Sinossi: La prefettura di Hiroshima dei giorni nostri è un luogo tranquillo e sorridente, famoso per il turismo, il cibo e le cliniche, dove il tempo sembra essersi fermato agli anni '60. Tuttavia è un luogo con il cuore ancora ferito dalla bomba, dalle generazioni che questa ha spazzato via, dall’esodo di tantissimi giovani verso le opportunità delle grandi città come Tokyo.
Nella piccola cittadina di Onomichi, ogni giorno da tantissimi anni, fin dalle prime luci dell’alba, lavora a pieno regime il “Tofu Takano”.
Qui il Tofu prende forma da materie prime pregiate quanto tenute gelosamente segrete (forse vaniglia?). Viene filtrato da macchinari ad alta pressione e precisione, lavorato con la forza delle braccia in grandi pentoloni, tra nuvole di vapore che rendono tutto il laboratorio cangiante. È un lavoro che richiede ferrea tempistica, ma anche una armonia di movimenti e sapori che si può acquisire solo dopo molta pratica e impegno.
I due artigiani preposti, vestiti di abiti, grembiuli, guanti e stivaletti bianchi, si coordinano silenziosi ascoltando i suoni prodotti dal Tofu dal primo impasto alla scolatura e taglio del prodotto finito in cubetti. Prima di mettersi a vendere il loro prodotto, ponendolo direttamente sul bancone della stanza attigua, si regalano una tazza celebrativa di caglio che assaporano in silenzio.
L’artigiano più anziano è anche il titolare, Takano Tatsuo (Fuji Tatsuya, uno degli attori più famosi e oggi “anziani” del Giappone, protagonista anche del cult L’impero dei sensi). Uomo possente ma canuto, poco ciarliero, gentile nei modi, a tratti un po’ scorbutico nelle relazioni umane. È un artigiano meticoloso, appassionato, orgoglioso e pieno di amore per il suo tofu: considerato, con sua enorme gioia, come il migliore di tutta la zona e perfino arrivato all’attenzione degli stranieri, grazie al tam tam dei social.
Oltre a curare la sua personale rivendita, con la formula “pochi prodotti ma di qualità”, Tatsuo fornisce il tofu anche al supermercato locale, spesso scontrandosi con chi gli chiede di aumentare la produzione, rivelare la ricetta o in qualche modo espandere il suo prodotto fino a poter servire anche i supermercati di Tokyo. Tatsuo odia Tokyo e i suoi Giants, le grandi catene in generale e l’idea stessa che il suo prodotto, diventando “industriale”, perda quel sapore e fascino unico, che lui solo sa conferirgli lavorandolo a mano.
Della stessa imprescindibile idea di qualità e artigianalità è la collaboratrice più giovane del Takano Tofu: la timida ma energica figlia di Tatsuo, Haru (Aso Kumiko). È brava e sorridente con i clienti, volenterosa e molto creativa nella fase di elaborazione finale del prodotto. Ogni tanto prova ad aggiornare la produzione con novità, diventate in breve popolari e richieste, come “il Tofu fritto”.
Ma il padre tende a limitarla, così come non la ritiene ancora il grado di gestire, con dimestichezza necessaria, la fase cruciale e “originaria” dell’impasto: dove muscoli e tempi corretti nel ritmo della mescola vanno dosati con precisione assoluta.
Forse lo fa per orgoglio: per sentirsi ancora dopo tanti anni solo lui il solo e indispensabile “creatore” del Tofu migliore di tutti. Forse lo fa per paura: temendo di non servire più a molto, il giorno in cui la figlia prenderà tutte le redini della produzione. Forse lo fa perché è un padre iperprotettivo: che da quando Haru era piccolissima ha fatto di tutto, perché lei non dovesse mai scottarsi o farsi male, gestendo pentole bollenti o troppo grandi.
Quale che sia la verità, Tatsuo sente che sta diventando davvero troppo vecchio. È tempo che Haru, che ormai da anni lo segue fedelmente e senza chiedere nulla in cambio, possa avere la possibilità di trovare la sua strada e farsi una sua famiglia.
In passato la ragazza ci aveva già provato, ma aveva incontrato un tizio della odiatissima Tokyo ed era finita male. Ora Tatsuo deve però cercarle la persona giusta, magari qualcuno che ami il Tofu e possa avere tutte le qualità migliori: come il suo “Tofu”.
Gli amici del barbiere e del bar, tutti un po’ strampalati ma risoluti, fanno subito quadrato intorno all’artigiano, solidali e operativi. Si lanciano alla caccia dei “curriculum più appetibili”, del meglio della zona. Creano un database con foto, accolgono critiche metodologiche, organizzano gli incontri conoscitivo/valutativi dei più papabili con lui. È una caccia durissima, anche perché il paesino è pieno di tizi di Tokyo o che tifano Giants, che lo irritano un casino.
Ma alla fine qualcuno di papabile, ben disposto, carino, esperto di Tofu e che non sia di Tokyo o tifi Giants, si trova. Ora occorre organizzare “la seconda fase”: dimostrare a Haru che non si tratta affatto di una specie di matrimonio combinato. Il candidato dovrà capitare per caso in negozio e Tatsuo dovrà apparire sorpreso quanto colpito, addirittura propositivo nel caldeggiare un incontro intimo a cena, tra Haru e un tizio sconosciuto.
Recitare che non è per niente nelle corde dell’artigiano e qui occorre una interpretazione da Oscar. Così gli amici organizzano per lui una specie di “copione” di cose precise da dire al candidato incontrato “per caso” in negozio. Per rendere il tutto più credibile, ingaggiano una ragazza che studia in un corso di regia: per migliorare l’interpretazione di Tatsuo dopo varie simulazioni, a cui partecipano tutti gli amici, che avvengono in un parco giochi, davanti a bambini un po’ perplessi.
Mentre Tatsuo è intento in questo teatrino, deve occuparsi anche della sua salute, diventata negli anni più cagionevole. L’ospedale è un posto “difficile”, ma che lo fa avvicinare presto a una paziente che si trova lì per problemi simili ai suoi, gentile e piena di vita: Fumie (Nakamura Kumi). Fumie ha più o meno l’età di Tatsuo e si reca a Onomichi solo per le cure, permettendosi il soggiorno lavorando come cameriera in un hotel della zona.
Tra i due nasce un'intesa forte, che piano piano li allontana dalle preoccupazioni delle malattie e dell’età. Dal bisogno di “organizzare il futuro agli altri” come dai troppi fantasmi del passato, che sempre più spesso vengono a far loro visita.
Del resto ogni giorno Tatsuo dà alla vita un Tofu nuovo quanto eccezionale. E forse Haru vorrà continuare a farlo.
A tavola al cinema: Cibo e Cinema manifestano da sempre, dai tempi delle noccioline e del pop corn, un legame speciale e privilegiato. Un legame che si sta oggi evolvendo in interessanti esperienze cinematografico/culinarie, in salette dove servono pasti accompagnati da bevande e pellicole, come al cinema Anteo di Milano.
Del resto opere con protagonisti cuochi e cucine sono sempre state all’ordine del giorno, dal sarcastico La Grande Abbuffata al tenero Ratatouille, passando per “l’anti-narcisistico” Il sapore del successo e al recente, folgorante, Il gusto delle cose, di Tran Anh Hung: un’opera dove la cucina di un cuoco francese si trasforma in un autentico atelier di arte e musica, composta solo da pietanze e passione in un'armonia di impasti e composizioni unica, trascinante e quasi trascendente. E che dire dell’horror gastronomico The Menù, con un luciferino quanto generosamente appassionato Fiennes e critici gastronomici estasiati all’idea di diventare parte di una pietanza?
Molti registi inseriscono poi da sempre, in opere che parlano di qualunque tematica, dei momenti in cui si parla di cibo o della preparazione di un piatto specifico. Tra i più noti, Coppola o Tarantino, ma anche Rodriguez, De Palma, spesso Scott e Zemekis. Ma anche Hayao Miyazaki, che venne “bacchettato” dal suo collega/rivale/amico Takahata per quel suo unico film, Nausicaa nella Valle del Vento, in cui non aveva descritto in animazione un piatto “davvero commestibile”.
Rimanendo in terra d’Oriente, troviamo due esempi illustri di registi che hanno da sempre parlato del loro lavoro come di quello di “cuochi specializzati”. Takashi Kitano ha più volte descritto le sue opere come un insieme di materie prime “fresche” come il sushi: l’idea deve essere folgorante e succosa e deve essere servita appena “pescata”. Il cinema di Kitano nasce da un’urgenza creativa che fa di lui un cuoco specializzato nell’elaborarla e servirla con creatività in tempi rapidi, come un cuoco esperto di sushi.
Il grande Ozu si definiva invece proprio come un "fabbricante di tofu": in quanto dal suo punto di vista sfornava uno dopo l'altro film tematicamente e stilisticamente simili, proprio come i produttori del “modesto” alimento a base di soia sfornano cubetti indistinguibili l'uno dall'altro. Il regista di Viaggio a Tokyo (1953) ci parla con questa suggestione della capacità del cinema di farsi “nutrimento per il pubblico”. Un bisogno che più essere “modesto” in quanto “semplice”, che nasce per la basilare voglia di “uscire una sera”: per andare in sala con la voglia di divertirsi e staccarsi dal mondo (ma che poi può strutturarsi di più). Una voglia quotidiana come il Tofu, uno degli alimenti più popolari e più semplici nelle cucine orientali, ma oggi anche uno dei più riconosciti nelle diete.
Nel capolavoro del 2009 di Teddy Chan, Bodyguards and Assassins, il personaggio di un monaco pieno di altruismo viene soprannominato come il particolare Tofu fermentato secondo tradizione cinese: “Tofu Puzzolente”. Un Tofu con personalità, se vogliamo con aspetti di carattere simili ai nostri formaggi erborinati, che nella procedura di fermentazione incontra la terra.
Ma il film di Mihara Mitsuhiro ci parla del classico Tofu tutto giapponese, nato del caglio dei semi di soia, con l’aspetto finale tradizionale di “cubetto”. Un Tofu il cui sapore leggerissimo e delicato discende dagli alimenti e spezie a cui è associato: come una sorta di infusione di The alle erbe. Nel caso del Takano Tofu, quasi delle venature di vaniglia.
Secondo una teoria giapponese diffusa, questo tipo di Tofu è un alimento nato facendo bollire per caso delle fave di soia mescolate a del sale marino “sporcato”. Il sale al suo interno presentava calcio e magnesio, stimolando così l’arrivo al caglio e alla coagulazione dell’impasto, fino al prodotto finale. Un prodotto “idealmente” in perfetto equilibrio tra la terra e il mare, come molte delle isole dell’arcipelago giapponese: alla ricerca di una sua immutabilità di sapore, riconoscibile quanto unica, familiare come McDonalds (è una metafora, non uccidetemi).
La Mihara, che scrive e dirige questo film, ci parla però di un Tofu particolarissimo: un Tofu che è “sopravvissuto” alla bomba di Hiroshima, nonostante l’atomica abbia cambiato ogni cosa in quella regione e nel mondo. Un Tofu che è rimasto immutabilmente buono e quotidiano, in perfetto equilibrio tra terra e mare e “nonostante tutto”. Un “prodotto/porto sicuro alimentare” che però rischia di scomparire: “cannibalizzato” dal mercato.
L’eredità della bomba e delle traduzioni: Tofu in Japan ci parla quindi di Tofu, ma anche in senso più sfumato di un popolo. Ce lo racconta “su piccola scala”, nella forma di un racconto intimo e pieno di tenerezze, affidato a straordinari interpreti in grado di farci ridere e piangere con spontaneità assoluta, facendoci credere all’illusione massima: che siamo persone e non personaggi.
Tuttavia è un popolo arrivato ormai a un grande bivio, con una popolazione anziana altissima e pochi giovani, con una “generazione di mezzo” distrutta: dagli effetti diretti e indiretti della bomba come le radiazioni. I legami familiari sono ormai labili o carichi di cinismo e opportunismo (vedi i parenti di Fumie). I giovani hanno bisogno di “cambiamenti” rispetto alle tradizioni, necessari quanto a volte dolorosi, come la scelta di “andare via”. Il rapporto “con chi non c’è più” si fa sempre più stretto, alimentando un senso di immobilismo e impotenza.
Tofu in Japan racconta questi aspetti critici sottovoce, tra i dettagli, tra le bellissime e avvolgenti musiche di Naohisa Taniguchi e la fotografia colorata e quasi da favola di Shuichiro Suzuki. Tra i molti momenti gustosi da commedia e le affettuose sequenze serali, in cui i personaggi camminano spessano sulle strade a braccetto, sostenendosi a vicenda, barcollando fiduciosi.
Tofu in Japan ci racconta di un popolo che per sopravvivere riscopre un modo positivo di guardare avanti, accogliendo le sorprese che vengono dalla quotidianità, senza impuntarsi su quanto l’uomo non è in grado di controllare al meglio sulla base di “ricette precise” e “convinzioni assolute”.
Accettando le sconfitte o anche solo il “brivido” di non seguire una “ricetta di vita”, può forse dar vita a un Tofu diverso e di conseguenza il suo “sapore/rifugio” può mutare. Ma forse alle volte si possono anche scoprire gusti nuovi: perché il cuoco sia sempre una persona in gamba.
Finale: Tofu in Japan segue la lezione del cinema essenziale e preciso di Ozu, si ammanta di una garbata ironia e si affida a un cast artistico e tecnico molto valido. All’esterno profuma delle fragranze della favola che accoglie come un abbraccio ma, dopo il primo assaggio, sa trasmettere una maggiore complessità narrativa.
È una piccola opera, ma per molti aspetti risulta davvero imperdibile: in grado di toccare temi davvero profondi quanto importanti non solo per capire il Giappone di oggi, ma anche la nostra quotidianità.
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