mercoledì 15 marzo 2023

Il capofamiglia (Feathers): la nostra recensione del film di esordio del regista egiziano Omar El Zohairy

 


Egitto, da qualche parte tra dei palazzi fatiscenti e il deserto. In un luogo fuori dal tempo che potrebbe essere negli anni '70 come in un futuro post-apocalittico alla Mad Max, o peggio in un inquietantissimo presente, vive in un appartamento disadorno insieme alla sua famiglia una coppia sui quarant’anni con tre bambini, due sui sei/otto anni e uno di alcuni mesi. I muri e i pavimenti sono in cemento grezzo e coperti di macchie di natura indecifrabile, il bagno è di un paio di metri e assolve anche alla funzione di stanza per il bucato, in soggiorno c’è una piccola televisione a tubo catodico, un divano sfondato e nient’altro. Quando si tengono le finestre aperte c’è il rischio che nella casa entrino i densi fumi delle ciminiere di una attigua fabbrica “di qualcosa”, che inondano il locale di una specie di nebbia bianca mefitica. La donna (Demyana Nassar) ha i capelli raccolti sotto il velo tradizionale, ha vestiti da lavoro ed è sempre intenta a fare qualcosa. Si occupa da sola della casa, dei figli e delle spese, mentre il marito è quasi sempre fuori a lavorare in fabbrica o chissà dove. Lui ama girare per casa costantemente con gli occhiali da sole e una chiave inglese sempre al suo fianco. Ogni tanto rientra con cose senza senso che escono da degli scatoloni, come una fontana di cartapesta con attivazione elettrica o una palla da discoteca. I soldi che arrivano in casa sono amministrati da lui al cento per cento con assoluta tirchieria, a volte anche sottratti dalle mance dei bambini. Sono protetti da una piccola cassetta di sicurezza già più volte scassinata e la moglie ne ha un accesso limitatissimo solo per il cibo e per l’affitto, che l’uomo si ostina a pagare con mesi di ritardo. Ogni tanto rivolgendosi ai figli l’uomo promette di comprare per loro un biliardo, anche se non ne hanno mai visto uno e non sanno cosa sia. Le poche volte che parla alla moglie senza impartirle ordini in modo aggressivo, l’uomo le racconta di piccole mucche geneticamente modificate di alcuni centimetri che offrono latte di qualità superiore a quello che lei gli compra. Lei in tutto questo è stoica, abbastanza taciturna e lavoratrice instancabile. Un giorno per gli otto anni del bambino più grande fanno una grande festa, alla quale partecipa anche un mago. Un numero prevede la sparizione e riapparizione di un volontario attraverso una cassa magica. Il marito si propone e il gioco ha inizio. Solo che alla fine del numero qualcosa non funziona e al posto del marito compare un pollo. Il mago riesce a scappare nella notte, gli ospiti se ne vanno alla spicciolata e la donna ha questo pollo che in effetti, seduto sopra le scarpe del marito, ha un qualcosa di famigliare. Nei giorni che seguono attraverso un loschissimo amico di famiglia con una golf verde si cerca di trovare il mago girando tra i circhi di zona, mentre il pollo è affidato a un esperto stregone voodoo, che si spera “competente in materia”, che gli fa strani riti, lo lecca e gli fa mangiare delle foto dell’uomo scomparso. Di conseguenza il pollo sta male e deve essere assistito con delle flebo dal veterinario più lercio della zona su un tavolaccio pieno di sangue e animali morti, mentre nella sala d’aspetto si accoppiano dei cavalli. Intanto inizia a farsi largo il problema di “chi porterà i soldi a casa”, mentre l’uomo è ancora in quello stato. Certo è più prudente iniziare a dire in giro che il marito è scomparso. Nella fabbrica la moglie non può sostituirsi al posto di lavoro marito in quanto donna, ma il bambino di otto anni sì e lo prendono al volo. Alla polizia nessuno ascolta la donna per la denuncia di scomparsa perché lì “nessuno ascolta le donne in genere”, ma di contro ascoltano benissimo e h24 la radio trasmette il commento di partite di calcio a tutte le ore. Le cure del pollo sono inoltre costose, l’affitto pure arretrato va pagato, la “paga di un bambino di 8 anni” è limitata dalla mole di produzione che può sopportare e la donna deve così trovare un lavoro autonomo. Fortuna che qualcuno che può aiutarla in quella società alla fine si trova: è un malavitoso. Riuscirà il capofamiglia a risolvere la situazione?


Scritto da Omar El Zohairy e Ahmed Amer , il film ha per titolo inglese Feathers, che significa “piume” ma ha anche una curiosa assonanza con il plurale di “padre/capofamiglia”. La domanda da cui quest’opera prende le mosse è semplice: “E se alcuni padri si trasformassero per magia in polli al 100%?”. È una domanda che muove una estrema provocazione “sociologica”, dalla quale ci si aspetterebbe magari una storia surreale e sopra le righe su come una famiglia normale si può riassestare dopo un simile cambiamento. Abbiamo già avuto diversi film, specie americani, in cui “un padre” diventa un cane o un gatto o qualche altro animale: film in genere pervasi da un umorismo “per tutte le età”, quasi disneyano. Nella pellicola di Omar El Zohairy c’è invece qualcosa che va al di là della “effettiva differenza di avere per casa un padre o un pollo”, ossia la precisa critica a una società che non tiene abbastanza in considerazione il ruolo della donna. Un luogo in cui le donne non possono lavorare “in quanto donne”, non possono denunciare “in quanto donne”, non possono vivere da sole “in quanto donne” (e qui il tipo losco con la golf verde farà del suo peggio). Il fatto che il padre di famiglia sia diventato un pollo diventa di colpo la cosa più normale al mondo, perché la stessa sequela di eventi, al netto di uno o due maghi o stregoni in meno, sembra poter accadere nel caso il marito sia scomparso per davvero o infortunato gravemente. È il mondo sociale in cui vivono i protagonisti che fa paura, in quando fatiscente e desertificato come i luoghi alla Mad Max in cui la vicenda si svolge. Questo porta a una escalation degli eventi grottesca, che se idealmente parte da una satira più nobilmente “fantozziana” arriva velocemente al surreale kafkiano. Passiamo in un attimo dalla commedia alla tragedia e la bravissima Demyana Nassar affronta tutto questo mondo senza mai quasi cambiare espressione e senza arrendersi, con la consapevolezza che avere un marito così o un pollo è “del tutto uguale”, con la certezza che qualcuno che le darà una mano non si troverà da nessuna parte e che lei è l’unica che può cambiare le cose. Il suo personaggio è quindi eroico già prima che la storia la metta davanti a questa strana prova e viene chiaro da subito chi è il capofamiglia tra lei e “quello ricoperto di piume”. È già eroico quando cerca nelle prime scene di proteggere la sua casa dai miasmi industriali chiudendo a intervalli le finestre, in una gag fisica quasi chapliniana. Il film prosegue dalla prima all’ultima scena tenendo a braccetto il dramma e l’assurdo e riesce a farsi sempre coinvolgente, a tratti divertente come a tratti davvero cupo, “alieno”, disarmante. Se questo è il modo usuale di intendere la commedia per l’esordiente Omar El Zohairy, lo aspettiamo con estrema curiosità nelle sue successive prove. Gli interpreti sono tutti molto bravi, l’ambientazione è davvero fuori da ogni schema e pure la musica non poteva che essere surreale, raggiungendo il picco in una variante techo-folk-egiziana del tema di Love Story. Ogni tanto il mondo che descrive tra sangue e sporcizia è quasi horror come la provincia fatiscente di Trainspottig di Danny Boyle.


Non è un film semplice e non vuole esserlo, ma sa incuriosire e coinvolgere se si riesce a vedere nelle sue peculiarità. Strano per i paesaggi, strano per le relazioni umane descritte, strano perché figlio di una cultura magari a noi lontanissima (anche nel senso di intendere l’umorismo). Chi pensa che sia un film comico nel senso tradizionale ne può uscire malissimo, se vogliamo possiamo trovare delle assonanze con il Black humor più underground/destabilizzante del sopra menzionato Boyle di Trainspottig come di Terry Gilliam,
  ma  Omar El Zohairy fa un lavoro molto originale, davvero unico e che sfugge alle definizioni. È un film che parla in modo sublime della grande forza delle donne nel fare i conti anche con l’assurdo e per questo è un film oltremodo attuale, un film che sa dare speranza.

Il capofamiglia è un’esperienza surreale da provare, magari con degli amici per parlarne insieme, farsi quattro risate e ragionare sui tanti spunti interessanti che questa pellicola fortemente underground muove. Per chi ama l’assurdo è una vera piccola perla. 

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