giovedì 18 maggio 2023

Ritorno a Seoul: la nostra recensione del film di Davy Chou sui misteriosi legami tra i figli e i loro genitori biologici

A venticinque anni Freddie (Ji-Min Park), senza dire niente alla sua famiglia adottiva lascia la Francia e prende con la scusa di un “disguido dell’aeroporto” un volo per la Corea del Sud, alla ricerca dei suoi genitori naturali. È una ragazza allegra e intraprendente, che ama fare festa e bere qualche bicchiere. Si ritrova in una Seoul in cui risuonano delle canzoni che lei non ha mai sentito ma che sembrano familiari. Tra persone che assomigliano più a lei che agli europei, ma con hanno abitudini diversissime e pure strane agli occhi degli occidentali. Trova presto nella albergatrice Tena (Guka Han) una confidente e amica, qualcuna che riesce almeno all’inizio a comprendere il suo francese ammantato dalle prime parole di coreano. Le viene consigliato di provare a cercare i genitori a un programma tv tipo Chi l’ha visto, ma Freddie decide prima di affrontare il lento, complesso e frustrante sistema burocratico della Hammond, la società che si è occupata dell'adozione a distanza. La ragazza può inoltrare tramite l’agenzia delle comunicazioni ai suoi genitori naturali, ma può farlo solo con tempistiche particolarmente lunghe tra le varie richieste, con la spada di Damocle che se i genitori si rifiutano non potrà più contattarli per non lederne la privacy. Non c’è per lei alcuna possibilità di un altro tipo di contatto con loro ed è impossibile chiederne l’indirizzo. Scopre che i suoi genitori si sono separati e quindi vivono ora in luoghi diversi. Il padre (Oh Kwang-rok, visto in Mr. Vendetta, Old Boy e altri celebri film coreani) risponde subito alla chiamata e una Freddie di colpo riluttante, accompagnata da Tena, parte per il piccolo villaggio di pescatori dove incontra tutta la sua famiglia. Il padre all’inizio è timido e ossequioso, ci tiene a comprarle qualcosa in un mercatino, si scusa mille volte di averla dovuta lasciare perché era troppo giovane, le fa conoscere i nonni e ci tiene che rimanga a dormire almeno qualche giorno da lui. Quando Tena non può restare, c’è un’insegnante di francese che può tradurre per lei anche a casa del padre. Sono passate poche ore e già il padre cambia registro e parla della necessità che lei torni a vivere lì, che sposi un ragazzo coreano, che impari meglio la lingua. Quando non sono insieme, il padre le invia al telefono infiniti messaggi per lei ancora incomprensibili, spesso scritti mentre è ubriaco. In breve tempo la ragazza si sente soffocare e torna a Seoul, alla ricerca della madre che ancora non risponde alle sue chiamate tramite la Hammond. Ci starà per tanto tempo a Seoul, diventando prima tatuatrice e poi accompagnatrice di lusso, fino a diventare venditrice d’armi per conto di una società francese. Poi un giorno la madre biologica deciderà di farsi infine viva, ma nel frattempo Freddie si sente “cambiata”. È come se riconoscesse sempre più nel suo carattere i tratti quasi “prepotenti” del padre biologico, compresa la sua attitudine al bere. È come se nella prolungata assenza di risposte da parte della madre inizi ad avvertire in lei una sorta di cinismo e assenza di empatia. 


Viaggio a Seul è stato premiato nel 2022 a Cannes nella sezione Un Certan Reguard e ora giunge finalmente in Italia dopo aver conseguito molti riconoscimenti internazionali. Il regista Franco-Cambogiano Davy Chou si è ispirato per la realizzazione della pellicola al suo documentario del 2011, Golden Slumbers, dove accompagnava una sua amica francese di origini coreane in un viaggio molto simile a quello della protagonista Freddie, tra continue barriere linguistiche, culturali e sociali da superare, alla ricerca di “radici” misteriose quanto ritenute da lei importanti per la sua crescita personale. “Adozione” è una parola il cui significato più comune è “scelta”, che nel linguaggio giuridico dall’ottocento a oggi è associata alla pratica di adottare dei bambini senza genitori, ma che fin dai tempi dei romani suggellava anche il legame tra persone adulte e coetanee dello stesso sesso. Il termine adozione nel linguaggio della botanica assume anche la suggestiva sfumatura di “innesto”, indicando in questo  il procedimento mediante il quale si può creare un legame vitale nuovo tra due piante, congiungendole sulla base di una unica radice. Giocando con questo “termine botanico”, possiamo dire che anche i bambini adottati possiedano di fatto “due radici”: quella prima radice originaria dalla quale solo stati separati con dolore a un certo momento della loro vita e una ulteriore, quella con cui si legano alla nuova famiglia in un percorso del tutto nuovo e a volte anche “diversissimo” nel caso delle adozioni internazionali. Quel “primo pezzettino” di vita legato alla famiglia di origine, secondo molte ricerche basate su testimonianze dirette, costituisce un territorio di indagine scientifica e sociale oggi particolarmente affascinante e sorprendente. Secondo studi i bambini ricordano delle melodie ascoltate da piccolissimi come hanno familiarità con luoghi e sapori mai visti. Qualche volta possiedono nel loro bagaglio genetico, oltre agli occhi e alla carnagione, anche il modo di sorridere dei genitori biologici, addirittura alcune sfumature caratteriali. Sono “tratti unici” che quando non si ricavano nella famiglia adottiva spingono una certa percentuale di chi è stato adottato, specie attraverso i canali internazionali (in genere dopo l’adolescenza), a ricercare le loro “prime radici”, in viaggi spesso organizzati dagli stessi enti di adozioni a cui partecipano anche i genitori adottivi (nella prospettiva di “allargare la loro storia comune” con esperienze condivise). Qualche volta, come nel caso del documentario del 2011 del regista che ha ispirato il film, sono invece viaggi realizzati in autonomia o con amici, magari perché i ragazzi temono di ferire i sentimenti degli attuali genitori per questa “curiosità” o vogliono (magari anche in contrasto con gli adottivi ma non solo) dare un senso diverso e più autonomo alla loro storia personale. Il tutto nel rispetto delle regole sul rapporto tra genitori biologici e figli in vigore nei vari ordinamenti, che qualche volta rendono le ricerche quasi impossibili. Le storie legate a questi viaggi hanno quindi offerto spesso molto materiale di studio interessante per psicologi e sociologi (ecc.) come per novelli genitori  sui molti misteri, generici e non, legati alle origini. Nel film sembra di assistere a una specie di “ri-costruzione del carattere” della protagonista (tra conscio e inconscio), sulla base della “percezione” di assomigliare maggiormente (o non voler assomigliare per niente) ai genitori biologici. È un caos emotivo che il regista riesce a rendere al meglio sulla base della sua esperienza diretta del 2011 quanto grazie all'ottima interpretazione dell’esordiente Ji-Min Park, un'attrice con un consolidato passato nella musica che dona a Freddie un animo particolarmente complesso, ribelle ed estroverso. Il taglio della regia è quasi documentaristico, con una progressione lenta che guarda alla quotidianità e una particolare analisi dei dettagli burocratici legati alle “regole di incontro” tra genitori e figli. Siamo molto vicini al cinema sociale dei fratelli Dardenne, al punto che si può consigliare la visione di questo Ritorno a Seoul in abbinato a Il ragazzo con la bicicletta del 2011 per scoprire lo stesso senso di ribellione e smarrimento di Freddie.


Ritorno a Seoul è un film crudo e complesso sui legami famigliari “negati”, dove vanno in scena le mille difficoltà e traumi legati alla volontà di ricostruire le radici più intime delle persone. È un film sull'identità molto attento alla sviluppo emotivo dei personaggi, documentaristico e privo di voli pindarici, spesso crudo e malinconico. Da un ulteriore punto di vista, il volto e l’interpretazione di Ji-Min Park (quanto la biografia di Chou), ci parlano in senso lato (specie nella seconda parte) anche di una Corea del Sud “per adozione” sempre più vicina all’Occidente, ma ancora coinvolta nella fruttuosa (pur difficile) ricerca di “linguaggi comuni” per conciliare tradizione e modernità. Un percorso che oggi è sempre più veicolato proprio dall’arte cinematografica (e dalle serie tv in streaming) che nei prossimi anni potrebbe portare a ulteriori linee di avvicinamento. 

Il film di Davy Chou è una pellicola profonda e sfaccettata che grazie a un'ottima interprete riesce a offrire uno squarcio nella complessa interiorità dei ragazzi adottati in cerca di radici. È un film indirizzato a chi ama il bel cinema ma anche agli operatori sociali e a chi è intenzionato a intraprendere un percorso di adozione, ricco di spunti di riflessione interessanti, basati su esperienze dirette raccolte anche dallo stesso regista. 

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