mercoledì 25 ottobre 2023

Dogman: la nostra recensione del nuovo film di Luc Besson, con protagonista uno straordinario Kaleb Landry Jones

New Jersey dei giorni nostri. Un furgone del canile viene fermato dalla polizia e alla sua guida c’è un uomo sui quaranta, vestito e truccato da drag queen, coperto di sangue e con dei tutori metallici applicati alle gambe. Ha bisogno di una sigaretta e parla lentamente, mentre da dietro i sedili decine di cani abbaiano incessantemente. Appare calmo nonostante il trucco che gli cola dagli occhi (Kaleb Landry Jones) e una volta portato alla centrale di polizia ha molte cose da raccontare alla giovane psicologia Evelyn (Jojo T.Gibbs). 

Dichiara di chiamarsi Doug, ma che fin dall’infanzia il suo nome è stato spesso storpiato dal padre e dal fratello in “Dog” (in inglese: cane), specie dopo che i due decisero di farlo dormire nella gabbia dei cani da combattimento che addestravano a uccidersi. Doug aveva poco più di dieci anni e troppa pietà per quegli animali, forse al punto di amarli più della sua vera famiglia. Ricordava troppo la madre che li aveva abbandonati e per questo era guardato con occhi di fuoco in ogni piccolo atto di gentilezza e empatia versi i cani, fino a che venne punito, in quanto contro natura e “contro Dio”. 

Chiuso in quella gabbia di ferro all’aperto, tra la terra, il cibo per cani e gli escrementi, Doug riuscì comunque per mesi a sopravvivere e ad evadere con la mente, supportato amorevolmente dalla sua “nuova famiglia”. I cani lo coccolavano e difendevano, gli tenevano caldo durante la notte. Il legame si strinse fino a che arrivarono a capirsi anche solo con uno sguardo. Doug sviluppò con tempo quello che a tutti gli effetti poteva apparire come un superpotere: la capacità di guidare e coordinare ognuno dei suoi cani, fino a spingerli verso l’esecuzione in gruppo delle azioni più complesse. Bastava che un cane potesse uscire dalla gabbia e questo sapeva andare ovunque, procurare ogni cosa.  

Un giorno, in pochi secondi, riuscirono a realizzare un elaborato piano di fuga dove i cani guidarono la polizia fino alla prigione del ragazzo, salvandolo per miracolo dopo uno scontro a fuoco con il padre che gli comportò, per tutta la vita, il fatto di avere un proiettile non estraibile vicino alla colonna vertebrale. La vita di Doug, tra una casa famiglia e l’altra come tra un canile e l’altro, costretto sulla sedia a rotelle e amato per lo più solo dai suoi cani, non fu facile. 

Ma nonostante le circostanze avverse, grazie alla sua tenacia, intelligenza, istrionismo e uno spiccato amore per la recitazione, l’uomo crebbe, trasformandosi a tutti gli effetti, nella zona più povera della città, in uno strano e temuto giustiziere: “l’uomo dei cani”. 

Un giustiziere insidiatosi in una enorme scuola abbandonata con alle dipendenze un esercito di decine di cani abbandonati e ora tutti super addestrati, che come alter ego la sera diventava una drag queen.

Doug ha infatti una parrucca bionda e un vestito paiettato da Marylin Monroe quando si trova nella centrale davanti a Evelyn, dopo una lunga notte di proiettili, sangue e zanne che lo ha visto affrontare, da solo con i cani, tutto l’esercito del Signore della droga conosciuto come El Verdugo. 


Rivelare di più è fare un torno a uno dei film più belli dell’anno, se non degli ultimi anni. Un diamante grezzo pieno di passione, stile e inventiva, che è passato in totale e colpevole “indifferenza” al festival di Venezia, nonostante la straordinaria, viscerale e indimenticabile interpretazione di un nuovo grande attore di razza come Kaleb Landry Jones. 

Nato e cresciuto nella provincia di Dallas da una famiglia di suonatori di banjo, classe 1989, inizia a strimpellare rock fino a che esordisce con una piccola parte in Non è un paese per vecchi dei Coen. Trasforma i 5000 dollari ricevuti per la sua particina in L’ultimo esorcismo in un biglietto per Los Angeles e subito lavora per David Fincher, Emmerich, Matthew Vaughn, John Boorman, Neil Jordan, Xavier Dolan. 

È in Get out di Jordan Peele, è in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di McDonagh, in I morti non muoiono di Jim Jarmusch. 

Non si fa mancare in questo curriculum da sogno parti in Breaking Bad e nel Twin Peaks del 2017 di David Lynch. 

Kaleb Landry Jones ha lavorato con alcuni dei più grandi e influenti registi di sempre, ma è qui, con Dogman, che lui scrive insieme a Besson stesso per un anno intero, che gli viene offerta la grande parte, quella che si aspetta per tutta una vita. 

Besson è il creatore di personaggi leggendari simili a anti-eroi da fumetto come Nikita e Leon. Ha creato i romanzi per l’infanzia di Arthur, dirigendo i film e pure anni dopo producendo un film horror a essi ispirato, Malediction. È l’uomo che prende Milla Jovovich quando è ancora ragazzina, la sposa e trasforma in diva con Il quinto elemento e poi Giovanna d’Arco. È tra i più prolifici produttori di film action europei di “puro intrattenimento”, quelli che negli anni ‘80 venivano definiti per ingenuità di trama “fumettoni”: con questi lancia Statham, sdogana in occidente Jet Li, crea una seconda vita artistica a Liam Neeson. Besson dirige e produce cinema che si ispira al mondo dei fumetti, fa “fumettoni” e quando può omaggia direttamente i più grandi artisti del fumetti di oltralpe come Moebius, Pierre Christin e Jean-Claude Mezieres. 

Besson incontra Kaleb Landry Jones ed è di nuovo ispirato e geniale come ai tempi di Leon, quando quasi per scommessa prendeva un personaggio piccolo piccolo di un suo precedente lavoro, Nikita, per costruirgli intorno una pellicola tutta sua e rendere indimenticabili Jean Reno e Natalie Portman.

Besson e Jones costruiscono il loro Dogman a partire dal loro amore per i cani, anche ispirati dal Dogman del 2018, di Garrone, che viene citato e ringraziato nei titoli di coda (che siano in futuro collegabili in qualche modo?). Ci sono sul set di Newark cani ovunque, di ogni razza e stazza, tutti straordinari e addestrati con grande sensibilità e talento per fargli compiere le imprese più incredibili all’interno di una specie di “fortezza diroccata” nella quale si muovono come in un parco giochi tutto loro. La mente viaggia alle decine di pinguini reali che Tim Burton volle sul set di Batman Returns e ovviamente a Danny De Vito, che in qualche modo nel film, come qui Kaleb Landry Jones, era sulla scena il signore del loro piccolo popolo: giocando con loro quanto muovendoli all’attacco. Jones si dimostra subito a suo agio e funziona benissimo con gli animali al suo fianco, dimostrandosi sempre amorevole quanto esperto nel comunicare con loro, con la voce e con piccoli gesti, dirigendoli quasi come un maestro d’orchestra. Lo staff tecnico e quello artistico creano un set pieno di suggestione, passaggi segreti a misura di cane, trappole e oggetti di scena ricercati, conferendogli colori simili al palazzo di The Raid. Con elaboratissime coreografie gli istruttori guidano i cani a esprimersi al meglio sulla scena, risultando a volte dolci come a volte minacciosi: sempre integrati in una trama variegata, dai risvolti action quanto maturi, duri quanto drammatici. 

Besson e Jones con la loro passione per i cani portano così al cinema qualcosa di davvero nuovo, che non si vede tutti i giorni, questo è solo una parte del vero fascino della pellicola, che è rappresentato proprio dalle evoluzioni del personaggio di Doug. 

Doug ama gli animali e da loro è ricambiato, in un legame che spesso da vedere diventa anche molto bello e commovente, ma il nostro (anti)eroe fa invece molta fatica a relazionarsi con gli esseri umani, indossando per sopravvivere molte maschere diverse che grazie all’estro di Jones quasi “lo moltiplicano”, facendolo esprimere in una gamma di emozioni continue. 


C’è il Doug giustiziere, che non può non ricordare in positivo la figura del Joker, con tratti dell’interpretazione più malinconica di Phoenix ma anche con il nichilismo dell’interpretazione di Ledger. Per chi ama i cinecomics di stampo più “adulto” e magari si interroga sulla direzione incerta che questi stanno prendendo negli ultimi anni, Dogman è un film da vedere, anche solo per accertarsi del fatto che creare qualcosa di nuovo quanto di vicino, e forse più appagante, dei cinecomics è possibile. I dialoghi del Doug “giustiziere” sembrano uscire dalla penna dissacrante di Garth Ennis e Jones li recita con la massima convinzione e naturalezza possibile, come se non avesse mai fatto altro nella vita. 

C’è poi il Doug innamorato dell’arte, della recitazione e della musica, che trova la sua massima ispirazione nell’incontro con il bellissimo personaggio interpretato da Grace Palma, intraprendendo con lei un percorso di crescita emotiva che lo porta a manifestare le sue emozioni più intime, a mettersi a nudo, in modo totale e spontaneo, come solo sapeva fare il compianto Philip Seymour Hoffman.

C’è il Doug “drag queen”, che oltre a una presenza scenica incredibile, in cui riesce a mediare compostezza e gentilezza attraverso una corazza artistica che lo libera di ogni paura, è in grado di cantare con delle tonalità da Soprano, frutto di un allenamento vocale davvero importante. È un Doug che riesce ad apparire del tutto femminile, seduttivo ma al contempo riservato quanto una Madame Butterfly. 

C’è il Doug più nascosto, il “Doug bambino” diretto riflesso dei traumi del giovane Doug, interpretato sulla scena dal giovane e bravo Lincoln Powell. Un bambino da sempre “capro espiatorio” a ogni difficoltà della vita e considerato per questo, Bibbia alla mano, a tutti gli effetti un diavolo. Un odio religioso che nasconde gli abissi di frustrazioni di un padre e un fratello orribili e brutali, legati l’uno con l’altro da un rapporto davvero ambiguo e malsano, interpretati come degli orchi dagli intensi e strazianti Clemens Schick e Alexander Settineri. Doug per questo, per “colpa loro”, è in perenne lotta con la religione e le sue immagini, esprimendosi in soliloqui esistenziali di particolare potenza ed ebbrezza quando viene definito: “diavolo”. È un Doug quasi “faustiano”, che spesso va in cortocircuito con le altre maschere che il personaggio indossa, che per sfuggire al dolore “trascendente” esprime il suo tormento attraverso il grottesco, con una teatralità e sarcasmo insistiti e plateali, vicini al William Finley del Fantasma del palcoscenico di Brian De Palma. 

Accanto ai cani e a Doug e le sue maschere si sviluppa una trama che racconta un percorso di marginalità e dissoluzione emotiva che coinvolge tutta la periferia di Newark. Un contesto in cui i servizi pubblici e sociali vanno sempre più a essere marginalizzati, dove la criminalità offre troppe opportunità di fuga dalla realtà e non esistono possibili soluzioni per chi voglia onestamente vivere una vita tranquilla. Un contesto crudo che Besson riesce però bene a frizionare anche con il sapore della favola nera, dando voce a tutta la sua fantasia immaginifica per rispondere alle esigenze reali di pace e sicurezza. Nella seconda parte così la storia si stacca quasi dal reale fino a deflagrare, come in Leon, in una lunghissima e articolata scena action piene di idee visive, momenti concitati e risvolti drammatici che mettono in luce tutta l’inventiva e amore che Besson sa immettere nella settima arte. Senza risparmiarsi il regista francese sa qui esaltarci, riesce a spiazzarci, commuoverci e divertirci. Dimostrando una generosità visiva ed emotiva nei confronti del pubblico che oggi è sempre più rara. 

Dogman è un film potente, che vive di tante anime, suggestioni e contraddizioni, facendoci assaporare la vera forza del cinema di Besson nel trasmettere le emozioni, anche a volte “tutte le emozioni insieme”. È un film che non si fa dimenticare per un grande interprete e per la elaborata impalcatura su cui poggia le basi, e per questo è un film che non dovreste dimenticare di vedere in sala. A meno che non vogliate perdervi qualcosa di bello. 

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