lunedì 27 gennaio 2025

Solo per una notte (Laissez-Moi): la nostra recensione di un piccolo, bellissimo film “romantico e drammatico”, diretto da Maxime Rappaz

Ogni martedì Claudine (Jeanne Balimar) mette la sua vita di sarta in pausa, si trucca e indossa un vestito bianco. 

Prende con il sorriso un treno che la porta tra le montagne della Svizzera, cantone di Valais, nei pressi di una gigantesca diga da cui si ricava energia elettrica. 

Costeggia questa enorme montagna d’acqua e prende un trenino più piccolo, per salire ancora di quota: dove si trova un grande albergo, frequentato per lo più da commessi viaggiatori. Parla con il portiere, accede al ristorante e qui sceglie un uomo, tra i tanti uomini soli ai tavoli. 

Uomini dall’aria rassicurante, preferibilmente gentili e curati, magari con una storia interessante da raccontarle sul loro lavoro o della città da cui vengono. 

Si siede davanti a loro a colazione e tutti parlavo volentieri con lei, anche per vincere quella strana solitudine di trovarsi soli tra i monti, con davanti una bella donna e un cappuccino. 

Dalle risposte lei “sceglie”, li accompagna in una stanza e si concederà a loro. 

Nessuno dice di no. Ma è solo per una volta, solo per una notte. 

Il mattino dopo, come loro riprenderanno il viaggio, lei ripartirà da sola con il trenino e poi con il treno, verso casa. Facendo però tappa davanti a una buca delle lettere, dove depositerà una lettera. Una lettera rivolta a suo figlio Baptiste (Pierre-Antoine Dubey), che non ha mai incontrato suo padre, vive con lei e si sposta su una sedia a rotelle. Nella lettera, scritta a mano, che puntuale arriva il giorno dopo, Claudine si finge suo padre e racconta a Baptiste dove si trova nel suo lungo viaggio lontano da casa, da commesso viaggiatore: aggiungendo dettagli che riguardano la vita e la città dell’uomo che lei ha incontrato nell’hotel, solo per quella notte.

La vita riprende, ciclica e invariata, fino al successivo martedì: lo stesso vestito bianco, lo stesso viaggio, hotel e incontro con uno sconosciuto gentile, il ritorno e la lettera. Claudine è stanca della sua vita da sarta e delle difficoltà di accudire da sola un ragazzo adulto con forti invalidità, ma continua a negarlo a se stessa. 

Si richiude in quella “strana vacanza” del martedì, per “tirare avanti”, come una dipendenza. Come se un giorno l’acqua trattenuta dalla grande diga non riuscisse a essere più contenuta, esondasse e tutto potesse finire: senza altri significati profondi, trascinandola dentro. 

Un giorno però le cose cambiano. Claudine nella sua solita passeggiata verso l’hotel nota un uomo che fa delle rilevazioni per la diga: è un ingegnere, si chiama Michael (Thomas Sarbacher). Ogni tanto lo ritrova sul trenino. Qualche volta all’hotel. È come se ci fosse sempre stato, durante i suoi viaggi tutti uguali, come un elemento sullo sfondo, un dettaglio sfuocato ma sempre presente. 

Un giorno Michael la avvicina. La invita per un caffè. Parlano molto e si incontrano altre volte. Cenano, camminano, qualche volta vanno pure in quella stanza d’albergo. Un giorno l’ingegnere la porta sotto la diga, nel posto dove lavora, nel cuore della struttura da cui si ricava l’energia Idroelettrica. Da un oblò le fa scrutare quella massa d’acqua potente e ancestrale, in grado di distruggere ogni cosa in pochi secondi quanto di dare energia. Un'energia che si più “gestire e non subire”. 

Claudine cerca di mettere un po’ da parte Michael, che inizia a chiedere dettagli sulla sua vita e su suo figlio, che prospetta di vivere insieme a lei magari “altrove”, in un’altra nazione.  

Torna al suo “rito del martedì”, anche se gli uomini che incontra non le danno più le stesse emozioni. 

La preoccupa Baptiste, che ormai è adulto e necessiterebbe di essere seguito, come internato, in un istituto che periodicamente già frequenta. Un posto carino e dove potrebbe farsi amicizie, ma che per lei significherebbe “abbandonarlo”. La preoccupa la paura di sentirsi inutile come madre, come inadeguata come donna.

Fino a che la vita le imporrà di prendere delle scelta, ma Claudine non potrà più “scappare” in un hotel tra le montagne. 


Maxime Rappaz scrive e dirige un film perfetto in ogni meccanica narrativa e visiva, come un orologio svizzero. 

Si può leggere a più livelli, stimola il dibattito, “non mette d’accordo gli spettatori” sulla giusta interpretazione da dare a ogni evento. 

Cosa cerca Claudine? 

Un amore passeggero? 

È vittima di una forma di “dipendenza”, che non riesce ancora a chiamare con quel nome? 

Cerca un padre per Baptiste a partire dai modi gentili e dalle domande-test che lei somministra nel bar di un hotel a sconosciuti? 

Non vuole accettare che Baptiste diventi un uomo e lei non possa più prendersene cura da sola, come ha fatto fino ad ora, “mettendo in pausa” le sue aspirazioni? Cerca solo una lenta autodistruzione non essendo in grado di affrontare direttamente i problemi? 

Oppure cerca proprio il momento in cui, messa alle strette dagli eventi, dovrà per forza dare una direzione precisa alla sua vita?  

Domande che si affastellano nel personaggio interpretato dalla brava Jeanne Balimar in modo inconscio, mentre si muove indecisa tra affrontare o scappare dai problemi. 

Domande che si pone mentre cammina tra paesaggi da sogno, imponenti quanto “pacifici”, avvolti da una natura lussureggiante, eterna: ma che fa sentire tutti “più piccoli”, davanti alla grandezza del mondo in cui siamo immersi. 

Domande che si pone in quelle “vacanze/boccata d’aria del martedì”, mentre si concede le carezze e l’affetto di uno sconosciuto, che magari a fine notte, con “pragmatismo, un po’ di cinismo e realismo”, vorrebbe pagarla come una prostituta. 

Domande impellenti e raggelanti,  a cui “non può fuggire”, quando si trova davanti a Baptiste o Michael, che non sono per lei “persone qualunque”: al punto di sentirsi quasi “soffocare”. 

Emozioni che sa esprimere al meglio un'interprete straordinaria come Jeanne Balimar: sensuale quanto fragile, risoluta quanto materna. In Solo per una notte il suo personaggio si mette più volte a nudo, fisicamente e psicologicamente, in modo spontaneo quanto struggente. Molto bravi anche Thomas Sarbacher e Pierre-Antoine Dubey, che riescono a costruire due personaggi sfaccettati, pieni di qualità e difetti che li rendono autentici, “problematicamente realistici”.

Maxime Rappaz confeziona un piccolo grande film che è davvero un peccato lasciarsi sfuggire.

Un film che aiuta a pensare sul tempo, sulla sessualità e sull’amore, sulla volta ogni tanto di prendersi una vacanza da tutto e da tutti i problemi. Magari ogni martedì.

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