mercoledì 1 ottobre 2025

Le città di pianura: la nostra recensione del tragicomico “western crepuscolare postmoderno e molto etilico” di Francesco Sossai


Ci troviamo nel Veneto quando ancora non era diventato lo “Zaiastan”, dalle parti di inizio duemila, prima della grande crisi.

Ai tempi Cavalieri e megadirettori si spostavano in elicottero, con orgoglio sopra i loro operai e impianti/ruderi “ma ancora validi” dell’era industriale, dispersi per i campi e i sassi come vecchi accampamenti indiani. Un elicottero scende a terra per alzare in modo spettacolare un piccolo tornado di sabbia e per riconoscere il valore vero di un operaio, prossimo alla pensione ma che lavora per loro instancabile dall’inizio, “il primo”, di nome guarda caso Primo. Il premio, un orologio con dedica, oro, abbinato a grandi sorrisi, pacche sulle spalle e forse una rivelazione importante, solo per le sue orecchie, tipo il senso della vita. Ma la rivelazione viene “dispersa” dal rumore di fondo assordante delle pale dell’elicottero che iniziano già a girare. Di sicuro girano già da molto pure le “pale” di Eugenio, detto “il genio” (Andrea Pennacchi). Operaio della stessa ditta leader nella produzione di occhiali, ma a tempo sempre più pieno contrabbandiere a giro internazionale dei medesimi. La crisi si avvicina quanto il suono delle manette e l’Argentina diviene per il Genio la meta tra sogno e realtà da inseguire. Debitamente “viaggiando leggero”, dopo aver lasciato il frutto del contrabbando sepolto in un luogo segreto come un tesoro dei pirati, in attesa che le acque si calmino. 

Gli anni passano e le acque si sono così calmate da essersi svuotate: si parla ora solo di vino, birre e superalcolici. Due amici di sempre, complici/colleghi di lavoro del Genio hanno già bevuto tutto l’inimmaginabile nelle ore d’attesa che li separano dall’arrivo all’aeroporto con il vecchio amico. Per un attimo hanno pure scoperto il senso della vita forse sussurrato a Primo anni prima. Ma il tempo di attesa di un volo dall’Argentina è ancora tantissimo e tantissimi sono pure i bar, bettole, Night club et similia lungo il cammino al terminal, a patto di ricordarsi se l’aeroporto giusto è Treviso o Venezia. Dopo essersi autoinvitati a un paio di feste e addii al nubilato, la coppia, al secolo il baffuto Carlobianchi detto “Charlie” (Sergio Romano) e l’intraprendente Doriano detto “Doriano” (Pierpaolo Capovilla), decidono di imbucarsi pure a una festa di laurea. La ragazza con corona d’alloro in testa è bellissima, ma il ragazzo che più spasima per lei, lo studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), è tristissimo, un uomo devastato dalla timidezza, dalla imbranataggine e un po’ dalla sfiga. Quando la serata passerà per lui dalla tragedia allo psicodramma, Doriano e Carlobianchi decideranno di “adottarlo” come un cagnolino raccolto dalla strada sotto l’acqua, per innaffiarlo con loro on the road, nel resto del giro etilico programmato a caso in attesa del “Genio”. Giulio è così devastato a livello esistenziale che accetta al volo qualunque cosa, pure Doriano e Carlobianchi. I tre sperimentano effluvi alcolici in luoghi e posti assurdi ma verissimi per almeno un paio di giorni. Alla ricerca di un “Genio” , di un “Tesoro sepolto”, di un amore che forse è già perduto a vantaggio di spasimanti meno timido. Alla ricerca di un futuro, di se stessi e forse di una spalla a cui appoggiarsi e continuare fiduciosamente, insieme e insonni, a camminare lungo una lunga notte. Tra vecchie osterie, castelli che forse diventano autostrade, monumenti funebri post-moderni meta turistica di giapponesi e lungo così tante strade e bar desolati e desolanti che pare di stare nel Texas. O altri luoghi che forse non esistono se non nell‘immaginazione. Come Rovigo. 

Esiste sempre più, grazie al coraggio di alcuni amabili pazzi contemporanei, un cinema che va a esplorare il nord est dell’Italia per quello che è sempre stato anche se poco ci è stato raccontato: è il nostro personale Far West, pieno di miti e leggende ancora troppo poco raccontate. Si è innamorato pochi anni fa dei suoi spazi sterminati, rigogliosi di verde ma quasi sinistri, il regista e cantante Zampaglione, raccontandoli come “casa nel bosco” di un Freddie Kruger tutto nostrano nell’ottimo e mai abbastanza celebrato Shadow, nel 2009. È da sempre cantore degli infiniti silenzi delle sue città “abbandonate e abbandonabili” arrancate sui monti, da frontiera quasi metafisica, l’ottimo Lorenzo Bianchini, che nel 2013 firma il suo capolavoro, Oltre il Guado. Autori come Silvio Soldini (con La lingua del Santo, del 2000), Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo, nel 2013, la serie tv Volevo fare la rockstar) come Emilia Mazzacurati (Billy, del 2023) hanno cercato di incanalare l’animo vivace, sognatore, romantico e sarcastico proprio del nord Est e su questo stesso solco va a collocarsi oggi Francesco Sossai per la sua irresistibile commedia on the road ad altissimo tasso etilico. Un film, che Sossai scrive insieme a Adriano Candiago, che è più Paura e deliro a Las Vegas di Terry Gilliam che Via da Las Vegas di Mike Figgis. Un film generoso e ondivago che insegue un’infinita “ora dello spritz” come momento massimo, quasi sciamanico, per mettere a nudo i sentimenti umani migliori, come l’amicizia e la comprensione, senza tutti i legacci delle inibizioni. Non però uno stordimento da super alcolico costante, cosa che forse ci porta in territori più bonari e meno autodistruttivi del film di Gilliam, quanto una “giustificazione liquida bassa gradazione”, per prolungare la voglia di stare insieme a tirare tardi, allontanando la testa e il cuore dai drammi di tutti i giorni quanto più si riesce. Sossai dietro il giallo paglierino delle pinte i drammi non li nasconde per niente, anzi dà voce con la sua macchina da presa a scenari fatiscenti, ristoranti con la serranda abbassata, sui personaggi tutti i segni di una vita che tira avanti con pochi lussi e tanti sacrifici. Scenari e vite che parlano da soli di un tempo di crisi ormai diventato troppo lungo, in cui persino i campi e gli stabilimenti chiusi in breve sono diventati non lontanissimi dall’Australia di Mad Max. Scenari sui quali i nostri protagonisti, tutti perdenti, un po’ codardi e un po’ truffatori, ma molto romantici, non hanno la forza di camminare dritto. Preferendo “barcollare” tra sogni, alcol e realtà, ma sostenendosi a vicenda, amici e complici, senza perdere quello stato mentale collettivo, quasi fanciullesco, che forse rende meno gravoso il loro incedere. 


Anche se la meta è fosca e il tragitto pieno di deviazioni, è quindi un “naufragare dolce” perdersi con Doriano, Carlobianchi e Giulio nel loro on the road a zonzo tra Venezia e la realtà, senza capo né coda pieno di strade aride ma pure di meravigliosi bar con musica dal vivo, sempre perfettamente azzeccata alla descrizione di stato d’animo generale e disgrazie varie. 

Grazie a un’ottima scrittura e ottimi interpreti, il viaggio si fa presto anche per il pubblico, chilometro dopo chilometro, birra dopo birra, l’immagine cristallina del solo, primordiale bisogno di “state insieme”. Uno “stare insieme” che riesce a filare bene nello stomaco dello spettatore come un buon digestivo: appagante, dolce ma anche debitamente amarognolo. Al netto di qualche “flashback narrativo” che forse non convince in pieno, la storia dei nostri eroi sa sempre trascinarci nel loro mondo in modo cristallino, generoso e stralunato.

Un piccolo grande film. 

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