Sinossi “romanzata”:
Sono passati 16 anni dagli eventi che hanno portato alla folle e rocambolesca morte dell’imperatore Commodo (Joaquin Phoenix nel primo film), all’interno di uno scontro tra gladiatori nel Colosseo.
Roma ha ora due giovanissimi imperatori, Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger). Hanno uno sguardo vacuo da bambini, vivono nel lusso e nei capricci, spesso ricoperti d’oro, con volti incipriati che li rendono simili alle statue classiche, agghindati da capelli rossicci finti come quelli che potrebbe avere il divo Apollo.
Giocano con la politica come giocano con una scimmietta di nome “Dondo”, che indossa per loro un buffo vestitino da paggetto.
Amano essere spietati per non apparire fragili come la loro età suggerisce.
Nonostante il malcontento generale, i due imperatori continuano così ad affamare il popolo e stremare soldati: alla ricerca di sempre nuove campagne militari dispendiose e sanguinose, ma che confermino la grandezza loro e di Roma.
Il generale Giulio Acacio (Pedro Pascal), stanco ma fedele soldato di Roma come lo fu un tempo Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe nel primo film), avanza con la flotta navale, pur con condizioni meteorologiche avverse, truppe stanche e umore pessimo. Muove verso il nuovo obiettivo militare scelto a caso da Geta e Caracalla: la Namibia. Si prepara a superare le spesse mura fortificate in pietra che difendono la spiaggia, affidandosi a rostri di sfondamento e imponenti “torri mobili” montate sulla prua. Ad accoglierlo, in dirittura della spiaggia, arriva una tempesta di frecce, dardi infuocati, sassi enormi lanciati da catapulte.
A contrastare Acacio in difesa della Namibia c’è anche Annone (Paul Mescal), un ragazzo di origini misteriose “portato dal deserto”, ma che ha trovato amore e famiglia tra gli orgogliosi combattenti guidati da un saggio leader (Peter Mensah, che abbiamo già apprezzato nella serie Spartacus di Starz).
Prima della battaglia, Annone si scambia l’anello nuziale con quello della sua giovane moglie Arishat (Yuval Gonen). Al suono del corno per l’adunata hanno dovuto nottetempo smettere di abbracciarsi, aiutarsi a indossare vicendevolmente le corazze di cuoio, dipingersi con i colori di guerra. Armati di arco e spada, si sorridono ancora e tornano un istante a baciarsi, forse per l’ultima volta.
La flotta romana irrompe e risponde al fuoco, nonostante molte frecce incendiarie namibiane abbiano affondato parte dello schieramento nemico. Passando attraverso barriere di scudi posti a testuggine, arrivando nel cuore delle galere, bruciando vivi i rematori. Le torri mobili si saldano tra i sassi e permettono lo scalo sulla muraglia: molti romani cadano nel vuoto nell’impresa ma non basta.
Lo scontro si fa presto all’arma bianca, un disordinato corpo a corpo. Nella carneficina Annone vede la giovane moglie morire, colpita da una freccia sotto ordine diretto di Acacio. Giusto il tempo di osservarla un’ultima volta, anche lui viene colpito alla testa. Cade dalle mura di difesa, in un’acqua scura come petrolio.
Tra sogno e pazzia, Annone scorge la moglie salire sulla barca nera del traghettatore che conduce i morti nell’Ade.
Il tempo di raggiungerla per estrarle dal petto un frammento di quella freccia letale ed è subito tra mani romane, in catene, in ginocchio insieme agli altri prigionieri, mentre il generale Acacio dà il segnale per appiccare il fuoco e bruciare così i resti di tutti i cadaveri del conflitto, in nome della grandezza di Roma.
Annone ora ha un nemico da uccidere e quindi anche un motivo per sopravvivere. Ma occorreranno tempo, umiliazioni e rancore, prima che possa rinascere a nuova vita negli spettacoli gladiatorii.
All’inizio viene gettato in un'arena piena di scimmie aizzate con delle frecce, pronte a sbudellare e sbranare chiunque con ferocia. Il suo compito è fuggire cercare di morire il più tardi possibile, per il sollazzo del pubblico.
Ma Annone incredibilmente resiste su un campo coperto quasi solo di budella e sangue, si fa notare da un lanista spietato e ambizioso di nome Macrino (Denzel Washington) che decide di scommettere su di lui: portarlo a Roma e aiutarlo a vendicarsi di quel generale che gli ha distrutto la vita.
A Roma intanto la nobile Lucilla (Connie Nielsen), figlia del vecchio imperatore Marco Aurelio, sta preparando un complesso golpe per riportare la Repubblica, aiutata da ambigui uomini del Senato. Il malcontento generale aiuta le sue macchinazioni politiche, ma per ora non basta. Potrà ancora una volta una “spinta rivoluzionaria” partire dall’arena del Colosseo? Potrà sorgere dai giochi un “eroe” in grado di sfidare l’Impero e portare alla autodistruzione le ambizioni di regnanti sanguinari?
Ridley Scott e la ricerca di un cinema grandioso, simile a un quadro fiammingo:
Il grande regista inglese Ridley Scott, classe 1937, autore de I Duellanti, Blade Runner e Alien, dopo infiniti premi e riconoscimenti a cui nel 2024 si è aggiunta la Knight Grand Cross conferitagli da re Carlo III, ci riporta di nuovo nell’arena dei gladiatori.
La prima volta correva l’anno 2000 e il regista sognava di portare in scena qualcosa che ricordasse la potenza del quadro di Jean-Leon Gerome “Pollice Verso”. Un gladiatore davanti a un imperatore, al centro di un'arena, nell’attesa che il sovrano si pronunciasse, con un gesto della mano, sull’uccidere o meno chi è rimasto sconfitto dopo una battaglia mortale.
L’impresa cinematografica valsa a Scott una un'autentica rinascita artistica, quanto un enorme successo economico. Dopo il grande flop dello sfortunato 1492 con Depardieu Cristoforo Colombo, uscito nel 1992 per l’anniversario della scoperta dell’America, dopo pellicole pallide come il thriller L’Albatros e e il “Gunny al femminile” con Angelia Jolie, G.I.Jane, usciti rispettivamente nel 1996 e nel 1997, con Il Gladiatore Scott tornava “grande”.
Un Action-Movie tanto classico quanto spettacolare, in grado di riempire tutte le sale per mesi, vendendo pure migliaia di copie home video, anche grazie alla nuova tecnologia in alta definizione dell’immagine che andava ad affermarsi, il DVD. Merito di una trama semplice, lineare ma perfetta, caratterizzata da una riuscita “atmosfera da tragedia antica”: una spruzzata del Ben-Hur di Wyler e un tocco dello Spartacus di Kubrik, suggestioni da Rollerball di Jewison. Un gioiellino firmato per l’occasione da David Franzoni, John Logan e William Nichols, che regalava agli interpreti infinite frasi a effetto e monologhi esistenziali.
Merito del successo va pure alla straordinaria colonna sonora di Hans Zimmer, in grado di proiettarci sempre sulla scena con grande “empatia” e ancora oggi amatissima quanto utilizzata, in spot tv, meeting aziendali, eventi sportivi e sociali.
È meritoria la fotografia lussureggiate quando “vivida”, “materica”, di John Mathieson: una luce spesso quasi tagliente, in grado di risaltare la sabbia, il sangue, le armature e le lame luccicanti del campo da battaglia.
Ha fatto scuola un montaggio che alternava i movimenti lenti della tragedia con i toni “frenetici e patinati” dei grandi eventi sportivi di intrattenimento contemporanei di Wrestling e Football (è interessante, a ritroso, vedere quanto siano simili le scene dello scontro dell’esercito romano sotto l’acqua, a inizio film, con le scene della partita di football americano sotto l’acqua di Ogni maledetta domenica di Stone, uscito nel 1999, forse girato contemporaneamente).
Il successo de Il Gladiatore è merito della presenza nel cast di supporto di attori giganteschi come Oliver Reed e Richard Harris, profumanti di “vecchia Hollywood”, che hanno accompagnato attori giovani o ancora non esplosi a livello internazionale, ma già promettenti, come Russell Crowe e Joaquin Phoenix.
C’era poi in scena anche una nuova sex symbol, Connie Nielsen, attrice e modella danese da poco ammirata in tutta la sua bellezza ne L’avvocato del diavolo.
Il Gladiatore del 2000 fu anche la scommessa, vinta, di riportare al cinema un genere morto e sepolto come il colossal epico, il cosiddetto “Sandalone”, che da allora ha avuto molto seguito proprio grazie al film di Scott: in opere come Troy, Scontro tra titani, 300, Pompei, King Arthur di Fuqua, la saga de Il Re Scorpione, nuove versioni di Hercules e Conan. Un successone che ha inspirato anche telefilm per il pubblico adulto delle reti via cavo come Spartacus di Starz, Roma di HBO e la recente serie Amazon Those about to die di Emmerich.
In 20 anni, dal 1977 al ‘97, Scott aveva realizzato 10 film. Dal Gladiatore a oggi, 24 anni, sono state realizzate 19 pellicole, quasi il doppio.
Pellicole di tutti i generi, ma soprattutto pellicole ad ambientazione storica caratterizzate dalla ricostruzione di imponenti scene di battaglie: ambientate in diverse epoche con le relative armi, ma sempre con al centro grandi combattimenti dal sapore epico, centinaia di comparse in costume, meticolose quanto gigantesche scenografie realizzate fondendo il lavoro certosino di tantissimi artisti con quello di tantissimi tecnici effetti speciali. Senza contare eserciti di costumisti, truccatori, tecnici delle luci e di presa diretta, addestratori di animali, stunt-men, operatori di Dolly e telecamera a mano, seconde unità.
Il cinema di Scott vive molto nelle scene di massa: scene che Scott dirige coordinando giornalmente legioni di persone, come avrebbe fatto in passato un generale d’acciaio. Si potrebbe dire che ormai da diverso tempo la principale ossessione dell’87enne Scott sia proprio continuare, finché può, come nel suo “ultimo Napoleone”, a guidare sulla scena queste “masse umane in armi e arte”.
Al di là della storia, di ogni storia, riuscire a calare il suo pubblico all’interno di questi enormi quadri storici, brulicanti di uomini in armi, fortezze, armature luccicanti e cavalli, campi di battaglie e barricate, generali, aristocratici, plebei, politici e pazzi, che lui dispone come un direttore d’orchestra.
Il maxi schermo di un cinema si può trasformare con Scott in uno di quegli splendidi arazzi fiamminghi, grandi anche dieci metri, che oggi si trovano esposti nei musei, un tempo nelle corti medioevali.
Arazzi in movimento con al loro interno, nascosti nei dettagli delle scene più imponenti, gustosi “errori di scena”. Gente fuori posto, automobili e orologi, catapulte fuori contesto, vestiti moderni, lampioni e autostrade nell’antica Roma. Ormai sono un “gioco nel gioco”, di cui Scott è consapevole, che punta a intrattenere un pubblico sempre più attento in stimolanti cacce al tesoro di natura quasi enigmistica. Un pubblico fatto di fan, ma soprattutto di tanti detrattori “appassionati di storia indignati”, pronto a setacciare le pellicole di Scott fotogramma per fotogramma, indagando pixel per pixel lo schermo gigante di un multisala, alla ricerca dell’“easter egg” o dello “scandalo”. Magari pure portandoli per questo più volte a rivedere il film, per poi arrivare ovviamente a fargli comprare il blu Ray HD.
Se Scott è rigoglioso, “giocoso” quanto “bulimico” nei suoi enormi affreschi storici, l’atteggiamento che ha sugli scenari del futuro, nei suoi film di fantascienza più recenti, è ben cambiato dai tempi di Blade Runner a parte. È un mondo del domani vasto quanto “desolato”: uno spazio marziano immenso quando vuoto come quello di The Martian; oppure un intero pianeta alieno futuristico, ma di cui sono rimaste solo rovine (simili alle rovine dell’impero romano) come in Alien: Covenant. Un futuro che il regista guarda con diffidenza, ricco solo di deserti laddove in Kingdom of Heaven dal deserto nascevano ancora l’acqua e la vita, nonostante la guerra e la peste.
Enormi scenari, presenti o passati, dove comunque “villain e antieroi”, di fatto i personaggi preferiti da Scott (insieme ai personaggi femminili), appaiono sempre più spesso “troppi piccoli” rispetto al contesto: insicuri, quasi meschini, immobili nel contemplare una propria grandiosità effimera, che spesso si scioglie sotto i loro piedi, mentre incantati sognano che vengano erette statue con il loro volto, celebrazioni artistiche che li rendano così “immortali” davanti alla Storia.
Ossessioni di piccoli uomini resi nei film di Scott grandiosi quanto tragici da interpreti d’eccezione come il Driver di House of Gucci ma anche di The Last Duel, il Phoenix di Napoleon ma anche del primo Gladiatore, il Guy Pierce di Prometheus, Danny Huston in Robin Hood.
Poi c’è stato Roy Batty, ma questa è stata tutta un’altra storia.
Il personaggio del Gladiatore interpretato da Crowe era diverso. Era un eroe a tutto tondo, forse l’antesignano di quella “voglia di supereroe” che sarebbe esplosa nel cinema da lì a poco con Singer e Raimi. Forse il successo era “ripartito” anche per quel motivo. Presto Scott sarebbe comunque tornato a concentrarsi sugli anti-eroi.
Forse riportare in sala il Gladiatore oggi è stato per Scott soprattutto una nuova sfida: tornare a (poter) credere negli eroi oggi, in un mondo ancora più cinico di 20 anni fa, dove il celebre monologo finale di Roy Batty sembra ancora più “vicino”.
Dietro la produzione di Gladiator II:
Non potendo tornare sulla sulla scena Russell Crowe o Joaquin Phoenix, servivano volti nuovi e nuove energie.
Scott scommette sull’attore irlandese Paul Mescal. Un bel ragazzone sorridente che sette anni fa iniziava a muovere i passi nei teatri con Il grande Gatsby, nel ruolo di Gatsby stesso, per poi passare al Shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, arrivare in breve sulla tv: per una serie drammatica corale come Normal People, per la quale vinceva un BAFTA interpretando un giocatore di “calcio gaelico”. Nel 2021 è scelto per il film di debutto di Maggie Gyllenhaal. Nel 2022 e nel cast del drammatico Creature di Dio, poi nel film adolescenziale Aftersun, nel musical Carmen. Nel 2023 è co-protagonista nel bellissimo dramma psicologico Estranei, assolutamente da recuperare, di Andrew Haigh, tratto dal romanzo di Taichi Yamada, poi arrivare al thriller psicologico di Garth Davis Il nemico.
Oggi è un volto interessante quanto già amatissimo dal pubblico femminile.
Se il personaggio di Crowe aveva ne Il Gladiatore uno straordinario Phoenix che ne interpretava la “nemesi”, Mescal divide qui la scena, oltre che con la sempre bellissima Connie Nielsen e alla eterea Yuval Gonen, con Pedro Pascal, Denzel Washington e la coppia formata da Joseph Quinn e Fred Hechinger.
Pascal dopo Narcos, Kingsmen e Il Mandalorian è ormai specializzato in ruoli a tinte forti, impersonando speso personaggi misteriosi, sfuggenti quanto drammatici, in grado spesso di combattere come dei gladiatori.
Washington ha una carriera a dir poco eclettica, oggi si diverte tantissimo anche con pellicole gustosamente action come la saga di Equalizer, ma già nel 2005, giusto per immaginarcelo nei panni di un personaggio dell’epoca romana, è stato a Broadway Giulio Cesare, in un adattamento dell’opera di Shakespeare.
Sempre per stare in tema “sandalone” Connie Nielsen dopo Lucilla nel 2000 è stata nel 2017 anche l’amazzone Ippolita nel “sandalone supereroistico” Wonder Woman.
Joseph Quinn ha esordito nel 2018 non bellissimo action horror Overlord, di recente ha partecipato alla serie Stranger Things e a The quiet place: Day One. Il suo ruolo più “epico” (ma non “sandalone”) è di scuro quello Enjolras in un adattamento BBC de I miserabili di Victor Hugo. Fred Hechinger è stato nella serie Netflix The Fear Street Trilogy.
La sceneggiatura del nuovo Gladiatore, pur basata sul soggetto di Franzoni, è curata da Peter Craig: autore dello script molto amarcord di Top Gun: Maverick e della “bruttina” sceneggiatura The Batman di Matt Reeves. Co-sceneggiatore del lavoro è David Scarpa, già autore del Napoleon di Scott.
Ci sarebbe da scrivere un libro intero su come negli anni, già agli albori del 2000, si sia pensato a dei sequel (im)possibili per fare del Gladiatore un franchise. Mille possibilità, tra cui l’idea di un Massimo Decimo Meridio che “ritornava dai campi elisi” in diverse epoche storiche, come una specie di eroe immortale, se vogliamo in un modo simile al progetto meta-cinematografico BSRKR, oggi curato da Keanu Reeves in prima persona. Tiriamo innanzi.
Le musiche non sono più di uno Zimmer che di recente ha dichiarato “più di quello che ho già fatto non saprei cosa fare”. Il testimone è passato a Harry Gregson-Williams, già per Scott in Kingdom of Heaven, Prometheus, The Martian, Covenant, House of Gucci. La fotografia è ancora di John Mathieson.
Il primo Il Gladiatore aveva un budget di 105 milioni, il secondo sembra costato 205, ma sono anche altri tempi.
In sala:
C’erano mille bozzetti di “sogni gladiatorii irrealizzati”, tra le scene tagliate del primo Gladiatore. Principalmente per budget già alto e il minutaggio, ma anche per la difficoltà di mettere in campo effetti speciali che 25 anni fa erano ancora acerbi. “Troneggiava” tra queste scene mai realizzate lo scontro in arena contro un uomo che cavalcava un rinoceronte, che in questo sequel può prendere vita in una sequenza davvero potente, estrema. Oggi è possibile mettere su pellicola uomini che combattono contro scimmie digitali realistiche che saltano e mordono nel momento più sanguinoso e brutale della pellicola.
Oggi è possibile realizzare anche uno dei più grandi “sogni bagnati” di ogni amante della storia romana, una delle storie più incredibili e spettacolari in cui era possibile imbattersi durante una versione di latino del liceo classico: il racconto di come siano arrivati ad allagare il Colosseo di Roma con centinaia di metri cubici d’acqua, imbarcazioni comprese, per rappresentare la battaglia di Salamina in uno scontro di Gladiatori.
Una scena degna delle sequenze delle bighe di Ben-Hur, in grado di costare da sola il budget di tre film, enorme quanto affascinate, vivida e terribile, spettacolare in tutta la potenza visiva e sonora che il cinema di oggi è in grado di regalare.
Ancora una volta siamo uno straordinario lavoro visivo e sonoro, unito a mille stunt-man e un montaggio serrato, ci portano all’interno di grandi ricostruzioni, costumi, battaglie campali e scontri all’arma bianca, straordinari momenti onirici e appaganti sequenze action.
Tutto il resto, per Scott, è come cantava Califano in una celebre canzone.
I due giovani “imperatori con scimmietta” sono per lo più decorativi: hanno volti di bambola e come la Pris di Daryl Hanna sembrano uscire da Blade Runner: burattini umorali nelle mani di poteri più occulti.
Denzel Washington è vestito con una tunica ma pur bravissimo nell’atteggiamento ha lo stesso “mood” di quando Scott lo dirigeva in American Gangster, solo più tamarro e coperto d’oro.
Connie Nielsen è un personaggio irrisolto, contratto, privato di una profondità emotiva che potrebbe esprimere ma non riesce a trasmettere anche solo per come è strutturata la trama. Il film che sembra non avere tempo per parlarci del “lato femminile” al punto che pure Yuval Gonen è poco più che un fantasma.
Parlando di fantasmi, più volte riecheggia sulla pellicola l’ombra di quello che forse è stato davvero il “seguito spirituale” de Il Gladiatore, l’opera che ne ha più estremizzato i temi quanto reso tridimensionale una “simile mitologia”: la serie Starz Spartacus.
Da Spartacus la pellicola di Scott eredita, forse non a caso, l’attore Peter Mensah. Difficile non vedere nel “lanista” di Washington il personaggio simile, Lentulo Batiato, interpretato con più trasporto da John Hannah. Difficile non ritrovare, nei personaggi di Annone e Arishat, più di un parallelo con lo Spartacus del mai dimenticato Andy Whitfield e la sua amata Sura, interpretata da Erin Cummings.
Si salva Pedro Pascal e il suo bellissimo e sofferto Acacio. Poco altro.
Pure la storia, nel suo andamento ondivago sembra arrivare a una improbabile quanto a tratti davvero surreale, disordinata e implausibile “rivolta alla Spartacus”. Solo che lo Spartacus di Starz era molto più solido e contratto, nonché arditamente sinonimo di “eccesso” in tutte le sue forme: esplosioni continue di sensualità carnale, dissolutezze morali e un cinica crudeltà fisica che rendevano l’eroismo “vacuo” dell’arena quasi l’unica forma di “ordine (a)morale” possibile.
Qui manca coraggio, si arriva a un finale che non sarebbe possibile neanche nel più riconciliante cartone animato Disney.
Colpa di uno sceneggiatore privo di guizzi come Peter Craig, che si limita a copiare da sempre dai migliori, ma senza particolare inventiva, che qui copia male (e con poco senso) proprio lo Spartacus di Stars.
Anche la trama del primo Gladiatore, come sopra ricordato, era semplice, lineare, dava almeno la possibilità agli interpreti di dare vita a interpretazioni molto valide, a volte sopra le righe ma intense.
Questa trama è davvero brutta invece: butta via velocemente le buone premesse iniziali in molte banalità, fino a giungere a vette inesplorate di non-sense degne solo di quelle prese in giro nel telefilm Boris, incastrandosi in pertugi narrativi che non riescono a salvarla delle interpretazioni anche discrete.
Mescal ha un personaggio scritto male, ma non buca e non riesce neppure a irradiare un millesimo del carisma di Crowe. Gli mancano “lo sguardo della tigre”, la voce possente e la rabbia necessaria. Con uno sguardo riesce a far sciogliere una intera platea femminile, gliene do atto, ma in questo ruolo rimane davvero opaco, forse quasi “antipatico al regista”, come lo fu Orlando Bloom in Kingdom of Heaven.
Certo la sceneggiatura pretende a volte pure troppo: porta Mescal verso la fine a dover esprimere un carisma e capacità di convincimento “triple” a quanto espresso dal William Wallace di Braveheart di Mel Gibson: roba che lui (ma forse nessun altro al mondo) non può realisticamente avere. Ma Scott, un po’ come George Lucas con Hayden Christensen nel ruolo impossibile di Darth Vader, non lo aiuta.
Scott deve dirigere un esercito di maestranze per la sua battaglia navale nel Colosseo. Deve rendere plausibili, terribili e bellissime le scimmie combattimenti. Deve riuscire a raccontare credibilmente come i rostri delle “esareme romane” riuscivano ad ancorarsi sulle fortificazioni sulla riva nemica sfondandole. È preso dalle decorazioni in oro del palazzo reale, dalla struttura a corridoi interni e dalle paratie mobili sotto il Colosseo.
È ipnotizzato da una folla sugli spalti di centinaia di persone che “dialogano con i due reggenti” attraverso cori simili a onde: piccoli uomini che parlano con “autoproclamati semi-dei”, pregandoli di salvare o meno la vita dei gladiatori. Perso nella grandiosità della costruzione d’insieme, Scott lascia soli a se stessi i suoi attori.
Del resto tutti si ricorderanno per lo più delle scimmie, la battaglia navale, il rinoceronte. Del resto, dai tempi del dvd, è più facile passare alle scene più interessanti di un film, balzando le cose meno spettacolari.
Però peccato, davvero.
Finale:
Scott continua a costruire mondi visivi affascinanti, enormi e carichi di dettagli, amore, effetti speciali. Il suo cinema ha ancora il dono di aprire “squarci nella Storia”, passata e futura, trasportandoci da spettatori in battaglie millenarie quanto possibile in infiniti orizzonti temporali e alieni. In una visione di insieme così “alta”, quasi divina, forse però non riesce ad appassionarsi più alle “facezie umane”, lasciando i suoi personaggi e i suoi attori un po’ spaesati o in balia di sceneggiatori poco ispirati.
Ne Il gladiatore 2 c’è di sicuro grandezza, grandi battaglie in grandi scenari, momenti onirici incredibili, prodigiosi effetti visivi e una grandiosissima e roboante colonna sonora. È tutto quello che serve per un Tech-Demo: per presentare al pubblico le potenzialità visive e sonore di un nuovo televisione ultra piatto con sonoro 6+1 in un centro commerciale.
Se volete “accontentarvi” delle sole scene d’azione, è un accontentarsi sicuramente di lusso.
Peccato che tutto il resto, come diceva Califano, sia “noia”.
Talk0
Nessun commento:
Posta un commento