in cui protagonisti sono dei bellissimi quanto martoriati animaletti con impianti cibernetici. Ma l'azione a rotta di collo tipica dei film di Gunn ci spara presto su un assurdo pianeta fatto di carne e denti ad incontrare Nathan Fillon nel ruolo di un capo della sicurezza dallo humor scorrettissimo. Porta Drax a essere al centro del più controproducente e demenziale incontro ravvicinato del terzo tipo, ci parla di un mini-Superman come Warlock che anche lui ha dei grossi problemi con la figura genitoriale e non sa ancora gestire la sua forza, ci porta in una fabbrica dove si costruiscono pianeti e esseri senzienti che sembra uscita dalla Guida Galattica per Autostoppisti e in genere riempie il tutto di incredibili combattimenti e inseguimenti spaziali anche a gravità zero.


Il “cattivo” interpretato da Chukwudi Iwuji assomiglia per strani versi al Samuel Jackson del film The Spirit di Frank Miller: è un mad Doctor che non riesce mai a godere del suo genio, un eterno scontento che detesta anche i suoi lavori più riusciti in quanto per lui sempre imperfetti. È un padre-padrone senza compromessi, dai contorni quasi divini, con un'ossessione estetica che traspare fin dal suo abbigliamento e lifting facciale. Chukwudi Iwuji riesce a rendere molto bene il personaggio e la sua assolta grandiosità e onnipotenza, ma ci fa apprezzare anche le sue sfumature più tragiche, “infantili” e involontariamente comiche. L’Alto Evoluzionario è molto funzionale alla storia raccontata nel film e alla “filosofia” dei villain dei Guardiani, anche se sul personaggio in sé si potrebbe dire qualcosa di simile al Kang il conquistatore di Jonathan Majors del terzo film di Ant-Man: sono characters molto “ridimensionati” rispetto alla loro controparte cartacea, anche se questo non impedisce per il futuro ulteriori sviluppi e aggiustamenti in corso d’opera.

Nessun tipo di critica negativa per quanto riguarda tutti gli interpreti principali, che nel nuovo episodio si confermano un gruppo ben affiatato e in grado di lavorare tra loro con assoluta spontaneità e complicità. Tutti i personaggi evolvono e acquistano nuove sfumature in modo armonico, quasi diventando insieme più adulti e più amici, riproponendo la “magia narrativa” che Gunn ha saputo infondere fin dall’inizio a questi personaggi. Tra i nuovi arrivi si segnala l’Adam Warlock di Will Poulter, un personaggio molto atteso già dai tempi del secondo capitolo della saga e che viene qui gestito con i giusti tempi e sfumature. Molto dolce anche il personaggio realizzato in  digitale della “lontra Lylla” di Linda Cardellini e in genere davvero toccati e ben riuscite tutte le scene in cui compaiono gli animali cybernetici, che sembrano quasi portarci in un film a parte, che potrebbe da solo competere come una piccola pellicola di animazione digitale. 


James Gunn porta al cinema  i suoi “guardiani”, con le loro storie divertenti ma molto meno superficiali di quanto possano sembrare, anche se questo terzo capitolo vuole fin dalle musiche scelte sembrare ancora più adulto e malinconico, come è giusto che sia la fine di un bel viaggio. Il regista ha dichiarato che è il suo ultimo film con Star Lord e soci e ha voluto realizzarlo per questo al meglio, accompagnando i suoi anti-eroi dalla giovinezza all’età adulta in modo non banale, assecondando il loro sviluppo interiore prima dei superpoteri. È un film che dura due ore e mezza ma il tempo vola via: c’è sempre qualcosa di colorato che esplode da guardare, c’è’ azione folle (tipo una scena di galleggiamento spaziale ma con tute stile teletubbies), c’è sempre un momento intimo tra i personaggi che arriva tanto inaspettato quanto gradito, c’è un senso della cultura pop che ci permette di guardare Rocket in braccio a Star-Lord nelle primissime scene e rivedere la stessa posa della Pietà di Michelangelo. Tutto giusto, come Badlands di Bruce Springsteen che all’improvviso entra nella colonna sonora. 

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