Scott Lang (Paul Rudd) è stato nella
vita un piccolo criminale e poi ha cercato di essere un piccolo uomo con un
piccolo lavoro comune. Per cercare di avere quando basta per essere un buon
“padre separarto” per sua figlia Cassie (Kathryn Newton), Scott ha accettato un
piccolo lavoretto sporco, un “furtarello misterioso” che gli ha portato qualche
guaio ma che grazie alle “persone giuste”, come Hope Pym (Evangeline Lilly),
lo ha infine instradato sulla retta via, facendolo diventare il più piccolo
supereroe della storia: Ant-Man. Diventato il più piccolo degli Avengers dopo
aver affrontato il più piccolo dei super-criminali, un Calabrone (Corey Stool)
sconfitto su una pista-giocattolo del Trenino Thomas in una cameretta per
bambini, Ant-Man ha provato a “farsi grande”, accettando le modifiche alla sua
“supertuta” da parte dello scienziato che la aveva indossata per primo, Hank
Pym (Michael Douglas). Da allora può diventare Giant-Man (vedi Captain
America: Civil War), un uomo grande e sovraeccitato quanto un Kaiju, anche se
lo sforzo gli procura una terribile disidratazione che lo assale dopo
pochissimo tempo. Dopo queste prime “manie di grandezza” la sua missione
successiva è stata però tornare a essere piccolo, piccolissimo in modo infinitesimale, per aiutare Hank a salvare sua moglie Janet (Michelle
Pfeiffer, vedi Ant-Man and The Wasp) finita da anni nel “regno quantico” con la
sua super tuta. Conclusa la missione Hope, figlia di Hank e Janet, diventava
con una nuova supertuta Wasp, la supereroina più piccola, per poi convolare a
nozze con Scott, andando così a formare la coppia di supereroi più piccoli di
sempre. C’è stato Thanos e come Avenger anche Scott ha fatto la sua parte, un
po’ come Ant-Man ma anche come Giant-Man, contribuendo a salvare il mondo
e il resto dell’universo (vedi Avengers: End Game), ma perdendo però a seguito
delle vicende del “Blip” ben cinque anni. Per la precisone le persone
“blippate” da Thanos, corrispondenti alla metà degli esseri viventi, venivano
disgregate in particelle di polvere e sarebbero “riapparse” solo cinque anni
dopo a seguito della rocambolesca sconfitta di Thanos. In quei cinque anni
Cassie in cui Scott era assente è cresciuta e si è costruita il suo primo
costume da “Ant-Girl”, con il padre che dal ritorno è finito con lo
scrivere libri motivazionali sull’importanza della crescita interiore. Scott
è diventato presto un eroe un po’ in pre-pensionamento ma in fondo un uomo
felice. Perché se c’è stato qualcosa che negli anni di Ant-Man e Giant-Man ha
sempre spinto Scott a migliorarsi, quello è stato il desiderio di diventare non
un grande supereroe, quanto un “grande padre” per Cassie. I buoni padri non si
misurano in centimetri e Scott si sente in merito oggi un gigante. Almeno fino
a che gli arriva una telefonata dal carcere: è Cassie che si è messa nei guai.
Era a una manifestazione ecologista, ha ridotto una volante della polizia alle
dimensioni di automobilina giocattolo grazie ai gadget muta-dimensioni della
tuta di Ant-Man, è in quella fase in cui si crede che gli eroi possono cambiare
il mondo: l’adolescenza. Scott sente che deve di nuovo “prendersi le misure”
come genitore. Nel frattempo dal regno quantico, il più piccolo dei più piccoli
dei reami, sta per giungere la più piccola delle più piccole minacce, il
sovrano multidimensionale Kang il Conquistatore (Jonathan Majors). Dopo essere
stato confinato in quel luogo per molti anni, in cui ha convissuto qualche
tempo anche con Janet Pym, Kang ha forse trovato il modo di scappare e ha
attirato tutti i Pym e i Lang in una trappola quantica. Come molte persone che
si sono sentite nella vita molto piccole, Kang ha sviluppato un terribile
complesso di Napoleone. Sogna di distruggere tutto e tutti e poi fare lo stesso
in tutte le dimensioni e periodi storici spostandosi nel tempo. Ritrovatisi nel
mondo quantico i nostri piccoli eroi scoprono un luogo sconfinato simile al
pianeta Tatooine di Star Wars, con tanto di locande piene di creature
dall’aspetto strano, guardie imperiali, milizie ribelli e Kang a capo di tutto.
Un mondo di cui Janet non aveva detto niente a nessuno. Riuscirà un
“supereroe/uomo qualunque” che scrive libri motivazionali ad avere la meglio su
un conquistatore Inter-dimensionale che vuole distruggere gli universi per una
malcelata sindrome di inferiorità? Riuscirà il piccolo uomo formica ad aiutare
nella crescita una figlia che si sente sempre di più “grande”? Nel mentre
si avvicina in cerca di vendetta anche una “nuova” misteriosa, piccolissima,
esilarante e mattissima minaccia. Una specie di Darth Vader con un
testone gigante, motoseghe, laser, congegni gravitazionali… e braccine e gambine
in proporzioni molto piccole.
Torna sugli schermi con un nuovo
capitolo il supereroe Marvel Ant-Man, ancora una volta diretto da Peyton Reed e
con il cast principale al gran completo, a cui si aggiungono attori come Bill
Murray in una particina gustosissima, un attore misterioso che vi lascio
scoprire nel ruolo del “piccolo Darth Vader” (ed è stata una bella sorpresa,
forse la parte più divertente della pellicola) e Jonathan Majors (visto nella
serie tv Lovecraft Country) nei panni del temibile e piccolissimo Kang.
Il primo Ant-Man, uscito nelle sale nel 2015, è stato un progetto complesso e travagliato, con una gestazione di quasi 13 anni, varie riscritture e cambi di regia. Il protagonista Paul Rudd non era un nome molto conosciuto al di là delle fugaci apparizioni in Friends, il personaggio a fumetti di riferimento aveva subito soprattutto negli anni della gestione Bendis degli Avengers uno sviluppo così controverso da farne se non un villain un antieroe. Forse i veri motivi di attrazione della pellicola, a parte un robusto comparto di effetti speciali, erano la presenza nel cast della Evangeline Lilly della serie Lost e una piccola parte che avrebbe coinvolto Michael Douglas, si diceva ringiovanito con una tecnologia digitale per delle scene ambientate negli anni '60. In realtà il film funzionò bene anche grazie a un Rudd molto simpatico, a un cast di comprimari molto azzeccato, a una storia divertente sullo stile dei “film di rapina” e a un ritmo gioiosamente frizzante e indiavolato con suggestioni di Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi. Perfino il villain interpretato da Corey Stoll funzionava e trovava un senso interessante nel dualismo con l’eroe e perfino la collocazione temporale della pellicola all’interno del Marvel Cinematic Universe era stata piuttosto indovinata, offrendo con la sua trama leggera una boccata di ossigeno tra due film più cupi come Avengers Age of Ultron e Captain America: Civil War. Il segreto del successo di Ant-Man stava nell’essere una pellicola che gioiosamente non si prendeva troppo sul serio, giocava con gli stereotipi di grandiosità legati ai supereroi divertendosi a sovvertirli, ci metteva nei panni di uno degli eroi moderni più bistrattati di sempre “al di là dell’identità segreta”: il genitore separato e in bolletta. Se il motto della Marvel era raccontare di “supereroi con super problemi”, veniva facilissimo amare un tipo incasinato come Scott Lang e tifare per lui anche nelle successive pellicole, quando quasi perdeva il fiato cercando di diventare gonfio e gigante come gli eroi-bistecconi più rinomati. Negli anni e i film che si sono succeduti lo Scott di Paul Rudd non ha mai perso i suoi mille umani difetti ed è pure ora pronto a sorridere “abbozzando con garbo” con chi lo confonde con Spiderman. La Cassie di Kathryn Newton, che abbiamo conosciuto nel divertente horror Freaky, è invece più adulta della bambina che abbiamo conosciuto nel 2015 e poi nel secondo film del 2018, quando era interpretata dalla piccola Abby Ryder Fortson. È una giovane eroina geniale e intraprendente, negli anni diventata molto simile al nonno acquisito Hank Pym di Michael Douglas (gustosi i siparietti con protagonisti i due attori). Sempre pronta a contrastare la figura paterna per l’eccessiva pacatezza con cui vede il mondo “da noioso genitore responsabile” e sempre disposta a gettarsi a testa bassa nell’avventura, contro le istituzioni come contro gli alieni. È un film che ruota tutto sul rapporto tra padre e figlia sviluppandosi quasi come un road movie, con Evangeline Lilly e Michael Douglas che hanno dei ruoli più defilanti (anche se incisivi nel complesso, specie nelle scene d’azione) e con Michelle Pfeiffer che appare sfuggente e quasi criptica per tutta la narrazione “per preservare la sua famiglia” dal terribile Kang.
Tutto il film tra
inseguimenti e botte da orbi è una lunga attesa dell’arrivo allo scontro con
Kang, che si dipana in un viaggio nel mondo quantico carico di infiniti spunti
visivi e trovate divertenti che gustosamente citano e stravolgono alcune
suggestioni di Star Wars. Tra deserti da sorvolare sul pelo di pesci volanti o
astronavi che si pilotano con comandi gelatinosi, città di frontiera western
dove in un bar è possibile trovare barman con quattro mani, creature insettoidi
e omini gommosi, che “se li bevi” ti permettono di diventare poliglotta e in
genere sono molto curiosi circa il numero di orifizi che ogni creatura
possiede. Puoi incontrare per strada fascinosi uomini-cavolfiore,
creature simil robotiche con una lente di ingrandimento al posto della testa,
amazzoni pittate, degli sturmtruppen con un volto a palla di color azzurro, telepati umanoidi che si offendono per chi fa pensieri sconci. C’è poi il mini Darth Vader a cui accennavo sopra, che sa essere esilarante quanto
tragico fino a una scena-chiave che condivide con il personaggio di Cassie: una
scena che porta a un “dialogo esistenziale” geniale quanto sarcastico che è
davvero il top della pellicola.
C’è di tutto e tutto è molto
colorato e giocoso, come ci sono anche ambienti più “piccoli e misteriosi” del
mondo quantico, ispirati e molto affascinanti anche a livello “teorico”, la cui
scoperta lascio allo spettatore. Infine c’è Kang, il nemico più grande nel reame
più piccolo. Kang che ha sul volto dei solchi verticali che Jonathan Majors fa
sembrare con la sua espressività quasi delle lacrime acide che hanno inciso la
pelle. L’unico pensiero che guida Kang è “vincere” e lo persegue con tutta
l’ottusità e incoerenza di uno che si sente costantemente piccolo e insicuro,
perennemente in debito verso un mondo/universo/dimensione parallela che gli ha
fatto dei torti. Può essere l’imperatore di un universo ma quell’universo
sarà per lui sempre troppo piccolo finché ci saranno universi più grandi e
sovrani più grandi di lui. Teme di sentirsi piccolo come una formica e di fatto
è spaventatissimo all’idea di qualcuno che può comandare delle formiche. Un
villain onnipotente che si prende incredibilmente sul serio, di fatto
annullando ogni connotazione umana al di là di una espressione perenne da
bambino che piange, che si scontra contro un eroe che non si è mai preso sul
serio una sola volta in vita sua, salvo che si trattasse di essere un buon
genitore. Kang fin dalla sua prima apparizione non sembra avere una sola
speranza contro Scott e ciò lo rende un personaggio ancora più piccolo e
tragico. “Questo Kang” nell’ottica di un film come Ant-Man “funziona” e
Jonathan Majors riesce a incarnare al meglio una nemesi ideale per Scott, come
lo era stato il Calabrone di Stool. Ma forse “questo” non è il Kang che qualcuno
dei più affezionati lettori Marvel aspettava come “il nuovo Thanos”, il nuovo
grande villain di un futuro film degli Avengers. Forse per un nuovo grande
villain bisognerà aspettare ancora un Doctor Doom o un Galactus o in genere
l’arrivo dei Fantastici Quattro nel Marvel Cinematic Universe, da sempre fucina
di super cattivi di proporzioni cosmiche. Oppure gli amanti del “Kang
conquistatore multidimensionale” potrebbero accogliere la prospettiva che nel
nuovo multi-verso Marvel potrebbero incontrarsi anche degli “altri Kang” di
indole diversa. Solo il futuro ci dirà qualcosa a riguardo.
Il nuovo film su Ant-Man di Peyton Reed è una divertente montagna russa colorata piena di mondi e personaggi strani, che racconta in modo rocambolesco come cambia il rapporto tra un genitore e una figlia quando arriva l’adolescenza e si inizia a pensare a come “ci si sentirà da grandi”. Ant-Man, personaggio che ha fatto di necessità virtù il suo “dover essere sempre piccolo” e “lo stato di nausea di diventare troppo grandi”, può essere in merito un genitore interessante. Funzionale alla trama, ma forse per qualcuno sottotono in un contesto narrativo più allargato, il villain del pur bravo Jonathan Majors. Molto divertente il villain “secondario” interpretato da un “attore misterioso” in grado di cannibalizzare ogni scena che lo vede protagonista con continui tocchi di classe e pura follia. Da gustarsi preferibilmente in una sala cinematografica con lo schermo enorme per godere a pieno dei mille dettagli e colori del mondo quantico.
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