America, anni ‘60. Una notte cupa e piena
di fulmini. Il primo caso di due giovanissimi e inesperti Ed e Lorraine Warren
li vuole nell’ufficio di un antiquario, trovato misteriosamente impiccato nel
magazzino, dopo i molti strani accadimenti avvenuti pochi giorni prima in
seguito all’arrivo in negozio di uno strano specchio. Alto più di un metro,
nero, molto pesante, sormontato sulla cornice in alto da tre putti dall’aria
triste, in basso da decorazioni di tipo floreale. La commessa dell’esercizio,
durante la registrazione del primo incontro con i Warran, appare confusa: parla
di porte e luci che si accendevano e spegnevano in modo anomalo, oggetti
trovati in luoghi diversi, voci sinstre, un forte senso di oppressione che ha
caratterizzato senza sosta i giorni antecedenti, dando la sensazione di un
pericolo imminente. Mancano troppi
dettagli per procedere, ma una Lorraine agli ultimi giorni di gravidanza decide
istintivamente di affrontare da sola l’oggetto maledetto: al buio, nel suo
territorio, senza troppi preamboli. Quasi sfidandolo, con un senso di
“urgenza”: avvertendo vicino a lei nel magazzino la presenza addolorata
dell’antiquario, ancora dondolante alla trave su cui era stato rinvenuto appeso.
Lo specchio però è troppo potente. La attacca appena lei si avvicina troppo
alla sua superficie riflettente, nel modo più subdolo e spietato. La colpisce
con strane visioni, accelerando le contrazioni del suo parto. Ed è costretto a
portarla via e correre sotto la tempesta in auto nel primo ospedale possibile.
In sala parto è chiaro che l’influenza dello specchio non è ancora finita: una
creatura di color cenere si palesa a Lorraine in travaglio tra le ombre del
soffitto o dietro medici e infermieri, con i suoi occhi grigi penetranti, allungano
le sue mani oscure fino al ventre della partoriente. Urla e lampi. Salta la
corrente e non parte il generatore di emergenza. Cade di colpo un surreale
silenzio. La piccola viene estratta senza vita, con il cordone ombelicale stretto
con forza sul collo, “impiccata”, proprio come l’antiquario. Judy nasce morta,
ma dopo un intero minuto di preghiere torna alla vita. Una vita in cui fin da
piccola dimostra di avere lo stesso “potere” della madre: la capacità innata di
vedere spiriti e demoni. Lorraine non ha mai voluto che sua figlia vivesse le
sue quotidiane ed estenuanti lotte contro gli spiriti, come non ha mai preteso
che la piccola partecipasse o credesse alle loro indagini paranormali. Per
aiutarla, le ha insegnato una buffa filastrocca per allontanare le visioni,
l’ha sempre incoraggiata a non dare ascolto alle voci moleste e imploranti dei
morti, fino a darle la consapevolezza di poterli ignorare del tutto: con la
sola volontà togliergli ogni potere, relegarli a nulla di più che uno sporadico
attacco d’ansia.
Ma ora, nel pieno degli anni ’80, Judy (Mia
Tomlinson) è diventata una ragazza adulta, forse a livello di una medium
potente come lo era nel 1966 Lorraine. Con voci dall’aldilà che ormai la
affliggono quotidianamente, anche se non riesce a confessarlo alla madre per
paura di spaventarla. Vive insieme al timido Tony (Ben Hardy), che per uno
strano scherzo del destino è un ex poliziotto proprio come lo era suo padre.
Lui ha saputo da subito capire e aiutarla nella sua strana condizione, è
innamorato dal primo momento che l’ha vista e oggi è impacciatissimo all’idea
di essere presentato a tutta la famiglia, per la ricorrenza del compleanno di
Ed.
Judy ha ormai la stessa età di quando la
madre ha incontrato lo specchio nero per la prima volta. L’artefatto, intanto,
di rigattiere in rigattiere e di tragedia in tragedia, è finito in
Pennsylvania, nella casetta di periferia di una grossa zona industriale in cui
vivono, piuttosto stretti, gli 8 membri della famiglia Smurl. È stato comprato
a prezzo bassissimo con l’idea futura di restaurarlo, ma intanto è stato subito
impacchettato e offerto come regalo di cresima per la figlia maggiore. Un
regalo sgradito e inquietante, al punto che nottetempo le ragazze hanno provato
a disfarsene affidandolo come “ingombrante” agli uomini della nettezza urbana.
Ma proprio mentre lo specchio è finito tra le fauci del tritarifiuti, la
ragazzina ha iniziato inspiegabilmente a vomitare sangue misto a pezzi di
vetro, finendo in ospedale. Sono seguiti per tutta la famiglia giorni
inquietanti e carichi di rumori, voci, apparizioni spettrali: fenomeni così
terrificanti e numerosi che presto sono arrivati alla stampa, trasformando la
piccola abitazione degli Smurl come la casa più infestata d’America. Una
situazione che non è sfuggita a Padre Gordon (Steve Coulter), lo storico amico
e collaboratore dei coniugi Warren, che proprio durante la festa di compleanno
di Ed, tra un torneo di ping pong e la grigliata del gruppo di investigazione
soprannaturale prova a proporre un intervento alla coppia. Ma ormai Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga) si sentono troppo vecchi e malandati per
affrontare un nuovo caso. Anche se lo nega, Ed ha grossi problemi al cuore da
anni, dopo l’ultimo tragico “scontro” con il soprannaturale. I due si sono
ritirati da anni dall’attività di indagine e dagli ultimi convegni appare
evidente che l’interesse e la credibilità del loro lavoro non vengono più presi
in grande considerazione. Ormai si sentono come vecchi comici del Saturnday
Night Live, con giusto ogni tanto qualche avventore ancora interessato a
fare un giro nel loro “museo degli oggetti maledetti”, magari per dare una
sbirciata alla terribile bambola maledetta Annabelle. Hanno ormai appeso bibbia
e crocefisso al chiodo. Per Judy però è diverso. L’urgenza di aiutare il
prossimo, che potrebbe in parte aiutarla a stare meglio, la fa subito
interessare alla storia degli Smurl. Senza dire una parola a nessuno parte così
verso la Pennsylvania per incontrare la famiglia.
Questo darà il via a una battaglia
terribile con le forze dell’aldilà.
La zona di confine tra la tragedia famigliare e il paranormale
Una delle scene più inquietanti di La
Loorona - Le Lacrime di Sangue, del 2019, il primo lungometraggio di Chaves,
reso “in corsa” dalla produzione targata Atomic Monster di James Wan uno
“spin - off” del Conjuring Universe dopo l’apprezzamento del corto The
Maiden del 2016 (si trova anche in rete), si svolge giusto nei primi minuti
della pellicola. Un’assistente sociale trova dei bambini rinchiusi a chiave in
uno sgabuzzino, da una madre problematica “già nota ai servizi”. I bambini
piangono, sono disidratati, è buio. La madre sostiene di averli rinchiusi lì
dentro per non farli prendere da un fantasma. Già dal prologo, così come nel corso
della visione, ci viene mostrato con dovizia di effetti visivi e una buona
direzione artistica “chi è il mostro”: una creatura che agisce come un animale,
seguendo un preciso schema predatorio ricorrente. Ha la sua “zona di caccia”, vittime
designate, limitazioni nei movimenti dettate da precisi vincoli ambientali.
Esistono per affrontarla precisi “oggetti mistici” e “rituali codificati”, in
grado di contenerla o scacciarla, che se vogliamo ci portano all’interno di uno
scenario quasi fantasy: rendono il mostro simile alla creatura magica di un
gioco di ruolo, trasformano ogni azione in una stimolante partita tra “chierici
e demoni”. Chaves dimostra di conoscere bene la “grammatica” di questi “scontri
soprannaturali”: inquadra con particolare enfasi gli oggetti mistici, tiene
conto nelle inquadrature di tutte le regole e i confini in cui possono muoversi
le creature, ha un convincente senso estetico, a tratti gioiosamente patinato,
che sa rendere la messa in scena accattivante anche al di là di alcuni
presupposti narrativi già visti. Tuttavia, il colpo da vero maestro è la scena
dell’assistente sociale e dei bambini chiusi a chiave dalla madre. Una scena
che inconsciamente continua a rimbalzarci nella mente, in modo sottile, come se
in quel contesto la “giustificazione paranormale” non ci bastasse ad “accettare
i fatti” e al contempo forse evidenzi una fragilità umana inedita, dai contorni
terribili. Come non ci bastava un tale tipo di giustificazione nel precedente
film della saga, del 2021, The Conjuring – Per ordine del diavolo,
diretto ancora una volta da Michael Chaves. Anche perché in questo caso la
vicenda era “tratta da una storia vera” e aveva avuto pure dei risvolti
processuali concreti. A monte, una reale tragedia familiare ben narrata in
tutta la sua ambiguità. Anche grazie alla interessante sceneggiatura di David
Leslie Johnson-McGoldrick: autore della saga sui Warren dal secondo fino a
questo capitolo, ma anche ai tempi del suo esordio professionale, del 2009,
autore di un’ottima pellicola “tra realtà e orrore” come il thriller di
Jaume Collet-Serra Orphan.
Come già evidenziato negli altri capitoli
della saga sui Warren scritti da Johnson-McGoldrick, nella scrittura si
avvertono magari delle “piccole indecisioni”, relative principalmente alle
scene di esorcismo, che nell’economia generale rendono questi momenti a parere
dello scrivente meno incisivi del resto della storia. Sono tuttavia momenti che
vengono ben compensati nel resto della narrazione da scene ben gestite dal
forte impatto visivo e soprattutto da dialoghi in grado di affrontare con molta
cura la complessità della psicologia umana.
Chaves ad ogni modo sa sempre portarci su
una bellissima “giostra”. Nello specifico qui protagonista assoluta de L’ultimo
rito è una bella casa degli orrori piena di figuranti terrificanti e
specchi deformanti, pareti che crollano di colpo e pavimenti che si sgretolano.
Dotata di tutti i migliori trucchi visivi e sonori per spaventarci e scenario
pieno di spunti per scena d’azione ancora una volta avvolgenti, gioiosamente
ludiche e divertenti. Ma al contempo la pellicola sa offrire il dubbio, se non
il “disincanto” delle ragioni profonde che muovono gli eroi stessi sulla scena.
Ed e Lorraine diventano così un po’ anti-eroi pittoreschi e decadenti, da
western crepuscolare, vistosi e forse innocui “intrattenitori” come Il
cavaliere elettrico di Sydney Pollack con il volto di Robert Redford.
Anti-eroi umanissimi, come lo sono sempre stati del resto in tutta la saga i
personaggi dei bravi Wilson e Farmiga; ma in più piene di dubbi, su sé stessi e
sui loro stessi casi passati. Persone che riflettono, ragionando sulla loro
vita, sul fatto di aver aiutato tante persone per lo più solo parlandoci al
telefono: ascoltando, tranquillizzando, magari dirottando verso uno psicologo.
Anti-eroi che nel pieno dell’edonismo e vuoto spirituale degli anni ’80, lo
scenario di questa vicenda, per le nuove generazioni diventano sadicamente, per
i super-sadici Chaves e Johnson-McGoldrick, meno credibili dei Ghostbusters.
Se Willson e la Farmiga ormai indossano
con assoluta naturalezza i panni di Ed e Lorraine Warren, conferendo sempre
molta credibilità e “cuore” ai personaggi, appaiono ugualmente convincenti
anche Mia Tomlinson e Ben Hardy (visto nei panni di Roger Taylor in Bohemian
Rhapsody). I nuovi personaggi si integrano bene all’interno di una trama
che diventa generazionale, portando con loro nuovi dubbi e speranze, in certi
frangenti riuscendo anche a toccare straordinarie note di leggerezza e ironia.
La “continuity” funziona, alimentando un divertente gioco di specchi nel film
sui Warren che più di tutti parla di “specchi”, opposti e contrari, luci e
ombre interiori.
La colonna sonora ad opera di Benjamin
Wallfisch (It, Blade Runner 2049, L’uomo invisibile)
funziona molto bene nel sottolineare l’arrivo sulla scena di ogni “spavento”, valorizzando
in pieno il montaggio serrato, quasi a “ghigliottina” di Elliot Greenberg (Chronicle)
e Gregory Plotkin (Get Out – Scappa). Le scenografie di John Frankish (Gosford
Park), solide e piene di piccoli dettagli grotteschi, unite all’ottimo
lavoro svolto dal reparto effettistico, del trucco e dai chiaroscuri della
fotografia di Eli Born, conferiscono all'abitazione degli Smurl un fascino tutto particolare che la rendono
diversa e unica rispetto alle precedenti “case infestate” protagoniste della
saga. Menzione d’onore proprio per lo “specchio maledetto”: a tutti gli effetti
un “villain da favola”, misterioso e “immortale”, sinistro e solo all’apparenza
“immobile”.
Finale
The Conjuring: L’ultimo rito è una
pellicola che ci ha convinto, grazie alla interessante e ricca messa in scena, al
talento di attori convincenti e a un bel numero di scene terrorizzanti che ci
hanno accompagnato dall’inizio alla fine, facendoci vivere in prima persona
l’atmosfera di una casa stregata. Il nuovo capitolo della saga horror di James
Wan attraverso l’occhio del regista Chaves si fa poi a tratti quasi western
crepuscolare, malinconico e struggente, a tratti leggerissimo, a tratti
drammatico: andando a raccontarci in modo credibile e non scontato la
complessità della parabola umana dei protagonisti.
La trama presenta alcune piccole
sbavature che risultano però ben compensate da scene dal grande impatto visivo
e una sceneggiatura ben congegnata, che pur cavalcando un genere molto noto
riesce a esprimersi anche con spunti originali e inaspettati momenti
introspettivi. Davvero ben riuscito il “villain”.
Se avete amato la saga creata da James
Wan, un film semplicemente imperdibile.
Sarà davvero l’ultima avventura
cinematografica per i coniugi Warren?