sabato 25 febbraio 2023

The whale: la nostra recensione del nuovo film di Darren Aronofsky con protagonista Brendan Fraser

 


Siamo in un appartamento isolato dell’America dei giorni nostri. Dietro lo schermo di un portatile Charlie (Brendan Fraser), tenendo la telecamera spenta, insegna a una classe virtuale come si scrive una tesi. Il professore sembra ben voluto da tutti gli alunni, ma quando la lezione termina Charlie è da solo e con poco fiato in una stanza che sembra troppo piccola per contenere tutto il suo corpo. Con una fame autodistruttiva alimentata da anni di senso di colpa, Charlie ha nutrito, gonfiato e stipato il suo corpo fino a farne la sua personale fortezza della solitudine. Una “massa”, che rende l’uomo più simile a una balena. Ogni difficile passo fa scricchiolare e cedere il legno del pavimento. Ogni azione si scontra rumorosamente con ogni barriera fisica e architettonica possibile e per essere portata a termine necessita di pinze per raggiungere oggetti, bastoni per sostenersi, spugne con manico per lavarsi. È una massa ormai autonoma che ormai “ragiona oltre la ragione di Charlie”, che pretende affamata e arrabbiata sempre nuovo cibo per alimentarsi come fosse una fornace. Cibo che è in fondo carburante indistinto da lanciare dentro senza gusto e senza sosta, nel modo più rapido e compulso. Ogni tanto la fame si placa e Charlie riemerge “dalla balena”, con i suoi sogni e il suo piccolo mondo. L’uomo cerca con il lavoro di accumulare un po’ di soldi per permettere alla figlia che non vede da anni di andare al college. Ha una amica insostituibile in Liz (Hong Chau), un'infermiera che ogni tanto si ferma anche a dormire da lui sul divano, dopo che hanno visto insieme un film alla tv. Perfino l’uomo che consegua le pizze a domicilio (Sathya Sridharan) e non ha mai visto Charlie, se non da dietro la porta, cerca di essergli amico e intrattenersi un po’ con lui appena può. Tutte le relazioni umane che circondano la vita di Charlie cercano di sostenerlo, ma la massa ormai ha raggiunto il limite critico e forse il suo “scopo finale”. Scompenso cardiaco congestizio: il cuore che non riesce più a offrire sangue ricco di ossigeno all’organismo. Se non ricoverato subito, forse meno di una settimana di vita. Ma Charlie non vuole che tutti i soldi accumulati in anni per sua figlia vengano spesi in ospedale, per cercare di prolungargli una vita che in fondo non vuole avere e non sente di meritare. Ogni volta che arriva un attacco cardiaco che cerca di soffocarlo Charlie riesce però quasi a “placarlo”, leggendo o facendosi leggere il testo di una tesina su Moby Dick che pare realizzata da un ragazzino. La piccola recensione di un libro che sembra avere per lui l’effetto quasi di un salva-vita. Ma in quei giorni bussano alla porta dell’insegnante anche altre sue persone che si presentano a lui come “salva-vita”. La prima è Thomas (Ty Simpkins), un ragazzo della New Life Church che sente di aver trovato in Charlie la sua vocazione di missionario e cercherà più volte di riavvicinarlo alla fede. La seconda è Ellie (Sadie Sink), la figlia di Charlie che non vede da tanto tempo. Ha bisogno di soldi, di aiuto con il corso di letteratura e forse di un padre che non ha mai avuto. Charlie non vede davvero l’ora di aiutarla, ma il fatto di essere scomparso dalla sua vita per troppi anni e per ragioni ancora non troppo chiare è un ostacolo che deve essere superato. Riusciranno le persone intorno a Charlie a “salvarlo” dalla balena? 


The whale nasce come uno spettacolo dello scrittore teatrale Samuel D.Hunter che dopo il debutto a Denver è arrivato a New York nel 2013, dove ha vinto prestigiosi riconoscimenti nell’ambito dell’Off-Broadway come il Drama Desk Award e il Lucille Lortel Award. A New York il ruolo di Charlie è stato interpretato da Shuel Hensley, attore teatrale di lungo corso ma che ricordiamo “affettuosamente” anche al cinema nel ruolo di Frankenstein un po’ scombinato nel film Van Helsing (ma è stato a teatro anche Frankenstein Junior e collabora spesso a teatro con Hugh Jackman, l’attore principale di Van Helsing, che ha seguito anche in The Greatest Showman e nel recente Music Man) di Stephen Sommers, il regista che ha voluto nel 1999 Brendan Fraser come eroe in La Mummia. Non sappiamo se Sommers o Hensley abbiano giocato un qualche ruolo, ma Darren Aronofsky, da sempre molto interessato a una trasposizione cinematografica di The Whale, che per qualche tempo si è “conteso”vcon Tom Ford e George Clooney, sembra che abbia scelto Fraser nel ruolo di Charlie dopo che “qualcuno”vgli ha fatto vedere la sua performance in un film del 2006, Journey to the end of the Night. Era un film a tinte cupe, una coproduzione tra Stati Uniti, Germania e Brasile in cui Brendan Fraser interpretava il gestore di un bordello affetto da ludopatia e dipendente da cocaina. Un ruolo complesso e borderline, decisamente diverso dalle parti da bravo ragazzone canadese o “George della Jungla” a cui negli anni ci aveva abituato (pur con eccezioni). Un ruolo pieno di fragilità e contraddizioni che ragionando a posteriori, sulla base di  una celebre intervista rilasciata dall’attore nel 2018, avrebbe potuto attingere molto dallo stato di fragilità emotiva in cui l’attore era caduto a seguito di alcuni eventi che dal 2003 ne stavano minando la carriera e la serenità familiare. Se il volto solare riusciva ancora a emergere ogni tanto anche in pellicole successive, come una specie di “maschera”, una forte malinconia si è sempre più insidiata nella vita dell’attore. A questa si sono aggiunti lutti e problemi personali importanti, fino a che Fraser ha deciso quasi di scomparire dalle scene. Come Charlie, anche Fraser ha vissuto anni di depressione in seguito a cui ha messo su molto peso: 300 libre che pur lontane dalle 600 del personaggio possono essere per molte situazioni invalidanti. Come Charlie è però rimasto per il pubblico e chi lo conosce una persona speciale, un amico a cui si pensa con piacere sperando di incontrarlo di nuovo. Con in mente quel film del 2006 girato “senza maschera” e dopo aver conosciuto di persona Brendan Fraser, Aronofsky non ha avuto dubbi sul fatto che lui poteva essere Charlie e lo stesso Hunter ha riadattato per il grande schermo The Whale anche pensando alla sua interpretazione. Aronofsky già in The Wrestler e ne Il cigno nero ha dimostrato una particolare cura nella descrizione della fisicità di personaggi “mutati”, a seguito di una vita di allenamenti, lesioni e disciplina. Personaggi “troppi grossi” per fare i lavori di tutti i giorni, come l’enorme ex wrestler di Mickey Rourke che cerca goffamente di fare il responsabile della gastronomia senza la minima grazia nei movimenti. Personaggi “troppo rigidi” come la ballerina della Portman, ritenuta per eccessiva eleganza dei movimenti acerba, poco sensuale rispetto alle altre ragazze, quasi infantile. Il Charlie di Fraser si inserisce di diritto in questo ideale museo di corpi “in cerca di normalità” partendo da un trucco particolarmente invasivo (che ha richiesto all’attore sedute quotidiane di trucco di quattro ore e un’imbracatura che lo ha caricato di 300 libre extra) e passando per dei movimenti complessi, fatti di continui spostamenti di peso e uso di attrezzature di supporto, che l’attore ha dovuto imparare con l’aiuto di un coreografo e di consulenti della Obesity Action Coalition. Se “vestire Charlie” lo rende una specie di montagna semovente, nell’insieme affascinante quanto dolente, Fresar non smette per un secondo di infondergli umanità e calore attraverso lo sguardo e piccoli gesti, attraverso una voce affaticata ma gentile. Anche se la trama mette subito in chiaro che a Charlie manchi molto poco da vivere, la scrittura e l’interpretazione cercano sempre di contenere l’animo più melodrammatico della vicenda: giocando con successo la carta dell’umorismo, ma anche qualche volta facendo un uso intelligente del “grottesco”, della satira politica, di riflessioni sul gender, sulla fede e sul “ruolo di guida” dei genitori e insegnanti. Ne nasce un film dalle mille sfumature, che si avvale bene anche di un cast di comprimari molto riuscito. Come il giovane e “inesperto” pastore, reso divertente ma al contempo tragico e confuso da un Ty Simpkins particolarmente vitale, quasi da sit-com. Come la scontrosa ma tenera figlia Ellie di Sadie Sink, che pur di “esplorare” lo strano mondo paterno compie degli atti che innocentemente quasi lo uccidono. Come la dolce e arrabbiata Liz di Hong Chau, il cui modo di interagire con Charlie ricorda da vicino i personaggi di Philip Seymour Hoffman e Jason Robards in Magnolia. La colonna sonora di Rob Simonsen accompagna le vicende senza essere mai troppo invasiva. La fotografia di Matthew Libatique descrive il soggiorno dove si svolge gran parte della scena come un ambiente “caldo e disordinato”, ritrae i corridoi con una fissità inquietante alla Shining e descrive un mondo al di fuori delle mura domestiche quasi assente, come se ci trovassimo su un avamposto o nella casetta volante del cartone animato Up della Disney/Pixar.


The Whale offre una grande prova d’attore a un interprete in particolare stato di grazia, per merito di una regia particolarmente accorta, un buon uso dei comprimari e una storia che riesce, con creatività, a non cadere nella facile trappola del melodramma. È un’esperienza potente e commovente che vi consigliamo di vedere in un cinema molto buio, dove nessuno si accorgerà se durante la pellicola sarà versata comunque qualche lacrima. 

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