lunedì 24 marzo 2025

Il nibbio: la nostra recensione del film diretto da Alessandro Tonda, scritto da Sandro Petraglia e interpretato da Claudio Santamaria e Sonia Bergamasco, che racconta la storia del direttore dei SISMI Nicola Calipari e dei ventotto giorni del sequestro di Giuliana Sgrena

Viene chiamato in codice “il Nibbio” (Claudio Santamaria). Come il rapace “milvus  linnaeus”, detto “nibbio reale”. Come il capo dei Bravi dell’Innominato di Manzoni. Forse come un supereroe, anche se non ha l’aspetto “classico” di un supereroe. Pochi capelli in testa, due baffi folti, fisico regolare e l'aria rassicurante, pacata di un professore di filosofia del liceo. È una persona così calma che qualcuno lo definisce “un pacifista sotto copertura”, sebbene operi avventurosamente nei servizi segreti, da così tanto tempo che può parlare in prima persona, nell’interesse dell’intero paese, da generale. 

Il Nibbio, in un giorno assolato dell’inizio del 2005, voleva solo partire in auto per una gita con moglie, figlia diciottenne e figlio dodicenne. Magari trovare lungo la strada un luogo dove fare belle immersioni in estate, come in quella vacanza di tanti anni prima. Il telefono lo riportava con la mente alla realtà, costringendolo a spiegare le ali altrove, verso i palazzi di Roma, il SISMI. 

Avevano rapito a Bagdad una giornalista del Manifesto (Sonia Bergamasco): una veterana sempre vicina ai teatri di guerra, che in giorni particolarmente bollenti era in Iraq per incontrare in una moschea delle donne velate. Le avrebbero raccontato delle bombe, della vita difficile seguita alla deposizione di Saddam, ma la guida aveva accorciato la conversazione: la situazione fuori dalla moschea era ormai  “troppo calda”. 

Inutile la breve corsa in auto. Il veicolo subito fermato da uomini con il turbante armati di mitragliatori. Spinta a forza in un veicolo anonimo mentre sparavano in aria, la donna veniva portata chissà dove, senza saper parlare una sola parola di arabo. Ai figli il Nibbio diceva solo che la gita era sospesa, attirandosi lo scontento generale e la critica di essere un padre sempre assente, quasi noioso. 

Quasi nello stesso momento il Manifesto veniva avvisato del rapimento e il suo direttore si iniziava a muovere: avvertiva del fatto il marito di Giuliana, Piero, prendeva contatto con un loro inviato esperto in medio oriente che avrebbe potuto scoprire qualcosa. Ma il giornalista era già stato avvicinato dai servizi segreti: lo attendevano entro pochi minuti con i bagagli fatti alla reception del suo hotel: scorta personale verso l’aeroporto, sicurezza nazionale.

Il Nibbio iniziava a dirigere i lavori seguendo “il suo schema”: evitare colpi di testa, blitz, azioni di forza che possano mettere in pericolo militari, ostaggi e civili. Trovare canali di comunicazione discreti, magari con quei sunniti maggiormente al corrente delle attività “di guerriglia” iniziate con l’arrivo degli americani. Lasciare calmare gli animi prima di accenderli troppo.

Il giornalista del Manifesto usciva dal retro dell’hotel, si metteva in contatto con una sua fonte: provava a essere più veloce e utile possibile per salvare la collega. L’uomo dei servizi sotto copertura “Tiberio” lo intercettava presto, lo fotografava, inviava tutto al Nibbio che subito si trovava al telefono con la redazione del Manifesto: aprire a una collaborazione, volare in Iraq. 

Non esporre il giornalista del Manifesto a Bagdad, mediare lui stesso con le fonti e riferire. 

In breve scopriva che chi aveva informazioni chiedeva in cambio dei generatori per la corrente da pochi dollari, ma che gli permettevano di irrigare i suoi campi devastati dopo il conflitto. La trattativa era vicina, quando il Nibbio veniva avvicinato sul campo dalla CIA: lo stimavano, anche se il suo pacifismo “non piaceva”. Non era per i suoi metodi ritenuto “utile per il conflitto”. 

Gli americani informano che avevano già preso una strada diversa rispetto alla compravendita di generatori per irrigazione: dopo aver torturato un sospetto per una notte intera, avevano ottenuti i nomi dei rapitori e il luogo. Erano pronti a irrompere quella notte stessa, armati, rapidi, veloci. 

Dicevano ridendo al Nibbio che era ormai “cosa fatta”: zero dialoghi scomodi, repressione dura per dare l’esempio, vittime collaterali già messe nel conto. 

Ma l’informazione americana si rivelava non accurata. 

Sbagliavano di poco l’obiettivo, di pochi metri. Nessun ostaggio, tanta rabbia e rapitori resi solo più sospettosi e agitati. Iniziava alla luce di questo caos la strategia del Nibbio: lenta ma precisa, nella sua ricerca di contatti. 

La giornalista in quei 28 giorni di trattative, blitz, azioni e contrordini viveva in una stanza chiusa a chiave, cercando come poteva di comunicare. I suoi carcerieri erano agitati quanto lei: per calmarla le prestavano da leggere un libro in arabo, che ovviamente lei non poteva tradurre. Dopo un po’ di contrattazione, riusciva a farsi dare dei prodotti per l’igiene intima.

I giorni procedevano tutti uguali dietro una saracinesca blindata, ma qualcosa iniziava a muoversi.  

Grazie ai lavori sottotraccia del Nibbio, i rapinatori  giravano un video, in cui la giornalista per la sua liberazione  richiedeva il ritiro delle truppe. Nello stesso video lei chiedeva al marito di divulgare i servizi sui danni collaterali alla popolazione, dovuti alle bombe a grappolo americane. L’appello funzionava, il servizio veniva presto trasmesso e visto in tv anche dai rapitori, che iniziavano ad avere di lei un’opinione differente, più positiva. 

Il Nibbio sapeva che quel “video di riscatto” era in realtà una formula standard di negoziato: nessuno pretende per un ostaggio il ritiro di tutte le truppe da un paese. Era piuttosto “il segnale” che la controparte era pronta a trattare. Con  l’interlocutore migliore che si trovava in un albergo di Dubai. 

Il Nibbio lavorava  h24 tra gli uffici e Bagdad, i contatti con il Manifesto e un’occhio alla situazione internazionale, permettendosi solo qualche serata in compagnia della moglie, magari per andare insieme al cinema. Lui preferiva i film d’azione. Lei quelli iraniani di denuncia sociale, belli anche se noiosissimi. Alla fine vinceva quasi sempre lei e il Nibbio si accoccolava al suo fianco, dormendo in sala, anche solo per alcuni attimi, felice.

Il giorno dello scambio si avvicinava, ma molte delle parti in causa cercavano più che altro di far esplodere un polverone. 

Anche in Italia qualcosa si muoveva: la figlia del Nibbio voleva andare ai cortei per la pace e la liberazione delle giornalista. Il padre non era contentissimo, anche perché in quei cortei potevano sempre esserci situazioni di pericolo, ma la figlia lo rassicurava che quello era il suo modo di combattere. Il padre era fiero di lei. Ormai era adulta e voleva fare la sua parte con le parole, come nello stile di famiglia. Purtroppo la Storia spesso preferisce parlare con le pallottole. 

La liberazione della giornalista avrebbe avuto dei risvolti inaspettati.


Il giovane Alessandro Tonda, aiuto regista nelle serie tv Gomorra e Romanzo Criminale, regista in The Shift del 2020 e co-regista di Suburraeterna nel 2022, porta in sala una sceneggiatura del grande Sandro Petraglia, l’autore di opere come La Piovra, La messa è finita, Il toro, Mery per sempre, Il muro di gomma, Il portaborse, Romanzo Criminale. La sceneggiatura, realizzata con la collaborazione del Manifesto, ricostruisce i 28 giorni del sequestro di Giuliana Sgrena con il supporto del DSI dell’AISE, della Polizia di Stato e di un partner culturale come la fondazione Med-Or.

Petraglia ha sempre raccontato magnifici “eroi civili”: eroi reali della Storia come personaggi “etici”. Nessun supereroe, solo qualcuno che ha fatto fino in fondo la sua parte, per il bene comune e per il senso di verità. Come sceneggiatore ha raccontato le loro storie in un paese come l’Italia, che fin dalla sua Unità guarda con troppa diffidenza e quasi un po’ di paura a qualsiasi figura eroica. Quasi si temessero più le “conseguenze amare dell’eroismo”, più che il valore morale e sociale che incarna in modo disinteressato un eroe. 

“Che cos’è un eroe? È un individuo che sceglie sempre il bene al posto del male. Soprattutto è un individuo che sacrifica se stesso per gli altri e ha sempre, o quasi, tutto da perdere e nulla da guadagnare”. 

Questa era più o meno la definizione di eroe offerta da Lo chiamavano Jeeg Robot, ma sono parole che possiamo benissimo estendere alle figure di Nicola Calipari e Giuliana Sgrena, così come qui ci vengono raccontate da Sandro Petraglia nella bella pellicola di Alessandro Tonda. 

Una pellicola dalla scrittura asciutta, essenziale, dal taglio quasi documentaristico. Una pellicola che avrebbe tutto il diritto di essere un film spettacolare alla Michael Bay ma che come Il muro di gomma non vuole esserlo, preferendo una cronaca fedele dei fatti a ogni tipo di iperbole. È una pellicola dal montaggio avvincente, anche con una colonna sonata incalzante, ricca di dettagli gustosi anche per gli appassionati di tattica militare e negoziazione. Ma sempre con al centro “quel lato umano” senza il quale ogni eroe forse perderebbe il suo “senso più intimo”, diventando un vero spartiacque nella Storia. 

È soprattutto una pellicola che accoglie come valore la complessità dei fatti narrati, esponendoli anche nella loro contraddittorietà. Elaborando più punti di vista che permettano di squarciare la retorica del “buoni contro cattivi”, “bianco contro nero”, “noi contro loro”, che oggigiorno sembra sempre più con prepotenza imporsi nel cinema, ma soprattutto nell’ informazione.

Sia Santamaria che la Bergamasco danno vita a personaggi carichi di sfumature quando credibili, frutto di un attento lavoro sulle fonti originali, interviste e incontri personali con le persone coinvolte nei fatti.

Tutti gli interpreti e tecnici hanno lavorato al massimo nei rispettivi campi, dando prova di grande dedizione in una ricostruzione storica quanto più fedele possibile dei fatti narrati.     


Il Nibbio è la coraggiosa dimostrazione che possiamo fare ancora in Italia il cinema di denuncia: quello di opere come Il muro di gomma, Il Giudice ragazzino, Un eroe borghese. Un cinema che può ancora sollevare il nostro standard dalla melma di troppe storie intimo/psicanalitiche, ambientate su improbabili terrazze romane, che ormai sono diventate solo autoreferenziali.

Che un vecchio leone come Petraglia si accompagni a un nuovo promettente regista come Tonda, trovando come protagonista l’interprete di Lo chiavano Jeeg Robot, è il miglior segnale possibile di questo inizio 2025. 

Se amate il lato più realistico delle atmosfere alla Tom Clancy, se amate la Storia italiana e la sua analisi anche attraverso il cinema, se amate gli “eroi civili”, Il Nibbio è una pellicola da non perdere.

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