venerdì 28 luglio 2017

USS Indianapolis - la nostra recensione




C'è una vicenda poco raccontata sui libri di Storia sulla seconda guerra mondiale, anche se sono fatti legati ad uno dei più spaventosi eccidi che l'umanità abbia mai messo in atto, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Tutti sanno, anche per pura curiosità e per il Focus Channel del "Progetto Manhattan", del " Little boy" e del B-29 Enola Gay, in meno parlano (anche in virtù di una solo recente riabilitazione della vicenda) della USS Indianapolis, la nave che portò la bomba in gran segreto dagli Stati Uniti fino al bombardiere. Una missione delicata, senza scorta e senza pubblicità, senza armi e senza contatto radio, in pieno territorio nemico. Correre con più leghe possibili grazie alla migliore tecnologia navale della flotta verso il mare delle Filippine, consegnare " il pacco", per lo più ignoto all'equipaggio, e tornare a casa, sempre nell'ombra, sempre da soli, pregando di non incontrare i mini-sommergibili kamikaze chiamati "kaizen". Il viaggio d'andata va in porto, come la Storia insegna, nonostante i mille presagi di sfortuna. Il viaggio di ritorno le avrebbe fatto incontrare i siluri incazzati di un sottomarino giapponese, l'affondamento e la quasi totalità dell'equipaggio alla deriva a farsi divorare pezzo dopo pezzo dagli squali. Ed era solo l'inizio del calvario per l'equipaggio superstite. 



Una pagina della storia tremenda all'ombra di una pagina di storia indicibile. Il regista Mario Van Peebes, lontanissimo dai tempi del western all-black Posse racconta l'epopea degli uomini della Indianapolis scegliendo il registro più intimo e sofferto. Non c'è eroismo, non c'è un senso superiore di giustizia a stelle e strisce da preservare. Solo storie di piccole soldatini che dopo una malinconica notte in città pensano di imbarcarsi in una missione di routine per poi ritrovarsi, poche ore dopo, sul mare delle Filippine, silurati, a galleggiare sui relitti e sperare in un soccorso che tarda ad arrivare. Il tutto tenendo a bada le lacrime, la pazzia che sale e, soprattutto, gli squali. Squali che erano a migliaia e anche se non erano i mostri assetati di sangue che gli horror acquatici oggi propongono erano sempre lì, sempre affamati, con i marinai presi dalla disperazione che li prendevano a bastonate o gli cavavano gli occhi pur di non farsi tirare giù in mezzo al mare. La guerra c'è, ma è altrove. Il film parla di sopravvivenza e in qualche modo di "punizione divina". Il piccolo popolo della Indianapolis è come se pagasse simbolicamente per tutti quelli che hanno deciso di chiudere il conflitto mondiale in quel modo. Facile che ai giapponesi la pellicola possa fare l'effetto di un horror torture-porn, per la precisione ed efferatezza delle scene più macabre, quelle in cui denti di ossa e lamiere d'acciaio si riversano sui marinai americani. Molto bravo e molto umano Nicholas Cage nelle vesti del capitano  McVay. McVay è come un padre per il suo gruppo ma è anche il depositario di un segreto indicibile che potrebbe portare la guerra alla fine, con tutta la gloria (che nessuno gli attribuirà in vita) e tutti gli oneri di dolore e sofferenza che questo comporterà. Un ruolo non facile, gigantesco ma dolente, iconico e tragico. L'attore italo-americano in questa assolata estate sta vivendo una vera e propria rinascita artistica (anche se questa pellicola è del 2016 e da noi arriva un po' in ritardo). Tom Sizemore, che dai tempi di Salvate il soldato Ryan incarna ormai alla perfezione il soldato americano generoso ma letale, dà ugualmente qui ottima prova. Molto interessante, profondo e tragico il ruolo del comandante Mochitsura Hashimoto, l'ufficiale del sottomarino che silurò l'Indianapolis, interpretato da Yutaka Takeuchi. Un uomo che si sente il peso di non aver intercettato prima quella nave, ma anche un uomo con una altissima considerazione della sofferenza umana, riluttante sull'uso dei kamikaze. Il film giocoforza trasuda di patriottismo e rivalsa come è classico nelle produzioni di questo tipo ma Van Peebles riesce a infilare dentro (come solo sanno fare gli autori migliori) degli accenni di reale critica politica. Sembra dirci che sono i "poveri" ad andare in guerra e morire, ma comunque sono gli unici ad avere un'anima, a provare compassione e onore. Giocoforza il mondo non sarà mai nelle mani di onorevoli soldatini e anche le più alte dimostrazioni di onore e rispetto (come quella del capitano Hashimoto nel finale) sono atti che non comportano alcuna attenzione e stima per l'opinione pubblica. È una strana produzione quella di USS Indianapolis. I fondi sembrano provenire da un'associazione reduci e gli effetti speciali hanno più l'aria di una ricostruzione low-cost per l'History Channel. Gli attori però sono bravi e in parte e la storia ha forza e drammaticità tali che deve essere conosciuta. Per i più cinici e più disinteressati ai fatti del 1945 rimane un film di squali di portata così gigantesca come non ne hanno mai visti. Anche se forse meno sadico di quanto vorrebbero. 
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