giovedì 4 marzo 2021

Piercing - la nostra recensione del piccolo ma geniale film di Nicholas Pesce

 



Reed (Christopher Abbott) è un uomo medio tra gli uomini medi, sulla quarantina, dall’aria tranquilla e dalla vita familiare infelice e sottomessa espansione con l’arrivo imminente di un pargolo. Ma il piccolo e insignificante Reed nasconde un desiderio orribile quanto orribilmente condiviso con la moglie (Laia Costa): voler uccidere una prostituita con un punteruolo. Un sogno che pianifica da tempo riempiendo di appunti un quaderno rosso, studiando i minimi dettagli, dal tipo di prostituta da coinvolgere al luogo, alle modalità per immobilizzarla, all’alibi e fuga. Ma oltre a piani e idee non avrebbe la forza di fare niente senza l’ok della moglie, non sa prendere iniziative come pare sessualmente scarso. Poi, con il bene placito della moglie che gli raccomanda di non prendere freddo durante la “missione”, perché i colpi d’aria sono letali in stagione e lui si dimentica sempre di mettere la sciarpa, Reed si convince, va in un hotel “particolare” e chiede ad una agenzia “particolare” di fagli arrivare in camera una esperta di sado-masochismo da “abbattere”. L’idea è chiedere alla professionista se può legarla, come In uso nelle pratiche sado-maso, per poi narcotizzarla e quando è priva di sensi pugnalarla. Reed “ordina al telefono” la ragazza e inizia a fantasticare sulle sue future azioni, mimando nell’aria tutti i gesti e torture che vorrà infliggere, immaginando i rumori come fosse la performance di una air band, fino a che arriva Jackie (Mia Wasikowska). È carico ma subito si intimidisce, quando gli si presenta in stanza questa biondina scombinata con i capelli a caschetto che sembra in stato allucinatorio e gli chiede, prima di iniziare, di andare in bagno. Lui acconsente senza pensarci troppo a farla entrare nel bagno dove ha lascito incautamente  punteruolo e altri giocattoli nascosti in una borsa. Accortosi dell’errore, Reed viaggia spedito verso la paranoia, mentre sale la concreta paura che la ragazza, che non esce più dal bagno da troppo tempo, si sia accorta delle sue intenzioni. Reed prova ad aspettare un po’, tentenna e quando riesce a trovare la forza di aprile la porta del bagno trova Jackie mezza nuda che si sta pugnalando una gamba con una forbice. Ora l’omino è nel marasma: Jackie è una pazza masochista, una “professionista masochista“ che si taglia per lavoro o una vittima spaventata che ha capito le sue intenzioni e sta escogitato un impossibile piano per sottrarsi al destino? Sta di fatto che la ragazza, che appare sempre meno avvenente è sempre più fragile, inizia a intenerire il cuore dell’uomo, allontanando il momento fatidico del godimento omicida di Reed. La brava Jackie si sta comportando volontariamente o meno da autentica Shahrazad ma presto sarà chiaro chi comanda il gioco. 



Piercing di Nicholas Pesce è un piccolo film che ha la struttura di una piece teatrale e il bisticcio di parole è voluto. Un atto unico con al centro della scena due personaggi per la maggior parte del tempo, poche scenografie e un confronto più dialettico che fisico. Ricorda per sommi capi la celebre Venere in pelliccia, che ha trovato una recente bella trasposizione ad opera di Roman Polanski, ma Piercing ha un animo più pop e pulp, che riprende a piene mani una narrazione a fitti dialoghi sarcastico/dissacranti alla Tarantino, adagiati su una colonna sonora ultra citazionista a base delle soundtrack dei migliori classici thriller/horror anni settanta, tra cui le musiche dei mitici Goblin. Restando nell’ambito di Simonetti e soci, Pesce nuota  più volte nel “profondo rosso” del Dario Argento anni ‘70 anche visivamente, dalla costruzione geometrica della scena al feticismo sensuale per gli oggetti da taglio, come non disdegna dividere lo schermo in immagini multiple come il Brian De Palma degli stessi anni, quello di Carrie e del Fantasma del Palcoscenico. Quindi Piercing è solo raffinato e ammiccante revival pop ‘70 dunque? No, in quanto la sceneggiatura è tratta da un racconto del 2008 di Ryu Murakami, l’autore di Tokyo Decadence. Quindi Piercing è un thrillerino tra il nostalgico ‘70 e l’appassionato di estremo oriente, che trova una quadra perfetta grazie a un’ottima alchimia tra i personaggi e un semplice ma solido meccanismo da narrativa noir. Mia Wasikowska è straordinaria nel creare personaggi complessi. Lo dico da quando l’ho vista in Tv giovanissima con In Treatment, dove teneva testa e rubava la scena a Gabriel Byrne, e non ho mai cambiato idea. Riesce a essere tenera, goffa, spaventata quanto attraente in ogni personaggio che interpreta, conferendo a ogni sua interpretazione qualità umane diverse quanto uniche. La sua Jackie non è da meno, nuota tra fragilità e sensualità, in un continuo vagare tra stato allucinatorio e lucida determinazione. Prima ci ammalia, poi ci fa ubriacare e poi ci travolge, infine ci spaventa. Un vero enigma indecifrabile per il povero “omino” che è  Reed, interpretato da un Abbott che ne sottolinea tutte le fragilità e insicurezze, la sudditanza a una moglie-padrona come una latente impotenza psicologica, guarnendo il tutto di una goccia di umanità che ci permette comunque di avere pena per lui. Come in Venere in pelliccia, il gioco che coinvolge i personaggi è conquistare “il ruolo di potere” sull’altro, scompigliando le certezze dello spettatore facendo leva sul classico equivoco culturale su chi detenga l’effettivo potere in un rapporto sado-masochista. C’è in più la follia omicida in tutto questo “gioco”: la necessità del piccolo Reed di penetrare nella carne di una donna “Adultera” con un oggetto appuntito, per di più con il “salvifico“, a livello morale, consenso coniugale. Ma seguendo l’amico Freud e l’impostazione che la pellicola predilige, tutto questo gioco allusivo può ricondursi sempre a un discorso sulla sessualità e sui “ruoli”. 



Peccato duri poco! La pellicola di Pesce scorre via che è un piacere, i personaggi funzionano e hanno un modo molto divertente di relazionarsi, la situazione diventa presto folle e imprevedibile e in qualche caso pure allucinatoria. Come sul set di un film di Godzilla dei primi ‘70 (Perché sempre lì gira e rigira restiamo), la scenografia finto-minimale al di fuori delle “stanze da gioco” è composta da tanti modellini in scale di palazzi e macchinine, come a significare che i due protagonisti sono due Kaiju in lotta sul set plasticoso delle relazioni umane. Come in Colossal di Nacho Vigalondo, ma più sottile. Nei 2020 Pesce ha diretto il reboot/remake di The Grudge/ Ju-oh, che dopo Piercing sono più curioso di vedere di quanto lo fossi prima, di fatto continuando ad adattare sceneggiature di origine orientale. Il suo primo film, del 2016, non è piaciuto, ma voglio essere positivo. Insomma, regista da tenere d’occhio e un filmetto niente male per passare la serata.

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