Siamo in Cina, negli anni ‘60, in un
territorio sabbioso e poco abitato che sembra uscire da un film western.
C’è un fuggitivo (Zhang Yi), che
insegue la moto dell’addetto alle bobine di un cinegiornale, lungo le
tappe del suo itinerario. Su quella pellicola, che passa di paese in paese, per
poco meno di un secondo c’è qualcosa che per lui è importate, ma i cinegiornali
si possono vedere solo nei cinema, che sono frequentatissimi e al centro delle
città, mentre è davvero complicato vederli in altro modo. Lui è evaso, ha
vestiti usurati e l’aria stravolta, può essere riconosciuto e dover tornare in
prigione, ma guardare quella pellicola può essere per lui più importante, quasi
una ragione di vita.
C’è poi una piccola ragazzina (Fan
Wei),minuta e dall’aria disordinata, affamata e un po’ incarognita dalla vita.
Senza farsi vedere una sera ruba proprio quella pellicola, davanti agli occhi
increduli del fuggitivo, mentre l’addetto è per un momento distratto.
Inizia tra i due un tragicomico
inseguimento per contendersi la preziosa bobina, in cui i ruoli di
chi la detiene passeranno più volte di mano, spesso come effetto di situazioni
e incontri spassosi quando surreali. La storia vedrà i due più volte rivali o
complici: come se questa loro competizione infinita seguisse regole al di fuori
delle “ragioni del mondo” e i due si sentissero quasi parte di qualcosa di
speciale, al punto da proteggersi reciprocamente e considerarsi in fondo
amici.

In cosa consiste la vera “magia” del
cinema? Vive in quelle ombre colorate e quei suoni che si animano nel buio
della sala? Si nasconde nel rito collettivo che permette a più persone di radunarsi
in un unico locale per stare una vicino all’altra, in silenzio, a “condividere
emozioni”? Respira nella sua capacità di farci concentrare attraverso gli
attori e la narrazione, su quei singoli “momenti importanti”, che nel mondo
reale ci sfuggono? C’è chi piange e ride al cinema e solo al cinema. C’è chi
sogna, chi osserva divertito e sorpreso i volti di chi ha accanto (per vedere
se provano le sue stesse emozioni), chi sfida il suo coraggio guardando un film
horror, chi entra per cantare le canzoncine di un cartone animato con i suoi
bambini, chi si nasconde nel buio per scambiarsi effusioni, c’è chi non riesce
proprio a stare zitto perché nel buio della sala si sente poco protagonista.
C’è un ricco e variegato mondo, in una sala cinematografica. C’è una frase,
scritta sulla parete della sala 1 del cinema Odeon di Milano, che recita:
“ex tenebris vita”. Ed è verissima. Onora al meglio quella particolare
magia che la luce del cinema irradia in una sala buia.

Zang Yimou è maestro indiscusso del
cinema, non solo “asiatico” in senso stretto. Negli anni ha saputo parlare
tanto di sentimenti tormentati (Ju-Dou, Lanterne Rosse) quanto di
politica (attraverso il satirico Keep Cool), di contrasti tra tradizione
e modernità (nella piccola odissea “burocratico-morale” de La storia di Qui Ju), del mito da cui nasce una nazione (dove le arti marziali di Hero si
trasfigurano in immagini che sanno parlare per astrazione anche di
cultura e letteratura), di teatro shakespeariano (dove c’è molto Amleto ne La
città proibita), di favola (ne La foresta dei pugnali volanti, dove ci
sentiamo quasi su una luna boscosa di Star Wars), di scuola e futuro (tra i
bambini e l’insegnate bambina di Non uno di meno), integrazione culturale (anche usando il linguaggio degli action movie, come in The great wall).
Oggi Zhang Yimou ci parla con la sua nuova opera di “cinema”, nel senso più
ampio e totale, quello della magia potente e inebriante che scaturisce dalla
pellicola. Lo fa attraverso un Road movie ambientato in Cina negli anni ‘60, in
un luogo di “interminati spazi e sovrumani silenzi” (per dirla con Leopardi)
che segue le regole di un western, in cui si agitano e rincorrono un uomo e una
bambina che sembrano usciti da un film comico (e malinconico) di Charlie
Chaplin. Un po’ Tempi Moderni, un po’ Il monello, un po’ Nuovo Cinema Paradiso.
Ma anche un po’ Lo chiamavano Trinità, per quella voracità e gusto con cui gli
affamati protagonisti spazzolano via piatti interi di cibo per far fronte a una fame atavica. Poi c’è anche un po’ Nitrato d’argento di Marco Ferreri
e ovviamente Bastardi senza gloria, dove il cinema diventa anche riflessione su
quella pellicola originaria lunga metri e metri, da maneggiare con cura quasi
sacerdotale, infiammabilissima e in grado di ingigantire oltre misura le
immagini che proietta in modo sorprendente, qualche volta pericoloso,
stordente. Dire di più sarebbe fare un torto a un lavoro tanto raffinato e
accorato, simile quasi ad una dichiarazione d’amore. One second va scoperto
nello stesso buio della sala di cui parla, ora che pellicole e sale al buio
sembrano sempre più superate e deserte e il rito collettivo, di sederci a
fianco di sconosciuti per condividere emozioni, sembra sempre più una cosa
strana. Molto bravi e in parte gli attori, che hanno trovato una intesa sulla
scena davvero unica. Molto belli i paesaggi, tra il “vuoto desertico” del mondo esterno e il calore e l’attesa
febbricitante che si muovono nei pressi della sala cinematografica. One Second
irradia autentica magia. Talk0
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