venerdì 19 maggio 2023

L’amore secondo Dalva: la nostra recensione del film drammatico diretto da Emmanuelle Nicot, ispirato a una tragica storia vera, con protagonista una straordinaria Zelda Samson

È notte fonda quando irrompono nella sua casa sfondando la porta. Dalva (Zelda Samson) urla, chiama Jacques (Jean-Louis Coulloc’h) ma i poliziotti lo portano via, mentre lei si ritrova prima in strada e poi su un’altra auto senza capire cosa stia succedendo, diretta verso un ospedale. Una donna le chiede di togliersi i vestiti e poi di riporli in buste di plastica. Quando la ragazza è solo coperta da un camice bianco la invita ad allargare le gambe come fanno le rane: un esame ginecologico. Dalva continua a chiedere a tutti cosa sia successo di tanto grave, mentre il giorno dopo viene accompagnata in una specie di casa famiglia per adolescenti, sotto la supervisione e custodia di un assistente sociale severo e taciturno di nome Jayden (Alexis Manenti). La sua nuova compagna di stanza, Samia (Fanta Giurassy), è quasi inorridita per gli abiti troppo appariscenti e sensuali e per il trucco e make-up molto vistoso di Dalva, che quasi le danno venti anni in più. Samia la definisce una “Barbie”, ma gli altri ragazzi e ragazze sono molto meno teneri e la trattano alla stregua di una prostituta. Quei vestiti, che tanto piacevano a Jacques, sono inadatti anche per la nuova scuola dove Dalva dovrà andare, così Jayden si preoccupa di andare con lei a comprare abiti più consoni alla sua età. Sono giorni confusi e difficili, Dalva cerca sempre di trovare qualche modo parlare con Jacques, anche fuggendo dalla finestra della sua stanza con la classica corda fatta di lenzuoli. Ma il suo amore le è costantemente negato: dicono che nel posto dove Jacques si trova è escluso che lei possa entrare senza una autorizzazione del giudice, che è ancora prematuro chiedere. È qualcosa di davvero incomprensibile per Dalva, perché Jacques non si era mai comportato male con lei, lo ricambiava in pieno in tutto il suo affetto e la loro relazione si era sviluppata in modo naturale, erano felici e appagati. Lei con a fianco Jacques da bambina era già da tempo diventata una donna adulta e non aveva alcun senso che dovesse ancora andare a scuola o essere protetta da qualcuno. Perché si trovava lì, tra i banchi di scuola e persone che la insultavano, e non insieme all’uomo che amava ed era suo padre? 


La regista Emanuelle Nicot scrive un film basato su una storia vera particolarmente complessa quanto tragica, in cui la parola “amore” assume i tratti più oscuri e confusivi. Il taglio è quasi documentaristico, asciutto e quasi minimale, crudo nella messa in scena, ma dai dialoghi di Dalva emerge tutta l’inquietudine e la sensualità dei lavori più controversi dei collaboratori alla sceneggiatura: Jacques Akchoti autore di Titane e Bulle Decarpentries, autore di Carnivores. Dalva parla di una ragazzina inconsapevole di essere stata manipolata e abusata da un genitore “che le vuole bene” dopo un rapimento. È una ragazza il cui equilibrio psicologico negli anni è sempre più stato “messo alla prova” da ricatti affettivi fino quasi a riplasmarla nel corpo e nella mente, violandone del tutto l’innocenza. Dalva è al contempo una bambina e una donna, una ragazza fragile e insicura quanto quasi una predatrice sessuale. Perennemente fuori posto, perennemente derisa dal mondo. La straordinaria Zelda Samson riesce perfettamente a cogliere questo dualismo, dando vita a un personaggio nel corpo e anima in continua “mutazione e sottrazione” , simile per molti versi alla Isabelle Fuhrman di Orphan, celebre thriller di Jaume Collet-Serra. Dalva “è così” perché non le è stato insegnato un modo diverso di guadare all’amore e ricerca per il suo comportamento solo una approvazione esterna: quella un padre-carnefice che Jean-Louis Coulloc’h rende al contempo gelido e assente, quanto incapace di alzare anche solo gli occhi verso la figlia. Al di fuori di questa figura, che la Nicot tiene quanto più possibile lontano dalla trama, per non dargli troppa forza e parlarci di Dalva e non del suo aguzzino, la protagonista vive la sua vita quotidiana e giocoforza affettiva come sulle montagne russe, privata di ogni punto di riferimento e alla ricerca di nuove persone importanti nella sua vita verso le quali non sa più se è giusto o meno “concedersi”. Farla ritornare “all’innocenza perduta” è un procedimento difficile e frustrante anche perché parte da subito nel modo più traumatico possibile: la necessità di “smontare l’immagine adultizzata” impostale dal genitore da anni. È idealmente come se fosse richiesto a una ragazza di 28 anni di tornare a fare la scuola media con dei 13enni ed è percepito come qualcosa di tragico, ingiusto. Ed è un lavoro che nel film come nella quotidianità può portare a risultati positivi solo dopo tanto tempo, grazie alla volontà delle ragazze quanto alla capacità degli operatori di settore (qui rappresentati  dal personaggio del bravo Jayden di Alexis Manenti) e dal sostegno degli altri ragazzi delle case famiglia (come la Samia di Fanta Giurassy). Il film della Nicot descrive al meglio come si sviluppano le dinamiche di gruppo in parallelo al percorso di sostegno, puntando a mettere in scena personaggi sempre credibili e dall’evoluzione non banale, anche in relazione alla natura complessa di questi contesti sul piano umano quanto “meramente burocratico.” Una “burocrazia degli affetti” a monte della “uccisione dell’innocenza” (negata e quindi “non rappresentata sullo schermo”) che in alcuni frangenti richiama L’Enfant-Una storia d’amore, dei fratelli Dardenne (che ultimamente sul blog abbiamo “citato” con piacere anche nella recensione di Ritorno A Seoul).


Emanuelle Nicot dirige un film intenso su uno degli argomenti più complessi e crudeli che si possano immaginare, la psicologia di una persona abusata. Lo fa con garbo, con un taglio quasi documentaristico e con interpreti molto bravi, descrivendo un percorso di sostegno credibile quanto onesto. La pellicola scorre veloce senza momenti di intoppo, beneficiando anche di dialoghi particolarmente forti quando ben contestualizzati. Ma in tutto questo ad emergere più di ogni altra cosa è Zelda Samson, che prende un ruolo difficilissimo e lo indossa con estrema eleganza e umanità, come solo le migliori attrici possono fare. La sua Dalva commuove e conquista dal primo all’ultimo minuto, di metamorfosi in metamorfosi, alla ricerca di carezze che non sa più quanto sia opportuno dare o ricevere. Siamo già sicuri che sentiremo molto parlare di Zelda Samson in futuro. 

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