giovedì 4 settembre 2025

The Conjuring: il rito finale - la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror sui demonologi Warren di James Gunn, diretto da Michael Chaves


America, anni ‘60. Una notte cupa e piena di fulmini. Il primo caso di due giovanissimi e inesperti Ed e Lorraine Warren li vuole nell’ufficio di un antiquario, trovato misteriosamente impiccato nel magazzino, dopo i molti strani accadimenti avvenuti pochi giorni prima in seguito all’arrivo in negozio di uno strano specchio. Alto più di un metro, nero, molto pesante, sormontato sulla cornice in alto da tre putti dall’aria triste, in basso da decorazioni di tipo floreale. La commessa dell’esercizio, durante la registrazione del primo incontro con i Warran, appare confusa: parla di porte e luci che si accendevano e spegnevano in modo anomalo, oggetti trovati in luoghi diversi, voci sinstre, un forte senso di oppressione che ha caratterizzato senza sosta i giorni antecedenti, dando la sensazione di un pericolo imminente. Mancano troppi dettagli per procedere, ma una Lorraine agli ultimi giorni di gravidanza decide istintivamente di affrontare da sola l’oggetto maledetto: al buio, nel suo territorio, senza troppi preamboli. Quasi sfidandolo, con un senso di “urgenza”: avvertendo vicino a lei nel magazzino la presenza addolorata dell’antiquario, ancora dondolante alla trave su cui era stato rinvenuto appeso. Lo specchio però è troppo potente. La attacca appena lei si avvicina troppo alla sua superficie riflettente, nel modo più subdolo e spietato. La colpisce con strane visioni, accelerando le contrazioni del suo parto. Ed è costretto a portarla via e correre sotto la tempesta in auto nel primo ospedale possibile. In sala parto è chiaro che l’influenza dello specchio non è ancora finita: una creatura di color cenere si palesa a Lorraine in travaglio tra le ombre del soffitto o dietro medici e infermieri, con i suoi occhi grigi penetranti, allungano le sue mani oscure fino al ventre della partoriente. Urla e lampi. Salta la corrente e non parte il generatore di emergenza. Cade di colpo un surreale silenzio. La piccola viene estratta senza vita, con il cordone ombelicale stretto con forza sul collo, “impiccata”, proprio come l’antiquario. Judy nasce morta, ma dopo un intero minuto di preghiere torna alla vita. Una vita in cui fin da piccola dimostra di avere lo stesso “potere” della madre: la capacità innata di vedere spiriti e demoni. Lorraine non ha mai voluto che sua figlia vivesse le sue quotidiane ed estenuanti lotte contro gli spiriti, come non ha mai preteso che la piccola partecipasse o credesse alle loro indagini paranormali. Per aiutarla, le ha insegnato una buffa filastrocca per allontanare le visioni, l’ha sempre incoraggiata a non dare ascolto alle voci moleste e imploranti dei morti, fino a darle la consapevolezza di poterli ignorare del tutto: con la sola volontà togliergli ogni potere, relegarli a nulla di più che uno sporadico attacco d’ansia.

Ma ora, nel pieno degli anni ’80, Judy (Mia Tomlinson) è diventata una ragazza adulta, forse a livello di una medium potente come lo era nel 1966 Lorraine. Con voci dall’aldilà che ormai la affliggono quotidianamente, anche se non riesce a confessarlo alla madre per paura di spaventarla. Vive insieme al timido Tony (Ben Hardy), che per uno strano scherzo del destino è un ex poliziotto proprio come lo era suo padre. Lui ha saputo da subito capire e aiutarla nella sua strana condizione, è innamorato dal primo momento che l’ha vista e oggi è impacciatissimo all’idea di essere presentato a tutta la famiglia, per la ricorrenza del compleanno di Ed.


Judy ha ormai la stessa età di quando la madre ha incontrato lo specchio nero per la prima volta. L’artefatto, intanto, di rigattiere in rigattiere e di tragedia in tragedia, è finito in Pennsylvania, nella casetta di periferia di una grossa zona industriale in cui vivono, piuttosto stretti, gli 8 membri della famiglia Smurl. È stato comprato a prezzo bassissimo con l’idea futura di restaurarlo, ma intanto è stato subito impacchettato e offerto come regalo di cresima per la figlia maggiore. Un regalo sgradito e inquietante, al punto che nottetempo le ragazze hanno provato a disfarsene affidandolo come “ingombrante” agli uomini della nettezza urbana. Ma proprio mentre lo specchio è finito tra le fauci del tritarifiuti, la ragazzina ha iniziato inspiegabilmente a vomitare sangue misto a pezzi di vetro, finendo in ospedale. Sono seguiti per tutta la famiglia giorni inquietanti e carichi di rumori, voci, apparizioni spettrali: fenomeni così terrificanti e numerosi che presto sono arrivati alla stampa, trasformando la piccola abitazione degli Smurl come la casa più infestata d’America. Una situazione che non è sfuggita a Padre Gordon (Steve Coulter), lo storico amico e collaboratore dei coniugi Warren, che proprio durante la festa di compleanno di Ed, tra un torneo di ping pong e la grigliata del gruppo di investigazione soprannaturale prova a proporre un intervento alla coppia. Ma ormai Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga) si sentono troppo vecchi e malandati per affrontare un nuovo caso. Anche se lo nega, Ed ha grossi problemi al cuore da anni, dopo l’ultimo tragico “scontro” con il soprannaturale. I due si sono ritirati da anni dall’attività di indagine e dagli ultimi convegni appare evidente che l’interesse e la credibilità del loro lavoro non vengono più presi in grande considerazione. Ormai si sentono come vecchi comici del Saturnday Night Live, con giusto ogni tanto qualche avventore ancora interessato a fare un giro nel loro “museo degli oggetti maledetti”, magari per dare una sbirciata alla terribile bambola maledetta Annabelle. Hanno ormai appeso bibbia e crocefisso al chiodo. Per Judy però è diverso. L’urgenza di aiutare il prossimo, che potrebbe in parte aiutarla a stare meglio, la fa subito interessare alla storia degli Smurl. Senza dire una parola a nessuno parte così verso la Pennsylvania per incontrare la famiglia.

Questo darà il via a una battaglia terribile con le forze dell’aldilà.

 


La zona di confine tra la tragedia famigliare e il paranormale

Una delle scene più inquietanti di La Loorona - Le Lacrime di Sangue, del 2019, il primo lungometraggio di Chaves, reso “in corsa” dalla produzione targata Atomic Monster di James Wan uno “spin - off” del Conjuring Universe dopo l’apprezzamento del corto The Maiden del 2016 (si trova anche in rete), si svolge giusto nei primi minuti della pellicola. Un’assistente sociale trova dei bambini rinchiusi a chiave in uno sgabuzzino, da una madre problematica “già nota ai servizi”. I bambini piangono, sono disidratati, è buio. La madre sostiene di averli rinchiusi lì dentro per non farli prendere da un fantasma. Già dal prologo, così come nel corso della visione, ci viene mostrato con dovizia di effetti visivi e una buona direzione artistica “chi è il mostro”: una creatura che agisce come un animale, seguendo un preciso schema predatorio ricorrente. Ha la sua “zona di caccia”, vittime designate, limitazioni nei movimenti dettate da precisi vincoli ambientali. Esistono per affrontarla precisi “oggetti mistici” e “rituali codificati”, in grado di contenerla o scacciarla, che se vogliamo ci portano all’interno di uno scenario quasi fantasy: rendono il mostro simile alla creatura magica di un gioco di ruolo, trasformano ogni azione in una stimolante partita tra “chierici e demoni”. Chaves dimostra di conoscere bene la “grammatica” di questi “scontri soprannaturali”: inquadra con particolare enfasi gli oggetti mistici, tiene conto nelle inquadrature di tutte le regole e i confini in cui possono muoversi le creature, ha un convincente senso estetico, a tratti gioiosamente patinato, che sa rendere la messa in scena accattivante anche al di là di alcuni presupposti narrativi già visti. Tuttavia, il colpo da vero maestro è la scena dell’assistente sociale e dei bambini chiusi a chiave dalla madre. Una scena che inconsciamente continua a rimbalzarci nella mente, in modo sottile, come se in quel contesto la “giustificazione paranormale” non ci bastasse ad “accettare i fatti” e al contempo forse evidenzi una fragilità umana inedita, dai contorni terribili. Come non ci bastava un tale tipo di giustificazione nel precedente film della saga, del 2021, The Conjuring – Per ordine del diavolo, diretto ancora una volta da Michael Chaves. Anche perché in questo caso la vicenda era “tratta da una storia vera” e aveva avuto pure dei risvolti processuali concreti. A monte, una reale tragedia familiare ben narrata in tutta la sua ambiguità. Anche grazie alla interessante sceneggiatura di David Leslie Johnson-McGoldrick: autore della saga sui Warren dal secondo fino a questo capitolo, ma anche ai tempi del suo esordio professionale, del 2009, autore di un’ottima pellicola “tra realtà e orrore” come il thriller di Jaume Collet-Serra Orphan.

Come già evidenziato negli altri capitoli della saga sui Warren scritti da Johnson-McGoldrick, nella scrittura si avvertono magari delle “piccole indecisioni”, relative principalmente alle scene di esorcismo, che nell’economia generale rendono questi momenti a parere dello scrivente meno incisivi del resto della storia. Sono tuttavia momenti che vengono ben compensati nel resto della narrazione da scene ben gestite dal forte impatto visivo e soprattutto da dialoghi in grado di affrontare con molta cura la complessità della psicologia umana.

Chaves ad ogni modo sa sempre portarci su una bellissima “giostra”. Nello specifico qui protagonista assoluta de L’ultimo rito è una bella casa degli orrori piena di figuranti terrificanti e specchi deformanti, pareti che crollano di colpo e pavimenti che si sgretolano. Dotata di tutti i migliori trucchi visivi e sonori per spaventarci e scenario pieno di spunti per scena d’azione ancora una volta avvolgenti, gioiosamente ludiche e divertenti. Ma al contempo la pellicola sa offrire il dubbio, se non il “disincanto” delle ragioni profonde che muovono gli eroi stessi sulla scena. Ed e Lorraine diventano così un po’ anti-eroi pittoreschi e decadenti, da western crepuscolare, vistosi e forse innocui “intrattenitori” come Il cavaliere elettrico di Sydney Pollack con il volto di Robert Redford. Anti-eroi umanissimi, come lo sono sempre stati del resto in tutta la saga i personaggi dei bravi Wilson e Farmiga; ma in più piene di dubbi, su sé stessi e sui loro stessi casi passati. Persone che riflettono, ragionando sulla loro vita, sul fatto di aver aiutato tante persone per lo più solo parlandoci al telefono: ascoltando, tranquillizzando, magari dirottando verso uno psicologo. Anti-eroi che nel pieno dell’edonismo e vuoto spirituale degli anni ’80, lo scenario di questa vicenda, per le nuove generazioni diventano sadicamente, per i super-sadici Chaves e Johnson-McGoldrick, meno credibili dei Ghostbusters.


Se Willson e la Farmiga ormai indossano con assoluta naturalezza i panni di Ed e Lorraine Warren, conferendo sempre molta credibilità e “cuore” ai personaggi, appaiono ugualmente convincenti anche Mia Tomlinson e Ben Hardy (visto nei panni di Roger Taylor in Bohemian Rhapsody). I nuovi personaggi si integrano bene all’interno di una trama che diventa generazionale, portando con loro nuovi dubbi e speranze, in certi frangenti riuscendo anche a toccare straordinarie note di leggerezza e ironia. La “continuity” funziona, alimentando un divertente gioco di specchi nel film sui Warren che più di tutti parla di “specchi”, opposti e contrari, luci e ombre interiori.

La colonna sonora ad opera di Benjamin Wallfisch (It, Blade Runner 2049, L’uomo invisibile) funziona molto bene nel sottolineare l’arrivo sulla scena di ogni “spavento”, valorizzando in pieno il montaggio serrato, quasi a “ghigliottina” di Elliot Greenberg (Chronicle) e Gregory Plotkin (Get Out – Scappa). Le scenografie di John Frankish (Gosford Park), solide e piene di piccoli dettagli grotteschi, unite all’ottimo lavoro svolto dal reparto effettistico, del trucco e dai chiaroscuri della fotografia di Eli Born, conferiscono all'abitazione degli Smurl un fascino tutto particolare che la rendono diversa e unica rispetto alle precedenti “case infestate” protagoniste della saga. Menzione d’onore proprio per lo “specchio maledetto”: a tutti gli effetti un “villain da favola”, misterioso e “immortale”, sinistro e solo all’apparenza “immobile”.

 

Finale

The Conjuring: L’ultimo rito è una pellicola che ci ha convinto, grazie alla interessante e ricca messa in scena, al talento di attori convincenti e a un bel numero di scene terrorizzanti che ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine, facendoci vivere in prima persona l’atmosfera di una casa stregata. Il nuovo capitolo della saga horror di James Wan attraverso l’occhio del regista Chaves si fa poi a tratti quasi western crepuscolare, malinconico e struggente, a tratti leggerissimo, a tratti drammatico: andando a raccontarci in modo credibile e non scontato la complessità della parabola umana dei protagonisti.

La trama presenta alcune piccole sbavature che risultano però ben compensate da scene dal grande impatto visivo e una sceneggiatura ben congegnata, che pur cavalcando un genere molto noto riesce a esprimersi anche con spunti originali e inaspettati momenti introspettivi. Davvero ben riuscito il “villain”.

Se avete amato la saga creata da James Wan, un film semplicemente imperdibile.

Sarà davvero l’ultima avventura cinematografica per i coniugi Warren?

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martedì 26 agosto 2025

Dangerous Animals: la nostra recensione del divertente horror estivo a base di squali e pazzi di Midnight Factory, con per matto mattatore un sorprendente Jay Courtney. Regia del grande Sean “Devil’s Candy” Byrne, nuovo talento dell’horror australiano.

Tempo di vacanze in Australia, dalle parti di una delle coste più belle ed amate dai surfisti di tutto il mondo. 

In cerca dei brividi estremi nella più torrida delle stagioni estive, una coppietta molto legata e molto lontana da casa (interpretata da  Lian Greinke e Ella Newton) non si accontenta di guardare coloratissimi pesci tropicali negli acquari di Sea World, ma decide di stare a fissare gli squali “senza vetro”, direttamente a pochi centimetri dalle loro zanne, guardandoli reciprocamente nelle palle degli occhi, in immersione, dentro una gabbia metallica. 

Tutto sicuro o quasi. 

La barca che offre questo servizio è un catafalco rugginoso ma solido. La loro “guida”, Bruce Tucker (Jay Courtney), un torvo omone pieno di muscoli, dal discutibile umorismo, ma dagli occhi gentili.

L’argano è mezzo rotto, ma la gabbia è spessa e soprattutto è una bellissima giornata di sole.

Al largo il motore si ferma, al centro del nulla, calma e silenzio assoluto. 

Bruce da secchiacci enormi e logori getta in acqua delle frattaglie di pesce miste a budella e tanta, tantissima emoglobina, per attirare i predatori.

Il mare inizia a tingersi di sangue e la coppietta di colpo ripensa ai vantaggi di Sea World. La barca un po’ trema e lo fanno pure i suoi ospiti.  Bruce tranquillizza tutti intonando con loro “Baby Shark” e quando i sorrisi tornano sul volto partono le procedure di immersione: tute da sub, imbracature di sicurezza, bombole e macchine fotografiche per souvenir. Inseriti tra le comode sbarre di metallo e calati lentamente dall’argano. 

Sotto il tetro velo di acqua cremesi, tutto però è bellissimo. Un piccolo branco di squali si avvicina calmo e armonioso: si muove con la grazia in un balletto classico, hanno occhioni da Pokémon, quasi allungano una pinna in segno di amicizia. 

La coppietta a fine tour è davvero al settimo cielo. Al ragazzo viene spontaneo abbracciare con gioia e gratitudine il torvo barcaiolo, come fosse il migliore amico che la vita gli ha messo davanti. 

Bruce sorride, ricambia.

Poi accoltella. 

Il ragazzo cade, mezzo morto e mezzo incredulo è a terra, come alcuni dei pesci, pezzi e frattaglie usati per richiamare gli squali che ancora sono sul ponte. La ragazza urlante spezza il meraviglioso silenzio di quell’angolo di mondo e grida ancora mentre è trascinata sotto coperta come un quarto di bue, in una specie di prigione segreta, dove viene legata a un letto metallico. 

Non ha invece mai amato prigioni e legami di qualsiasi tipo una surfista bionda che si fa chiamare Zephyr (Hassie Harrison). Libera come il vento e tutte le ventenni, forse da troppo tempo, batte la costa da sola, con il suo furgone pieno di tavole da surf e musica rock, in cerca di onde e forse nient’altro. 

Forse nascondendo qualcosa di inconfessabile. 

Ogni tanto le si avvicina tra i flutti qualcuno come l’imbranato surfista per caso Moses (Josh Heuston): un tipo buffo e gentile, ma pressante, che fa troppe domande personali che la fanno inevitabilmente scappare. All’ennesima fuga da un Moses poco romantico ma “particolarmente pressante”, che inizia a cercarla  quasi come un serial killer confrontando targhe di furgoni nei database della motorizzazione e provando a visionare videocamere poste vicino ai parcheggi delle spiagge, Zephyr finisce in un parcheggio decisamente isolato, in piena notte. Un luogo da lupi dove viene inevitabilmente stordita, rapita e poi portata sulla sua barca per turismo proprio da quel vecchio lupo di mare di Bruce. 


Zephyr si sveglia legata a un letto di ferro in una stanza che abbiamo già visto. Al suo fianco, su un altro letto una ragazza in fin di vita che forse riconosciamo. Incisi alle pareti tanti, troppi nomi, di donne che come loro sono state lì: per poi diventare parte dei “veri show” che Bruce ama filmare professionalmente con la sua telecamera: niente roba per turisti, qualcosa forse da rivendere nel dark web. Spettacoli in cui il barcaiolo attacca a un gancio metallico come quarti di bue vittime umane ancora vive, per poi farle calare in acqua lentamente, gocciolanti, “al sangue”, senza gabbie di ferro che possano infastidire la masticazione degli squali. Bocconi così ghiotti che, per assaporarli, qualche squalo è pure disposto a saltare a favore di camera più in alto del solito, come un delfino davanti al pubblico. Chi voleva andare a Sea World? Chi vuole ora cantare insieme Baby Shark? 

Riuscirà Zephyr a sopravvivere, magari facendo affidamento su qualche skill che le ha donato la sua vita solitaria? 

Ma soprattutto, se mai arriverà Moses a salvarla, sarà davvero una condizione migliore che finire sulla barca di Bruce?


Questa estate Midnight Factory, per tornare trionfalmente in sala nel periodo più amato dai fan dell’horror, ha deciso di puntare su un cavallo decisamente vincente: il regista australiano Sean Byrne, autore di quello straordinario Devil’s Candy che da tempo è uno dei più pregiati titoli del loro catalogo. Un film divertente, psichedelico, chiaro e preciso nella costruzione della tensione. In Devil’s Candy soprattutto Byrne si è dimostrato molto bravo nella costruzione della messa in scena e nella direzione degli attori, regalandoci un “villain” davvero speciale, che ha saputo valorizzare al meglio la fisicità ambigua e la recitazione sottile del mai troppo celebrato Pruitt Taylor Vince: un attore caratterista già apprezzatissimo (come nello psico-thriller Identità) che qui per la prima volta riesce a porsi al centro della scena, regalando una performance davvero unica. 

Per Dangerous Animals Byrne sceglie come villain di puntare sul bravo ma poco fortunato Jay Courtney: un attore “grosso” ma dallo “sguardo fanciullesco” ,che nonostante le partecipazioni a serie come Spartacus, Terminator e Die Hard non è mai riuscito a emergere, finendo anche lui per lo più in ruoli da caratterista.

In Dangerous Animals tornano di fatto molti degli elementi della crew che hanno reso così grande e iconico Devil’s Candy: dall’autore della sua straordinaria colonna sonora “dark metal”, Michael Yezerski, al direttore del suo montaggio “sincopato/subliminale” Andy Canny, fino al direttore della sua “psichedelico/mistico” fotografia Simon Chapman.

Questa volta Byrne non si occupa direttamente della sceneggiatura, affidandosi all’esordiente Nick Leopard.

Per “final girl” è stata scelta invece Hassie Harrison, attrice che si è fatta notare nella serie Yellowstone ma anche nel 2015 per quella piccola bomba horror australiano/lovecraftiana di Southbound (che potete trovare anch’essa nel catalogo Midnight Factory).

In sala, Dangerous Animals conferma molte delle buone sensazioni che riponevamo nella pellicola. 

Un horror fresco, semplice nella costruzione ma in grado di essere diretto e incisivo,  pieno di colpi di scena quanto “gioiosamente sanguinolento”, divertente e autoironico, in grado di tenerci attaccati allo schermo dal primo all’ultimo minuto grazie a un'atmosfera che non cala mai. La sceneggiatura di Leopard nella costruzione del villain strizza un occhio a un altro classico dell’horror australiano, il Wolf Creek di Greg McLean, con un Jay Courtney che sa giocare bene e amabilmente nell’alternare affabilità quando spietatezza, umorismo e cinismo, vulnerabilità e disumanità. Il suo è un vero e proprio One Man Show ed è un vero piacere guardarlo giganteggiare davanti a una telecamera che lo segue così da vicino che quasi non riesce a contenerlo, allo stesso modo in cui appare quasi troppo grosso e impiccato tra gli stretti corridoi in metallo della sua nave-prigione. Una nave-prigione grottescamente bellissima: che ci racconta la “sua storia” tra i mille dettagli della scenografia, tra quadri ricavati da vecchi quotidiani e scritte sui muri realizzati da unghie umane cariche di angoscia, troppi liquori e una vasta collezione di archivi video realizzati, all’inizio, forse in cerca di grandi “domande esistenziali”. Uno scenario da tragedia, ma anche da incubo, che spesso viene percorso dagli occhi e muscoli tesi di una bellissima e convincente Hassie Harrison: in cerca di vie d’uscita impossibili mentre da spettatrice è chiamata più volte ad assistere sul ponte a performance degne del grand guignol che di sicuro faranno la felicità degli amanti dello splatter. In attesa di un confronto con l’enorme personaggio di Jay Courtney, che fin dall’inizio ci appare davvero impari. Sul piano visivo e sonoro la crew di Byrne si conferma eccezionale quanto versatile: Dangerous Animals ha colori e suoni molto differenti da Devil’s Candy, ma il livello è sempre alto, convince e conquista attraverso una visione e ritmo ancora una volta precisi, distintivi. Ci sembra quasi di avvertire la puzza di frattaglie, di sentire i polsi legati al letto di ferro in una morsa che non tende a cedere. Dal mare sentiamo emergere e circondarci alla cintola denti bianchissimi di squalo.

Un piccolo gioiello per tutti gli amanti dell’horror “balneare” più “slasher” e ludico. Imprescindibile se amate i film ad alta tensione e magari siete un po’ orfani di quel “florido filone” su persone distratte che a vario titolo finiscono di punto in bianco in mare, senza poter tornare indietro. Qui però non ci sono tempi morti e soprattutto siamo in compagnia di un barcaiolo terribile di lusso. 

Un tuffo nel blu rosso sangue per chi apprezza ancora uno slasher vecchia scuola anni ‘80. 

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sabato 16 agosto 2025

28 anni dopo: la nostra recensione dell’horror apocalittico di Danny Boyle, Alex Garland e Andrew MacDonald, terzo capitolo della saga iniziata nel 2002 con 28 giorni dopo


La storia finora:

Era iniziato tutto 10.228 giorni prima, a Londra, in un laboratorio di Cambridge. Degli animalisti, muniti di tutte le migliori intenzioni e di una buona preparazione militare, avevano deciso di liberare delle scimmie utilizzate come cavie dall’industria farmaceutica. In pochi istanti sarebbero stati trucidati e contagiati da quella che sarebbe poi stata definita come la variante più aggressiva del virus della Rabbia. Sarebbero “rinati” come creature veloci e implacabili, affamate, spinte solo dall’istinto. Un piccolo contatto, con la loro saliva o una goccia del loro sangue, poteva bastare per creare in pochi secondi nuovi contagiati: intere legioni. In pochi giorni l’intera Gran Bretagna arrivò al collasso. Le nazioni limitrofe decisero di mettere in quarantena tutto il Regno Unito, sorvegliando militarmente i confini dall’esterno, lanciando saltuariamente sul territorio scatole di viveri o bombe. 

28 giorni dopo, un rider di nome Jim (Cillian Murphy) si risvegliava dal coma, nel suo posto letto del Saint Thomas Hospital, scoprendo di essere il solo individuo rimasto vivo nel centro di Londra. Si unì a un gruppo di sopravvissuti, cercando di muoversi in fretta, a piedi, verso Deuport e poi Manchester. Alla ricerca di risorse alimentari, risposte dai canali radio ancora attivi, altri compagni non contagiati da soccorrere. Cullando il sogno di andare a costruire insieme un’altra società. Ma il gruppo si accorse presto che i contagiati erano solo uno dei problemi e forse non il peggiore: anche i non contagiati, abbandonati a loro stessi in quel caos, in brevissimo tempo sarebbero regrediti allo stato di barbari.

28 settimane dopo (come da film omonimo, il sequel, uscito nel 2007) l’esercito degli Stati Uniti e la Nato decretarono la fine della quarantena. Per gli scienziati, i contagiati che si nutrivano principalmente solo di carne umana “viva” dovevano orami essere senza più risorse. L’Isola dei Cani, una penisola nell’East End circondata sui tre lati dal Tamigi, divenne il punto di raccolta per organizzare i primi rimpatri di chi era riuscito a fuggire in tempo alla mattanza. L’esercito avrebbe provveduto a mettere in sicurezza progressivamente tutti i territori, ma per ora Londra era pronta a rinascere. Uno dei guardiani dei nuovi insediamenti, Don (Robert Carlyle), riuscì a ricongiungersi con i suoi due figli (una è interpretata da una giovanissima Imogen Poots), ritrovati dopo che erano stati ospitati in Spagna. Ma la vera sorpresa per Don fu ritrovare, nella loro vecchia casa e ancora in vita, sua moglie Alice (Catherine McCormack). In stato confusionale ma in buona salute, non minacciosa seppur con quegli “occhi rossi” tipici dei contagiati. Per l’epidemiologa Ross (Rose Byrne), Alice costituiva una preziosa portatrice sana del virus della Rabbia. Studiando il suo sangue e la sua saliva sarebbe stato possibile trovare una cura, ma gli eventi precipitano in modo inatteso. Il virus tornò a circolare. Il generale Stone (Idris Elba) chiese ai militari di uccidere con fucili e lanciafiamme l’intera popolazione inglese presente, tutti gli infetti e non infetti, per eliminare alla radice il problema. Essendo insufficiente il contenimento, arrivò a chiedere il bombardamento totale di Londra. L’epidemiologa Ross e il sergente Doyle (Jeremy Renner), un miliare che si era rifiutato di sparare sui civili, cercarono di salvare la famiglia di Don dal “fuoco amico”, dai contagiati e dalle imminenti bombe che sarebbero piovute sulle loro teste.

 


Sinossi:

Ci troviamo 28 anni dopo l’inizio del contagio, con la quarantena ancora in vigore.

Siamo nel nord est dello Yorkshire, su una piccola isola difesa da torrette cariche di frecce e balestre (per le riprese è stata utilizzata Lindisferne, conosciuta anche come Holy Island).

Un luogo piccolo e in gran parte indipendente dal resto del mondo, dove si coltivano i campi e si allevano pecore, ma che per ogni altro bisogno “più tecnologico” deve fare affidamento sulla terraferma. Una terraferma che si può raggiungere solo durante le poche ore concesse dalla bassa marea, camminando veloci lungo una stretta strada lunga alcune centinaia di metri. Cadere o farsi sorprendere dall’alta marea significa finire al centro di forti correnti che spingono verso il mare aperto. Una difesa naturale, che per decenni ha preservato la pace insieme all’alto grado di preparazione degli “arcieri” dell’isola. Fin da bambini tutti vengono addestrati dal vecchio Sam (Christopher Fulford) a prepararsi a combattere come veri militari, almeno fino al giorno in cui sarà deciso il loro passaggio all’età adulta: un momento sancito dalla prima missione sulla terraferma e dall’uccisione di un infetto.

Spike (Alfie Williams) è un ragazzino di 15 anni, minuto e molto legato alla madre malata, Isla (Jodie Comer). Proprio per cercare al di là della bassa marea una cura per lei, magari in una vecchia farmacia o ospedale, Spike si è addestrato e ha deciso con suo padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) di andare con l’arco “a caccia di infetti”, per diventare adulto. Il mondo al di fuori dall’isola appare al ragazzo sconfinato quanto rigoglioso: pieno di boschi e mandrie di animali che corrono liberi su campi di grano. Un paradiso in cui gli infetti sembrano essersi perfettamente integrati con il resto della natura. A causa dell’alimentazione cui si sono dovuti adattare, in assenza di “carne umana”, alcuni di loro hanno però subito dei cambiamenti fisici. Alcuni si sono involuti e hanno cominciato a strisciare: destinati a cibarsi di vermi e insetti. Altri, chiamati Alfa, sono diventati giganti di quasi tre metri, predatori inarrestabili in grado di dare ordini agli altri infetti e quasi di “comandare gli animali”. Colossi e al contempo “stregoni”, che non possono essere abbattuti se non dopo essere colpiti da almeno 20 frecce. Creature quasi divine che con una sola mano possono strappare la testa di un uomo dalla sua colonna verticale.

La prima caccia di Spike è confusa e terribile.

Si protrae per giorni, perché subito un Alfa (Chi Lewis-Parry) inizia a dare la caccia a loro, costringendoli a nascondersi e perdere la coincidenza dalla bassa marea. Il padre lo incoraggia ed esalta, ma Spike non riesce a tendere abbastanza bene l’arco, le frecce scarseggiano, la paura circonda ogni minuto di quell’esperienza orribile. Al ritorno, nonostante le lodi e i festeggiamenti, il ragazzo è certo di non volere mai più uscire dall’isola, ma il vecchio Sam sa dare una spiegazione interessante a una cosa strana che Spike ha visto di sfuggita sulla terra ferma: una colonna di fumo che illuminava la notte. Quella poteva essere la prova che da quelle parti era ancora vivo il Dott. Kelson (Ralph Fiennes) un medico di base che da anni stava cercando di convivere pacificamente con gli infetti, erigendo enormi colonne di teschi per onorare la memoria dei caduti dell’epidemia. Un uomo forse impazzito, ma che avrebbe potuto aiutare Spike a curare la madre.

Pieno di frecce e coraggio, Spike decide di tornare sulla terra ferma.

 


Alle radici di una delle saghe Horror più amate degli ultimi anni:

“Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra”. Questa è una celebre frase/profezia attribuita a George Romero, ma è anche una delle paure e suggestioni umane più diffuse. Al punto che la cinematografica ha sempre saputo nutrirci di pellicole cariche di zombie, “contagiati” e in genere creature figlie di una degradazione fisica e psicologica del corpo umano post-mortem. Tutte creature che ci vogliono mangiare/sostituire/obliterare. Spesso gli zombie e i “contagiati” di Romero ci appaiono come metafore del degrado umano, all’interno di una società consumistica arrivata al capolinea, ma i non-morti al cinema hanno avuto anche chiare valenze religiose (Rec), satiriche (Il ritorno dei morti viventi) e soprattutto sono sempre stati una ottima “carne da cannone”, in film action-splatter adrenalinici quanto truculenti (L’alba dei morti viventi di Snyder) e in film così truculenti da diventare comici (Splatters di Peter Jackson).

Nel 2002 Danny Boyle inseguiva l’horror. L’autore inglese che aveva esordito con la commedia nera Piccoli omicidi tra amici ed era diventato celebre adattando Trainspottig di Irving Welsh, affiancato dal suo sceneggiatore di sempre, John Hodge, era reduce da The Beach, una pellicola con protagonista Leonardo Di Caprio. Un thriller/ ecologista che adattava il romanzo di esordio di un giovane di belle speranze di nome Alex Garland (uscito nel 1996 in Italia con il titolo L’ultima spiaggia). Nel 2003 anche il secondo libro di Garland, Black Dog (in Italia uscito nel 1997 come The Tesseract), sarebbe diventato un film, per la regia di Oxide Pang dei “Pang Bros” (autori di cult come la saga horror The Eye). Il terzo e per ora ultimo romanzo di Garland (The Coma, in Italia semplicemente Coma, del 2004) non avrebbe mai avuto un adattamento ufficiale, anche se uno dei suoi temi portanti, il confine psicologico tra il pensiero conscio e inconscio, ancora un tema “horror”, avrebbe avuto molte affinità con il primo grande incarico che Danny Boyle gli diede in qualità di suo nuovo sceneggiatore: l’horror apocalittico 28 giorni dopo.

La sceneggiatura di Garland si presentava subito come una autentica love letter agli Zombie-Movie di George Romero e in specie de La città verrà distrutta all’alba, che parlava nello specifico di contagiati e non di zombie. Ma tra le fonti di ispirazione veniva ricordato, per ammissione dell’autore, anche Il giorno dei Trifidi, un romanzo di fantascienza del 1952 a opera dell’inglese John Wyndham (autore che ispirò anche Il villaggio dei dannati), diventato nel 1963 il film L’invasione dei mostri verdi. Si parlava in questo caso di creature di origine vegetale “diventate antropofaghe” (potremmo azzardare qualcosa di abbastanza vicino ai Bloaters della serie The Last of Us), ma di fatto molte delle dinamiche narrative e scene-chiave del libro sono riscontrabili tanto in 28 giorni dopo che nel suo sequel 28 settimane dopo.

Non avendo tra le mani un altissimo budget, per abbassare i costi il produttore Andrew MacDonald spronò Boyle a girare a Londra alle 5 di mattina, di fatto replicando quello che fece Fulci per il suo horror-cult Zombie 2: girato a Brooklyn all’alba.

La fotografia del bravo Anthony Dod Mantle (Festen, Mifune, Dogville, The Millionaire, Antichris), l’ottima prova di tutti gli attori e la scelta (parimenti economica) di usare telecamere a mano digitali ad alta definizione, in luogo di ingombranti telecamere classiche con pellicola, conferirono alla pellicola un forte grado di realismo. Alcuni momenti sapevano davvero fare paura.

28 giorni dopo arrivava in sala 2 anni prima de L’alba dei Morti Viventi di Snyder e di Shaun of the dead di Edgar Wright. Tre anni prima del ritorno al genere del grande Romero con La terra dei morti viventi. Otto anni prima dal remake de La città verrà distrutta all’alba. L’opera di Boyle e Garland andava in qualche modo a riempire nel pubblico un vuoto di paranoie esistenziali sopite.

Il successo commerciale fu favoloso, ri-lanciò la moda dei film di questo tipo e lanciò la carriera del giovane protagonista, Cillian Murphy, che nel 2007 Boyle e Garland avrebbero voluto per il fantascientifico e horrorifico Sunshine e che nel 2023 avrebbe ricevuto l’oscar come miglior attore protagonista per il biopic Oppenheimer di Nolan. Fin da subito Murphy aveva manifestato l’intenzione di tornare nella saga di 28 giorni dopo, ma 28 settimane dopo entrava in produzione proprio parallelamente a Sunshine, con Boyle, Garland e MacDonald che si ritagliavano giusto un ruolo produttivo, mentre la regia veniva affidata allo spagnolo Juan Carlos Fresnadillo (nel 2024 regista di Damsel, per Netflix, con Millie Bobby Brown), che si occupò in parte anche della sceneggiatura. Si dice che Garland collaborò attivamente allo script, seppur come non accreditato. Con tanti film di zombie tornati in voga, l’approccio della sceneggiatura doveva cambiare: il film si riempiva di suggestioni “politiche”, un cast maggiormente internazionale e un gran numero di scene d’azione di stampo quasi Hollywoodiano. Il budget di cui poteva disporre MacDonald si era letteralmente moltiplicato, ma la cosa più interessante era che si potevano già riscontrare, qui, alcuni degli elementi da “horror sociologico” che di fatto “avrebbero anticipato” di anni un celebre lavoro di Garland uscito nel 2024: Civil War.  La formula risultava nuovamente vincente e dopo Lord of Dogtown la pellicola lanciava la carriera di un Jeremy Renner in piena ascesa, che solo un anno dopo sarebbe stato candidato a miglior attore protagonista per The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Alla promessa di Murphy, Boyle Garland, MacDonald di voler tornare in futuro in quel mondo post-apocalittico si sarebbe unita, intorno al 2020, anche quella che nel 2007 era la piccola Imogen Poops, ora diventata una attrice molto quotata.

Ma la data di inizio della produzione del terzo capitolo era ancora lontana.

Garland iniziava a adattare il libro Non Lasciarmi, di Kazuo Ishiguro, per il film omonimo diretto da Mark Romanek che sarebbe uscito nel 2010. Nel 2012 avrebbe scritto e si dice anche co-diretto (non accreditato) il fanta-fumetto Dredd - il giudice dell’apocalisse, con un “esordio completo” alla regia che sarebbe avvenuto nel 2015 con un grande horror psicologico: il film sui pericoli dell’intelligenza artificiale Ex Machina, diventato presto un vero e proprio cult. Garland sarebbe poi passato nel 2018 al lovecraftiano Annientamento, nel 2022 al thriller surreale Men, nel 2024 al capolavoro fantapolitico Civil War (che di fatto è una delle visioni del presente Geo-politico più horror che si possano immaginare) e nel 2025 al claustrofobico e disperato war movie Warfare. Nel frattempo, Boyle aveva scelto come suo sceneggiatore di riferimento Simon Beaufoy, con il quale avrebbe realizzato la pluripremiata favola urbana Slumdog Millioaire nel 2008 e il thriller claustrofobico 127 Ore nel 2010. Sarebbe tornato poi con John Hodge per il fantascientifico In Trance del 2013 e poi per T2 Trainspotting nel 2017. Avrebbe realizzato il biografico Steve Jobs con lo sceneggiatore Aaron Sorkin nel 2015 e la favola musicale/nostalgica Yesterday con lo sceneggiatore Richard Curtis nel 2019. Tutte cose poco horror, mentre nel frattempo 28 anni dopo “aleggiava”, con una prima stesura della trama che si diceva pronta già nel luglio del 2008, ma anche con dei consistenti problemi riguardanti i diritti, come dichiarato da Garland nel 2010. Per molti anni MacDonald si sarebbe impegnato nel trasferimento della proprietà intellettuale dalla Searchlight Pictures a un nuovo distributore, che sarebbe diventato Sony con la promessa della realizzazione di una trilogia.  Nel 2007 però Paco Plaza e Jaume Balaguero’ avevano già messo a punto una geniale reinvenzione dei “morti viventi” con Rec, utilizzando anche le stesse le telecamere digitali e inquadrature “vivide” del primo 28 giorni dopo.

Nel 2009 era già uscito il dissacrante Benvenuti a Zombieland di Ruben Fleischer.

Nel 2010 prendeva il via la serie tv The Walking Dead, che di fatto per anni e anni avrebbe cannibalizzato tutto il genere post apocalittico a tema “infetti/zombie/mutanti”, andando più volte, ironicamente, anche su quei territori narrativi che rendevano originale 28 giorni dopo. Forse per la saga di 28 giorni dopo serviva tempo perché il fenomeno Walking Dead “si sgonfiasse”. Magari serviva guardare a Oriente: a Train to Busan del 2016 e a The Sadness del 2021. Oggi sembra arrivato il momento giusto.

 


La Produzione:

28 anni dopo partiva idealmente già come una nuova trilogia.

Nel pensare al primo capitolo, Alex Garland dichiara di essersi imbattuto, per poi rimanere stregato, dal secondo film di Ken Loach per il cinema, del 1969, tratto da un libro di Barry Hines: Kes. La storia di un quindicenne dello Yorkshire del sud, molto simile allo Spike di 28 anni dopo, cresciuto negli anni '60 ma anche lui in una famiglia problematica della working-class. Se Spike cerca un “futuro impossibile” per salvare sua madre, il protagonista di Kes cerca di vivere in un “passato impossibile” dal giorno in cui si imbatte in un falco.

Il ragazzo, minuto, introverso e spesso bullizzato, trova un nido e poi un libro su come allevare i rapaci. In breve tempo decide di abbandonare un ambiente scolastico feroce, quasi di stampo militare, dove soprusi e umiliazioni sono all’ordine del giorno, per diventare a tutti gli effetti un falconiere e magari trascorrere sempre più tempo nei boschi. Un luogo benigno, in cui poter scegliere una vita antica, solitaria, quasi “medioevale”. Un luogo in cui poter scoprire di avere quel “valore” che la “società matrigna” non gli conferiva. Tuttavia ciò non lo sottrarrà al “destino/maledizione” di far parte, pur controvoglia, di una famiglia difficile in un mondo reale.

Con questo racconto di formazione, dal sapore dolce/amaro, il “concreto e politico” Ken Loach ci porta con malinconia quasi dalle parti della favola, sulle ali della fantasia e nello specifico di un falco. Ma come suo solito lo fa in modo “disilluso”, demolendo epica ed eroismi vari, puntando a ribadire il concetto che le favole come gli eroi non esistono. La premessa ideale per l’anti-favola post apocalittica che aveva in mente Garland.

Era centrale trovare un giovane protagonista bravo e “puro” come l’esordiente, David Bradley, scelto ai tempi da Loach. La scelta è ricaduta su Alfie Williams, già visto in un piccolo ruolo nella serie tv Queste Oscure Materie. Il resto del cast vedeva la presenza della brava Jodie Comer (The Last Duel) e di Christopher Fulford, ma anche di attori internazionali già affermati come Aaron Taylor-Johnson e di Ralph Fiennes.

Anthony Dod Mantle veniva di nuovo scelto come direttore della fotografia.

Serviva uno scenario naturale quasi “fantasy” come quello di Kes, così le riprese si sono svolte proprio nello Yorkshire del sud scelto da Loach, ma anche in una zona lussureggiante come la contea di Northumberland: tra Holy Island, Hexham, la Kielder Forest e le Aysgarth Falls.

Per la colonna sonora e stato scelto il gruppo scozzese progressive hip hop Young Fathers, alla sua prima esperienza con il cinema ma con sonorità a tratti quasi dalle parti di Trainspotting.

 


In Sala:

La cifra stilistica del nuovo film di Boyle e Garland arriva, forte e dirompente, quando nella colonna sonora di 28 anni dopo inizia a farsi largo, in modo ossessivo, la marcia Boots – All Quiet on the Western Front: una epica e inquietante rielaborazione sonora, opera di Fenton Rider, di un brano di Rudyard Kipling, recitato da Taylor Holmes nel 1915. Un brano che l’esercito degli Stati Uniti utilizza in addestramento, a livello subliminale, per ricreare la condizione di stress psicologico legata alla sensazione di essere prigionieri. Boyle ci fa ascoltare Boots in momenti sottolineati dalla sovrimpressione sulla scena di immagini in bianco e nero o tratte da pellicole usurate: filmati di repertorio sulla Grande Guerra e scene che ritraggono cavalieri medievali in arco e armatura pronti alla guerra, che dialogano attivamente con la vicenda di un ragazzino costretto a trasformarsi in arciere in un mondo post-apocalittico. Il linguaggio comune sembra essere la “predestinazione al conflitto”: all’inizio come alla fine dei tempi, l’uomo fin da bambino si prepara a combattere. Mettendosi in marcia con la testa bassa, guardando soli i suoi scarponi (boots, in inglese) e ricordando ogni passo che “tutto va bene”, per tranquillizzarsi prima del prossimo, inevitabile scontro.

Il direttore della fotografia Anthony Dod Mantle cerca di trasformare ogni scontro tra gli arcieri e gli infetti in un momento congelato nel tempo. Mentre l’arco si tende la scena rallenta, quasi a enfatizzare ogni sforzo. Quando la freccia trova il bersaglio la scena si blocca dentro un fermo immagine: un “frame” volto a sottolineare il disfacimento dei corpi contusi come fosse un piccolo fuoco d’artificio, quasi un esercizio di arte astratta.

Il viaggio di Spike, interpretato dal bravissimo Alfie Williams (molto struggenti le sue interazioni con il personaggio della madre, interpretato da Jodie Colmer), è però anche il viaggio di un bambino che non può vivere di sola “arte astratta”. Un bambino che rincorre ancora (e per forza) sogni di vita e di speranza. Sogni “illogici” che non possono essere capiti da una guida inadeguata come il padre, che cerca continuamente di “distrarre” il figlio dai dubbi, nella speranza così di farlo sopravvivere. Ma sogni che una figura sciamanica come il dott. Kelson (un incredibile Ralph Fiennes “metafisico”) può forse aiutare a comprendere meglio, introducendo Spike a una specie di culto dei morti volto a capire quanto ogni vita spezzata, anche quella di un nemico, sia importante all’interno della natura delle cose. 28 anni dopo gode di molti momenti visivi forti, che andranno a “infestare” la mente dello spettatore almeno quanto la terribile scena dell’incubo “sul bambino” di Renton, in Trainspotting. Ma come Trainspotting sa raccontare anche situazioni estremamente folli e leggere. Sa giocare con una colonna sonora pop, non teme l’arrivo sulla scena di personaggi eccentrici come lo erano appunto Renton, Spud e Silkboy, non smette mai di costruire un piano emotivo ricco e mai banale che riesce a coinvolgere anche i personaggi “più distanti” sulla scena. Bravi tutti gli interpreti, bellissimo il lavoro svolto a livello visivo, interessante anche la caratterizzazione, sul piano del make-up e degli effetti speciali, di infetti che sanno trasformarsi in lubrichi uomini-larva quanto in spaventosi giganti. Al termine della visione si avverte che il mondo di Boyle e Garland ha ancora moltissimo di nuovo e unico da raccontare, in un mondo in cui gli zombie-movie sembrava avessero già raccontato tutto.

Finale:

Il nuovo film di Boyle e Garland ci ha piacevolmente sorpreso sotto molti punti di vista. Ottimi tutti gli interpreti, molto affascinante l’ambientazione, originale la rappresentazione dell’azione, ma soprattutto unica e preziosa una storia capace di colpire al cuore facendo riflettere sul futuro e su come stiamo facendo crescere le nuove generazioni in un mondo con sempre meno prospettive di felicità. Garland si è fatto ispirare dal cinema sociale di Ken Loach e mai una tale scelta fu più azzeccata. Romero approverebbe.

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martedì 12 agosto 2025

I fantastici 4 - Gli inizi: la nostra recensione del nuovo cinecomic Disney - Marvel, diretto da Matt Shakman, che riporta al cinema nel modo migliore uno dei più amati super gruppi di sempre


Nell’America di Terra 828 si vive un presente che sembra la realizzazione di tutti i sogni della fantascienza ultra colorata e retro futurista degli anni ‘60. 

Raggiungere lo spazio è diventata una certezza e non solo un sogno. Un tecnologia all’avanguardia ha semplificato la vita e viene condivisa con ogni paese senza rivalità interne. Si può parlare con speranza di “futuro” e tutto questo è stato possibile grazie a “qualcosa di fantastico” che è avvenuto solo 4 anni prima.

4 anni fa, 4 esploratori spaziali si sono imbattuti con la loro astronave in una tempesta cosmica, ritornando a casa per miracolo, ma in possesso di misteriosi poteri che li hanno resi dei potentissimi meta-umani. 

Da allora l’ultra-razionale e introverso Reed Richards (Pedro Pascall) si è ritrovato con la capacità di allungare e torcere all’infinito il suo corpo come fosse di gomma, diventando “Mister Fantastic”. Un elastico vivente la cui parte del corpo più sorprendente è rimasta però la sua mente geniale, in grado di progettare e realizzare con grande rapidità ogni tipo di innovazione tecnologica. 

L’empatica, riflessiva e protettiva Sue Storm (Vanessa Kirby) ha invece sviluppato incedibili poteri telecinetici e la facoltà di rendere invisibili gli oggetti cui viene in contatto, venendo ribattezzata “La donna invisibile”. Lo spericolato fratello di Sue, Johnny (Joseph Quinn), ha trovato una forma consona al suo carattere “focoso”, acquisendo il potere di trasformarsi in una creatura composta di sole fiamme, diventando “La torcia umana”. Il possente e solitario Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) è stato trasformato in modo permanente in una enorme, potente ma gentile creatura rocciosa, soprannominata con un po’ di timore come “La cosa” ma amatissima da tutti i bambini. 

Da allora vengono chiamati “I Fantastici 4” e il mondo ha più volte chiesto loro aiuto per sventare eserciti di scimmie rosse evolute, misteriosi cyborg malvagi, draghi spaziali e creature del sottosuolo e di sotto i mari. I Fantastici 4 si sono rivelati degli incredibili difensori e mediatori con ogni tipo di razze e alieni, ma anche delle straordinarie guide politiche e scientifiche. Con la loro Future Foundation sono riusciti a parlare a livello internazionale di progresso, clima, fine dei conflitti armati.

I 4 sono diventati amatissimi e occupano le prime pagine di ogni rotocalco, intervengono alla radio, sono protagonisti dei cartoni animati e dei fumetti, svettano su magliette, gelati e gadget di ogni tipo. Puoi trovare le loro miniature parlanti come sorpresa omaggio nei fiocchi d’avena, mentre loro “in carne ed ossa ”vivono in un super palazzo hi-tech nel centro di New York, con un robottino tuttofare di nome Herbie, spostandosi con una favolosa “Fantasti-Car”, progettata da Reed stesso, in grado di trasformarsi da auto ad astronave o sommergibile in pochi secondi. 

Certo, nonostante la fama, vorrebbero presto tornare ad esplorare lo spazio. Sono in proposito già pronte delle nuove tute spaziali e per non farsi mancare nulla è pure già pronta a un passo da Time Square una astronave, la Excelsior, con tanto di rampa di lancio. Finora hanno dovuto rimandare, ma qualcosa di inaspettato li riporterà al di fuori della atmosfera terrestre quanto prima.

Accade durate uno special tv della ABC, commemorativo dei 4 anni in cui i 4 eroi si sono palesati al mondo. 

È un misterioso alieno argentato (Julia Garner) a cavallo di una tavola da surf, che si palesa all’improvviso sui cieli di Manhattan dopo un balzo dallo spazio profondo a velocità supersonica. Dice di essere l’araldo di Galactus, una creatura millenaria in grado di divorare interi pianeti. Dice che ormai non c’è speranza di sopravvivere o scappare per loro. Invita i terrestri a passare gli ultimi momenti prima dell’arrivo del suo signore per stare insieme, in serenità con i propri cari.

La fine di tutto, è già scritta.

I 4 rispondono alle preghiere e paure di un mondo in pochi minuti calato nel caos e si mobilitano subito per contrastare l’apocalisse. Peraltro tutto accade in un momento in cui il loro piccolo mondo familiare sta per essere rivoluzionato dal futuro arrivo del primo figlio di Reed e Sue. Ma il destino della Terra e del nascituro di Reed e Sue saranno misteriosamente collegati, in un modo tragico quanto davvero inimmaginabile. Per salvare il bambino, i 4 si troveranno sul punto di sacrificare l’intero pianeta e forse l’umanità intera, con una folla, che da sempre li proclama come eroi e guide, che sarà per la prima volta spinta a dubitare di loro. Se non a odiarli. Cosa salverà Terra 828 dall’essere divorata da un ancestrale divinità cosmica?


Il regista Matt Shakman, nato a Ventura in California, è alla sua seconda prova sul grande schermo dopo l’interessante thriller del 2014 Cut Bank, realizzato per l’indipendente A24. Ha tuttavia in curriculum la regia di alcune puntate di serie tv di successo come Six Feet Under, Dr.House, Fargo, Game Of Thrones, C’è sempre il sole a Philadelphia e soprattutto la geniale Wandavison, scritta da Christophe Beck e prodotta da Disney Plus. 

La sceneggiatura de I Fantastici 4: Gli inizi è realizzata invece a otto mani da Josh Friedman (La guerra dei mondi, Il regno del pianeta delle scimmie, Avatar - La via dell’acqua), Eric Pearson (i “Marvel One shots”, Black Widow, Thor: Ragnarok, Thunderbolts), con l’ausilio di Jeff Kaplan e Ian Springer (K-Pop: Lost in America). 

Per vestire i panni del geniale e allungabile Mister Fantastic è stato scelto l’attore cileno Pedro Pascal, diventato celebre con la serie  Narcos per poi essere il volto di The Mandalorian e il co-protagonista di The Last of Us. Sue Storm, la Donna invisibile, ha il volto dolce ma determinato della biondissima e bellissima inglese Vanessa Kirby, che si è già fatta notare nelle saghe di Fast’n’furious e Mission: Impossibile, ma è stata anche Josephine Bonaparte nel Napoleon di Ridley Scott. Il “focoso” John Storm è invece interpretato da Joseph Quinn, che vedremo presto al cinema nel drammatico Warfare di Alex Garland ma abbiamo già apprezzato di recente in A Quiet Place - Giorno 1 e nel ruolo lunare del giovane imperatore Geta, ne Il gladiatore II di Scott. Nel cast anche il simpatico “uomo-talpa”, interpretato dall’attore comico Paul Walter-Hauser che vedremo presto nel nuovo Una Pallottola Spuntata. Il mitico Paul Gatiss, attore nonché sceneggiatore del Doctor Who, rivestirà i panni di un presentatore dell’emittente ABC. L’interpretazione di Ebon Moss-Backrach sarà invece nascosta sotto i tanti effetti speciali che compongono l’adorabile “Cosa dagli occhi blu” Ben Grimm. Ugualmente nascosti dagli effetti speciali sono anche Ralph Ineson, “sotto” la corazza e tubi del gigante Galactus, Julia Garner “sotto” la laminata Silver Surfer, Matthew Wood a dare voce ai circuiti del robottino H.E.R.B.I.E.

Per la colonna sonora è stato scelto Michael Giacchino, autore dello score di The Lost, ma anche del re/immaginato score classico di Star Trek per i film di J.J. Abrams. Il direttore della fotografia è l’inglese Jess Hall, già coinvolto in Wandavision ma  che ricordiamo volentieri anche per aver lavorato a Hot Fuzz di Edgar Wright. Il produttore esecutivo è ovviamente, di nuovo e come sempre Kevin Feige: attivo nel Marvel Cinematic Universe fin dai tempi di Iron Man, del 2008, con questo nuovo film da il via alla “Fase Sei” del progetto supereroistico Marvel Disney. 


Una fase che inizia in un “universo narrativo” tutto nuovo e finora inesplorato, l’828, che vive in una realtà “vintage” retro futurista stile America anni '60, che la scenografa Kasra Farahani ha costruito con  chiari riferimenti visivi allo storico ciclo di storie dei Fantastici 4 di Lee e Jack Kirby, con suggestioni “pop” vicine alla graphic Novel Marvels di Busiek e Alex Ross (che è di fatto una reinterpretazione visiva “kirbiana” del 1994). Ispirati a Lee e Kirby anche i costumi dei 4, opera invece di Alexandra Byrne, come Il volto e il corpo de “La Cosa” e di Galactus, sono opera del sontuoso reparto effetti visivi, che annovera artisti di Industrial Light & Magic, Weta e Digital Domain. 

Dopo i due “simpatici” film sui Fantastici 4 realizzati da Story per 20th Fox, seguiti dal terribile “pastiche” del 2015 di Josh Trank, i fan attendevano con impazienza il momento di ricevere un film sui Fantastici 4 davvero convincente sul piano visivo quanto narrativo. 

Marvel Disney ha investito moltissimo nel progetto fin dalle primissime fasi produttive, con la chiara volontà di portare i Fantastici 4 nel posto per loro da sempre designato: al centro del Marvel Cinematic Universe come nuovi eroi di riferimento. Nuovi eroi pronti a combattere, al fianco dei tanti eroi Marvel Disney, proprio contro gli storici, amatissimi supercattivi dei Fantastici 4. Dagli insetti spaziai con il loro leader Annihilus al Super Skrull, dall’Uomo Talpa a quel Dottor Destino che nell’ultimo Comicon si è “svelato alla sala” impersonato dall’amatissimo “vecchio Iron Man”, Robert Downey Jr, annunciandosi come villain principale di un futuro film degli Avergers.

Già dall’ascolto delle primissime note della straordinaria colonna sonora, realizzata da un Michael Giacchino in piena forma, alla direzione di una intera orchestra sinfonica, si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di magico e fuori dal tempo.

Una storia dal sapore squisitamente vintage, che sembra scritta e disegnata proprio da Stan Lee e Jack Kirby negli anni ‘60: piena di epica, tragedia e sottile ironia, sorretta con grande stile da una possente, titanica, rocambolesca e psichedelica rappresentazione visiva. Tutto esplode in dolci e polverosi colori pastello, in una New York in cui dominano auto dalle forme aguzze come ne I Pronipoti, un’“arte pubblicitaria” che avrebbe amato Warhol e mostri spaziali e astronavi degni di troneggiare sulle locandine e copertine della migliore Sci-Fi dell’epoca.

Tornando a questi “nuovi anni ‘60”, Disney sceglie di portare in sala il Comic supereroistico nella sua essenza più pura, “primordiale” e “ricercata” dai fan di vecchia data: una forma ideale di una “epica moderna”, votata all’azione e al divertimento, ma sempre ricca di intuizioni drammaturgiche che la rendono stratificata e ricca di simboli. Un intreccio in cui in modo dotto, come nei miti classici (seppur con “nomi diversi”), si affrontano sulla scena, giocando “con le maschere del teatro greco” divinità e semi-dei in perenne lotta: per il destino degli uomini, brame di amore e potere, torti e complotti. L’astuto Odisseo letto al liceo non appare troppo distante dall’astuto Mr Fantastic: entrambi “uomini di scienza”, esploratori di mari, galassie, come di ogni altro confine dello scibile umano. Eroi insoliti, in continua lotta con titani e se stessi.  

Miti greci che si fondono armoniosamente con la sci-fi anni '60, riportandoci con la mente proprio a quegli anni '60 in cui la fantascienza era, rispetto a oggi, qualcosa di avventuroso, “horror”, ma pure positivo, gioioso e carico di speranze. Qualcosa che faceva sognare di “vivere in un futuro” che oggi, in un mondo ritenuto da troppi “senza futuro”, facciamo quasi fatica a “nominare”. Un futuro che si può però felicemente ritrovare solo rileggendo Lee e Kirby, ma anche guardando in sala l’ottimo film di Shakman. 


Finalmente “torniamo” al cospetto di un Galactus “antropomorfo”, dopo che Story con poca lungimiranza nel suo secondo film lo aveva trasformato in una anonima accozzaglia di astronavi. Il divoratore di mondi, più alto della Statua della Libertà, appare meravigliosamente terribile quando regale, lento ma implacabile nella voce come nella forza distruttiva: un gigante così bello e possente che avrebbe potuto realizzarlo Ray Harryhausen. 

Un po’ strana e anche da qualcuno criticata l’idea di una Silver Surfer “al femminile”: che pur nei fumetti si può ritrovare, peraltro in un “sistema narrativo di universi paralleli” in cui nulla vieta che il Surfer classico torni protagonista in future pellicole Marvel Disney. Nel film di Story il ruolo era però stato certamente interpretato alla perfezione nella sua “iconografia più nota” dal grande Doug Jones. La prova di Julia Garner è comunque più che apprezzabile e tra lei e Quinn sembra essersi sviluppata sul set una chimica molto apprezzabile.  

Passando poi al quartetto di eroi, è davvero un piacere incontrare un “davvero roccioso” Ben Grimm, caratterizzato dalla voce profonda di Moss Bachrach e un corpo “di effetti speciali” che per la prima riesce a far trasparire la forza ma pure la tenerezza e malinconia  di un “uomo troppo grosso” (quasi un “parente” del Super della Novel “Contratto con Dio” di Will Eisner…), che si nasconde come un freak per le vie di New York, con abiti e scarpe “troppi grandi”, con un cappello e un lungo trench a coprirlo quasi del tutto, ma conferendo anche un’aura da detective hard-boiled. La nuova “fiamma”, sempre velocissima e scoppiettante nei suoi effetti visivi, rinasce come una riuscita variante estetica di Eminem. Non sarà il “Johnny surfista” di un tempo e del resto anche “l’altro surfista” del racconto abbiamo già detto come non appaia qui nella versione più canonica, ma Quinn riesce a renderlo molto divertente, più “arguto” della media dei Johnny Storm e quindi più interessante del solito, nonché “correttamente spericolato”. Vanessa Kirby dona a Sue Storm con i suoi occhi di ghiaccio e fisico slanciato, quasi “elfico”, tutta la regalità e potenza che il personaggio ha da sempre nei fumetti. La donna invisibile della Kirby anche solo con lo sguardo riesce a distinguersi per dolcezza e fervore. Madre e guerriera, diplomatica e supereroina dai poteri incredibili, il personaggio della Kirby è in grado di rubare a tutti la scena, con classe ed eleganza. Pedro Pascal ha purtroppo tra le mani un personaggio difficilissimo, complicato e contraddittorio. Un personaggio un po’ James Stewart e un po’ Vincent Price, ma anche un po’ Leonard Nimoy: un po’ cowboy e un po' mad doctor, ma pure un po’ “alieno”. Finora nessuno è riuscito a trasporre al meglio sullo schermo in tutte le sfumature il dottor Reed, ma la performance di Miles Teller, nella pur disastrosa regia di Trank, aveva di fatto colto qualcosa di importante e “intimo” sul personaggio Richards: un senso di paranoia che scattava in lui come “risposta” al suo “bisogno di accudire” i propri cari. Qualcosa compare felicemente anche nella interpretazione di Pedro Pascal. Il Reed di Pascal è decisamene un “buon Reed”, anche se forse ancora acerbo, forse emotivamente ”troppo caldo” per un personaggio che appare per sua introversa natura quasi freddo, iper-razionale e calcolatore. Nell’insieme il gruppo di eroi funziona comunque benissimo sullo schermo: tanto sul piano dell’ottima interazione tra gli attori, favorita da una sceneggiatura con afflati drammatici ma anche con interessanti sfumature brillanti,  quanto a livello di “potenza visiva”: quando vengono chiamati a scatenare al massimo i loro poteri contro creature simili a divinità. 

Fantastici 4: Gli Inizi ci è piaciuto tantissimo per la sua sontuosa messa in scena iper colorata, i dialoghi brillanti, le ottime interpretazioni ed effetti visivi in grado di rendere l’azione su schermo sempre spettacolare, interessante e roboante. 

La colonna sonora di Giacchino è incredibile e in grado di conficcarsi nel cervello dello spettatore per intere (piacevolissime) ore. 

La storia è semplice ma ricolma di Pathos e riesce a rendere davvero tridimensionali i personaggi sulla scena. 

Tutto “profuma” dell’epica di Jack Kirby e Stan Lee e non vediamo l’ora di assistere ad altre avventure del quartetto. Vedere Galactus su grande schermo al cinema è quella esperienza incredibile che ogni fan dei supereroi non può mancare. 

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venerdì 8 agosto 2025

Lo spartito della vita (Sterben): la nostra recensione del film “iper drammatico”ma pieno di ironia di Matthias Glasner. Un film sulla “chance di redimersi dai propri peccati” e “tornare improbabilmente felici”, attraverso la settima arte

Come si può sfuggire a un dolore esistenziale cieco e assoluto, che sembra spingerci all’apatia e non può conoscere fondo, fino a che ogni nostro sentimento non finisce per apparire sul nostro volto come qualcosa di “prosciugato”, “dipinto”, posticcio o quasi del tutto assente? Ce lo dicono, in modo timido ma sincero, dei bambini che parlano al cellulare, dopo circa 13-14 secondi dall’inizio della pellicola. Ce lo sussurrano quasi imbarazzati, come una cosa che dovrebbe esserci già risaputa: “però…dobbiamo volerci bene!!”. Solo che “volersi bene” implica una condivisione, un “lavoro di squadra interattivo”, do ut des, con le persone a cui si vuole bene. Qualcosa che crea nell’insieme di una vita condivisa, come da titolo italiano del film, qualcosa di simile a una sinfonia: un unico, grande “spartito della vita”. 

Ma cosa succede quando questa sinfonia “non parte”? Non può più o non vuole “partire”, perché non si è più in grado di esprimerla o perché ci troviamo “sideralmente e irrimediabilmente lontani” gli uni dagli altri? 

Ecco i presupposti di un ottimo film, comico e al contempo tragico, come la vita stessa.

Un film scritto come una medicina amara, al tavolo di un bar, da un regista/sceneggiatore di grido (amato e apprezzatissimo in Germania), che si trova in un momento eufemisticamente “infelice”. In brevissimo tempo padre controvoglia e poi orfano di entrambi i genitori. 

Un uomo solo, che sfrutta per scrivere i “pit stop di qualche minuto” al bar limitrofo a un parco. La meta preferita dei tragitti fuori di casa  consentiti dallo “spingere con il passeggino” il figlio neonato, all’aria aperta nei fine settimana assolati, nel parco di cui sopra, nella tratta per il riposino quotidiano, quando la sua novella ex moglie glielo concede. Un piccolo tempo per creare un piccolo legame, che autoironicamente nelle interviste il regista confessa di aver passato per lo più al tavolino sulla sceneggiatura, su blocco appunti a fianco del passeggino, più che altro all’inizio per scoprire/capire “che cosa fanno i genitori”. Nel momento infausto in cui “pure a te tocca diventare genitore”, non hai il libretto di istruzioni, in passato sei stato un po’ distratto e guarda caso hai appena perso chi ti poteva aiutare/guidare. Elaborando una specie di diario per auto-psicanalisi, il nostro autore cerca di ricordare cosa facevano i suoi, come erano i rapporti “non caldissimi” che aveva con loro, come si è sentito lui come figlio,  facendosi giusto aiutare dalla fantasia per le parti che non ricordava bene. Da qui sembra essere partita una indagine più estesa, che ha inglobato pure il resto della sua famiglia, sua sorella, la sua compagna e infine lui stesso. Un lui stesso che in qualche modo narrativamente è stato “scisso” in due personaggi: un assente e quasi anaffettivo direttore d’orchestra e un folle compositore, passionale quanto crudele.

Il film che è arrivato a noi è in sintesi un “ecco cosa è successo e a cui non sono riuscito ancora a dare un nome”, perché al momento sprovvisto di tutta quella energia positiva posticcia del “però…dobbiamo volerci bene!!!” di quei dannati bambini. 

Una roba che in breve, nella strana autonomia con cui prendono a volte vita le opere d’arte, ha preso la forma di un “ vi va se parliamo, un po’ allegramente ma non troppo, della circostanza di morire?” 

Del resto “sterben”, il titolo originale di questo film in tedesco, nonostante curiose assonanze con il nostrano “star bene”, significa propio “morire”. Del resto parlare del “tema del “morire”, in estate, in fondo, non è qualcosa di strano. Anzi! Tutti i vari horror e simili che traboccano di morti, semi-morti e fantasmi, sono sempre pellicole richiestissime e caldissime in estate, principalmente per via dei loro effetti metabolici “freschissimi”: la paura, suscitata specialmente dalla “morte sulla scena”, stuzzica le ghiandole pilifere, si crea l’effetto “pelle d’oca”, arriva una specie di refrigerio. Così ci sembra per un istante guardando “Squali assassini 6” di avere un impianto di condizionamento termico interno, che a 28 gradi percepiti più umidità fa comunque comodo. 

Così, armato delle migliori invenzioni, un giorno anche il tedesco Matthias Glasner riflette sul fatto che quella che sta scrivendo principalmente per se stesso può essere di fatto “un’idea ok” di dark-Commedy a tema morte, un po’ come il giovane Danny Boyle di Piccoli omicidi tra amici

Va in scena così, dopo tanti appunti presi al bar da un padre rimasto single, una divertentissima famiglia tedesca, che poi è quella di Glasner stesso al netto di qualche “sofisticazione narrativa”, composta da membri che a vario titolo, guarda un po’, hanno sempre costantemente la morte negli occhi.


La morte va in scena. 

La morte la guarda bene in faccia la madre del direttore d’orchestra (Corinna Harfouch), rimasta abbandonata dai figli a badare con i suoi mille acciacchi a un marito (Hans-Uwe Bauer) messo peggio di lei, così incasinato da essere già sulla strada inevitabile della casa di riposo. Lui sorride, gentile e con gli occhi sprizzanti di luce, ma si dimentica le cose dopo un istante, gira nudo, ha problemi con il pannolone ogni mezz’ora. Sarebbe già in istituto, con l’impellente e socialmente poco gestibile “problema cacca” nelle mani più esperte di professionisti, non fosse che per dannati burocrati che, questionando sull’effettivo “intervallo di tempo tra un pannolone e l’altro”, non vogliono conciliare su un grado di invalidità “che consenta l’impresa”, senza lo svenamento economico. Lei eroicamente ha retto fin troppo questa situazione, ma ormai si rivolge al marito come fosse un fantasma. È più che altro un pacco da spostare, spesso indesiderato. Non c’è più alcun amore oltre lo sforzo quotidiano di spingerlo oltre qualche barriera architettonica, da sola, di fatto azzerando quel “volume interno” che le permetterebbe comunque in qualche modo di dialogare ancora con lui. Forse consegnarlo alla casa di riposo avrà per conseguenza solo che lui, sempre sorridendo, di notte tornerà a piedi fino a casa, fermandosi sotto in pianerottolo in silenzio. Come un fantasma.

La morte fissa negli occhi, ricambiata, anche la scapestrata sorella del direttore d’orchestra (Lilith Stangenberg). Una bella ragazza in una continua ricerca di autodistruzione, che si trova a svegliarsi nei posti più improbabili del nord Europa, spesso nuda o coperta di sangue e vomito, dopo infinite nottate etiliche passate a ridere con sconosciuti o camminare scomposta in mezzo alla strada. Bere la aiuta a cantare bene, un suo talento sprecato, e lei ama cantare in modo incantevole nei pub. È il risveglio che è problematico: specie se per lavoro fa l’assistente di un dentista e poi le viene un attacco di sonno mentre questo sta provvedendo a un'otturazione. Finire con la testa dritta nella bocca aperta di una paziente con dentro un trapano, tra urla e sangue, può essere doloroso per più persone. Ma il dentista si innamora e potrebbe essere il primo non-sconosciuto che si avvicina a lei dopo tanto tempo. Solo che lui iniziando a frequentarla finisce per avere a che fare pure con la sua voglia di autodistruzione.


Il direttore d’orchestra (Lars Eidinger) dietro o suoi modi algidi e gli occhi grigi invece non sembra provare nulla. Di fatto “è vivo”, ma si comporta come se non lo fosse, da quando la sua compagna ha deciso di fargli le corna, una sera con un tizio a caso, per farsi ingravidare dopo anni di tentativi falliti con lui. Il matrimonio è saltato, soprattutto per la risposta apatica al tradimento, anche se la cosa sembra giusto provvisoria e l’ex moglie non ambisce a restare ex a lungo. “Tizio” si è rivelato un incredibile rompiscatole, ma pure una figura paterna super presente e in fondo “positiva”. Tuttavia il musicista si trova a fluttuare al di sopra di ogni relazione, distaccato, concedendosi di provare sporadiche emozioni giusto davanti ai musicisti, per mezzo della sinfonia che insieme sanno creare. Momenti piccoli e preziosi, ma che vengono puntualmente traditi, frustrati o negati dal compositore con cui sta lavorando (Robert Gwisdek). Dispotico, umorale al limite del sociopatico, “amico di sempre” ma decisamente ingestibile, con ampie e documentate tendenze distruttive e autodistruttive. La sua ultima opera, sfottuta da tutti come una specie di “colonna sonora per film con i vampiri”, lui la vede come una composizione perfetta: il testamento massimo della sua arte, la prova del massimo equilibrio in termini di “purezza” tra emozione e rappresentazione. È un’opera che si chiama guarda caso “Sterben”, “Morire”, e deve “a tutti i costi” essere in grado di descrivere quello stato d’animo, specifico e difficile, senza accondiscendenza, senza senso del grottesco: senza mischiarsi con altre emozioni, al punto che la musica diventi solo dolore, “senza altre scuse”. 

Glasner, nelle interviste, non nega che in questa ricerca di purezza ed equilibrio a tutti i costi, una cifra stilistica da lui ricercata in molti lavori, si celi la sua passione/ossessione per il cinema essenziale e senza fronzoli di Bergman. Ma di fatto, forse anche inconsciamente, la circostanza che la vita personale di recente abbia “travolto con tanta ferocia” il regista ha magari cambiato gli equilibri del suo lavoro: Sterben è diventato un film che non vuole limitarsi a morire “ridendo della morte”, cercando invece in qualche modo tutte le strade possibili per vivere o meglio “far sopravvivere” quel sentimento fino alla fine. È interessante a questo proposito che il film nella sua versione inglese si chiami Dying, traducibile con il più battagliero “stare giusto, al momento, sul punto di morire (forse)”, al posto del già sepolto e lapidario “Morire”. 

Il film vuole quindi sopravvivere quanto basta per capire “in punto di morte”, i segreti del ”volersi bene”, decantato da quei maledetti bambini al secondo 15 della pellicola. Questa esigenza/urgenza, di esplorare la “tenuta” delle relazioni umane in questo peculiare frangente, aggiunge alla nostra black comedy “a tema morte” delle sfumature da tragedia cupissima e disperata, che la rendono qualcosa di ancora diverso e originale. Perché, pur non negando l’umorismo amaro proprio di un mondo in cui domina sovente il nichilismo più puro, Glassner a ogni richiesta di affetto della nostra “famigliola felice protagonista” non può che corrispondere in cambio terribili stilettate l’odio e rancore. Ogni personaggio subisce e ricambia odio: a volte per “liberarsi dal peso” della relazione con l’altro, più spesso per “disilludere” l’altro da sogni o aspirazioni irrealizzabili. Sono “forme d’odio” che tendono a “uccidere ogni possibilità di legame” e a “oggettivare il prossimo e se stessi”, se vogliamo in virtù di quella che potrebbe essere letta come una ricerca di sopravvivenza individuale. Ma sono di fatto “bugie”: odio “finto” che nasconde un inesprimibile, quasi inopportuno, bisogno d’amore. 


Un amore che può trasmettersi in assenza di parole con l’arte, con la musica. Una musica d’orchestra avvolgente meravigliosa, curata da Lorenz Dangel, portata sulla scena, nelle tante sequenze sulle prove, con registrazioni in diretta, mischiando attori con professionisti reali. Sono scene in cui il film si eleva, dove spesso il pathos sale al punto di “sciogliere” le emozioni anche dei personaggi più contratti e silenziosi. Oltre che un’ottima black comedy e un ottimo film drammatico, Lo spartito della vita è anche un prezioso film sulla musica: sulla sua esigenza di precisione e silenzio, sulla sua capacità di diventare veicolo di emozioni, sul piccolo mondo che si crea dietro una esecuzione tra palco e pubblico. 

Glasner dipinge un affresco stimolante quanto complesso. Un film che fa ridere e piangere, riflettere e sognare fra psicanalisi e musica classica. Un’opera monumentale nei suoi 180 minuti, ma che scorre e affascina il pubblico tra mille stimoli, grazie anche al talento di ottimi attori, un montaggio fresco (con il sapore delle opere di Paul Thomas Anderson), una trama a tratti genuinamente imprevedibile.  

Lo spartito della vita ci porta in un mondo sarcastico e super drammatico che finge di essere materialista allo stremo, dove il valore di una persona si può misurare unicamente in ragione di ciò che produce o dal ruolo che ha svolto, a prescindere da “come lo ha fatto” o di come ha vissuto. Scoprire ciò che si nasconde al suo interno è un piacere che non si può negare a uno  spettatore in cerca di grandi storie e interpreti. Imperdibile per gli amanti della musica sinfonica e del bel cinema. Uno dei migliori film dell’anno. 

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