lunedì 28 marzo 2016

The revenant - un oscar a Di Caprio giusto perché viene picchiato tanto e duro.



America, più o meno ai tempi di Ken Parker. Di Caprio è pure lui un "trapper", un esperto di sopravvivenza che guida una carovana carica di pelli pregiate per anguste distese innevate in una regione d'America dal nome impronunciabile. Fa affidamento sul suo intuito e sul supporto del figlio pellerossa e il viaggio prosegue bene, tra campeggi intorno al fuoco e geloni ai piedi. Tuttavia il gruppo si imbatte in terribili predoni e in una scena che pare la versione western dello Sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan ne escono tutti malconcissimi. Come se non bastasse Di Caprio poco dopo affronta a mani nude un orso e siccome non siamo né in Vento di Passioni né in Backcountry il nostro eroe, pur malconcissimo elevato al quadrato, si salva. Ma la carovana gli vuole bene, al punto che gli assegna un pugno di uomini per riportarlo a casa, sano e salvo, con una barella di fortuna. Peccato che tra il gruppo dei lettighieri ci sia il bastardissimo Tom Hardy che, smessa la museruola di Mad Max e la museruola di Bane, gioca a fare il cattivone sopra le righe, tanto ignorante quanto scoordinato nei movimenti, un po' goffo e un po' bullo, ma parecchio fortunato. Ha la classica "fortuna degli stronzi", per intenderci. La sua idea di mollare Di Caprio nei boschi innevati, dopo averlo ridotto malconcissimo di quarto livello, con la ricompensa del salvataggio già in tasca, si fa subito concreta. Già che ci sta, impallina pure il figlio del nostro trapper. Madornale errore. Di Caprio resuscita come Terminator, si cura in modi che pure Rambo troverebbe ridicoli, si crea appartamenti di fortuna dentro le interiora di qualche animale per sopravvivere la notte come suggerito da Bear Grills. E a Tom Hardy gliela giura. Lo inseguirà per tutto il pianeta fino a che lo impallinerà.


The Revenant è maestoso. I paesaggi sono bellissimi, reali, vividi, la luce colpisce diritta nell'iride. Sembra di sentire fisicamente il freddo dell'America innevata e il caldo soffocante, il puzzo, delle carcasse di cavallo appena uccise . Insomma, mi capite, chi di voi non ha ancora dormito all'aperto in Alaska nelle interiora di un cavallo morto? In fondo facevano anche in Star Wars qualcosa di simile. Che fan di Star Wars siete? Ma torniamo al film. E l'uomo è piccolo e indifeso di fronte alla natura, la pelle si tira e si rompe insieme alle ossa e ogni passo conduce a una morte potenziale, sia un burrone o un animale a caccia o una tormenta di neve. Non meno letali, se si mettono di impegno, sono gli uomini. Pronti a scannarsi, squartarsi, sminuzzarsi e decervellarsi tra di loro per due o tre pellicce puzzolenti. Le distese innevate sono ottime per riempirsi di sangue come nel leggendario The Raid 2. La macchina da presa, come nel precedente film di Inarritu, è una entità metafisica che ci porta sull'azione in modi inimmaginabili, sembra montata sulle ali di un calabrone e crea visioni sempre impossibili, uniche, suggestive e vertiginose. La musica è avvolgente ma sono gli effetti sonori a farla da padrone, a farci aggiustare il cappotto in platea. Se avete i soldi per andare a vedere un solo film al cinema quest'anno fatevi un favore e scegliete questo, nella sala più grande, con il mega schermo e con il sonoro più spettacolare che trovate. Questo è cinema, anche se non amate il western, anche se non sopportare Di Caprio, anche se sono tre ore di pellicola, "esserci", vivere di pancia lo spettacolo di una natura così madre quanto matrigna, è un piacere sensoriale di cui non dovreste privarvi. Peccato però che il film alla seconda visione, a mente lucida e privati dello stretto abbraccio emotivo della prima volta mostri i suoi limiti. Anzi, "IL" suo limite, che piccolo quanto volete, rimane. Che ovviamente è lui, Di Caprio. Uno degli attori più mono-espressivi della piazza, uno che considera il recitare "urlare fortissimo". Reduce da una serie di pellicole in cui faceva sostanzialmente sempre il pazzo in overacting sotto effetto della cocaina (ed era sempre monotono, solo che urlava un sacco) con questa pellicola prova la carta del Deadman, il sopravvissuto, quello che vive per la vendetta, a metà tra il Gladiatore di Russell Crowe, il Danzel Washibgton di Man of Fire e il Corvo di Brandon Lee, spiriti, zombie immortali che si muovono unicamente spinti dall'amore perduto per i suoi cari, destinati a morire a vendetta compiuta, tornare alla terra. E Di Caprio senza gli stupefacenti a "giustificare" gli strilli è molto, molto meno divertente del solito e sbaglia clamorosamente. Sbaglia alla radice stessa del personaggio, non instaurando la minima empatia con quello che dovrebbe essere suo figlio. 


Il Deadman si muovo per amore, ricordiamolo. Non ci sono momenti in cui il legame si palesi, non una lacrima, non una carezza. Solo una scena onirica che ha del fasullo, del superficiale. E' vero, il film è tratto da una storia vera in cui l'elemento del figlio non c'era. Ma a questo punto perché metterlo, se il protagonista non è in grado di provare qualcosa per lui? Possiamo dire che prima c'è la vendetta e poi arriveranno le lacrime, ma questa prospettiva non ci soddisfa in pieno e anzi ci fa trovare sempre più antipatico e monocorde un Di Caprio che privato dell'overacting cocainomane scorsesiamo  non ha davvero nulla da dire se non digrignare i denti per tre ore. Apro parentesi: ma quanto era più bravo di lui Ray Liotta? Perché Scorsese si è fissato con questo brutto e ormai vecchio bambolotto? E allora sale l'odio e ci si rende conto che i film, tutti i film di Di Caprio ci piacciono, ma giusto per quel momento, assai frequente nelle sue produzioni, in cui il suo personaggio muore, in genere male (pur nella finzione, non vogliamo davvero male a Di Caprio come "essere umano". E' solo che come attore ci fa cagare...). E' quella stessa sensazione liberatoria che accade con Silvio Muccino ne Il Cartaio di Dario Argento: quando l'attore, che recita atrocemente male (sottolineiamolo col pennarello, che il punto è questo e nulla più) muore, il pubblico si alza in piedi in tutto il cinema in una standing ovation. Il film di ambientazione storica "aiuta" il nostro personale odio generalizzato "dicapriesco": se è ambientato nel far west il suo personaggio oggi sarà sicuramente "morto" e si parte già bene. E questo deve saperlo bene pure Inarritu, che in fondo deve essere mastro segreto del culto "anti dicapriesco", perché, con una gioia quasi inarrivabile per ogni fiero adepto, decide meccanicamente ogni tre minuti del film di far picchiare malissimo Di Caprio da qualcuno. Sia la mano della natura o quella dell'uomo, troveremo sempre durante la pellicola qualcuno che lo picchia male. Di Caprio sbava per febbre e convulsioni, ha il corpo sempre più tumefatto, cade da ogni burrone e in ogni lago gelato, finisce plurisparato e pluriaccoltellato. Si rialza sempre, cacchio. Ma poi viene picchiato di nuovo e con più gusto da qualcosa di nuovo e inatteso. Il nostro eroe personale per questo non poteva che essere l'orso. Quanto sarebbe stato bello se fosse stato un orso vero (ripeto, stiamo scherzando...) o per lo meno "l'orso squartatore" del film "Backcountry". Però anche questo bastardo figlio digitale di Winnie the Pooh sa picchiare bene e maciulla il nostro eroe con il dovuto gusto. E dietro a tutti i graffi, lividi, escoriazioni, mocci congelati, proiettili conficcati, lame putrescenti e carni abrase da esplosivo c'è tutto un team di truccatori ed effettisti da standing ovation. Ogni tanto coprono pure il volto di Di Caprio con una coltre di capelli congelati, sudaticci e forforosi. E la recitazione ne guadagna, anche se, sommate tumefazioni ed effetti vari, Di Caprio è quasi più truccato del Barbalbero del Signore Degli Anelli. Certo che se l'oscar volevano darlo al Gollum, la cosa ai giorni nostri "ci sta". 


L'altro nostro eroe personale, per motivi diversi, è poi ovviamente Tom Hardy, qui ultra grezzo, bofonchiante, sgradevole e vigliacco. Rappresenta "il male e lo schifo", ma lo fa talmente bene che la sua nomination all'Oscar se la merita tutta e non riusciamo a volergli davvero male. Come antagonista di Di Caprio si fa apprezzare quanto Daniel Day Lewis in Gangs of New York e Matt Damon in The Departed. Hardy è grosso, è estremo, recita non limitandosi a rifare sempre se stesso (come invece fa qualcun altro..) e si è inventato pure una camminata da bifolco stupratore di anatre che sicuramente il protagonista di Wolf Creek gli invidia. Hardy riesce a salvare ugualmente la baracca emotiva della pellicola, quanto truccatori ed effettisti hanno reso credibile la sfiga cosmica di Di Caprio. E questo perché quando c'è un grande cattivo, si bada meno al "buono", che diventa quasi funzionale a lui, una statistica per "ribilanciare", perché ci mettiamo a contatto con il dramma del protagonista più facilmente, empatizzando, senza che lui debba trasmettercelo con le "sue" doti recitative .
Il resto del cast è abbastanza funzionale, ma bisogna aggiungere che, purtroppo, anche il figlio di Di Caprio non riesce a esprimere a pieno il suo potenziale. Ma in fondo quello che conta è qui il viaggio visivo, che non delude mai è si fa apprezzare sulla distanza. Credo che molti rivedranno il film unicamente per rivedere i suoi bellissimi paesaggi.
E quindi il film si salva, e alla grande, nonostante Di Caprio o forse anche per merito suo: perché vederlo malmenato (e parliamo sempre di finzione cinematografica, bene inteso) così spesso e così profondamente, ci rende, a noi sadici odiatori antidicapristi, parecchio felici. Insomma, guardatelo tutti e se ve lo perdete al cinema guardatelo vicinissimo alla tv e in cuffia, al buio. Anzi no, che poi vi fate male alla vista.., compratevi magari un home theatre o andate a vedere il film da un vostro amico che ce l'ha. Questo film è davvero un bel viaggio. Nonostante Di Caprio. O questo l'ho già detto? Talk0

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