venerdì 5 maggio 2023

Plan 75: la nostra recensione del film di Chie Hayakawa che immagina un Giappone dove l’innalzamento generale dell’età viene combattuto con una controversa legge

Siamo in un Giappone “distopico” dei giorni nostri, diventato tristemente il paese al mondo con il più alto numero di persone anziane uccise per “vendetta sociale”.

È iniziato tutto nel mezzo di una notte, quando un giovane armato di fucile e occhiali a infrarossi è penetrato in un ricovero per anziani con l’intenzione di fare una strage. Nell’edifico risuonava dagli altoparlanti solo una canzone tradizionale, una canzone d’amore, mentre il gesto aveva avuto ormai compimento e il ragazzo decideva infine di suicidarsi, dichiarando: “Mi avete costretto voi”. La situazione si ripeteva in breve tempo in altri luoghi, era l’inizio di una vera escalation e a nessuno erano chiare le cause di tanto odio. Per cercare di tamponare il fenomeno, lo Staro ha perciò deciso “innovativamente” di fare affidamento sul classico sentimento di auto-immolazione a favore del bene comune dei nipponici: lo spirito di sacrificio per cui nella seconda guerra mondiale sono diventati tristemente noti i piloti kamikaze. Con una controversa legge veniva approvato il cosiddetto “piano 75”. Nessuna riforma impossibile del lavoro, nessun ammortizzatore sociale momentaneo, qualcosa al contempo di più altruistico e definitivo.  Dopo i 75 anni ogni cittadino, in piena libertà, aveva diritto a sottoscrivere un piano di eutanasia assistita, correlata a una “mancetta” di circa 100.000 yen (683 euro e 20 centesimi circa) per qualche “ultimo sfizio”. Più spazio ai giovani nel lavoro, nella speranza di fermare le stragi. Sepoltura a carico completo dello Stato. Opzionali “Last minute” in località di vacanza con tumulazione di gruppo, possibilità di pacchetti di trucco e parrucco per la foto da porre sulla lapide e un “numero di telefono”. Un numero di telefono da poter impegnare per massimo 15 minuti al giorno, per parlare liberamente con un operatore specializzato nell’ascolto e conforto degli anziani: il massimo che aveva da offrire “quel Giappone” nel campo della assistenza sociale e molto di più di quanto un giovane era disposto a fare per un anziano. 


L’anziana cameriera Michi (Chieko Baisho), che vive da troppo tempo da sola ed è infaticabile lavoratrice, incontra così grazie al piano 75 l’operatrice telefonica Yoko (Kawai Yuumi), dopo aver perso la sua ultima amica e aver deciso anche lei di “fare largo ai giovani”. Tra le due nasce 15 minuti per volta quasi un’amicizia. 

L’operatore Hiromi (Hayato Isomura), che in genere raccoglie per le strade le adesioni alla legge presso a dei gazebo, decide sull’impulso stakanovista del suo capo ufficio di iniziare a “sollecitare i parenti”. Così fa visita in un quartiere popolare allo zio Yukio (Taka Takao), che non vendeva da tanto tempo, per proporgli questa “occasione irripetibile”. L’uomo assomiglia tantissimo a suo padre e questo aspetto può forse complicare le cose.

La giovane infermiera di origini latine Maria (Stefanie Arianne), con a casa una piccolissima figlia malata a cui servono i soldi per una costosa operazione salva-vita, arriva con una raccomandazione a lavorare presso uno dei centri dove “addormentano gli anziani”. La prospettiva è un buon stipendio e la possibilità di “gestire liberamente” gli oggetti personali che non possono entrare nei forni di cremazione. Forni di cremazione che lavorano h24 a pieno regime fino a rompersi, costringendo la ligia municipalità nipponica, per non “interrompere le tabelle di marcia”, a ragionare sulla possibilità di “accompagnare gli anziani nel loro ultimo viaggio” con l’ausilio di un impianto per lo smaltimento industriale dei rifiuti. Intanto la percezione sociale della legge raccolta dai media è così buona che qualcuno sta già pensando a un Piano 65. Quale radioso futuro potrà avere il Sol Levante? Riuscirà in mezzo a tutto questo spirito di sacrificio a farsi largo, magari per contrasto, anche un senso di umanità? Nel frattempo nella sala dove vengono addormentati gli anziani risuona la stessa canzone tradizionale che usciva dagli altoparlanti di una casa di cura, nel giorno in cui erano iniziati i massacri.


La regista Chie Hayakawa sviluppa come lungometraggio un suo corto del 2018 uscito all’interno del film collettivo Ju-nen: Ten Years Japan, scritto insieme a Jason Gray. La dolce Chieko Baisho è una attrice molto famosa nel Sol Levante, che ha offerto la sua voce anche alla “nonnina Sofi” nella versione originale del Castello Errante di Howl di Hayao Miyazaki. Hayato Isomura è invece uno dei volti “eternamente giovani” della serie tv super eroistica Kamen Rider e si trova qui in un ruolo drammatico diametralmente opposto a quello a cui ha abituato i suoi fan. Due generazioni di attori a confronto, per raccontare un Giappone che, citando il titolo di un classico film dei fratelli Coen,  non è decisamente “un paese per vecchi”, ma non è un posto troppo allegro neanche per i giovani: un posto dove lo Stato ha fallito ogni prospettiva di sostegno e aiuto sociale. Negli anni '90 il regista Katzuhiro Otomo “sognava ancora”, con il suo satirico Zeta, che la massima tecnologia robotica del futuro venisse utilizzata per assistere degli anziani allettati. Un robot infermiere si occupava dell’anziano come accadeva anche all’italianissimo Alberto Sordi in Io e Caterina. Lo scoppio della nipponica “Bubble economy” degli anni ‘80 di fatto ha avuto effetti sociali simili a quanto è accaduto in Italia nello stesso periodo e non è forse un caso se dopo il Giappone è proprio il nostro paese a essere considerato la nazione con il più alto numero di anziani. Solo che “una volta” si immaginavano i robot infermieri del futuro, mentre oggi invece la fantascienza si è come “spenta”, dopo che i molti “traguardi immaginati” del ventunesimo secolo,   dopo la sognata e sospesa corsa allo spazio, non sono stati raggiunti. Così, da questo “sconforto”, in Giappone hanno preso sempre più vita nel tempo opere in cui il “futuro radioso dei cittadini” non veniva più gestito da robot gentili ma da spietate leggi sociali, come in Battle Royale di Kinji Fukasaku o in Ikigami, annunci di morte di Tomoyuki Takimoto e Motoro Mase. Plan 75 appartiene a tutti gli effetti a questo filone narrativo, con molte suggestioni visive e sociali vicine proprio all’opera di Takimoto e Mase. È cosi in scena un Giappone della periferia metropolitana dai ritmi lenti e quasi immobili, raccontato attraverso le storie di personaggi che vivono una quotidianità “isolata”, fatta di piccoli gesti e relazioni umane. Persone anziane e “operatori” giovani che svolgono dignitosamente attività umilissime, preoccupate per lo più dell’aumento dei prezzi e del decoro sul luogo di lavoro, camminando per lo più a testa bassa avvertendo il peso di un insostenibile senso di colpa. Il piano 75 è qualcosa di accettato e codificato, con sporadicissimi moti di ribellione esterni che si riducono al lancio di qualche pomodoro, fino a quando inevitabilmente non “invade nel personale”. Quando viene chiesto dal protocollo, con tutta la brutalità propria della normalità, di “lasciare la porta di casa aperta e dirigersi su un autobus preposto”. C’è la paura di quello che attenderà dopo, ma non pesa quanto il rimpianto per ciò che si è perso nel proprio passato, non pesa quanto “l’istinto quasi crudele” (forse il fantasma di una empatia perduta) che spinge umanamente a guardare negli occhi la persona che “si ha davanti” nel percorso di fine vita. Il messaggio di Plan 75 arriva forte in tutta la sua urgenza e crudeltà: ci parla di un mondo che ha già accettato la sua autodistruzione. Un mondo che ha cercato di indorare la pillola codificando la sua morte nel modo più “sensibile e rispettoso”, dove a rimetterci sono in primis la gente comune dotata ancora di spirito di altruismo. Un mondo dove chi detiene il potere, il campo  sociale, le multinazionali e il crimine organizzato, rimangono tutti sempre fuori dal quadro generale, assenti giustificati e alleggeriti da ogni colpa. Il Plan 75 è una legge “contro la vita e di fantascienza”, ma tristemente e simbolicamente non è troppo dissimile per impatto sociale alla legge del primo figlio che nel 2002 (solo 20 anni fa) è entrata in vigore in Cina. Certo può sembrare impensabile che una pellicola e una storia di questo tipo possa essere figlia di una cultura diversa da quella del Sol Levante, quando la produzione occidentale per parlare di queste tematiche fa ancora largo uso della fantascienza più spettacolare, futuristica, stilizzata e a tinte morali “ben divise”, come negli Hunger Games e in 7 Sisters. Ma il Piano 75 è un sinistro campanello di allarme su quanto potrebbe davvero succedere in futuro, se i temi della sovrappopolazione e della crisi climatica saranno ancora affrontati con lo stesso lassismo di oggi. 


L’occhio di Chie Hayakawa raccoglie le emozioni dei suoi personaggi in modo pudico e oggettivo, quasi documentaristico. Non ci sono concessioni alla spettacolarizzazione delle emozioni,  di quello che ci è presentato come un dramma umano collettivo ma “interiore”, dove è percepita quasi con imbarazzo e vergogna la prospettiva di non seguire delle regole sociali. Gli scenari dove vivono gli anziani sono “vuoti”, accrescendo la sensazione che le generazioni vivano ormai separate, quasi in quartieri cittadini diversi e distinti. Il senso del “sociale”, in alternativa al Piano 75, è rappresentato da code infinite davanti a sportelli con impiegati assenteisti o centri per l’impiego dotati di computer degli anni ‘80. Gli attori si muovono sulla scena con umana compostezza, ligi alle regole quando soffocati dal loro dolore interiore, in cerca di furtivi e vietati contatti di gentilezza. Chieko Baisho e Hayato Isomura danno vita a due straordinari personaggi “sul limite del precipizio” che gli spettatori si porteranno dentro ben oltre la visione della pellicola, anche come monito di quanto sia in fondo semplice “disumanizzarsi” nel seguire una direttiva sbagliata che cala dall’alto “perché ce lo dice il Giappone”. 

Mette quasi i brividi ragionare su quanto questo mondo ci sia vicino.

Il film di Chie Hayakawa è geometrico e ordinato ma nasconde un cuore ingabbiato che urla e scalpita. È una pellicola malinconica quanto aspra, meccanicamente crudele, un autentico “incubo gentile”. Molto bravi tutti gli interpreti, disturbante la canzone tradizionale sentimentale giapponese che funge da filo conduttore tra le varie scene. Decisamente un buon esordio alla regia di un lungometraggio per la Hayakawa, che ora attendiamo con molto interesse anche per le sue future opere.

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