mercoledì 8 gennaio 2025

Better man: la nostra recensione del film biografico, musicale e un po’ “fantasy”su Robbie Williams, diretto da Michael Gracey

Premessa: Sono nata nel 1983, mi sono goduta parte dei favolosi anni ‘80 urlando per casa “‘cause I’m a lady, lady, lady easy lady” (!!!) di Spagna con l’innocenza di una bambina, amando alla follia Scialpi ed il suo improbabile taglio di capelli e con Jovanotti, che dava a tutti il cinque per poi partire militare. Grandi anni gli anni ‘80. Ma i ‘90 e i ‘00 non sono stati da meno, specie se li vivi appieno in un periodo di transizione che va dalle elementari al liceo. Momento chiave per la vita di chiunque. Il 2024 ha rappresentato, forse per la prima volta, un anno in cui mi son sentita “diversamente giovane” in quanto ricco di revival per la mia generazione. Prima ci ha pensato Sky, con la serie sugli 883 Hanno ucciso l’uomo ragno, che ha colto in pieno la spensieratezza delle elementari e quel “poter dire le parolacce perché sono testi delle canzoni degli 883”. Poi ci si è messa Netflix con Senna. Tutti si ricordano cosa stavano facendo quando è morto Ayrton. Io stavo giocando in giardino con il mio vicino di casa e mio papà, grande appassionato di F1, guardava il GP di Imola in soggiorno. Ad un certo punto è venuto a chiamarmi dicendo “Senna ha avuto un incidente. E’ lì che non si muove”. E da quel momento i pomeriggi della domenica hanno avuto un sapore differente, citando Cesare Cremonini… “da quando Senna non corre più… non è più domenica”. Ma il colpo di grazia definitivo mi è arrivato con Better man


Sinossi: Better man è la storia di Robbie Williams. Raccontata da Robbie Williams. A modo di Robbie Williams. 

Ma chi è Robbie Williams? Per me la rockstar più incredibile che sia mai esistita tra il 1997 ed il 2003. Ma come Robbie è diventato così? Ce lo racconta il film. Si parte da un baby Robert (lo “interpreta digitalmente” Jonno Davis, mentre la versione adulta di Robbie è interpretata dal cantante stesso) che cresce in un sobborgo inglese coi genitori e la nonna. Bullizzato, non esattamente bravo a scuola, incompreso. Un giorno il padre (Steve Pemberton) se ne va di casa per sfondare nello show business lasciando una madre single (Kate Mulvany), una nonna con qualche problemino (Alison Steadman) e un bambino distrutto. La svolta nella vita di Robert avviene nel 1990, quando riesce ad entrare in una boyband creata a tavolino (il manager, dai tratti un po’ luciferini, ha il volto di Damon Harriman): i Take That. Da quel momento il mondo cambia e Robert diventa Robbie, il “burlone-stupidotto” del gruppo. Insieme agli altri quattro del gruppo: Gary (il leader, il solista, il cantautore, il “cicciobombo”, interpretato da Jake Simmance) da Mark (il babyface del gruppo, interpretato da Jesse Hyde), Jason e Howard (che per fortuna ad un certo punto uno, Howard, si è fatto crescere capelli rasta e si è messo un piercing al sopracciglio… altrimenti sembrano quasi identici, gli attori Liam Head e Chase Vollenweidel) i Take That diventano la boyband inglese più importante della storia. Mai stata la mia boyband. Però è la prima che mi ricordi. Copiati da innumerevoli altri gruppi… gli East 17 (gli East 17!!!!), i Boyzone, i Blue, gli One Direction… o le versioni femminili come le Spice girls, le All saints… o le versioni statunitensi… New kids on the block o i “miei” Backstreet Boys (“kisses for Kevin”, citazione per le più fanatiche…). 

La vita nei Take That non è tutta gioia e felicità per il nostro Rob. Anzi… alcolici, droghe, donne… non si fa mancare nulla. Ed infatti, nel 1996, Robbie viene fatto fuori dal gruppo. E da qui Robbie, anche grazie a un nuovo amore (Nicole Appleton delle All Saints, interpretata dalla brava Raechelle Banno) inizia il percorso per diventare la più grande rockstar del mondo con una carriera solista fatta di hit memorabili e fantastiche che mando a memoria ogni singolo giorno. Come non rispondere all’invito “shake your ass, come over here, now scream” di Let me entertain you o come non ritrovarsi nel “so need your love, so f**k you all” di Come undone. La speranza che “something beautiful will come your way” o la certezza che ormai “early morning when I wake up I look like Kiss but without the make-up” di Strong

La trama del film è la vita di Robbie. Quindi, se non la conoscete, la conoscerete bene. Se la conoscete, è un tuffo nei più vividi ricordi musicali e da video di mtv degli anni scorsi. Creato alla perfezione. Ogni singola scena è un riferimento ad un evento, concerto, foto, copertina vissuta da Robbie e dai Take That. 


Ma perché guardare questo film? Ve lo dico punto per punto!

-Attori perfetti. Trucco e parrucco perfetto. Non è scontato e non è mai banale trovare un cast che riesca bene a interpretare dei personaggi in modo credibile e convincere, quanto a ballare e cantare in coreografie complesse. Merito del regista ma anche di Robbie Williams stesso, insieme co-autori e produttori. 

Williams ha voluto mettessi a nudo emotivamente, quasi scomparendo sotto gli effetti digitali ma curando moltissimo la scelta di attori che avrebbero rappresentato pezzi importantissimi della sua vita personale. 

Su tutti svetta Steve Pemberton, attore che riesce a dominare la scena con un ruolo pieni di estro, contraddizioni e una complicata emotività. Il suo è un “padre” che vive perennemente “Tra palco e realtà”, come canterebbe Ligabue: è un uomo perennemente scontento e in fuga da se stesso, che sa comunicare “davvero” con il figlio solo attraverso la musica, come se la vita fosse solo una continua ricerca della performance in pubblico, dove l’aspetto privato sia quasi privo di senso. 

Ci è piaciuta molto anche Raechelle Banno, alle prese con una Nicole Appleton, “il grande amore”, solare ma al contempo fragile, travolta dalla gioia quanto dalla sofferenza di vivere al fianco di una persona geniale, divertente ma spesso in un profondo stato di crisi emotiva. La sua performance è come un lungo ballo, passo a due che dal rock si fa tango, fino inevitabilmente a finire. 

Ci è piaciuta la “nonna”, interpretata da  Alison Steadman, che invece  riesce dall’inizio alla fine a guardare il suo nipotino con un enorme sorriso, confortandolo e sostenendolo in ogni sua “sfida”, con lo sguardo benevolo “di un angelo”. 

- Better Man è un film da guardare anche perché il registra, Michael Gracey, sa essere nei momenti migliori un visionario. Un “piccolo” Baz Luhrmann, che riesce a interpretare il cinema come un grande ottovolante pieno di balli, colori e musica, trasformando la pellicola in un “lungo videoclip di MTV” pieno di scene dal sapore contrastato, a volte “sperimentale”., mischiando con gusto generi e suggestioni, cromie e ritmo. Già aveva mostrato il suo talento nel bellissimo The greatest showman con la coppia Hugh Jackman e Zac Efron in stato di grazia, nonostante la “materia di base” fosse difficile quanto controversa. Alcuni numeri di Better man, carichi di citazioni, centinaia di ballerini, effetti speciali, scene oniriche, corse in auto a tutta velocità, momenti belli e brutti, romantici e tragici, riempiranno gli occhi anche degli spettatori in cerca di questo tipo di cinema. Anche di chi non è fan dei Take That.

- Un ulteriore motivo per guardare Better Man è perché è uno di quei rari, quanto preziosissimi, musical in cui le canzoni sono parte integrante della trama e non semplice compilazione da greatest hits. Inserite perfettamente nei dialoghi tra i protagonisti. Un po’ com’era stato fatto per Rocketman sulla vita di Elton John, le canzoni raccontano realmente uno stato d’animo, un evento preciso, un sogno o ricordo sfuocato. 

- la colonna sonora è il miglior greatest hits di Robbie Williams mai creato. 

- Un ulteriore motivo per guadagnare Better Man è banalmente forse anche il primo: l’essere  fan. Su questo aspetto trovo nella pellicola un po’ tutta la mia adolescenza. :-) (e forse è così pure per l’adolescenza di centinaia di altre fan), che rivive in un mondo patinato ma perfettamente ricostruito fino nei dettagli, dalla MTV Generation alle luci di Piccadilly Circus, dalle “rivalità tra band” (c’è una “band rivale” che appare sulla scena in un modo divertentissimo, ma non facciamo spoiler) a colpi di gossip alla spietata macchina dello spettacolo, che travolgeva la vita di tutti i cantanti a suon di scandali, reimpasti, scioglimenti e Reunion. Tutte cose che di riflesso infiammavano anche i fan, che tra radio e dischi accompagnavano la loro vita quotidiana con quelle stesse canzoni.  


Finale con voto, anche se qui di solito non mettiamo i voti: 

Voto 5 su 5 (ma sono fan… non fossi fan 5 su 5)

Buona visione da B-Gis.


P.S. Dimenticavo… Ad impersonare Robbie è uno scimpanzé, mentre il 99% del resto del cast è “umano”… e lo impersona alla perfezione. Grandissima trovata, che permette a Robbie di “recitare” in un modo del tutto “nuovo” quanto convincente, anche perché la tecnologia “scimmiesca” degli ultimi anni, da King Kong al Pianeta delle Scimmie, dalle Scimmie Canterine di Sing alle Scimmie Transformers, ormai ha dato vita a scimmie cinematografiche bellissime. Scimmie piene di espressività quanto di pelo lucido, in grado di lanciarsi in ogni angolo dello schermo come palline da flipper, arrampicarsi sui palazzi, scatenarsi in concitati momenti action, scontri a mani nude. Ma al contempo scimmie dagli occhi enormi e una fisicità “buffa”, in grado di raccontare momenti dolci e sognanti come quelli che prendono forma su un libro di favole. E Better Man, incredibilmente, funziona anche solo per queste scelte grafico stilistiche, come film che riesce a diventare a volte quasi action-fantasy: con il nostro protagonista in grado di superare la forza di gravità e spesso costretto a “confrontarsi con altre Scimmie”, in scontri “sul confine tra palco e pubblico” a tratti onirici come a tratti davvero epici, quasi horror, concitati e pure altamente drammatici. Gli effetti speciali sanno creare davvero un livello narrativo ulteriore, intrigante quanto in grado di coinvolgere anche “chi non è fan di Robbie”. 

Insomma un film per tutti. Da non perdere, carichi di pop corn e coca cola, si grande schermo. E se poi siete fan, un film imprescindibile!!!

martedì 7 gennaio 2025

Cortina Express: la nostra recensione del cinepanettone “vintage” di Eros Puglielli, scritto insieme a Tommaso Renzoni, con protagonisti Christian De Sica, Lillo, Paolo Calabrese, Isabella Ferrari, Veronica Logan e Marco Mazzocca


Siamo in una Italia dei giorni nostri, giusto dal sapore “un po’ vintage”, in una delle città più iconiche e amate per glam e lusso nella stagione invernale. 

Sulle piste innevate di Cortina (che qualcuno scambiò per le Montagne Rocciose, nel film Cliffhanger), un piccolo e variegato popolo di autoctoni e turisti, allegro e felice, coperto da tute firmate e variopinte, scia spensierato sotto le note di un pezzo disco/pop “un po’ vintage”, che trasmette la sensazione agrodolce di una festa delle medie degli anni ‘80. 

In sottofondo, quasi fosse il prologo de Il signore degli anelli o di uno 007, prende vita, tra scintille dorate e la rotazione eperta di un tornio, un manufatto d’oro molto speciale: un anello nuziale adornato con le corna di un cervo, espressamente disegnate dalla novella sposina. 

Una classica cafonata dal sapore vintage, ma pure un simbolo di unione, lusso e corna, finalizzato a suggellare esattamente quanto promette. 

Promette infatti una “unione”, ma prettamente economica: finalizzata a  salvaguardare “il lusso” in cui vive una ricca famiglia della valle dalla bancarotta, i Giordano, a danni di una ricca famiglia più benestante, i De Roberti. 

Celebrato il matrimonio, la scafata e poco ingenua sposina Guendalina (Agata Samperi), sarà libera di mettere “le suddette corna” al giovane e un po’ minchione sposino/preda Andrea (Francesco Bruni), magari per buttarsi su un trapper un po’ bauscia come lo scarsissimo e iper narcisista Osso Sakro (Riccardo Maria Manera). Un piano semplice ma terribile, quasi perfetto, orchestrato, come in una telenovela un po’ vintage, da una “cattiva carismatica” come la risoluta imprenditrice discografica Patrizia Giordano (Isabella Farrari), insieme allo complicità, forse involontaria, dello stralunato e confuso consorte Aristide (Marco Mazzocca).

Un piano che tuttavia non ha tenuto conto di due variabili impazzite. 

La prima variabile è Lucio De Roberti (Christian De Sica), lo scafato e farfallone zio di Andrea, che si recherà di corsa a Cortina per fermare tutto, temendo la distruzione e dispersione di un patrimonio con il quale ha vivacchiato senza di fatto fare nulla da sessant’anni, buttando tutto su donne e nel gioco d’azzardo. Si impegnerà al massimo per mandare il matrimonio a monte, a costo di sputtanare il nipote, fotografandolo ubriaco mentre amoreggia con un travestito dopo una festa-trappola organizzata da lui stesso. Non si farà problemi a coinvolgere una escort nel furto dell’emblematico anello-cornuto, affidato come tradizione all’incasinato sposino, senza il quale tutta l’anima cerimonia potrebbe saltare. Nel frattempo, per tirare su due lire che non ha, Lucio cercherà di vendere a chiunque la sua Ferrari vintage rosso fiammante, tenuta come un cimelio in garage, almeno per 50 papagne: di sicuro non per 10, forse 40. 

La seconda variabile che potrebbe andare contro Patrizia è invece, ironicamente, proprio quello che per lei sarebbe stato idealmente “il piano B”, nel caso il matrimonio fosse andato a monte: l’ex cantante famoso e ora ristoratore romano Dino Doni (Lillo). A lui, che vive sull’orlo della disperazione, ha promesso con l’inganno una casa discografica in salute, oltre che una poco più che accennata speranza di una “liason amorosa direttamente con lei”. Tutte balle, ma balle a cui Dino, che un po’ vive ancora nel sogno vintage dello yuppismo anni ‘80, ha sempre creduto fortissimo. Al punto da prendere un treno diretto per Cortina insieme alla figlia Giorgia (Beatrice Modica), super fan di Osso Sakro, spendendo e sperperando migliaia di euro che non ha in taxi, hotel, ristoranti e vestiti, pur di arrivare a firmare quel contratto fintamente salvifico. Solo che Dino è così maldestro che è quasi programmato per generare un gran numero di sfighe, contrattempi ed equivoci che renderanno quasi impossibile la firma del contratto.

Dino e Lucio creeranno insieme così tanti “casini a valanga”da attirare pure l’attenzione della malavita locale, nella persona del truce ma pure un po’ “bonaccione” boss Alexei Smirnoff ( Paolo Calabresi). Un uomo pericoloso, con due occhi di colore diverso, ma molto legato al rispetto delle regole e alla musica di Dino Doni, che fa ancora fortissimo nell’est Europa. Alexei può essere anche simpatico e “giocoso”, ma vorrà infine anche lui un pezzo della torta.


Nonostante tutti questi giochi di potere, degni di una versione vintage del Trono di Spade, a Cortina c’è spazio anche per l’amore. Almeno “quattro tipi” di amore. 

L’amore “un po’ ninfomane”, che da anni cerca la ricchissima nobildonna Zanin (Veronika Logan), trascinando nella sua suite a cinque stelle ultra lusso camerieri e ogni tipo di giovane amante, pescato a caso dal ristorante per qualche ora di passione. 

C’è poi l’amore “a senso unico” che spinge Giorgia verso il trucidissimo e insensibile Osso Sakro: che la porta a cercare di entrare in intimità con lui nonostante il ribrezzo che prova per quasi tutti i suoi comportamenti.

L’amore “fintissimo, alternato da continua collera”, che in qualche modo misterioso lega quel povero ragazzo un po’ zerbinato di Andrea alla sua intollerante e dispotica sposina/carnefice. 

L’amore di Dino “per l’immagine grandiosa di Dino Stesso”: che lo costringe a pagare delle persone perché in un negozio di souvenir tipico qualcuno si fermi per “riconoscerlo”, come una grande stella della musica che brilla ancora. Così da “far vedere a sua figlia” che suo padre non è un fallito. 

Forse non le migliori premesse per un matrimonio o un qualche tipo di amore ma, in fondo, a natale sono “tutti più buoni”. Che da una tale sequela di tragedie, nel nome della ostentazione e della truffa, possa mai nascere qualcosa di davvero buono?  


A Natale, sono  tutti più brutti, sporchi e cattivi: “Marchette! Marchette!! Marchette!!!” Era questo il mantra dell’amatore seriale interpreto da De Sica, mentre spiegava perentoriamente a un figlio sparsato (un bravo Sermonti) il suo vero lavoro, nella precedente e riuscita opera diretta da Eros Puglietti:  la serie tv Gigolò per caso

Lì De Sica dava corpo a un “Trivellone” (storico personaggio dei cinepanettoni) nuovo, “moderno” o “2.0”. Un Trivellone che  non ostentava più  quella maschera di facciata, “socialmente e moralmente accettabile”, che era alla base della sua tragi-comicità, nonché pietra angolare di tutti gli anti-eroi protagonisti di questo filone cinematografico. Una maschera che reinterpretava l’arlecchino servo di due padroni ai tempi dello yuppismo“, presentandosi con poche variazioni ”fin dall’esordio del “genere/cinepanettone”: che per lo scrivente è più che altro riconducibile come archetipo a quel Pozzetto di Luna di miele in tre (che sarebbe potuto chiamarsi benissimo “Natale in Giamaica”), il primo film di Vanzina, datato 1979. 

Una maschera che ha accomunato tanti anti-eroi simili (coi volti di Pozzetto ma pure Banfi, Pippo Franco, Calà, Greggio e altri, almeno fino alla sua “strutturazione massima”, su De Sica), un po’ ruffiani e un po’ maldestri, spesso trascinati in una continua elegia di “travestimenti”, fughe da tavoli di ristoranti e camere d’albergo, con l’intento di “sdoppiarsi”, fisicamente e moralmente, per evitare randellate da parenti/potenti e mogli/opprimenti. Cercando narcisisticamente di apparire migliori, “almeno a Natale”, senza rinunciare alla loro personale “bolla di trasgressione” (spesso incarnata da una bella donna), fino a che ogni castello di carte insieme alla maschera cadeva, fragorosamente, sotto le risate della sala. 

Il De Sica diretto da Puglielli in quella serie tv era già diverso: rivelava candidamente di fare il gigolò, pragmaticamente, senza giri di parole, “marchette! Marchette! Marchette!”. 

Come di fatto tutti i personaggi di Cortina Express ci appaiono: “diretti”, senza filtro, pronti alla prima occasione che gli si propone a “svelare le carte” senza paura di apparirci orribili, opportunisti o superficiali. Tutti con licenza di essere cattivi, consapevolmente e candidamente in cerca di “sesso e soldi”, in una Cortina sbrilluccicante e super esclusiva che in quanto tale “nobilita tutti”, rendendoli “più candidi e carini”, sotto le luci e la neve di Natale. 

Cambia così il ritmo, ma anche la struttura del racconto, spegnendo quel “moralismo” che da sempre accomunava i cinepanettoni ai classici film di Natale americani, come ai film horror slasher di Wes Craven.

In un mondo di crociati del politicamente corretto, del resto, la “condanna all’immoralità” deve essere pure nella finzione cinematografica “a vita”, senza condizionale o possibilità di redenzione: chi ha toppato 30 anni fa, ha toppato per sempre, è “cattivo per sempre”. Ogni “tentativo di cambiamento”, ogni speranza di “essere migliori”: se vogliamo le “chiavi” e senso ultimo della lettura di film natalizio medio, dai tempi di Frank Capra, se non dai romanzi di Dickens, sono destinati alla irrilevanza. . 

E mettersi nei panni di personaggi come il Trivellonne di De Sica, in un mondo in cui non è più consentito nemmeno “pensare” fuori dalle regole come lui, non è più un lusso attuabile. 


Se l’antieroe si fa da parte, ci rimane la possibilità di empatizzare solo con il personaggio dell’“idiota”, il “candido” o “bambinone”. Certo, non lo troveremo mai “simpatico”: al massimo “buonino”, “innocuo”, “insapore”. A esagerare, una specie di Minions umanizzato. Quel non-personaggio, che da anni insegue Lillo, che in genere cammina dritto come un lemmings, buffo solo per il fatto di essere un lemmings. Buffo se non buffissimo in una serie di gag da pochi minuti, ma che su un film di due ore “si smaschera”, nel momento in cui lo spettatore medio “si sveglia e capisce”: come non può empatizzare per l’antieroe, lo spettatore non può riuscire nemmeno a empatizzare con un lemmings. Perché gli ricorda troppo il fatto che viviamo in un mondo in cui tutti, chi più chi meno, siamo ridotti dalla società alla stregua dei lemmings. Ridotti ad accettare tutto senza alzare la testa, sperando solo in sporadici “atti di pietà”. Ridotti a “elemosinare like” sui social, spesso fingendoci più “grossi” e “determinanti” di ciò che siamo, come Dino Doni elemosina a pagamento scampoli di una notorietà, che pensa sia l’unica panacea per “sentirsi bene”. È allora che si accende il “senso del tragico” e il personaggio tipico di Lillo, così passivo fino all’autodistruzione, ci fa avvertire tutta l’impotenza in cui viviamo. Una impotenza davanti alla quale una maschera come Fantozzi si ergeva potente ed eroica come una specie di titano, in quanto sapeva alzare la testa e criticare il potere, sebbene venisse puntualmente “rimesso nei ranghi”. 

Cosa ci rimane, se non possiamo più avere l’antieroe e l’eroe, pur comico, non è che un lemmings? 

Come nei cartoni animati, ci rimane da fare il tifo per i cattivi a tutto tondo. L’antieroe Trivellone, riciclato a cattivo, senza troppe sorprese funziona alla perfezione. Con lui funziona ancora e ovviamente un bravissimo De Sica, che rimane uno straordinario interprete. Come colpiscono in positivo, per stravaganza e codici morali “distorti”,  il villain lunare di Paolo Calabrese e il villain cinico di Marco Mazzocca. Come incarnano al massimo la sensualità e il cinismo senza compromessi le “femme fatale” di Veronica Logan e Isabella Ferrarri. 

Quanto sono belli, i cattivi. 

Solo che di colpo non si ride più come “aspetto principale” dell'esperienza, affrontando la visione direttamente come fosse un fumetto di Diabolik. C’è una location bellissima e lussuosa che profuma di ricchezza come Clereville (Cortina), c’è un oggetto prezioso da recuperare (l’anello cornuto), ci sono persone ambiziose quanto ambigue che se lo contendono (le famiglie di ricchi annoiati), criminali senza scrupoli per un paio di scene d’azione (i gangster dell’est) e un’auto di lusso che sfreccia sulle strade (una Ferrari al posto di una Jaguar). È letteralmente Diabolik, anche più della trilogia dei Manetti, con De Sica e la Ferrari che paiono Diabolik ed Eva Kant. 

Certo si ride ancora, facendo molto slalom tra il cinismo, ma è quasi una felice sfumatura extra: il prodotto finale è qualcosa dal sapore molto differente. 

Forse la serialità del precedente lavoro di Puglielli riusciva a preservarne maggiormente la verve comica. Forse Gigolò per caso, del 2023 era come opera stessa una versione riveduta e corretta meglio del lavoro ancora antecedente di Puglielli, il film del 2022 Gli idoli delle donne, in cui era protagonista un sempre insapore Lillo, nel solito ruolo “da Lillo”.

In Cortina Express si sorride, al più, assistendo a una specie di storia alla Diabolik. 


Finale: eccoci quindi al cinepanettone 2.0, debitamente ripulito anche di tutti quegli aspetti pruriginosi che tra docce sexy e giochini hot oggi sarebbero solo intesi come “sessisti”. Ripulito pure delle “note di trash”, al sapore di eloquio vernacolare, cacca di elegante o vomito verde-pesto, che hanno infuso una sorta di “eversione stilistica” nei cinepanettoni del nuovo millennio, perché “fa boomer”. Ripulito del “buonismo fuori tempo massimo” secondo quanto impone la “gogna social”, di cui abbiamo parlato poco sopra.  

Forse un cinema ancora poco ripulito dalle gag sulle imperfezioni estetiche, al punto che qualcuno potrebbe ridere del “vero colore” degli occhi del boss interpretato dal bravo Calabrese, che è esasperato a fini comici, mentre qualcun altro, inconsciamente, potrebbe già sentire il sicuro timore di offendere qualche minoranza, magari ancora non contemplata nel politicamente corretto.

Cortina Express si guarda come Assassinio sull’Orient Express: cercando sulla scena un cadavere e chi ne è colpevole. Qui il morto pare essere il cinepanettone in senso stretto: spolpato, macinato e ri-cucinato dai suoi stessi autori e interpreti, a vantaggio di una odiens moderna, in cerca anche di sapori nuovi e inediti. 

Ha un gusto effettivamente diverso dal solito, più cattivo e disincantato, meno divertente ma più luccicante. 

Presenta ancora delle suggestioni che richiamano gli anni ‘80, sapendo cullare il pubblico più antico con una parola magica come “vintage”, più e più volte esibita come una certificazione di qualità e di origine controllata su tutto quanto si vede e ricorda, dalle musiche alle automobili, dalle sempiterne piste innevate ai locali più in voga.

È un cinepanettone senza canditi però, la cui nuova forma andrà indagata a fondo, per capire se si tratta di rinascita oppure assassinio, sul Cortina Express. 

Talk0

lunedì 6 gennaio 2025

Tofu in Japan: la nostra recensione di una favola moderna, ambientata all’ombra di Hiroshima, scritta e diretta da Mihara Mitsuhiro, con Fui Tatsuva, Aso Kumiko, Nakamura Kumi

Sinossi: La prefettura di Hiroshima dei giorni nostri è un luogo tranquillo e sorridente, famoso per il turismo, il cibo e le cliniche, dove il tempo sembra essersi fermato agli anni '60. Tuttavia è un luogo con il cuore ancora ferito dalla bomba, dalle generazioni che questa ha spazzato via, dall’esodo di tantissimi giovani verso le opportunità delle grandi città come Tokyo.

Nella piccola cittadina di Onomichi, ogni  giorno da tantissimi anni, fin dalle prime luci dell’alba, lavora a pieno regime il “Tofu Takano”. 

Qui il Tofu prende forma da materie prime pregiate quanto tenute gelosamente segrete (forse vaniglia?). Viene filtrato da macchinari ad alta pressione e precisione, lavorato con la forza delle braccia in grandi pentoloni, tra nuvole di vapore che rendono tutto il laboratorio cangiante. È un lavoro che richiede ferrea tempistica, ma anche una armonia di movimenti e sapori che si può acquisire solo dopo molta pratica e impegno. 

I due artigiani preposti, vestiti di abiti, grembiuli, guanti e stivaletti bianchi, si coordinano silenziosi ascoltando i suoni prodotti dal Tofu dal primo impasto alla scolatura e taglio del prodotto finito in cubetti. Prima di mettersi a vendere il loro prodotto, ponendolo direttamente sul bancone della stanza attigua, si regalano una tazza celebrativa di caglio che assaporano in silenzio. 

L’artigiano più anziano è anche il titolare, Takano Tatsuo (Fuji Tatsuya, uno degli attori più famosi e oggi “anziani” del Giappone, protagonista anche del cult L’impero dei sensi). Uomo possente ma canuto, poco ciarliero, gentile nei modi, a tratti un po’ scorbutico nelle relazioni umane. È un artigiano meticoloso, appassionato, orgoglioso e pieno di amore per il suo tofu: considerato, con sua enorme gioia, come il migliore di tutta la zona e perfino arrivato all’attenzione degli stranieri, grazie al tam tam dei social. 

Oltre a curare la sua personale rivendita, con la formula “pochi prodotti ma di qualità”, Tatsuo fornisce il tofu anche al supermercato locale, spesso scontrandosi con chi gli chiede di aumentare la produzione, rivelare la ricetta o in qualche modo espandere il suo prodotto fino a poter servire anche i supermercati di Tokyo. Tatsuo odia Tokyo e i suoi Giants, le grandi catene in generale e l’idea stessa che il suo prodotto, diventando “industriale”, perda quel sapore e fascino unico, che lui solo sa conferirgli lavorandolo a mano. 

Della stessa imprescindibile idea di qualità e artigianalità è la collaboratrice più giovane del Takano Tofu: la timida ma energica figlia di Tatsuo, Haru (Aso Kumiko). È brava e sorridente con i clienti, volenterosa e molto creativa nella fase di elaborazione finale del prodotto. Ogni tanto prova ad aggiornare la produzione con novità, diventate in breve popolari e richieste, come “il Tofu fritto”. 

Ma il padre tende a limitarla, così come non la ritiene ancora il grado di gestire, con dimestichezza necessaria, la fase cruciale e “originaria” dell’impasto: dove muscoli e tempi corretti nel ritmo della mescola vanno dosati con precisione assoluta. 

Forse lo fa per orgoglio: per sentirsi ancora dopo tanti anni solo lui il solo e indispensabile “creatore” del Tofu migliore di tutti. Forse lo fa per paura: temendo di non servire più a molto, il giorno in cui la figlia prenderà tutte le redini della produzione. Forse lo fa perché è un padre iperprotettivo: che da quando Haru era piccolissima ha fatto di tutto, perché lei non dovesse mai scottarsi o farsi male, gestendo pentole bollenti o troppo grandi. 

Quale che sia la verità, Tatsuo sente che sta diventando davvero troppo vecchio. È tempo che Haru, che ormai da anni lo segue fedelmente e senza chiedere nulla in cambio, possa avere la possibilità di trovare la sua strada e farsi una sua famiglia. 

In passato la ragazza ci aveva già provato, ma aveva incontrato un tizio della odiatissima Tokyo ed era finita male. Ora Tatsuo deve però cercarle la persona giusta, magari qualcuno che ami il Tofu e possa avere tutte le qualità migliori: come il suo “Tofu”. 

Gli amici del barbiere e del bar, tutti un po’ strampalati ma risoluti, fanno subito quadrato intorno all’artigiano, solidali e operativi. Si lanciano alla caccia dei “curriculum più appetibili”, del meglio della zona. Creano un database con foto, accolgono critiche metodologiche, organizzano gli incontri conoscitivo/valutativi dei più papabili con lui. È una caccia durissima, anche perché il paesino è pieno di tizi di Tokyo o che tifano Giants, che lo irritano un casino. 

Ma alla fine qualcuno di papabile, ben disposto, carino, esperto di Tofu e che non sia di Tokyo o tifi Giants, si trova. Ora occorre organizzare “la seconda fase”: dimostrare a Haru che non si tratta affatto di una specie di matrimonio combinato. Il candidato dovrà capitare per caso in negozio e Tatsuo dovrà apparire sorpreso quanto colpito, addirittura propositivo nel caldeggiare un incontro intimo a cena, tra Haru e un tizio sconosciuto. 

Recitare che non è per niente nelle corde dell’artigiano e qui occorre una  interpretazione da Oscar. Così  gli amici organizzano per lui una specie di “copione” di cose precise da dire al candidato incontrato “per caso” in negozio. Per rendere il tutto più credibile, ingaggiano una ragazza che studia in un corso di regia: per migliorare l’interpretazione di Tatsuo dopo varie simulazioni, a cui partecipano tutti gli amici, che avvengono in un parco giochi, davanti a bambini un po’ perplessi.

Mentre Tatsuo è intento in questo teatrino, deve occuparsi anche della sua salute, diventata negli anni più cagionevole. L’ospedale è un posto “difficile”, ma che lo fa avvicinare presto a una paziente che si trova lì per problemi simili ai suoi, gentile e piena di vita: Fumie (Nakamura Kumi). Fumie ha più o meno l’età di Tatsuo e si reca a Onomichi solo per le cure, permettendosi il soggiorno lavorando come cameriera in un hotel della zona. 

Tra i due nasce un'intesa forte, che piano piano li allontana dalle preoccupazioni delle malattie e dell’età. Dal bisogno di “organizzare il futuro agli altri” come dai troppi fantasmi del passato, che sempre più spesso vengono a far loro visita.

Del resto ogni giorno Tatsuo dà alla vita un Tofu nuovo quanto eccezionale. E forse Haru vorrà continuare a farlo.


A tavola al cinema: Cibo e Cinema manifestano da sempre, dai tempi delle noccioline e del pop corn, un legame speciale e privilegiato. Un legame che si sta oggi evolvendo in interessanti esperienze cinematografico/culinarie, in salette dove servono pasti accompagnati da bevande e pellicole, come al cinema Anteo di Milano. 

Del resto opere con protagonisti cuochi e cucine sono sempre state all’ordine del giorno, dal sarcastico La Grande Abbuffata al tenero Ratatouille, passando per “l’anti-narcisistico” Il sapore del successo e al recente, folgorante, Il gusto delle cose, di  Tran Anh Hung: un’opera dove la cucina di un cuoco francese si trasforma in un autentico atelier di arte e musica, composta solo da pietanze e passione in un'armonia di impasti e composizioni unica, trascinante e quasi trascendente. E che dire dell’horror gastronomico The Menù, con un luciferino quanto generosamente appassionato Fiennes e critici gastronomici estasiati all’idea di diventare parte di una pietanza?

Molti registi inseriscono poi da sempre, in opere che parlano di qualunque tematica, dei momenti in cui si parla di cibo o della preparazione di un piatto specifico. Tra i più noti, Coppola o Tarantino, ma anche Rodriguez, De Palma, spesso Scott e Zemekis. Ma anche Hayao Miyazaki, che venne “bacchettato” dal suo collega/rivale/amico Takahata per quel suo unico film, Nausicaa nella Valle del Vento, in cui non aveva descritto in animazione un piatto “davvero commestibile”.

Rimanendo in terra d’Oriente, troviamo due esempi illustri di registi che hanno da sempre parlato del loro lavoro come di quello di “cuochi specializzati”. Takashi Kitano ha più volte descritto le sue opere come un insieme di materie prime “fresche” come il sushi: l’idea deve essere folgorante e succosa e deve essere servita appena “pescata”. Il cinema di Kitano nasce da un’urgenza creativa che fa di lui un cuoco specializzato nell’elaborarla e servirla con creatività in tempi rapidi, come un cuoco esperto di sushi. 

Il grande Ozu si definiva invece proprio come un "fabbricante di tofu": in quanto dal suo punto di vista sfornava uno dopo l'altro film tematicamente e stilisticamente simili, proprio come i produttori del “modesto” alimento a base di soia sfornano cubetti indistinguibili l'uno dall'altro. Il regista di Viaggio a Tokyo (1953) ci parla con questa suggestione della capacità del cinema di farsi “nutrimento per il pubblico”. Un bisogno che più essere “modesto” in quanto “semplice”, che nasce per la basilare voglia di “uscire una sera”: per andare in sala con la voglia di divertirsi e staccarsi dal mondo (ma che poi può strutturarsi di più). Una voglia quotidiana come il Tofu, uno degli alimenti più popolari e più semplici nelle cucine orientali, ma oggi anche uno dei più riconosciti nelle diete. 

Nel capolavoro del 2009 di Teddy Chan, Bodyguards and Assassins, il personaggio di un monaco pieno di altruismo viene soprannominato come il particolare Tofu fermentato secondo tradizione cinese: “Tofu Puzzolente”. Un Tofu con personalità, se vogliamo con aspetti di carattere simili ai nostri formaggi erborinati, che nella procedura di fermentazione incontra la terra.

Ma il film di Mihara Mitsuhiro ci parla del classico Tofu tutto giapponese, nato del caglio dei semi di soia, con l’aspetto finale tradizionale di “cubetto”. Un Tofu il cui sapore leggerissimo e delicato discende dagli alimenti e spezie a cui è associato: come una sorta di infusione di The alle erbe. Nel caso del Takano Tofu, quasi delle venature di vaniglia. 


Secondo una teoria giapponese diffusa, questo tipo di Tofu è  un alimento nato facendo bollire per caso delle fave di soia mescolate a del sale marino “sporcato”. Il sale al suo interno presentava calcio e magnesio, stimolando così l’arrivo al caglio e alla coagulazione dell’impasto, fino al prodotto finale. Un prodotto “idealmente” in perfetto equilibrio tra la terra e il mare, come molte delle isole dell’arcipelago giapponese: alla ricerca di una sua immutabilità di sapore, riconoscibile quanto unica, familiare come McDonalds (è una metafora, non uccidetemi).

La Mihara, che scrive e dirige questo film, ci parla però di un Tofu particolarissimo: un Tofu che è “sopravvissuto” alla bomba di Hiroshima, nonostante l’atomica abbia cambiato ogni cosa in quella regione e nel mondo. Un Tofu che è rimasto immutabilmente buono e quotidiano, in perfetto equilibrio tra terra e mare e “nonostante tutto”. Un “prodotto/porto sicuro alimentare” che però rischia di scomparire: “cannibalizzato” dal mercato.

L’eredità della bomba e delle traduzioni: Tofu in Japan ci parla quindi di Tofu, ma anche in senso più sfumato di un popolo. Ce lo racconta “su piccola scala”, nella forma di un racconto intimo e pieno di tenerezze, affidato a straordinari interpreti in grado di farci ridere e piangere con spontaneità assoluta, facendoci credere all’illusione massima: che siamo persone e non personaggi. 

Tuttavia è un popolo arrivato ormai a un grande bivio, con una popolazione anziana altissima e pochi giovani, con una “generazione di mezzo” distrutta: dagli effetti diretti e indiretti della bomba come le radiazioni. I legami familiari sono ormai labili o carichi di cinismo e opportunismo (vedi i parenti di Fumie). I giovani hanno bisogno di “cambiamenti” rispetto alle tradizioni, necessari quanto a volte dolorosi, come la scelta di “andare via”. Il rapporto “con chi non c’è più” si fa sempre più stretto, alimentando un senso di immobilismo e impotenza. 

Tofu in Japan racconta questi aspetti critici sottovoce, tra i dettagli, tra le bellissime e avvolgenti musiche di Naohisa Taniguchi e la fotografia colorata e quasi da favola di Shuichiro Suzuki. Tra i molti momenti gustosi da commedia e le affettuose sequenze serali, in cui i personaggi camminano spessano sulle strade a braccetto, sostenendosi a vicenda, barcollando fiduciosi. 

Tofu in Japan ci racconta di un popolo che per sopravvivere riscopre un modo positivo di guardare avanti, accogliendo le sorprese che vengono dalla quotidianità, senza impuntarsi su quanto l’uomo non è in grado di controllare al meglio sulla base di “ricette precise” e “convinzioni assolute”. 

Accettando le sconfitte o anche solo il “brivido” di non seguire una “ricetta di vita”, può forse dar vita a un Tofu diverso e di conseguenza il suo “sapore/rifugio” può mutare. Ma forse alle volte si possono anche scoprire gusti nuovi: perché il cuoco sia sempre una persona in gamba.


Finale: Tofu in Japan segue la lezione del cinema essenziale e preciso di Ozu, si ammanta di una garbata ironia e si affida a un cast artistico e tecnico molto valido. All’esterno profuma delle fragranze della favola che accoglie come un abbraccio ma, dopo il primo assaggio, sa trasmettere una maggiore complessità narrativa. 

È una piccola opera, ma per molti aspetti risulta davvero imperdibile: in grado di toccare temi davvero profondi quanto importanti non solo per capire il Giappone di oggi, ma anche la nostra quotidianità. 

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